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J.Ratzinger, Benedetto XVI, spiega il Concilio Vaticano II

Ultimo Aggiornamento: 04/08/2012 21:18
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Quando Joseph Ratzinger era consigliere dell'arcivescovo di Colonia Josef Frings negli anni del Vaticano II

Il cardinale e il professore


"Joseph Ratzinger, il cardinale Frings e il concilio Vaticano II" è il titolo della conferenza che si tiene nella serata di venerdì 10 ottobre presso la Haus der Begegnung Heilig Geist a Burghhausen (Passau) in Germania. Ne pubblichiamo il testo integrale.

di Norbert Trippen


Lo storico della Chiesa Hubert Jedin, perito e testimone del concilio Vaticano II, ha riferito:  "verso la fine del concilio Vaticano II il professore di Lovanio Onclin mi ha detto una volta che a suo parere il cardinale Frings era il padre più in vista del concilio Vaticano II. Beninteso il più in vista, non il più influente. Su di un superlativo di tal genere si può discutere, ma, per esperienza diretta posso testimoniare che, quando il segretario generale del concilio annunciò un discorso del cardinale di Colonia, le navate laterali della basilica di San Pietro si svuotarono, perché nessuno voleva perdere l'intervento di quell'oratore. Infatti il cardinale Frings aveva sempre qualcosa di importante da dire e anche il coraggio di dirlo".


Il cardinale Frings godeva di grande considerazione per tre importanti motivi. Innanzitutto dominava la lingua latina conciliare e per anzianità di servizio, come cardinale e membro del direttivo conciliare, aveva sempre la prima parola. Un altro motivo dell'influenza e della considerazione di Frings erano le simpatie che egli e i vescovi tedeschi riscuotevano presso innumerevoli padri conciliari del mondo in via di sviluppo e dell'America Latina attraverso Misereor e Adveniat. Inoltre, di importanza decisiva per la posizione del cardinale nel concilio fu il suo eccellente consigliere.


Proprio nella fase preparatoria, che lo vedeva all'opera nella commissione preparatoria centrale, Frings si lasciò consigliare dallo storico della Chiesa Hubert Jedin e, per le questioni di diritto canonico e le pratiche pastorali, dal suo vicario generale Joseph Teusch. A partire dalla primavera del 1962 il giovane professore di teologia fondamentale a Bonn, Joseph Ratzinger, divenne il suo consigliere per le questioni teologiche. Ratzinger non aiutò Frings soltanto per tutti i discorsi conciliari, ma entrò subito a far parte del gruppo di teologi tedesco-franco-belga, che in luogo delle bozze inadeguate delle commissioni preparatorie, riformulò i decisivi testi conciliari, in particolare le costituzioni dogmatiche sulla Divina Rivelazione e la Chiesa.


Dalla fine del primo periodo di sessione, nel 1962, il professor Ratzinger non fu più soltanto il teologo conciliare personale del cardinale di Colonia, ma anche peritus incaricato d'ufficio, ossia perito con accesso a sedute decisive della commissione e alle congregazioni generali del concilio. Dopo ognuno dei quattro periodi di sessione del concilio, dal 1962 al 1965, Ratzinger pubblicò per le edizioni Bachem di Colonia un rapporto contenente le sue impressioni sul periodo appena trascorso. Il valore di questi quattro volumi di circa ottanta pagine sta nell'aver descritto gli eventi conciliari senza eccesso di particolari e con un linguaggio accessibile ai più, caratteristiche che a tutt'oggi costituiscono un pregio del nostro nuovo Papa, e nell'aver fissato l'impressione recente di un osservatore del concilio che però vi era, al contempo, impegnato in prima persona.


Il cardinale Frings, allora già quasi cieco, in che modo si era imbattuto in quel consigliere? Nelle sue memorie narra egli stesso:  "A Genova un padre gesuita, Angelo d'Arpa, aveva fondato l'istituto "Colombianum" per lo studio di questioni relative allo sviluppo. Nel 1961, in preparazione del concilio, aveva organizzato un ciclo di conferenze per le quali aveva voluto come relatori alcuni cardinali. Mi chiese se ero pronto a parlare del concilio in relazione alla differenza temporale con il concilio Vaticano i. Il tema mi entusiasmò e accettai. Tuttavia mi accorsi che non sarei stato in grado di affrontarlo da solo. Durante un concerto dell'orchestra Gürzenich incontrai il professor Ratzinger, che poco prima era giunto a Bonn per insegnare teologia e che già godeva di una buona e grande fama. Gli chiesi se voleva aiutarmi nella preparazione dell'intervento su quel tema, del quale anche lui parve entusiasta. Subito redasse una bozza che giudicai talmente buona da ritoccarla in un solo punto.

L'intervento, tradotto in un ottimo italiano, fu poi trasmesso alla Segreteria di Stato da Bruno Wüstenberg, unico tedesco presente nella Segreteria di Stato nonché mio ex allievo presso il seminario sacerdotale. Chiesi anche a Wüstenberg di aiutarmi a Genova. Infatti, nel frattempo, la mia vista era divenuta così debole che non potevo leggere in modo fluido, per lo meno in una lingua straniera. Decidemmo che avrei letto la prima riga dell'introduzione e poi avrei chiesto, se consentito, di far leggere il testo del discorso vero e proprio a uno dei miei studenti, il prelato Wüstenberg. E così fu. La lettura durò tre quarti d'ora. Suscitò grande impressione e lo stesso cardinale Siri di Genova, che era noto per essere un conservatore, si disse soddisfatto. Inoltre, l'intervento era assolutamente lungimirante. Quando lo mostrai al cardinale Döpfner disse:  "Beh, un documento storico!". Con ciò intendeva dire:  "Sono bei sogni per il futuro, ma non si realizzerà quasi niente di tutto ciò"".


L'intervento suscitò grande impressione nel mondo cattolico e fu subito pubblicato. Al cardinale Frings interessava molto sapere come Papa Giovanni xXIIi avrebbe accolto le sue coraggiose affermazioni ed era anche un po' preoccupato. La mattina del 23 febbraio 1962, mentre era impegnato in una sessione della commissione preparatoria del concilio, fu chiamato a un'udienza personale con Papa Giovanni xXIIi. Nel 1973, il cardinale raccontò:  "Non ne sapevo il motivo. Dissi dolorosamente al mio segretario Luthe:  "Mettimi la mantellina rossa, chissà, potrebbe essere l'ultima volta". Tuttavia, quando entrai nella sala delle udienze del Papa, quest'ultimo mi venne incontro, mi abbracciò e disse:  "Stanotte ho letto il suo intervento di Genova e volevo ringraziarla per queste belle argomentazioni". Io ero un po' imbarazzato, ma, nello stesso tempo, grato che il Santo Padre avesse letto lo scritto. Credo che molto del suo contenuto fu poi realizzato nel concilio".


Il vescovo emerito Luthe ha potuto integrare questi ricordi. Il Papa avrebbe detto a Frings:  "Che bella coincidenza del pensiero!", fra lui e Frings. Quando, per onestà, il cardinale disse al Papa che il testo non l'aveva scritto lui bensì il professor Ratzinger, pare che Giovanni xXIIi abbia risposto che avrebbe dovuto elaborare anche i suoi testi perché è importante trovare il giusto consigliere e poter firmare i suoi elaborati. Evidentemente il colloquio con il Papa incoraggiò Frings a introdurre nella commissione centrale Joseph Ratzinger come consigliere per i testi di dogmatica.


Dal maggio 1962 a Ratzinger furono sottoposte tutte le bozze teologiche conciliari. In un breve manoscritto quasi illeggibile annotava osservazioni pregnanti a margine dei testi. Dopo che il segretario Luthe pregò lui e gli altri consiglieri - Jedin e Teusch - di redigere brevi testi ordinati, che poi il cardinale Frings avrebbe potuto trasformare in voti, anche il professor Ratzinger redasse brevi elaborati, che dimostrano come già in quegli anni fosse elevata la sua competenza e quale fosse il suo stile.

Sorprende che Ratzinger, il quale sarebbe divenuto prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e Papa, nel giugno del 1962, in occasione di una sessione della Commissione preparatoria centrale su una bozza relativa al "magistero ecclesiale", fece riflettere il cardinale Frings sulla necessità di aggiungere alla sezione "De ecclesiae magisterio" una breve argomentazione sui confini morali del primato di giurisdizione. In un testo sull'autorità e l'obbedienza nella Chiesa, al paragrafo 3, era richiesto di attenersi a Matteo 18, 15-17 per la "denuncia pubblica dei mali nella Chiesa".

Il professor Ratzinger aveva scritto a margine:  "Il riferimento a Matteo 18, 15-17 rivela anche un altro fatto non meno importante. Vi viene prescritto che il rimprovero al singolo nel colloquio venga poi sottoposto ai vari gradi della Chiesa ufficiale. Non è solo una tutela della Chiesa ufficiale contro la critica non autorizzata (...) ma anche una tutela del singolo dalla denuncia anonima che finora è stata del tutto trascurata e che sarebbe il caso di fissare qui".


Ancor più interessante delle posizioni assunte da Ratzinger nelle singole bozze conciliari, è la sua collaborazione durante il concilio, ossia a partire dalla preparazione immediatamente precedente al suo inizio. In due esaustivi volumi la Segreteria di Stato aveva trasmesso ai padri conciliari a luglio e ad agosto del 1962, bozze per lo più inadeguate redatte dalle commissioni di preparazione. Il 29 agosto 1962, poco prima di partire per le vacanze estive, il cardinale Frings scrisse da Fulda al professor Ratzinger:  "Le invio in allegato il primo volume degli schemi del concilio come è stato preparato da tutti i partecipanti in questi giorni. Le sarei grato se esaminasse queste bozze secondo i seguenti criteri:  1. Che cosa è cambiato rispetto alla prima stesura? 2. Cosa è assolutamente da rifiutare? 3. Che cosa si potrebbe migliorare?".


Frings pensava anche al periodo successivo alle ferie:  "Comunque martedì 9 ottobre sarò a Roma. Verrà con me? Ho invitato tutti i Padri conciliari a un incontro presso Santa Maria dell'Anima mercoledì 10 ottobre alle 17. Posso pregarla di parlare in quell'occasione della bozza relativa alla Constitutio dogmatica "De fontibus revelationis" e, se possibile, di fare controproposte costruttive?". Si tratta della genesi della bozza, in seguito molto dibattuta, chiamata in breve "Ratzinger-Rahner" e relativa alla Costituzione sulla Rivelazione!


Il 14 settembre Ratzinger inviò prontamente il risultato del suo esame al cardinale e aggiunse una stesura in latino per la firma da inviare a Roma, che può essere considerata come una posizione teologica e spirituale dei Padri conciliari tedeschi alla vigilia del concilio Vaticano II.


Certo il tempo dei preparativi e delle proposte era finito. Il concilio era alle porte. Alla fine del 1976, alla vigilia del novantesimo compleanno del cardinale Frings, Joseph Ratzinger riferì:  "Il 9 ottobre 1962, verso le 11 e mezzo, il cardinale Frings aprì il concilio Vaticano II. Il cammino percorso fin lì lo portò poi nella sua chiesa episcopale, il duomo di Colonia. Mentre i rintocchi delle pesanti campane facevano penetrare negli animi la gravità dell'attimo, il cardinale entrò nello spazio gotico e diede avvio al concilio con una preghiera (...) ma quel giorno il suo cammino non si concluse davanti all'altare, il luogo delle sue funzioni episcopali. Il cardinale si lasciò condurre nella cripta e si fece indicare la nicchia nella quale un giorno sarebbe stato posta la sua bara. Ho ancora davanti agli occhi il modo in cui, pensoso e in raccoglimento, toccò il posto della sua futura sepoltura, che a causa della sua debole vista non poteva vedere bene. In quel momento era proiettato nel futuro per poter svolgere i prossimi compiti, proprio a partire dalla responsabilità di una tale contemplazione".


Già alla fine di agosto a Fulda, i vescovi tedeschi erano stati invitati a un incontro nella sala di Santa Maria dell'Anima, alla vigilia del concilio. Gli atti non spiegano come l'invito sia stato rivolto anche ai vescovi austriaci, svizzeri e di lingua tedesca delle missioni. Da quel momento in poi quella riunione avrebbe dovuto svolgersi ogni lunedì pomeriggio. Il cardinale Frings suggerì una direzione alternata fra lui e König. Subito i vescovi partecipanti si registrarono nelle liste di presenza affinché nell'aula conciliare il cardinale Frings potesse contare su ottanta o novanta padri conciliari di lingua tedesca a sostegno del proprio voto. Ancora nel 1973 il cardinale Frings ricordava bene quella prima riunione a Roma, il 10 ottobre del 1962:  "Nel primo incontro il professor Ratzinger tenne una conferenza sullo schema della Rivelazione, che nel corso del concilio avrebbe svolto un ruolo importante e che nell'ultimo periodo fu approvato". Già nelle prime giornate del concilio il professor Ratzinger fu portato dal cardinale Frings alle riunioni con influenti padri conciliari e teologi, durante le quali si cercava di sostituire le bozze inadatte sulla costituzione sulla Rivelazione e la Chiesa con proposte più opportune, alle quali avevano contribuito in modo eccellente Joseph Ratzinger e Karl Rahner.

A prescindere dalle importanti riunioni dell'episcopato di lingua tedesca che si svolgevano il lunedì presso Santa Maria dell'Anima, il professor Ratzinger colloquiava spesso con il cardinale Frings. Quando il cardinale voleva prendere la parola su un tema nell'aula conciliare, chiedeva a Ratzinger bozze che poi avrebbe elaborato con il suo segretario Luthe in un proprio testo. I documenti conciliari del cardinale contenevano per molti dei suoi voti la proposta del professor Ratzinger, poi il testo del discorso dettato al segretario Luthe. Fra i discorsi conciliari stampati, dal titolo Acta Synodalia, c'è il testo del discorso effettivo del cardinale. Poiché il cardinale Frings non poteva più leggere in modo fluido, doveva riferire a voce ciò che si era prefisso di dire. Talvolta è faticoso seguire il processo di un voto conciliare del cardinale Frings a partire dall'intento di prendere la parola nell'aula, passando per il suggerimento del professor Ratzinger e la dettatura del discorso da presentare fino all'intervento vero e proprio. In quest'ultimo si evidenziavano del cardinale la sua familiarità con la lingua latina, la sua capacità di acuta accentuazione e la sua ironia.

Per i diciannove discorsi conciliari del cardinale di Colonia non possiamo spiegare nel dettaglio quali siano stati i suggerimenti di Ratzinger e la trasposizione che il cardinale Frings ne fece. Comunque prendiamo ad esempio la descrizione dell'intervento molto apprezzato del cardinale di Colonia sulla riforma della Curia romana dell'8 novembre 1963. Quel giorno il cardinale Frings tenne il suo discorso sulla Curia romana, che destò grande scalpore e del quale alcune parti, soprattutto la seconda per la sua critica aperta alle pratiche del Sant'Uffizio, suscitarono molta attenzione. Fortunatamente di questo voto nell'aula esistono una bozza manoscritta di Ratzinger, la copia del testo presentato e negli Acta Synodalia il discorso pronunciato da Frings a memoria.


Si trattava di un dibattito sullo schema relativo ai vescovi. Frings si lamentava del fatto che le autorità della Curia cercavano di intervenire nel lavoro delle commissioni conciliari "come se detenessero una propria verità diversa da quella del resto dei padri sinodali". Allora su suggerimento di Ratzinger, Frings affrontò le procedure della Curia romana. Letteralmente:  "Mi sembra molto importante che queste regole, soprattutto quelle sulla netta distinzione fra ambito amministrativo e ambito giudiziario, vengano estese a tutte le congregazioni, anche alla Suprema Congregatio Sancti OfficII, la cui modalità procedurale in molte cose non si accorda ancora con il nostro tempo e per la Chiesa sarà un danno e per molti uno scandalo".


Gli Acta Synodalia riportano a questo punto il plausus in aula.


Le seguenti frasi di critica al Sant'Uffizio furono aggiunte da Frings alla bozza di Ratzinger:  "So bene quanto è arduo, complicato e pieno di difficoltà il compito di quanti per molti anni hanno lavorato nel Sant'Uffizio per tutelare la verità rivelata, ma mi sembra che debba essere espressa la richiesta che anche in questo dicastero nessuno venga giudicato e condannato (damnetur) a motivo di quanto a ragione o a torto crede, senza essere prima ascoltato, senza conoscere prima le accuse mosse contro di lui o contro qualcosa che ha scritto, senza che prima gli venga data  la  possibilità di correggere se stesso o quanto ha scritto, che pare essergli fatale".


Nel terzo punto Frings muove alla Curia un'altra critica:  "Mi sembra che un'altra proposta in vista del rinnovamento dei rapporti fra l'episcopato e la Curia romana debba essere la diminuzione del numero dei vescovi presenti in Curia. Nessuno viene consacrato per valutare la propria persona o il proprio incarico. L'ufficio episcopale è un incarico, non è un onore o uno splendore da aggiungere a un altro incarico. Chi viene ordinato vescovo deve essere vescovo e nient'altro. Resta da aggiungere che anche l'ordinazione sacerdotale non deve avere per fine la gratificazione di sé, ma la sollecitudine per il gregge del Signore. Sono convinto del fatto che nella Curia romana ci siano ancora numerose cariche ricoperte da sacerdoti, che potrebbero essere esercitate da laici non meno bene o perfino meglio (...) perciò propongo che si decida di diminuire il numero di sacerdoti e di vescovi nella Curia romana e di permettere ai laici di entrarvi".


Lo stesso Frings annota nelle sue memorie:  "Quel discorso ebbe una risonanza del tutto inattesa e quasi inquietante. Evidentemente avevo parlato con cuore e sentimento a numerose persone che si ritenevano trattate ingiustamente o indignitosamente dal Sant'Uffizio. E quando verso le 11 entrai nella caffetteria ricevetti congratulazioni da tutte le parti. Tuttavia, quello stesso giorno, Ottaviani, presidente - o meglio prefetto - del Sant'Uffizio, anch'egli previsto come relatore, rispose con un discorso fulminante contro di me e mi voleva addossare la colpa di aver recato oltraggio al Papa. Tentai allora di parlargli e di dirgli che non era mia intenzione attaccare né lui né il Papa. Il giorno seguente mi venne incontro nello stesso posto, all'ingresso della sacrestia, mi abbracciò e mi disse:  "Entrambi vogliamo solo la stessa cosa!"".


Certo il cardinale Frings era anche spaventato e reso insicuro dalle conseguenze del proprio discorso. Hubert Jedin riferisce:  "Subito dopo il cardinale Frings convocò alcuni dei teologi a lui più vicini a Santa Maria dell'Anima. Eravamo ancora soli quando mi chiese:  "Che mi dice ora?". Risposi:  "Può stare tranquillo, tutti gli eruditi cattolici del mondo intero, che meritano questo nome, sono dalla sua parte". Questa risposta lo tranquillizzò visibilmente.

Quella stessa sera il Papa gli chiese di avanzare delle proposte per una riforma delle più elevate autorità ecclesiali. Il 12 novembre, nel corso di un colloquio con il cardinale, al quale partecipammo anche Ratzinger ed io, Onclin, esperto di diritto canonico di Lovanio, consegnò la stesura di un promemoria che il cardinale sottopose a Papa Paolo VI.


Già il 18 novembre 1963 Frings poté presentare al Papa il promemoria, che quest'ultimo aveva richiesto, sotto forma di lettera in quattro pagine.


Il concilio Vaticano II divenne un processo mondiale di comunicazione all'interno della Chiesa come non era mai accaduto prima e come non si è mai più verificato in seguito. Cardinali e vescovi di tutto il mondo, missionari e religiosi si incontravano quotidianamente ed esprimevano le proprie necessità. Le sessioni si svolgevano dal lunedì al sabato e sfinivano in modo non irrilevante i più anziani come il cardinale Frings. È naturale dunque che nei fine settimana si cercassero luoghi fuori Roma che promettessero un po' di riposo. Per questo il cardinale Frings accettava di tanto di in tanto gli inviti del superiore generale dei verbiti, padre Johannes Schütte, a recarsi nella loro casa a Nemi.

Così il cardinale Frings si interessò ai problemi dei missionari ed esercitò tutta la sua influenza affinché, sotto la pressione del tempo che diveniva sempre più breve, le missioni non ricevessero soltanto singole e coincise istruzioni, ma un decreto sostanzialmente ricco di contenuti, per la cui elaborazione, all'inizio del 1965, mise in contatto il Padre generale con il professor Ratzinger.


Degno di nota è un ultimo esempio dell'attività di consulenza e di collaborazione del professor Ratzinger per il cardinale Frings. Nel periodo della terza sessione nei dibattiti sulla costituzione ecclesiale si verificarono duri scontri e ci si chiedeva se sulla Madre di Dio, Maria, si dovesse redigere un documento conciliare a sé stante oppure un capitolo 8 allegato della costituzione ecclesiale. Inoltre, a maggioranza si era deciso di evitare titoli mariani quali "Mediatrice di tutte le grazie" e "Madre della Chiesa" riguardo ai cristiani non cattolici e alla problematica dogmatica di tali concetti.

 Poi ci fu una sorpresa.

Il 18 novembre 1964, Papa Paolo VI aveva annunciato, cosa evidentemente passata del tutto inosservata, che il 21 novembre, nonostante le decisioni contrarie della maggioranza del concilio, avrebbe riconosciuto a Maria il titolo di Mater Ecclesiae. Il 19 novembre, i cardinali Frings e Döpfner, gli arcivescovi Jaeger di Paderborn e Schäufele di Friburgo così come i vescovi Volk di Magonza e Höffner di Münster, si rivolsero al Papa direttamente con un'istanza per mitigare il prevedibile malumore nell'aula. Il testo dell'istanza è teologicamente così ricercato che si presume scritto dal professor Ratzinger:  "È per noi una grande gioia che per un decreto di questo periodo conciliare la Vergine santissima venga onorata da Sua Santità come accade già nel capitolo vIIi del De EcclesiaDe Beata Maria Virgine Deipara in mysterio Christi et Ecclesiae. Apprezzeremmo molto che Maria venisse anche definita Mater fidelium come nello schema De Ecclesia. Il titolo Maria Mater Ecclesia è auspicato anche da noi. Tuttavia non è da intendere in ogni senso.

 La commissione teologica non ha potuto evidentemente decidere di soddisfare nei "modi" i desideri espressi di proporre Maria Mater ecclesiae come testo conciliare (...) inoltre di definire Maria come Mater Christi et matrem hominum, maxime fidelium (...) se Maria Mater Ecclesiae viene intesa come Mater fidelium, allora questo ha un fondamento biblico.

Infatti, come Abramo all'inizio della Vecchia Alleanza viene definito Pater omnium credentium (Romani, 4, 11), così di Maria, che crede, si dice all'inizio della Nuova Alleanza "Beata Colei che ha creduto" (Luca, 1, 44). In questo senso il titolo Maria Mater Ecclesiae è giustificato nel migliore dei modi, è un arricchimento dell'ecclesiologia e della mariologia nonché un nuovo impulso alla devozione dei credenti.

Il titolo Maria Mater Ecclesiae potrebbe però essere inteso anche riferendolo alla Chiesa come istituzione e questo è più difficile da giustificare. Nell'ordo salutis corrispondono maternitas e paternitas. Quest'ultima per natura precede la maternitas.

Maria non sarebbe nostra madre se Dio non fosse prima nostro padre; Maria non sarebbe Regina, se Cristo non fosse Rex. Ella non sarebbe Domina, se Cristo non fosse Dominus.

Ora però nessuno chiama il Padre celeste, Cristo o lo Spirito Santo Pater Ecclesiae. Per il seguente motivo ciò sarebbe anche impossibile:  i ministeri che costituiscono la Chiesa come Institutio, contengono "per se" non la gratia filiationis. Questa è sempre data con la gratia sanctificans, ma non con l'incarico in quanto tale. Perciò Maria non si deve intendere Mater Ecclesiae nel senso di istituzione. Per questo chiediamo humillime, di unire il titolo Maria Mater Ecclesiae a quello di Mater fidelium e di darne questa interpretazione".


Tuttavia l'iniziativa presa dai vescovi tedeschi non riuscì a suscitare nel Papa maggiori riserve verso la propria decisione.
Nel 1973 il cardinale Frings ricordò:  "Nel suo discorso conclusivo il Papa annunciò che avrebbe attribuito alla Madre di Dio, Maria, il titolo Mater Ecclesiae, sebbene il concilio non avesse potuto decidere in proposito. Ciò fu accolto in modi diversi. Ricordo che il mio vecchio amico, il cardinale Ruffini di Palermo, ne fu entusiasta e quando uscimmo dalla basilica di san Pietro, disse:  "Ha vinto la Madonna, ha vinto la Madonna". Mi rallegrai con lui di tutto cuore per quella gioia, la realizzazione di un suo desiderio".


Dopo la fine del concilio e il ritiro del cardinale Frings dalla presidenza della Conferenza episcopale tedesca e dall'incarico di arcivescovo di Colonia, i contatti fra quel padre conciliare e il suo consigliere e collaboratore preferito si fecero più rari. Entrambi sono stati uniti dal timore che il concilio non fosse inteso come impulso riformistico, ma fosse frainteso come scintilla rivoluzionaria. Nessuno dei due era disposto a percorrere quel cammino, cosa che fa muovere al nostro attuale Papa la critica di essere un teologo conservatore.



(©L'Osservatore Romano - 11 ottobre 2008)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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15/12/2008 10:40
 
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Cari fratelli e sorelle!

Quarant’anni or sono, il 28 ottobre 1965, si tenne la settima Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Ad essa ne seguirono altre tre in rapida successione, e l’ultima, l’8 dicembre, segnò la chiusura del Concilio. Nella fase finale di quello storico evento ecclesiale, che era iniziato tre anni prima, venne approvata la maggior parte dei Documenti conciliari. Alcuni di essi sono più noti e vengono spesso citati; altri lo sono di meno, ma tutti meritano di essere richiamati, perché conservano il loro valore e rivelano un’attualità che, per certi aspetti, è addirittura aumentata. Vorrei, quest’oggi, ricordare i cinque Documenti che il Servo di Dio Papa Paolo VI e i Padri conciliari firmarono quel 28 ottobre 1965. Essi sono: il Decreto Christus Dominus, sull’ufficio pastorale dei Vescovi; il Decreto Perfectae caritatis, sul rinnovamento della vita religiosa; il Decreto Optatam totius, sulla formazione sacerdotale; la Dichiarazione Gravissimum educationis, sull’educazione cristiana; e infine la Dichiarazione Nostra Aetate, sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.

I temi della formazione dei sacerdoti, della vita consacrata e del ministero episcopale sono stati oggetto di tre Assemblee Ordinarie del Sinodo dei Vescovi, svoltesi rispettivamente nel 1990, nel 1995 e nel 2001, le quali hanno ampiamente ripreso e approfondito gli insegnamenti del Vaticano II, come attestano le Esortazioni apostoliche post-sinodali del mio amato predecessore il servo di Dio Giovanni Paolo II Pastores dabo vobis, Vita consecrata e Pastores gregis.
Meno conosciuto è invece il documento sull’educazione. Da sempre la Chiesa è impegnata nell’educazione della gioventù, alla quale il Concilio riconobbe un’"estrema importanza" sia per la vita dell’uomo che per il progresso sociale (cfr Dich. Gravissimum educationis, Proemio). Anche oggi, nell’epoca della comunicazione globale, la Comunità ecclesiale avverte tutta l’importanza di un sistema educativo che riconosca il primato dell’uomo come persona, aperta alla verità e al bene. Primi e principali educatori sono i genitori, aiutati, secondo il principio di sussidiarietà, dalla società civile (cfr ivi, 3). Una speciale responsabilità educativa sente di avere la Chiesa, alla quale Cristo ha affidato il compito di annunciare "la via della vita" (cfr ibid.). Essa, in diversi modi, cerca di adempiere questa missione: in famiglia, in parrocchia, attraverso associazioni, movimenti e gruppi di formazione e d’impegno evangelico e, in modo specifico, nelle scuole, negli istituti di studi superiori e nelle università (cfr ivi, 5-12).
(L'Angelus del Papa del 30.10.2005 )




Amici....da quando la Provvidenza ci ha permesso, malgrado ogni nostra debolezza ed ogni nostro limite, di avviare questo forum in internet, non abbiamo fatto altro che rammentare a noi stessi e a tutti voi il valore Universale del Concilio Vaticano II......
Ringraziamo oggi Benedetto XVI per averci incoraggiati, ancora una volta, a proseguire per questa strada..[SM=g6811] ..mettendo avanti a noi e a voi, donando a noi e a voi....TUTTI I DOCUMENTI che grazie a questa teconologia sono oggi di più facile consultazione.....
Riguardo al Documento citato dal Papa:
Meno conosciuto è invece il documento sull’educazione. Da sempre la Chiesa è impegnata nell’educazione della gioventù, alla quale il Concilio riconobbe un’"estrema importanza" sia per la vita dell’uomo che per il progresso sociale (cfr Dich. Gravissimum educationis, Proemio).
Gravissimum educationis
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dove come genitori siamo chiamati in prima linea ad assumere ruoli di responsabilità nell'educazione CRISTIANA  verso i figli.......si legge:

I genitori, primi educatori

3. I genitori, poiché han trasmesso la vita ai figli, hanno l'obbligo gravissimo di educare la prole: vanno pertanto considerati come i primi e i principali educatori di essa. Questa loro funzione educativa è tanto importante che, se manca, può difficilmente essere supplita. Tocca infatti ai genitori creare in seno alla famiglia quell'atmosfera vivificata dall'amore e dalla pietà verso Dio e verso gli uomini, che favorisce l'educazione completa dei figli in senso personale e sociale. La famiglia è dunque la prima scuola di virtù sociali, di cui appunto han bisogno tutte le società. Soprattutto nella famiglia cristiana, arricchita della grazia e delle esigenze del matrimonio sacramento, i figli fin dalla più tenera età devono imparare a percepire il senso di Dio e a venerarlo, e ad amare il prossimo, conformemente alla fede che han ricevuto nel battesimo; li anche fanno la prima esperienza di una sana società umana e della Chiesa; sempre attraverso la famiglia, infine, vengono pian piano introdotti nella comunità degli uomini e nel popolo di Dio. Perciò i genitori si rendano esattamente conto della grande importanza che la famiglia autenticamente cristiana ha per la vita e lo sviluppo dello stesso popolo di Dio.

Il compito educativo, come spetta primariamente alla famiglia, cosi richiede l'aiuto di tutta la società.

Perciò, oltre i diritti dei genitori e di quelli a cui essi affidano una parte del loro compito educativo, ci sono determinati diritti e doveri che spettano alla società civile, poiché questa deve disporre quanto è necessario al bene comune temporale. Rientra appunto nelle sue funzioni favorire in diversi modi l'educazione della gioventù: cioè difendere i doveri e i diritti dei genitori e degli altri che svolgono attività educativa e dar loro il suo aiuto; in base al principio della sussidiarietà, laddove manchi l'iniziativa dei genitori e delle altre società, svolgere l'opera educativa, rispettando tuttavia i desideri dei genitori, fon dare inoltre, nella misura in cui lo richieda il bene comune, scuole e istituzioni educative proprie.

Infine, ad un titolo tutto speciale, il dovere di educare spetta alla Chiesa: non solo perché essa va riconosciuta anche come società umana capace di impartire l'educazione, ma soprattutto perché essa ha il compito di annunciare a tutti gli uomini la via della salvezza e di comunicare ai credenti la vita di Cristo, aiutandoli con sollecitudine incessante a raggiungere la pienezza di questa vita. A questi suoi figli, dunque, la Chiesa come madre deve dare un'educazione tale, che tutta la loro vita sia penetrata dello spirito di Cristo; ma nel contempo essa offre la sua opera a tutti i popoli per promuovere la perfezione integrale della persona umana, come anche per il bene della società terrena e per la edificazione di un mondo più umano.

..........
Ringraziando il santo Padre per questo richiamo al Concilio, confidiamo anche in quanti leggono....a trovare nei Documenti della Chiesa, conosciuti come IL MAGISTERO(=insegnamento), materiale idoneo per una progressione personale della fede e una spinta per una testimonianza sempre più credibile delle "ragioni della nostra fede" (san Paolo)
Fraternamente dai gestori tutti.



 
Proviamo a CONOSCERE questi Documenti del Magistero della Chiesa....
40° ANNIVERSARIO “NOSTRA AETATE”
: PADRE FREDERICKS (ESPERTO DI DIALOGO CRISTIANI-BUDDISTI), "IMPOSTAZIONE TEOLOGICA" E "LEGAMI DI SOLIDARIETÀ"

“La 'Nostra Aetate' prima, Giovanni Paolo II poi hanno aperto una strada importante nel dialogo fra buddisti e cristiani. Ma ci sono due problemi ancora sul tavolo. Il primo è trovare un’impostazione teologica che veramente possa essere base di conoscenza reciproca, il secondo è quello di iniziare una prassi di dialogo, posto che non abbiamo lo scopo di convertire l’altro, ma di creare legami di solidarietà”. E’ la riflessione di padre James Fredericks, docente di studi teologici alla Loyola Marymount University, intervenuto questa mattina al convegno internazionale “Nostra Aetate oggi”, promosso presso la Pontificia Università Gregoriana (fino a domani)in occasione del quarantesimo anniversario della promulgazione della dichiarazione conciliare sui rapporti interreligiosi (28 ottobre 1965).
“Da 25 anni mi occupo di dialogo fra cristiani e buddisti - ha affermato padre Fredericks prendendo parte alla sessione dedicata al confronto fra cristianesimo e religioni asiatiche - e ho imparato che bisogna rifuggire soprattutto dalla tendenza a mitigare le proprie posizioni per avvicinarsi all’altro e dall’errore di costruire sistemi teologici a priori che interferiscono con la nostra capacità di ascoltare e di capire.
Da questo punto di vista Giovanni Paolo II ha fatto passi avanti rispetto al Concilio Vaticano II affermando allo stesso tempo l’unicità di Cristo e l’ubiquità dello Spirito Santo, presente in ogni preghiera autentica”.

IL DIALOGO INTERRELIGIOSO è “UNA FORMA DI PREVENZIONE DEI CONFLITTI

Il dialogo interreligioso “può essere una forma di prevenzione dei conflitti”. Ma il lavoro teologico deve fare la sua parte per “cercare un linguaggio comune” altrimenti si rischiano fraintendimenti e incomprensioni.

Si è aperta con un confronto fra Mona Siddiqui, musulmana da sempre vissuta in Occidente, e padre Thomas Michel, un padre gesuita indonesiano, l’ultima giornata di lavori del convegno internazionale “Nostra Aetate oggi” dedicata al dialogo fra cristianesimo e Islam. “Già il Concilio – ha detto padre Michel - ci invitava ad andare oltre la conflittualità che storicamente si è verificata e continua a verificarsi fra le due religioni, per provare a lavorare assieme per la pace e la giustizia sociale.

Era questa forse l’indicazione più profetica di Nostra Aetate. Il dialogo interreligioso può essere una forma di prevenzione dei conflitti. Le difficoltà teologiche sono tante. Ci viene incontro la teologia delle religioni di Giovanni Paolo II”. “Il lavoro teologico – ha aggiunto Mona Siddiqui – sta in parte anche nel cercare un linguaggio comune, altrimenti i concetti di base continuano a venire intesi in modo troppo diverso. Tuttavia l’esperienza mi ha insegnato che la fede parla alla fede in molti modi”.


Agenzia Sir

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COSTRUIRE INSIEME

Il 28 ottobre 1965 veniva approvata la dichiarazione che inaugurò uno stile nuovo nelle relazioni con le tradizioni non cristiane Un testo fondamentale per l’educazione alla pace e al rispetto della diversità

«Nostra Aetate» è  scuola del dialogo

L’attualità del documento conciliare al centro di un convegno interreligioso tenutosi alla Gregoriana di Roma «Ha cambiato il modo di guardare se stessi e gli altri»



Da Roma Mimmo Muolo

A quarant'anni dalla sua promulgazione, la Nostra Aetate mette tutti d'accordo. Cristiani, ebrei e musulmani, ma anche rappresentanti di altre tradizioni religiose. «Non ci sono alternative al dialogo tra le religioni. E più si procederà su questa strada, più grande sarà il contributo alla costruzione di un mondo pacificato». Sono queste anche le conclusioni della tre giorni di studio che ha visto confrontarsi alla Pontificia Università Gregoriana oltre 300 esponenti del mondo accademico internazionale.
Secondo padre Joseph Sievers, docente di storia ebraica al Pontificio Istituto Biblico e uno degli organizzatori del convegno, «dopo quarant'anni stiamo constatando che non solo la visione dell'altro sta cambiando, ma anche la visione di se stessi e del modo di intendere i rapporti. Non nel senso di abbandonare la propria religione, o di diventare sincretisti, ma nel senso di un allargamento di orizzonti. Ho potuto sperimentarlo di persona, grazie ai miei rapporti con l'ebraismo. E così penso che avvenga per gli altri nei rapporti con il cristianesimo».


Lo studioso cita un esempio tratto proprio dal confronto di questi giorni. «Uno dei rappresentanti indu presenti mi ha detto: "A questi incontri di solito siamo invitati come ospiti. Adesso anche noi dobbiamo diventare ospitanti"». Insomma, sottolinea padre Sievers, «il dialogo richiede pazienza e rispetto anche dei tempi con cui camminano gli altri».


Il vero salto di qualità, tuttavia, avverrà quando il dialogo sarà portato «a livello della vita quotidiana, ad esempio attraverso la sua introduzione nelle scuole, per mettere le basi di una corretta educazione alla diversità». «Un convegno da solo non cambia il mondo - conclude padre Sievers -. Ma la formazione può fare molto. Oggi alla Gregoriana abbiamo anche studenti musulmani che vengono a studiare il cristianesimo e l'ebraismo. E questo mi dà molta fiducia per il futuro».


Gli fa eco Ron Kronish, direttore dell'Icci (Interreligious Coordi nating Council in Israel), anch'egli presente ai lavori. «Come ebreo - afferma - penso che la Nostra Aetate abbia aperto un nuovo campo di dialogo tra ebrei e cristiani e ora anche tra cristiani, ebrei e musulmani. Il dialogo è la via del futuro, le crociate sono ormai finite, si apre un nuovo periodo storico e questo documento contiene le linee guida per realizzare un grande cambiamento. Perciò dobbiamo continuare a esercitarci nel dialogo, educando soprattutto le nuove generazioni».


Anche Adnane Mokrani, tunisino, docente di Introduzione all'islam all'Università Gregoriana, parla di «svolta storica». «La Nostra Aetate non solo ha incoraggiato il dialogo, ma ha dato un formidabile contributo alla pace mondiale». Anche se, riconosce l'esponente musulmano, «il cammino dopo 40 anni è ancora gli inizi». Come si può renderlo, dunque, più spedito? «Dialogare - risponde - significa aver desiderio di incontrare l'altro. Secondo me. non dobbiamo insistere tanto sulle procedure, quanto sulla spontaneità e la semplicità dell'apertura e dell'ascolto». In questo modo, sottolinea, «così come si è avviato un dialogo tra cristiani e musulmani e tra cristiani ed ebrei, spero sia possibile avviare anche un dialogo diretto anche tra ebrei e musulmani».

E se «in questo momento il problema è soprattutto di natura politica e coinvolge lo Stato di Israele e i Paesi arabi, in virtù del comune patrimonio abramitico possiamo andare oltre i confini della politica».
Naturalmente occorrono anche alcune condizioni. Mokrani ricorda: «Nel dialogo interreligioso non ci sono alleanze, né gelosie, né esclusioni, perché questo è contro il principio stesso del dialogo. Inoltre il dialogo è ripudio della violenza, atto di purificazione dalla tentazione dell'odio e dell'egoismo». Infine il dialogo è «impegno comune per affermare la libertà religiosa». Anche nei Paesi islamici?, gli chiediamo. «Certo - risponde -. Ovunque».


Avvenire - 29 settembre 2005



Ripercorrere il Concilio: riflessione 

E' un modo giusto e corretto ripercorre il Concilio Vaticano II. Giovanni Paolo II ha detto: "Il Concilio Vaticano II è il grande dono che Dio ci ha dato". Paolo VI ebbe a dire: "Il Concilio Vaticano II è il catechismo dei tempi nuovi."




C'è qualcuno che ha una certa allergia per il Concilio, per motivi che possono anche essere comprensibili. Se per esempio io sono un bimbo adottato e la mia mamma adottiva denigra la mia mamma naturale fino a farmela apparire una poco di buono, non si dica poi che io non ho amore per la mia mamma naturale. Io per lei ho i sentimenti che mi sono stati inculcati.

Ebbene il Concilio Vaticano II ha avuto una certa naturale confusione. Lo dico con le parole del cardinale Suenens: "Quando voi rifate la casa vivete per mesi in calcinacci. Però non vi lamentate della polvere, del disagio, dei lavori. Voi sopportate il disagio dei lavori perché, alla fine, la casa sarà più bella". Non si può pretendere che in quarant'anni di vita, che sono lunghi per una esistenza umana, ma che sono un attimo per l'umanità, si possa assimilare tutto il bagaglio di novità e di riflessioni e di aperture che ha indotto il Concilio Vaticano II. Immaginate i sedici documenti, sono sedici tomi.

Il post-concilio ha ancora i calcinacci della ristrutturazione, anche se c'è qualcuno che ha invelenito il Concilio stesso. Il cardinale Biffi, il vescovo della verità, è molto preoccupato perché trova alcune affermazioni post-conciliari che fanno paura. Ne dico una. "Il Magistero è dialogo?" No. "Il Magistero è insegnamento" insegnamento dialogativo semmai, ossia attraverso il dialogo e mai una imposizione. Passerà anche per il dialogo, ma il dialogo è uno strumento. Se c'è il nulla resta il nulla. A fronte di alcune di queste azioni piratesche post-conciliari che hanno invelenito gli animi è scattata la risposta di quanti affermano che il post-concilio ha rovinato tutto. Tutto certamente no, ma qualcosa forse si. Io dico allora. Ritorniamo al Concilio genuino. Aggiorniamolo perché le cose datate hanno continuamente bisogno di essere rivisitate. La Parola cresce. Però esso è la strada. Molti cattolici non hanno ancora applicato il Concilio di Trento e sono passati quattrocento anni. Se facciamo così anche con il Concilio Vaticano II il Signore ci dirà: "Vi ho mandato i profeti e non li avete ascoltati". I profeti sono venuti, sono stati addirittura canonizzati, quelli del Concilio. Bellissimo.

Voi sapete che il Concilio non è un libro statico, esso rimbalza immediatamente alla Scrittura, la Scrittura rimbalza alla Chiesa, la Chiesa invoca la Liturgia. E' un firmamento. Però riprendere in mano i testi, soprattutto per i giovanissimi che sono nati dopo, affinché lo studino bene, è certamente la strada maestra.



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Se può tornare utile, suggerisco la prima parte dell'intervista di Messori all'allora card. Ratzinger......dove nel primo capitolo parla proprio del progressismo e del tradizionalismo nella Chiesa

vi riporto solo quanto segue:

(Messori) Continuava:
(Ratzinger): " Nei confronti di entrambe le posizioni contrapposte, va precisato innanzi tutto che il Vaticano II è sorretto dalla stessa autorità del Vaticano I e del Tridentino: e cioè, il Papa e il collegio dei vescovi in comunione con lui".
(...)
(Messori) Da qui, Ratzinger derivava due conseguenze:
(Ratzinger):
"Primo: è impossibile per un cattolico prendere posizione in favore del Vaticano II e contro Trento o il Vaticano I. Chi accetta il Vaticano II, così come si è chiaramente espresso nella lettera e così come chiaramente inteso nello spirito, afferma al tempo stesso l'ininterrotta Tradizione della Chiesa, in particolare anche i due Concili precedenti. E ciò valga per il cosidetto "progressismo" almeno nelle sue forme estreme.
Secondo: allo stesso modo è impossibile decidersi a favore di Trento e del Vaticano I e contro il Vaticano II. Chi nega il Vaticano II nega l'autorità che regge gli altri due Concili e così li stacca dal loro fondamento. E ciò valga per il cosidetto "tradizionalismo", anch'esso nelle sue forme estreme. Davanti al Vaticano II, ogni scelta di parte distrugge un tutto, la storia stessa della Chiesa, che può esistere solo come unità indivisibile."

(Messori) Critico a "sinistra", Ratzinger si mostra inequivocabilmente severo anche a "destra"....
(Ratzinger):
"Non vedo alcun futuro per una posizione che si ostina in un rifiuto di principio del Vaticano II. Infatti essa è in se stessa illogica! Punto di partenza di questa tendenza è infatti la più rigida fedeltà all'insegnamento, in particolare di Pio IX e di Pio X e, ancor più a fondo, del Vaticano I e la sua definizione del primato del Papa. Ma perchè i Papi sino a Pio XII e non oltre? Forse che l'obbedienza alla Santa Sede è divisibile secondo le annate o secondo la consonanza di un insegnamento alle proprie convinzioni già stabilite?"

(Rapporto sulla Fede: Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger -pagine citate la 28/29- Libro uscito nel 1985 Ed.san Paolo è stato riprodotto nel 2005 con nuovi riferimenti alla salita al soglio Pontificio di Joseph Ratzinger con il nome di Benendetto XVI)

 


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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15/12/2008 10:48
 
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LA CONTINUITA' DELLA CHIESA ATTRAVERSO GLI ULTIMI PONTEFICI UNITI FRA LORO, NELLA TRADIZIONE DELLA CHIESA......
BEATO PIO IX Giovanni Maria Mastai Ferretti nacque a Senigallia il 13 maggio 1792, nono figlio. Il 1 giugno 1846 morì Gregorio XVI; due settimane dopo, il 14, cinquantadue cardinali si riunirono in conclave per eleggerne il successore. Sulla sera del 16, il card. Giovanni Maria Mastai Ferretti era già papa con il nome di Pio IX. Rimarrà sul soglio di Pietro per 32 anni, dando vita al più lungo pontificato della storia.


Speciale Pio IX: contro la leggenda nera.

La vita di Pio IX (link esterno al forum)




Foto di Enrico Battista Canè, 1877. Dall'album conservato nel Museo Pio IX al Palazzo Mastai di Senigallia.

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Pio X fu il primo papa dell’età contemporanea a provenire dal ceto contadino e popolare, seguito 65 anni dopo da papa Giovanni XXIII anch’egli di origini contadine, ma fu senz’altro uno dei primi pontefici ad aver percorso tutte le tappe del ministero pastorale, da cappellano a papa.
Nato il 2 giugno del 1835, aveva 68 anni quando salì al Soglio Pontificio instaurando una linea di condotta per certi versi di continuità con i due lunghissimi pontificati di Pio IX e Leone XIII che l’avevano preceduto, specie in campo politico, ma anche di rottura con certi schemi ormai consolidati, ad esempio, sebbene di umili origini egli rifiutò sempre di elargire benefici alla famiglia, come critica verso certi nepotismi e favoritismi più o meno evidenti, fino allora praticati.


Davanti ai grandi progressi di un liberalismo prevalentemente antireligioso, di un socialismo prevalentemente materialista e di uno scientismo presuntuoso, Pio X avvertì la necessità di erigere il papato contro la modernità, spezzando ogni tentativo di avviare un compromesso efficace tra i cattolici e la nuova cultura.

Con l’enciclica “Pascendi” del 1907 condannò il ‘modernismo’ ma attenzione da non confondersi con LA MODERNITA' E IL PROGRESSO BENEVOLO; in campo politico riprese la linea intransigente di Pio IX, egli considerava la separazione della Chiesa dallo Stato come un sacrilegio, gravemente ingiuriosa nei confronti di Dio al quale bisogna rendere non solo un culto privato ma anche uno pubblico.

La riaffermazione del potere papale, dopo le vicissitudini della caduta dello Stato Pontificio, portarono con il pensiero di Pio X ad identificare l’istituzione papale con la Chiesa intera, la Santa Sede con il popolo di Dio.
Fu beatificato il 3 giugno 1951 da papa Pio XII e proclamato santo dallo stesso pontefice il 29 maggio 1954

Enciclica Pascendi, sugli errori del modernismo.
(Oggi riferibile anche al falso tradizionalismo che aleggia in questi fora).
Altra pagina la troverete qui nel forum nella sezione dedicata ai Pontefici




 
Pio XI, Achille Ratti, nato a Desio (MI), arcivescovo di Milano (1921-22) e poi Papa. La scelta di questi Pontefici di portare lo stesso nome dei predecessori, fu segno anche di continuità programmatica.


Pio XI all'inaugurazione delle prime trasmissioni della Radio Vaticana (1929); dietro di lui Guglielmo Marconi, al suo fianco il Segretario di Stato card. Eugenio Pacelli, futuro Pio XII.






Pio XI si adoperò perché la Chiesa non si isolasse dalla società. Per questo motivo promosse la riforma dell'Azione Cattolica e ne incoraggiò la diffusione in molti paesi. Per regolare la posizione e i diritti della Chiesa, concluse i concordati con una ventina di stati. Il suo più importante successo diplomatico furono i patti lateranensi (Papa dal 11 febbraio 1929) che negoziò con Benito Mussolini, e con i quali fu fondato lo Stato del Vaticano, indipendente e neutrale. Con le encicliche "Divini Redemptoris" (Papa dal 1937) e "Mit brennender Sorge" condannò rispettivamente l comunismo e il nazismo. Fu il primo Papa a usare la radio per scopi pastorali. E' stato il 259° successore di S. Pietro alla guida della Chiesa di Cristo, il suo fu il pontificato del primo difficile dopoguerra, del sorgere e consolidarsi delle ideologie fasciste e naziste e terminò con l’angoscia di vedere approssimarsi sull’Europa e sul mondo, la grande catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, che scoppiò sette mesi dopo la sua morte.

I disegni della Provvidenza lo tolsero dai suoi impegni di responsabile di austere Biblioteche, custodi del sapere del mondo Occidentale ed Orientale, per dargli responsabilità di respiro mondiale e facendo legare il suo nome, al finire definitivo della ‘Questione Romana’, che aveva visto i Pontefici dopo Pio IX, non uscire più dai Palazzi Vaticani, considerandosi quasi prigionieri del Regno d’Italia, che aveva annullato definitivamente con la presa di Roma del 20 settembre 1870, il millenario Stato Pontificio e quindi il potere temporale dei Papi.

Il 6 febbraio veniva eletto al Soglio Pontificio e scelse il nome di Pio XI; il suo primo atto fu quello di impartire la benedizione “Urbi et Orbi”, cioè a Roma e al mondo, dalla loggia esterna della Basilica di S. Pietro, che era chiusa per protesta dal 1870; come primo segno di una possibile riconciliazione con l’Italia.

Il suo pontificato durò poco più di sedici anni; Pio XI fissò il suo programma nel motto: “Pax Christi in regno Christi” e non tralasciò nulla per l’attuazione di un così vasto traguardo.

Alcuni suoi scritti importanti:

http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/index_it.htm



Purtroppo durante il suo pontificato avvennero spietate persecuzioni religiose, anche in Paesi notoriamente cattolici, denunziò al mondo i sanguinosi soprusi compiuti nel 1926, dal governo massonico nel Messico a danno dei fedeli e del clero; con l’enciclica “Divini Redemptoris” (19 marzo 1937) condannò il comunismo ateo che imperversava in Russia; dovette assistere con il cuore lacerato dal dolore, all’empia carneficina di oltre 7300 sacerdoti, religiosi e suore e tanti fedeli cattolici, vittime della Guerra Civile in Spagna, dal 1933 al 1939, ad opera delle milizie rosse rivoluzionarie, scatenate in un bieco anticlericalismo; condannò il razzismo nazista, che prima in forma strisciante, poi sempre più apertamente si affermava nella Germania di Adolf Hitler, estendendosi anche ai cristiani.

Il papa in quegli anni, che furono anche gli ultimi della sua vita, non esitò a schierarsi contro Berlino con l’enciclica “Mit brennender Sorge” del 1937 e anche se la sua opposizione si fece più acuta, rispecchiando i sentimenti del Pontefice, essa non riuscì a tradursi in azioni aperte.

Nel 1926 aveva espresso la sua condanna verso l’’Action française’, il cui esasperato nazionalismo gli parve pericoloso per la pace. Nel 1929, l’11 febbraio si giunse al ‘Concordato’ fra la Santa Sede e l’Italia con l’istituzione dello Stato indipendente della Città del Vaticano, firmato da Benito Mussolini e dal card. Gasparri, Segretario di Stato; l’atto prese il nome di “Patti Lateranensi”, che comprendevano appunto un Concordato ed un Trattato.
Ma sorsero ben presto contrasti con il Governo Italiano in merito all’applicazione degli stessi Patti (Enciclica “Domini illius magistri” del 1929), soprattutto per quanto riguardava l’Azione Cattolica, che era diventata l’obiettivo degli attacchi del regime fascista, che mal sopportava che vi fossero delle Associazioni giovanili, al di fuori della sua ottica politica e autorità.

Si giunse allo scontro più aperto il 31 maggio 1931 con lo scioglimento imposto alle Associazioni; papa Pio XI rispose il 29 giugno con l’enciclica “Non abbiamo bisogno”; solo nel 1932 si giunse ad un accordo con Mussolini.
Con la sua politica di Concordati, stipulati con molti Governi, indipendentemente dai regimi politici, per porre la Santa Sede in una posizione neutrale e per non suscitare reazioni antireligiose, papa Ratti attirò su di sé critiche in campo internazionale, come nel caso del silenzio-assenso dato al regime fascista, per le guerre in terra d’Africa.

Contro il dilagare delle dottrine materialistiche e neo-pagane, oppose il culto di “Cristo Re”. Fu chiamato oltre che il papa difensore dell’Azione Cattolica, anche il “Papa delle missioni”, per questo scopo primario del suo pontificato, spostò da Parigi a Roma, l’Opera per la Propagazione della Fede; incoraggiò l’Unione Missionaria del Clero, per stimolare l’interesse dei fedeli per le missioni estere in tutte le parrocchie.

Promosse la formazione del clero indigeno, consacrò nel 1926 nella Basilica di S. Pietro, i primi sei vescovi cinesi, nel 1927 uno giapponese e altri negli anni successivi di altre nazionalità.
Nel 1925 organizzò la grande Esposizione Missionaria, per far conoscere le problematiche missionarie e la necessità della decolonizzazione di quelle terre così lontane. Durante il suo pontificato si tenne l’Anno Santo del 1925 e quello del centenario della Redenzione nel 1933; proclamò santi s. Teresa del Bambino Gesù, s. Giovanni Bosco, s. Giuseppe Benedetto Cottolengo; la devozione al ‘Cuore di Gesù’ ebbe grande impulso.
Istituì la “Giornata pro Università Cattolica” per offrirle i mezzi per sostenersi; con l’enciclica “Quadragesimo anno” completò la politica sociale della Chiesa, espressa già con la “Rerum Novarum” di Leone XIII.

Abituato da buon lombardo a trattare con familiarità e simpatia la tecnologia, accettò con favore le nuove scoperte, inserendo di fatto la Santa Sede nello sfruttamento delle moderne tecniche di comunicazione. Incaricò per questo Guglielmo Marconi di costruire la Stazione di Radio Vaticana, che fu inaugurata nel 1931 e affidata ai Gesuiti.

Trasformò la Pontificia Accademia delle Scienze; ristrutturò la Specola astronomica vaticana, nominò il cardinale Eugenio Pacelli come Segretario di Stato, il quale sarà suo successore.

Non è possibile descrivere dettagliatamente, tutta l’opera pastorale, diplomatica, politica, missionaria, culturale, di più di sedici anni di pontificato di questo grande papa, vanto della terra milanese e dell’Italia, in questo spazio per forza ridotto, occorrerebbe un intero libro.
Certamente ha legato il suo nome ai Patti Lateranensi, salutati con immensa gioia dal popolo italiano, che vide per essi restituito “Dio all’Italia e l’Italia a Dio”. Inoltre i suoi ultimi mesi di vita, videro il vecchio papa amareggiato, rimproverare apertamente l’acquiescenza di Mussolini per l’annessione dell’Austria alla Germania nazista e ancora più combattivo, rifiutò ogni contatto con il dittatore tedesco, ritirandosi a Castelgandolfo quando venne in visita in Italia dal 3 al 9 maggio 1938, chiudendo i Palazzi e Musei Vaticani per impedire la visita dei nazisti in Vaticano.

Inoltre manifestò la sua tristezza, perché a Roma era stata inalberata una croce (svastica) “che non era quella di Cristo”.
Il grande pontefice si spense improvvisamente il 10 febbraio 1939 ad 82 anni, alla vigilia del primo decennale della Conciliazione, mentre vedeva addensarsi sull’Europa le nuvole minacciose della guerra. La sua morte improvvisa gl’impedì di leggere all’episcopato italiano, convocato al suo capezzale, il discorso che aveva preparato su un’ora tanto oscura e pericolosa per la pace del mondo.

Autore: Antonio Borrelli; sito
www.santiebeati.it




 
Pio XII.... Al secolo Eugenio Pacelli. Nato a Roma nel 1876 (+ 1958). Di nobile famiglia, seguì la carriera diplomatica: nel 1911 divenne sottosegretario e nel 1914 segretario agli Affari Straordinari di Stato. Fu poi nunzio in Baviera e a Berlino e dal 1920 al 1938 segretario di Stato.

Eletto papa il 2 marzo 1939, subito si preoccupò di parare la minaccia di guerra gravante sull'Europa ad opera soprattutto del nazismo. Mantenne buoni rapporti con il governo italiano, ma questi non valsero a distogliere il regime fascista dai suoi folli propositi di guerra. Contro il regime hitleriano denunciò i crimini dell'eugenetica e del razzismo nazista.
(Appena eletto Papa, Pio XII si dirige verso la Loggia delle Benedizioni)
Nell'ambito precipuamente religioso Pio XII svolse una vasta attività nel campo della dogmatica: pur lasciando ai principi la loro essenziale immutabilità, volle rivedere molti punti per adeguarne la formulazione esterna ai progressi tecnici e scientifici con opportuni aggiornamenti in campo morale e disciplinare.

Nel campo delle scienze Pio XII diede impulso alla Pontificia Accademia delle Scienze; ordinò scavi sotto l'altare della confessione in S. Pietro per rintracciare il sepolcro del primo pontefice romano.



Con il successore, Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII



Con una delegazione di ebrei rifugiati in Vaticano durante la guerra.

(La sua profonda devozione all'Eucarestia che gli valse il titolo di "Papa Angelico")



IL CONCILIO

B. Giovanni XXIII


L’11 Ottobre 1962 papa Roncalli inaugurò in S. Pietro il Concilio Vaticano II indicando un preciso orientamento degli scopi: non definire nuove verità o condannare errori, ma: rinnovare la Chiesa per renderla più santa e quindi più adatta ad annunciare il Vangelo ai contemporanei; ricercare le vie per l’unità delle Chiese cristiane; rilevare ciò che c’è di buono nella cultura contemporanea aprendo una nuova fase di dialogo col mondo moderno, cercando innanzitutto "ciò che unisce invece di ciò che divide".

INIZIA LA NUOVA ERA ECUMENICA




UDIENZA AL GENERO DI KRUSCEV

Il 7 marzo 1963 prese il coraggio d’iniziare il disgelo con l’Unione Sovietica ricevendo personalmente il genero di Kruscev, Alexei Adjubei, con la moglie. Alla fine dell’incontro disse al suo segretario: "Può essere una delusione, oppure un filo misterioso della Provvidenza che io non ho il diritto di rompere". La storia ha dimostrato la presenza di quel filo.

L’ENCICLICA PACEM IN TERRIS

L’11 aprile 1963 papa Roncalli pubblica l’Enciclica "Pacem in terris" indirizzata per la prima volta non ai soli cattolici ma "a tutti gli uomini di buona volontà", e che fu ritenuta datutti, anche non cristiani, come l’espressione migliore, nella situazione del mondo contemporaneo, delle vie per alimentare le speranze di pace e di solidarietà di tutto il genere umano. Fu messa negli archivi delle Nazioni Unite a New York.






PREMIO INTERNAZIONALE PER LA PACE

Il 10 maggio 1963 al Papa Bergamasco venne consegnato in Vaticano il premio internazionale Balzan per la pace come riconoscimento per la sua intensa attività per evitare i conflitti e segnalare all’umanità il cammino per la pacifica convivenza dei popoli.


(Giovanni XXIII visita gli scavi nelle grotte vaticane)


Con il suo successore, Giovanni Montini, futuro Paolo VI

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PAOLO VI
Per chi si fosse fermato al 1054.....ricordiamo che con Palo VI vennero tolte le rispettive scomuniche con la Chiesa in Oriente rappresentata dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli...
L'ultima omelia di Paolo VI proprio sul primato petrino:
OMELIA DI PAOLO VI

Solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo
Giovedì, 29 giugno 1978


Venerati Fratelli e Figli carissimi,

Le immagini dei Santi Apostoli Pietro e Paolo occupano, oggi più che mai, il nostro spirito durante la celebrazione di questo rito. Non solo perché ci sono riportate, come di consueto, dal volgere dell’anno liturgico, ma anche per il particolare significato che riveste per noi questo xv anniversario della nostra elezione al Sommo Pontificato, quando, dopo il compimento dell’80° genetliaco, il corso naturale della nostra vita volge al tramonto.

Pietro e Paolo: «le grandi e giuste colonne» (S. CLEMENTE ROMANI, I, 5, 2) della Chiesa romana e della Chiesa universale! I testi della Liturgia della parola, or ora ascoltati, ce li presentano sotto un aspetto che suscita in noi profonda impressione : ecco Pietro, che rinnova nei secoli la grande confessione di Cesarea di Filippo; ecco Paolo, che dalla cattività romana lascia a Timoteo il testamento più alto della sua missione. Guardando a loro, noi gettiamo uno sguardo complessivo su quello che è stato il periodo durante il quale il Signore ci ha affidato la sua Chiesa; e, benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matth. 16, 16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tim. 4, 7).

I. TUTELA DELLA FEDE

Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro, al quale Cristo ha affidato il mandato di confermare i fratelli (Cfr. Luc. 22, 32): è l’ufficio di servire la verità della fede, e questa verità offrire a quanti la cercano, secondo una stupenda espressione di San Pier Crisologo: «Beatus Petrus, qui in propria sede et vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem» (S. PETRI CEIRYSOLOGI Ep. ad Etrtichen, inter Ep. S. Leonis Magni XXV, 2: PL 54, 743-744). Infatti la fede è «più preziosa dell’oro» (1 Tim. 6, 13), dice San Pietro; non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà («per ignem probatur» -1 Petr. 1, 7 ). Della fede gli Apostoli sono stati predicatori anche nella persecuzione, sigillando la loro testimonianza con la morte, a imitazione del loro Maestro e Signore che, secondo la bella formula di San Paolo «testimonium reddidit sub Pontio Pilato bonam confessionem» (Ibid.). Ora, la fede non è il risultato dell’umana speculazione (Cfr. 2 Petr. 1, 16), ma il «deposito» ricevuto dagli Apostoli, i quali lo hanno accolto da Cristo che essi hanno «visto, contemplato e ascoltato» (1 Io. 1, l-3). Questa è la fede della Chiesa, la fede apostolica. L’insegnamento ricevuto da Cristo si mantiene intatto nella Chiesa per la presenza in essa dello Spirito Santo e per la speciale missione affidata a Pietro, per il quale Cristo ha pregato : «Ego rogavi pro te ut non deficiat fides tua» (Luc. 22, 32) e al Collegio degli Apostoli in comunione con lui: «qui vos audit me audit» (Ibid. 10, 16). La funzione di Pietro si perpetua nei suoi successori, tanto che i Vescovi del Concilio di Calcedonia poterono dire dopo aver ascoltato la lettera loro mandata da Papa Leone: «Pietro ha parlato per bocca di Leone» (Cfr. H. GRISAR, Roma alla fine del tempo antico, I, 359). E il nucleo di questa fede è Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, confessato così da Pietro: «Tu es Christus, Filius Dei vivi» (Matth. 16, 16).

Ecco, Fratelli e Figli, l’intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. «Fidem servavi»! possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito «il santo vero» (A. MANZONI). Ci sia consentito ricordare, a conferma di questa convinzione, e a conforto del nostro spirito che continuamente si prepara all’incontro col giusto Giudice (2 Tim. 4, 8), alcuni documenti salienti del pontificato, che hanno voluto segnare le tappe di questo nostro sofferto ministero di amore e di servizio alla fede e alla disciplina: tra le encicliche e le esortazioni pontificie, la «Ecclesiam Suam» (9 augusti 1964: AAS 56 (1964) 609.659), che, all’alba del pontificato, tracciava le linee di azione della Chiesa in se stessa e nel suo dialogo col mondo dei fratelli cristiani separati, dei non-cristiani, dei non-credenti; la «Mysterium Fidei» sulla dottrina eucaristica (3 septembris 1965: AAS 57 (1965) 753.774); la «Sacerdotalis Caelibatus» (24 iunii 1967: AAS 59 (1967) 657.697) sul dono totale di sé che distingue il carisma e l’ufficio presbiterale; la «Evangelica Testificatio» (29 iunii 1971: AAS 63 (1971) 497-526) sulla testimonianza che oggi la vita religiosa, in perfetta sequela di Cristo, è chiamata a dare davanti al mondo; la «Paterna cum Benevolentia» (8 decembris 1974: AAS 67 (1975) 5-23), alla vigilia dell’Anno Santo, sulla riconciliazione all’interno della Chiesa; la «Gaudente in Domino» (9 maii 1975: AAS 67 (1975) 289-322) sulla ricchezza zampillante e trasformatrice della gioia cristiana; e, infine la «Evangelii Nuntiandi» (8 decembris 1975: AAS 68 (1976) 5-76), che ha voluto tracciare il panorama esaltante e molteplice dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, oggi.

Ma soprattutto non vogliamo dimenticare quella nostra «Professione di fede» che, proprio dieci anni fa, il 30 giugno del 1968, noi solennemente pronunciammo in nome e a impegno di tutta la Chiesa come «Credo del Popolo di Dio» (PAOLO PP. VI, Credo del Popolo di Dio: AAS 60 (1968) 436-445), per ricordare, per riaffermare, per ribadire i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai più importanti Concili Ecumenici, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli, e richiedevano un ritorno alle sorgenti. Grazie al Signore, molti pericoli si sono attenuati; ma davanti alle difficoltà che ancor oggi la Chiesa deve affrontare sul piano sia dottrinale che disciplinare, noi ci richiamiamo ancora energicamente a quella sommaria professione di fede, che consideriamo un atto importante del nostro magistero pontificale, perché solo nella fedeltà all’insegnamento di Cristo e della Chiesa, trasmessoci dai Padri, possiamo avere quella forza di conquista e quella luce di intelligenza e d’anima che proviene dal possesso maturo e consapevole della divina verità. E vogliamo altresì rivolgere un appello, accorato ma fermo, a quanti impegnano se stessi e trascinano gli altri, con la parola, con gli scritti, con il comportamento, sulle vie delle opinioni personali e poi su quelle dell’eresia e dello scisma, disorientando le coscienze dei singoli, e la comunità intera, la quale dev’essere anzitutto koinonia nell’adesione alla verità della Parola di Dio, per verificare e garantire la koinonia nell’unico Pane e nell’unico Calice. Li avvertiamo paternamente: si guardino dal turbare ulteriormente la Chiesa; è giunto il momento della verità, e occorre che ciascuno conosca le proprie responsabilità di fronte a decisioni che debbono salvaguardare la fede, tesoro comune che il Cristo, il quale è Petra, è Roccia, ha affidato a Pietro, Vicarius Petrae, Vicario della Roccia, come lo chiama San Bonaventura (S. BONAVENTURAE Quaest. disp. de per/. evang., q. 4, a. 3; ed. Quaracchi, V, 1891, p. 195).

II. DIFESA DELLA VITA UMANA

In questo impegno offerto e sofferto di magistero a servizio e a difesa della verità, noi consideriamo imprescindibile la difesa della vita umana. Il Concilio Vaticano secondo ha ricordato con parole gravissime che «Dio padrone della Vita, ha affidato agli uomini l’altissima missione di proteggere la vita»! (Gaudium et Spes, 51) E noi, che riteniamo nostra precisa consegna l’assoluta fedeltà agli insegnamenti del Concilio medesimo, abbiamo fatto programma del nostro pontificato la difesa della vita, in tutte le forme in cui essa può esser minacciata, turbata o addirittura soppressa.

Rammentiamo anche qui i punti più significativi che attestano questo nostro intento.

a) Abbiamo anzitutto sottolineato il dovere di favorire la promozione tecnico-materiale dei popoli in via di sviluppo, con la enciclica «Populorum Progressio» (26 martii 1967: AAS 59 (1967) 257-299)

b) Ma la difesa della vita deve cominciare dalle sorgenti stesse della umana esistenza. È stato questo un grave e chiaro insegnamento del Concilio, il quale, nella Costituzione pastorale «Gaudium et Spes», ammoniva che «la vita, una volta concepita, dev’essere protetta con la massima cura; e l’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti» (Gaudium et Spes, 51). Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando, dieci anni fa, promanammo l’Enciclica «Humanae Vitae» (25 iulii 1968: AAS 60 (1968) 481-503): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e alla maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno.

c) Di qui le ripetute affermazioni della dottrina della Chiesa cattolica sulla dolorosa realtà e sui penosissimi effetti del divorzio e dell’aborto, contenute nel nostro magistero ordinario come in particolari atti della competente Congregazione. Noi le abbiamo espresse, mossi unicamente dalla suprema responsabilità di maestro e di pastore universale, e per il bene del genere umano!

d) Ma siamo stati indotti altresì dall’amore alla gioventù che sale, fidente in un più sereno avvenire, gioiosamente protesa verso la propria auto-realizzazione, ma non di rado delusa e scoraggiata dalla mancanza di un’adeguata risposta da parte della società degli adulti. La gioventù è la prima a soffrire degli sconvolgimenti della famiglia e della vita morale. Essa è il patrimonio più ricco da difendere e avvalorare. Perciò noi guardiamo ai giovani: sono essi il domani della comunità civile, il domani della Chiesa.

Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Vi abbiamo aperto il nostro cuore, in un panorama sia pur rapido dei punti salienti del nostro Magistero pontificale in ordine alla vita umana, perché un grido profondo salga dai nostri cuori verso il Redentore; davanti ai pericoli che abbiamo delineato, come di fronte a dolorose defezioni di carattere ecclesiale o sociale, noi, come Pietro, ci sentiamo spinti ad andare a Lui, come a unica salvezza, e a gridargli: «Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes» (Io. 6, 68). Solo Lui è la verità, solo Lui è la nostra forza, solo Lui la nostra salvezza. Da lui confortati, proseguiremo insieme il nostro cammino.

Ma oggi, in questo anniversario, noi vi chiediamo anche di ringraziarlo con noi, per l’aiuto onnipotente con cui ci ha finora fortificati, sicché possiamo dire, come Pietro, «nunc scio vere quia misit Deus angelum suum»( Act. 12, 11) Sì, il Signore ci ha assistiti: noi lo ringraziamo e lodiamo; e chiediamo a voi di lodarlo con noi e per noi, per l’intercessione dei Patroni di questa «Roma nobilis» e di tutta la Chiesa, su di essi fondata.

O Santi Pietro e Paolo, che avete portato nel mondo il nome di Cristo, e a Lui avete dato l’estrema testimonianza dell’amore e del sangue, proteggete ancora e sempre questa Chiesa, per la quale avete vissuto e sofferto; conservatela nella verità e nella pace; accrescete in tutti i suoi figli la fedeltà inconcussa alla Parola di Dio, la santità della vita eucaristica e sacramentale, l’unità serena nella fede, la concordia nella carità vicendevole, la costruttiva obbedienza ai Pastori; che essa, la santa Chiesa, continui a essere nel mondo il segno vivo, gioioso e operante del disegno redentivo di Dio e della sua alleanza con gli uomini. Così essa vi prega con la trepida voce dell’umile attuale Vicario di Cristo, che a voi, o Santi Pietro e Paolo, ha guardato come a modelli e ispiratori; e così custoditela, questa Chiesa benedetta, con la vostra intercessione, ora e sempre, fino all’incontro definitivo e beatificante col Signore che viene.

Amen, amen.
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con il successore...
 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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15/12/2008 11:02
 
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....è d'obbligo ora (un obbligo s'intende MORALE E DI ONESTA' INTELLETTUALE) proporre il testo del Decreto "Inter Mirifica" del Concilio Vaticano II sui mezzi di comunicazione sociale, "magna charta" per comprendere innanzitutto che cosa ha veramente detto la Chiesa.......e secondo aspetto per capire che cosa veramente INSEGNA.........
I testi sono ovviamente lunghi......ma dal momento che dimostriamo sempre di avere molto tempo per "altre" letture.....ne inserisco alcune parti....a voi l'impegno di approfondire con il testo integrale......
Significato dei termini

1. Tra le meravigliose invenzioni tecniche che, soprattutto nel nostro tempo, l'ingegno umano è riuscito, con l'aiuto di Dio, a trarre dal creato, la Chiesa accoglie e segue con particolare sollecitudine quelle che più direttamente riguardano le facoltà spirituali dell'uomo e che hanno offerto nuove possibilità di comunicare, con massima facilità, ogni sorta di notizie, idee, insegnamenti. Tra queste invenzioni occupano un posto di rilievo quegli strumenti che, per loro natura, sono in grado di raggiungere e influenzare non solo i singoli, ma le stesse masse e l'intera umanità. Rientrano in tale categoria la stampa, il cinema, la radio, la televisione e simili. A ragione quindi essi possono essere chiamati: strumenti di comunicazione sociale.

Perché il Concilio ne tratta


2. La Chiesa nostra madre riconosce che questi strumenti se bene adoperati, offrono al genere umano grandi vantaggi, perché contribuiscono efficacemente a sollevare e ad arricchire lo spirito, nonché a diffondere e a consolidare il regno di Dio. Ma essa sa pure che l'uomo può adoperarli contro i disegni del Creatore e volgerli a propria rovina; anzi, il suo cuore di madre è addolorato per i danni che molto sovente il loro cattivo uso ha provocato all'umanità. Perciò questo sacro Concilio, perseverando nelle sollecitudini dei sommi Pontefici e dei vescovi in un argomento di sì grande importanza, ritiene suo dovere trattare dei principali problemi relativi agli strumenti di comunicazione sociale. Confida inoltre che questa esposizione dei suoi principi dottrinali e delle sue norme non solo sarà di giovamento spirituale ai fedeli, ma contribuirà anche al progresso di tutta l'umanità.

CAPITOLO I
LA DOTTRINA DELLA CHIESA

Compiti della Chiesa


3. La Chiesa cattolica, essendo stata fondata da Cristo Signore per portare la salvezza a tutti gli uomini, ed essendo perciò spinta dall'obbligo di diffondere il messaggio evangelico, ritiene suo dovere servirsi anche degli strumenti di comunicazione sociale per predicare l'annuncio di questa salvezza ed insegnare agli uomini il retto uso di questi strumenti. Compete pertanto alla Chiesa il diritto innato di usare e di possedere siffatti strumenti, nella misura in cui essi siano necessari o utili alla formazione cristiana e a ogni altra azione pastorale. Così pure è dovere dei sacri pastori istruire e guidare i fedeli perché essi, anche con l'aiuto di questi strumenti, perseguano la salvezza e perfezione propria e di tutta la famiglia umana. Peraltro è compito anzitutto dei laici animare di valori umani e cristiani tali strumenti, affinché rispondano pienamente alla grande attesa dell'umanità e ai disegni di Dio.

Legge morale

4. Per usare rettamente questi strumenti è assolutamente necessario che coloro i quali se ne servono conoscano le norme della legge morale e le osservino fedelmente in questo settore. Tengano perciò presente il contenuto, comunicato secondo la natura propria di ciascuno strumento; considerino inoltre tutto il contesto --come, ad esempio, il fine, le persone, il luogo, il tempo ecc.-- nel quale si attua la comunicazione stessa, perché il contesto è capace di modificarne, o addirittura di cambiare totalmente, il valore morale. A questo proposito segnaliamo in particolare il modo di agire proprio di ogni strumento, cioè la sua forza di suggestione, che può essere tale che gli uomini, soprattutto se insufficientemente preparati, riescano con difficoltà ad avvertirla, a dominarla e, quando occorresse, a respingerla.

Diritto all'informazione


5. È anzitutto necessario che tutti gli interessati si formino una retta coscienza circa l'uso di questi strumenti, soprattutto a proposito di alcune questioni oggi particolarmente controverse. La prima di queste riguarda l'informazione, cioè la ricerca e la diffusione di notizie.

Non c'è dubbio che l'informazione, dato il progresso raggiunto dalla società moderna, ed attese le sempre più strette relazioni d'interdipendenza tra i suoi membri, è diventata utilissima ed anzi, per lo più, una necessità. Infatti la pubblica e tempestiva comunicazione degli avvenimenti e dei fatti offre ai singoli uomini quella più adeguata e costante conoscenza, che permette loro di contribuire efficacemente al bene comune e di promuovere tutti insieme più agevolmente la prosperità e il progresso di tutta la società. È perciò inerente alla società umana il diritto all'informazione su quanto, secondo le rispettive condizioni, interessa gli uomini, sia come individui che come membri di una società. Tuttavia il retto esercizio di questo diritto esige che la comunicazione sia sempre verace quanto al contenuto e, salve la giustizia e la carità, completa; inoltre, per quanto riguarda il modo, sia onesta e conveniente, cioè rispetti rigorosamente le leggi morali, i diritti e la dignità dell'uomo, sia nella ricerca delle notizie, sia nella loro diffusione. Non ogni conoscenza infatti giova, «mentre la carità è costruttiva» (1 Cor 8,1).
Trattazione del male morale

7. Infine, l'esposizione, la descrizione o la rappresentazione del male morale possono indubbiamente, anche per il tramite degli strumenti di comunicazione sociale, servire per una più approfondita conoscenza ed analisi dell'uomo, ad illustrare e ad esaltare lo splendore della verità e del bene, mediante appropriati effetti drammatici. Tuttavia, se non si vuole che rechino più danno che vantaggio alle anime, è necessario attenersi fedelmente alla legge morale, soprattutto quando si tratta di cose che richiedono il dovuto rispetto o che si prestano a favorire le disordinate passioni dell'uomo, ferito dalla colpa originale.

Opinioni pubbliche


8. Poiché le opinioni pubbliche esercitano oggi un enorme influsso nella vita privata e pubblica dei cittadini di ogni categoria sociale, è necessario che tutti i membri della società compiano, anche in questo campo, i loro doveri di giustizia e di carità. Perciò tutti si adoperino, anche mediante l'uso di questi strumenti, alla formazione e diffusione di rette opinioni pubbliche.

Doveri degli utenti


9. Particolari doveri hanno tutti gli utenti --vale a dire i lettori, gli spettatori, gli uditori-- che con scelta personale e libera ricevono le comunicazioni diffuse da questi strumenti. Infatti, una scelta retta richiede che essi favoriscano in ogni modo quanto presenta un reale valore morale, culturale e artistico; che evitino, invece, quanto costituisce per loro causa o occasione di danno spirituale, oppure con il cattivo esempio induce altri in pericolo, o contribuisce a ostacolare le buone comunicazioni e a incoraggiare quelle cattive. Questo ultimo caso solitamente si verifica quando si versa il proprio denaro a quanti adoperano tali strumenti unicamente a scopo di lucro. Perciò gli utenti, per agire moralmente bene, non trascurino il loro dovere d'informarsi tempestivamente dei giudizi che a questo proposito vengono dati dalla competente autorità, e di attenervisi secondo le norme della retta coscienza. Al fine poi di resistere più facilmente alle suggestioni meno oneste e di favorire sicuramente quelle buone, procurino di formare e di orientare la propria coscienza con i mezzi adatti.

Doveri dei giovani e dei genitori


10. Gli utenti, particolarmente i giovani, si addestrino ad un uso moderato e disciplinato di questi strumenti; cerchino inoltre di approfondire le cose viste, udite, lette; ne discutano con i loro educatori e con persone competenti, e imparino a formarsi un giudizio retto. Dal canto loro i genitori ricordino che è loro dovere vigilare diligentemente perché spettacoli, stampa e simili, che siano contrari alla fede e ai buoni costumi, non entrino in casa e che i loro figli ne siano preservati altrove.

Doveri degli autori


11. Speciali responsabilità morali circa il retto uso degli strumenti di comunicazione sociale incombono sui giornalisti, gli scrittori, gli attori, i registi, gli editori e i produttori, i programmisti, i distributori, gli esercenti e i venditori, i critici e quanti altri in qualsiasi modo partecipano alla preparazione e trasmissione delle comunicazioni. È evidente, infatti, quali e quanto grandi responsabilità pesino su di loro nell'evolversi della società odierna, avendo essi la possibilità di indirizzare al bene o al male l'umanità con le loro informazioni e pressioni.

Dovranno pertanto conciliare i propri interessi economici, politici ed artistici in modo da evitare ogni opposizione al bene comune. Per raggiungere più facilmente questo intento, faranno bene a dare la loro adesione a quelle associazioni professionali capaci di imporre ai loro membri --se necessario anche impegnandosi all'osservanza di un «codice morale»-- il rispetto dell'onestà nelle loro attività e doveri professionali.

Inoltre ricordino sempre che gran parte dei lettori e degli spettatori è costituita da giovani, i quali hanno bisogno di una stampa e di spettacoli che offrano un sano divertimento e che orientino il loro spirito a nobili ideali. Procurino inoltre che le comunicazioni che riguardano la religione vengano affidate a persone degne e preparate e che siano attuate con il dovuto rispetto.

Doveri dell'autorità civile


12. Particolari doveri in questo settore incombono all'autorità civile in vista del bene comune, al quale questi strumenti sono ordinati. È infatti compito di tale autorità, nel proprio suo ambito, difendere e proteggere -- specialmente riguardo alla stampa--la vera e giusta libertà d'informazione che è indispensabile alla odierna società per il suo progresso; favorire i valori religiosi, culturali e artistici; assicurare agli utenti il libero uso dei loro legittimi diritti. È anche compito dell'autorità civile appoggiare quelle iniziative che, per quanto siano di grande utilità, specialmente alla gioventù, non potrebbero altrimenti essere realizzate. Infine lo stesso potere pubblico, che giustamente si interessa del benessere dei cittadini, ha il dovere di provvedere con giustizia e diligenza, mediante la promulgazione di leggi e l'efficace loro applicazione, che dal cattivo uso di questi strumenti non derivino gravi danni alla moralità pubblica e al progresso della società. Con tale attenta vigilanza non viene conculcata la libertà dei singoli e dei gruppi associati, soprattutto nel caso in cui mancassero sicure garanzie da parte di coloro che per professione utilizzano questi strumenti. Una speciale attenzione, inoltre, sia usata nel difendere gli adolescenti dalla stampa e dagli spettacoli nocivi alla loro età.


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Tutto questo veniva scritto il 4 Dicembre del 1963....e sembra veramente un testo scritto oggi....più attuale che mai e questo perchè lo Spirito Santo quando si esprime attraverso la Chiesa ha valore SEMPRE.....

La Chiesa di tutti questi Documenti non ha mai dovuto cambiare una sola riga.....e li ripropone sempre perchè effettivamente, come fedeli, ABBIAMO DISATTESO QUESTO MAGISTERO.....


 
Benedetto XVI, oggi all'Angelus 6.11.2005
Cari fratelli e sorelle!

Il 18 novembre 1965 il Concilio Ecumenico Vaticano II approvò la Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, Dei Verbum, che costituisce una delle colonne portanti dell’intero edificio conciliare.
Questo Documento tratta della Rivelazione e della sua trasmissione, dell’ispirazione e dell’interpretazione della Sacra Scrittura e della sua fondamentale importanza nella vita della Chiesa. Raccogliendo i frutti del rinnovamento teologico precedente, il Vaticano II pone al centro Cristo, presentandolo quale "il mediatore e insieme la pienezza di tutta la rivelazione" (n. 2). Infatti il Signore Gesù, Verbo fatto carne, morto e risorto, ha portato a compimento l’opera di salvezza, fatta di gesti e di parole, e ha manifestato pienamente il volto e la volontà di Dio, così che fino al suo ritorno glorioso non è da aspettarsi alcuna nuova rivelazione pubblica (cfr n. 3).
Gli Apostoli e i loro successori, i Vescovi, sono i depositari del messaggio che Cristo ha affidato alla sua Chiesa, perché fosse trasmesso integro a tutte le generazioni.
La Sacra Scrittura dell’antico e del nuovo Testamento e la sacra Tradizione contengono tale messaggio, la cui comprensione progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo. Questa stessa Tradizione fa conoscere il canone integrale dei Libri sacri e li rende rettamente comprensibili e operanti, così che Dio, il quale ha parlato ai Patriarchi e ai Profeti, non cessa di parlare alla Chiesa e, per mezzo di questa, al mondo (cfr n. 8).

La Chiesa non vive di se stessa ma del Vangelo e dal Vangelo sempre trae orientamento per il suo cammino. La Costituzione conciliare Dei Verbum ha impresso un forte impulso alla valorizzazione della Parola di Dio, da cui è derivato un profondo rinnovamento della vita della Comunità ecclesiale, soprattutto nella predicazione, nella catechesi, nella teologia, nella spiritualità e nelle relazioni ecumeniche. È infatti la Parola di Dio che, per l’azione dello Spirito Santo, guida i credenti verso la pienezza della verità (cfr Gv 16,13). Tra i molteplici frutti di questa primavera biblica mi piace menzionare la diffusione dell’antica pratica della lectio divina, o "lettura spirituale" della Sacra Scrittura.
Essa consiste nel rimanere a lungo sopra un testo biblico, leggendolo e rileggendolo, quasi "ruminandolo" come dicono i Padri, e spremendone, per così dire, tutto il "succo", perché nutra la meditazione e la contemplazione e giunga ad irrigare come linfa la vita concreta. Condizione della lectio divina è che la mente ed il cuore siano illuminati dallo Spirito Santo, cioè dallo stesso Ispiratore delle Scritture, e si pongano perciò in atteggiamento di "religioso ascolto".

Questo è l’atteggiamento tipico di Maria Santissima, così come lo mostra emblematicamente l’icona dell’Annunciazione: la Vergine accoglie il Messaggero celeste mentre è intenta a meditare le Sacre Scritture, raffigurate solitamente da un libro che Maria tiene in mano, o in grembo, o sopra un leggìo. È questa anche l’immagine della Chiesa offerta dal Concilio stesso, nella Costituzione Dei Verbum: "In religioso ascolto della Parola di Dio…" (n. 1). Preghiamo perché, come Maria, la Chiesa sia docile ancella della divina Parola e la proclami sempre con ferma fiducia, così che "il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami" (ibid.).

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Collegamento
Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione - Dei Verbum 




Benedetto XVI, all'angelus , invita i FEDELI LAICI A RISCOPRIRE LA PROPRIA MISSIONE......rimarcando il RUOLO PREZIOSO DEI LAICI......

La vocazione e la missione dei fedeli laici al centro della riflessione del papa, che sottolinea come la loro fecondità dipenda ''da una robusta spiritualità''. Una testimonianza individuale, ma anche comunitaria, attraverso l’apostolato organizzato, ''necessario per incidere sulla mentalità generale, sulle condizioni sociali e sulle istituzioni''. Per questo, spiega il pontefice, il Concilio Vaticano II ha incoraggiato ''le molteplici associazioni dei laici, insistendo pure sulla loro formazione''. In ogni battezzato, è l'auspicio di Benedetto XVI, cresca ''la consapevolezza di essere chiamato a lavorare con impegno e con frutto nella vigna del Signore''
dove leggiamo:

1. I FEDELI LAICI (Christifideles laici), la cui « vocazione e missione nella Chiesa e nel mondo a vent'anni dal Concilio Vaticano II » è stato l'argomento del Sinodo dei Vescovi del 1987, appartengono a quel Popolo di Dio che è raffigurato dagli operai della vigna, dei quali parla il Vangelo di Matteo: « Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna » (Mt 20, 1-2).


La parabola evangelica spalanca davanti al nostro sguardo l'immensa vigna del Signore e la moltitudine di persone, uomini e donne, che da Lui sono chiamate e mandate perché in essa abbiano a lavorare. La vigna è il mondo intero (cf. Mt 13, 38), che dev'essere trasformato secondo il disegno di Dio in vista dell'avvento definitivo del Regno di Dio.


Andate anche voi nella mia vigna


2. « Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: "andate anche voi nella mia vigna" » (Mt 20, 3-4).


**************

Giovanni Paolo II come oggi Papa Benedetto XVI, ci conduce per mano al cuore dei Documenti del Concilio Vaticano II, scrive nella Lettera della Christifidelis Laici:


Non c'è posto per l'ozio, tanto è il lavoro che attende tutti nella vigna del Signore. Il «padrone di casa» ripete con più forza il suo invito: «Andate anche voi nella mia vigna».

La voce del Signore risuona certamente nell'intimo dell'essere stesso d'ogni cristiano, che mediante la fede e i sacramenti dell'iniziazione cristiana è configurato a Gesù Cristo, è inserito come membro vivo nella Chiesa ed è soggetto attivo della sua missione di salvezza. La voce del Signore passa però anche attraverso le vicende storiche della Chiesa e dell'umanità, come ci ricorda il Concilio: «Il Popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l'universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell'uomo, e perciò guida l'intelligenza verso soluzioni pienamente umane»(6).


E' necessario, allora, guardare in faccia questo nostro mondo, con i suoi valori e problemi, le sue inquietudini e speranze, le sue conquiste e sconfitte: un mondo le cui situazioni economiche, sociali, politiche e culturali presentano problemi e difficoltà più gravi rispetto a quello descritto dal Concilio nella Costituzione pastorale Gaudium et spes(7). E' comunque questa la vigna, è questo il campo nel quale i fedeli laici sono chiamati a vivere la loro missione. Gesù li vuole, come tutti i suoi discepoli, sale della terra e luce del mondo (cf. Mt 5, 13-14). Ma qual è il volto attuale della «terra» e del «mondo», di cui i cristiani devono essere «sale» e «luce»?


4. Come non pensare alla persistente diffusione dell'indifferentismo religioso e dell'ateismo nelle sue più diverse forme, in particolare nella forma, oggi forse più diffusa, del secolarismo? Inebriato dalle prodigiose conquiste di un inarrestabile sviluppo scientifico-tecnico e soprattutto affascinato dalla più antica e sempre nuova tentazione, quella di voler diventare come Dio (cf. Gen 3, 5) mediante l'uso d'una libertà senza limiti, l'uomo taglia le radici religiose che sono nel suo cuore: dimentica Dio, lo ritiene senza significato per la propria esistenza, lo rifiuta ponendosi in adorazione dei più diversi «idoli».


E' veramente grave il fenomeno attuale del secolarismo: non riguarda solo i singoli, ma in qualche modo intere comunità, come già rilevava il Concilio: «Moltitudini crescenti praticamente si staccano dalla religione»(8). Più volte io stesso ho ricordato il fenomeno della scristianizzazione che colpisce i popoli cristiani di vecchia data e che reclama, senza alcuna dilazione, una nuova evangelizzazione.

Eppure l'aspirazione e il bisogno religiosi non possono essere totalmente estinti. La coscienza di ogni uomo, quando ha il coraggio di affrontare gli interrogativi più gravi dell'esistenza umana, in particolare l'interrogativo sul senso del vivere, del soffrire e del morire, non può non fare propria la parola di verità gridata da Sant'Agostino: «Tu ci hai fatto per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te»(9). Così anche il mondo attuale testimonia, in forme sempre più ampie e vive, l'apertura ad una visione spirituale e trascendente della vita, il risveglio della ricerca religiosa, il ritorno al senso del sacro e alla preghiera, la richiesta di essere liberi nell'invocare il Nome del Signore.


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Riflettiamo, meditiamo e poniamoci le medesime domande per dare in concreto delle risposte..

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Arrow Il futuro del Concilio passa dai giovani


 18/11/2005

I vescovi italiani affidano alle nuove generazioni il compito di far proprio lo spirito del Concilio Vaticano II. "La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore… essa è la vera giovinezza del mondo"...

ASSISI - Il patrimonio del Concilio Vaticano II consegnato ai giovani. È quanto hanno fatto i vescovi italiani con un messaggio scritto in occasione dei 40 anni dal grande evento ecclesiale che ridisegnò il volto della Chiesa. "Anche se non è stato possibile arrestare i processi di secolarizzazione e purtroppo di scristianizzazione - sottolineano i vescovi nel testo, letto mercoledì sera ad Assisi - il rinnovamento conciliare ha indubbiamente aiutato a comprendere le radici di questi fenomeni". Per questo si rende necessario un "impegno capillare e generoso dei laici cristiani e delle loro molteplici aggregazioni". La Chiesa, hanno ribadito gli oltre 250 vescovi riuniti nella città umbra, si deve impegnare "con piena consapevolezza e responsabilità nell'attività di evangelizzazione e di missione". Un riferimento, seppur non esplicito, al ruolo che i cristiani devono svolgere nella vita pubblica italiana e un richiamo diretto "all'impegno ecumenico a cui tutti siamo chiamati". Infine un appello alla pace fra gli uomini e i popoli: "Il rifiuto della violenza - prosegue il testo letto da monsignor Sergio Goretti, vescovo di Assisi - il rifiuto della violenza si coniuga all'urgenza di promuovere la giustizia e la riconciliazione come unica via possibile ad una pace autentica e duratura".


Il testo integrale del messaggio dei vescovi

Carissimi nel Signore,

quarant’anni fa, l’8 dicembre 1965, Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II. Quasi tutti eravamo, allora, seminaristi o giovani preti. Oggi che lo Spirito Santo ci ha posto come Vescovi a pascere le Chiese di Dio che sono in Italia (cfr At 20,28) ricordiamo ancora con commozione quei giorni; abbiamo davanti agli occhi immagini piene di fascino, come quella dei duemila Vescovi che entrano in processione in San Pietro o quella di Papa Giovanni che, dalla finestra del Palazzo Apostolico, saluta i fedeli venuti per essere testimoni di quell’avvenimento. Ma soprattutto portiamo ancora nel cuore i desideri, le attese, le speranze che il Concilio aveva suscitato in noi. Eravamo – e lo siamo nello stesso modo oggi – gioiosi e fieri della Chiesa e della testimonianza di universalità, di unità, di amore al Vangelo che essa offriva al mondo; ed eravamo convinti di vivere una primavera, una stagione bella, ricca di promesse e di speranze.

Abbiamo capito meglio, in quegli anni, che cosa sia la Chiesa, istituzione antica e sempre nuova, che noi amiamo con affetto profondo. Essa è il popolo “in religioso ascolto della parola di Dio”, chiamato a proclamarla a tutti con ferma fiducia, secondo la testimonianza ricevuta fin dalle origini e così espressa dall’apostolo Giovanni: “Vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi; quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi e la nostra comunione sia col Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo” (Gv 1,1-3), “affinché mediante l’annuncio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami” (DV 1). Così il Concilio si è presentato e così noi desideriamo che la Chiesa sempre si manifesti: popolo che si pone in ascolto della Parola di Dio, la riceve e la proclama, e celebra i divini misteri per la salvezza del mondo.

Anzitutto l’ascolto: all’inizio, infatti, non ci siamo noi con i nostri progetti; all’inizio risuona quella parola che, scaturita dal silenzio di Dio, tocca i nostri cuori e li riempie di gioia stupita e riconoscente. C’è una parola di Dio per noi, una parola che ci coglie nell’intimo del nostro cuore e si rivolge alla nostra libertà suscitando la risposta della fede.

La costituzione dogmatica Dei Verbum confessa questa parola, per la quale “Dio invisibile per la ricchezza del suo amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (DV 2). In questo modo, il Concilio ci ha ricordato che l’uomo non è solo, gettato a vivere nella fredda immensità dell’universo, ma è chiamato da una parola amica a rispondere a un appello e a costruire insieme un mondo degno dell’uomo e di Dio. Le tante e varie parole che scandiscono la storia del rapporto tra Dio e l’uomo (cfr Eb 1,1-2) hanno il loro compimento e la loro perfezione nella Parola fatta carne, in Gesù di Nazaret (DV 4). Poiché è Dio in carne umana, egli ci rivela il volto di amore del Padre; e poiché è uomo a perfetta somiglianza di Dio, egli ci permette di sperare sempre nell’uomo e di comprenderne il compito sulla terra.

È il mistero di Cristo a unire indissolubilmente l’uomo e Dio e a rivelare la nostra vocazione, il compito che ci è affidato: la comunione. Comunione con Dio Padre, dal quale riceviamo con gratitudine la vita; comunione tra noi, perché Dio sia santificato nel mondo. Questo mistero di vita e di morte, di amore che ha vinto il peccato, ci è donato nell’Eucaristia e nei diversi sacramenti che da esso scaturiscono, esprimendone la ricchezza e attuandone la forza. La costituzione Sacrosanctum Concilium proclama proprio questo: che il mistero di Cristo non appartiene soltanto al passato come fatto storico, ma è vivo, presente, efficace come azione di salvezza di Dio. Per questo la Chiesa attraverso i secoli non smette di celebrare la liturgia, che “è il culmine cui tende la [sua] azione… e, insieme, la fonte da cui promana tutto il suo vigore” (SC 10): è consapevole che nel mistero di Cristo, reso presente tra noi per la forza dello Spirito Santo, sta l’origine inesauribile della sua vita, la forza della sua missione, la via della sua santità, la manifestazione piena della sua identità.

Nella Parola e nei sacramenti è Cristo stesso, vincitore del peccato e della morte, a operare ed edificare il suo corpo, la Chiesa, che in Maria contempla il proprio ideale mentre la venera come Madre. Fatta di uomini con le loro doti e i loro limiti, la Chiesa è però dono di Dio, presa di mezzo al mondo, riempita dello Spirito del Risorto, costruita come comunione di fede e di amore per essere nel mondo, segno e strumento di unità. “Popolo radunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, essa – come ci insegna la costituzione dogmatica Lumen gentium - esiste per riunire gli uomini con Dio e fra di loro e per attirare il mondo intero al Padre (cfr LG1). L’unica Chiesa, una santa cattolica e apostolica, articolata nella molteplicità dei ministeri e arricchita dalla varietà dei carismi, si fa presente in tutte le Chiese particolari, guidate dai loro Vescovi: e l’unità generata dall’unica Parola e dall’unico Pane di vita è espressa dalla comunione collegiale dei Vescovi con il Vescovo di Roma, il successore di Pietro.

Il Signore chiama tutti alla sua Chiesa: di qui nasce la passione che ogni battezzato deve sentire per la causa del Vangelo, impegnandosi per essa con piena consapevolezza e responsabilità nell’attività di evangelizzazione e di missione. Da qui scaturisce la passione per l’unità del corpo ecclesiale di Cristo, e dunque l’impegno ecumenico, a cui tutti siamo chiamati. Da qui viene l’urgenza di riscoprire il legame della Chiesa con la sua santa radice, la fede d’Israele, e di avere a cuore il dialogo e l’amicizia con i “fratelli maggiori”, gli ebrei. Da questa vocazione alla comunione con Dio nasce anche l’urgenza del dialogo con i credenti di tutte le religioni. Da qui, infine, sorge il bisogno di sviluppare un dialogo rispettoso, mai separato dalla proclamazione del Vangelo con le donne e gli uomini di buona volontà a qualunque cultura, situazione storica o posizione appartengano.



La Chiesa vive così nella storia al servizio della salvezza per la gloria di Dio: scaturisce da qui l’ispirazione della costituzione pastorale del Concilio Gaudium et spes, che offre uno sguardo fiducioso sul panorama dell’esistenza umana per cogliere nelle culture l’anelito all’unità e alla comunione, per valorizzare tutti i germi di bene, per moltiplicare le esperienze di donazione, di amore, “al fine di stabilire quella fraternità universale che corrisponde a tale vocazione” (GS 3), e accoglie il contributo che le può venire dall’uomo e dalla sua storia (cfr GS 44). In modo particolare si colloca in questa luce l’impegno della Chiesa al servizio della pace fra gli uomini e i popoli: il rifiuto della violenza si coniuga all’urgenza di promuovere la giustizia e la riconciliazione come unica via possibile a una pace autentica e duratura.

La ricezione del Concilio, ossia la sua assimilazione e attuazione concreta nella vita e nella missione della Chiesa, è stata ed è un’opera complessa e spesso travagliata; ma i frutti positivi sono comunque assai grandi e ben più rilevanti delle difficoltà: abbiamo dunque tutti i motivi per ringraziare il Signore del dono che ci ha fatto attraverso il Vaticano II.

In Italia il rinnovamento conciliare, per cui tanto si è speso, con non poca sofferenza, Paolo VI e poi, con altrettanta fedeltà, Giovanni Paolo II, ha inciso in maniera profonda sul volto e sulla realtà delle nostre Chiese, e anche sui modi e sulle forme della presenza cristiana nella vita del Paese: anche se non è stato possibile arrestare i processi di secolarizzazione e purtroppo di scristianizzazione, il rinnovamento conciliare ha indubbiamente aiutato a comprendere le radici di questi fenomeni e soprattutto ha stimolato una risposta pastorale e culturale, in chiave di missione e di evangelizzazione. Gli aspetti di travaglio, di contestazione e di crisi del periodo successivo al Concilio in Italia non hanno bloccato la rinnovata consapevolezza della comunione ecclesiale e della responsabilità missionaria condivisa da tutti i credenti, in particolare mediante l’impegno capillare e generoso dei laici cristiani e delle loro molteplici aggregazioni. Il panorama, rispetto a quarant’anni fa, è assai cambiato, ma è rimasta viva e feconda l’eredità del Concilio, che ci ha insegnato a “discernere negli avvenimenti … i veri segni della presenza e del disegno di Dio” (GS 11) e al contempo ci ha ammonito che “al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli (cfr Eb 13,8)” (GS 10). La Chiesa è chiamata pertanto a continuare oggi, e sempre di nuovo, quella grande opera di discernimento e di orientamento profetico che il Vaticano II, sotto la guida dello Spirito Santo, ha saputo compiere tanto fruttuosamente, testimone della speranza che non delude in questo mondo che cambia.

Sono queste alcune delle considerazioni che ci hanno motivato a fare memoria con voi e per voi di questa “grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo ventesimo. In esso – come ci ha ricordato Giovanni Paolo II – ci è offerta una sicura ‘bussola’ per orientarci nel cammino del secolo che si apre” (NMI 57). È una convinzione che Benedetto XVI ci ha riproposto con forza nel suo primo messaggio. Per questo sentiamo di dover riconsegnare il patrimonio del Concilio alle nostre comunità cristiane, soprattutto ai giovani. È grande in noi tutti il desiderio che il cammino verso la comunione con Dio – amore infinito – e verso la comunione tra gli uomini si rinnovi con fresca energia.

Questo compito noi ora lo affidiamo a voi, giovani. Ve lo ripetiamo con le parole sempre attuali e belle che il Concilio vi ha rivolto: “La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore… essa è la vera giovinezza del mondo. Essa possiede ciò che fa la forza e la bellezza dei giovani: la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di darsi senza ritorno, di rinnovarsi e ripartire verso nuove conquiste. Guardatela e voi ritroverete in essa il volto di Cristo, il vero eroe umile e saggio, profeta della verità e dell’amore, il compagno e l’amico dei giovani” (Messaggi del Concilio all’umanità, Ai giovani). Per questo vi invitiamo a conoscere meglio e ad amare il Concilio, traendone ispirazione sempre nuova per la vostra fede, per la costruzione del popolo di Dio e per il servizio al Regno nella storia, secondo la volontà del Signore.

            

 

A quarant’anni dal Vaticano II Walter Brandmüller sottolinea l’originalità di un’assise che «non emanò né leggi né giudizi, ma fece del Vangelo la guida al mondo d’oggi»

Concilio, passi dentro la storia

«Non furono espresse condanne dottrinali: come disse Giovanni XXIII, oggi la Chiesa preferisce piuttosto dimostrare la validità delle sue dottrine e far uso della medicina della grazia»

«Anche Joseph Ratzinger rilevò che possiamo rendere davvero degno di fede il Vaticano II se lo rappresentiamo chiaramente così com’è: parte della tradizione unica e totale della Chiesa »

Di Walter Brandmüller*

Il Vaticano II (1962-1965) è stato il Concilio dei superlativi. Mai nella storia della Chiesa un Concilio era stato preparato così intensamente. Certo, anche il Vaticano I (1869-1870) è stato molto ben preparato e probabilmente la qualità teologica dei suoi schemi preparatori era addirittura migliore. Ma il numero delle sollecitazioni e delle proposte inviate da tutto il mondo e la loro utilizzazione nel Vaticano II superarono quanto che c'era stato fino ad allora.


Il Vaticano II si è dimostrato visibilmente il Concilio dei superlativi già quando l'enorme numero di 2440 vescovi entrarono nella basilica di San Pietro. Se il Vaticano I con i suoi 642 padri circa aveva trovato posto nel transetto destro della basilica, ora aula conciliare era l'intera navata centrale. Nel secolo intercorso fra i due Concili la Chiesa non rivendicava soltanto il ruolo di Chiesa universale ma lo era diventata davvero. E mai si era verificato, come nel 1962, che un migliaio di giornalisti di tutto il mondo fosse accreditato al Concilio. Così il Vaticano II è stato anche il Concilio più conosciuto di tutti i tempi, divenendo un evento mediatico mondiale di prima grandezza.


Altre particolarità di questo Concilio lo fanno spiccare sugli altri. I Concili esercitano le supreme funzioni magisteriali, legislative, giudiziarie, sotto e con il Papa, al quale tutte queste funzioni spettano anche senza Concilio. Non tutti i Concili hanno esercitato ciascuna di queste funzioni. Se il primo Concilio di Lione (1245), con la scomunica e deposizione dell'imperatore Federico II, ha agito come tribunale e ha emanato leggi, il Vaticano I non ha giudicato né emanato leggi, ma ha deliberato esclusivamente su questioni di dottrina. Il Concilio di Vienne (1311-1312) invece ha giudicato, emanato leggi e deliberato su questioni di fede, e lo stesso hanno fatto i Concili del Quattrocento.


Il Vaticano II invece non ha giudicato né emanato leggi e neppure deliberato in modo definitivo su questioni di fed e e piuttosto ha realizzato un nuovo tipo di Concilio, considerandosi un Concilio pastorale, quindi spirituale, che voleva avvicinare la dottrina del Vangelo in modo attraente perché facesse da guida al mondo di oggi. In particolare non ha espresso condanne dottrinali, come disse con chiarezza Giovanni XXIII nel discorso di apertura: «La Chiesa si è sempre opposta alle eresie. Spesso le ha condannate con la massima durezza»; oggi invece «la Chiesa preferisce fare uso della medicina della grazia», perché «crede che essa corrisponda alle esigenze dell'epoca attuale, preferendo dimostrare la validità delle sue dottrine piuttosto che esprimere condanne». Anche se, alla luce degli sviluppi storici, il Vaticano II si sarebbe rivelato lungimirante se, sulle orme di Pio XII, avesse trovato il coraggio di condannare espressamente il comunismo.


Invece il timore di pronunciare condanne dottrinali e definizioni dogmatiche ha fatto sì che alla fine i testi conciliari risultino tra loro diversi: così, per esempio, le costituzioni dogmatiche Lumen gentium sulla Chiesa e Dei Verbum sulla rivelazione divina possiedono il carattere e la natura di documenti dottrinali, ma senza definizioni vincolanti, mentre secondo il canonista Klaus Mörsdorf la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae «prende posizione senza un contenuto normativo evidente». I testi del Vaticano II possiedono quindi un grado molto diverso di obbligatorietà e anche questo è un elemento assolutamente nuovo nella storia dei Concili.


Paragoniamo poi il Vaticano II con il primo Concilio di Nicea (325), con il Tridentino (1545-1563) e il Vaticano I tenendo conto delle rispettive conseguenze. Salta agli occhi che dopo i due Concili vaticani si è arrivati a uno scisma. Nel 1871 i "vecchi cattolici" per protesta contro le definizioni del primato e dell'infallibilità del Papa si separarono dalla Chiesa, e nel 1988 l'arcivescovo Lefebvre e i suoi sostenitori hanno scelto lo s cisma. Per quanto appaiano opposti, i due movimenti concordano nel rifiuto dei legittimi sviluppi nella dottrina e nella vita della Chiesa, fondato su un rapporto distorto con la storia.

La speranza deve scaturire proprio dall'esperienza della storia e i Concili hanno bisogno di un lungo respiro, il respiro della storia. Dopo il primo Concilio di Nicea sono cominciate lotte religiose che crebbero di asprezza e violenza prima che alla fine s'imponesse il dogma niceno confermato dal Concilio di Calcedonia (451), attraverso vicende durate oltre un secolo. Si può fare un paragone anche con la fase successiva al Tridentino, che ha avuto come conseguenza una straordinaria fioritura missionaria, religiosa e culturale dell'Europa rimasta cattolica: Hubert Jedin ha parlato di "miracolo di Trento". Ma sbaglieremmo se ritenessimo che questa fioritura si sia prodotta di colpo: dopo la conclusione del Concilio passò quasi un secolo prima che i suoi decreti dogmatici e di riforma mostrassero efficacia su larga scala.


Quasi ogni Concilio, e naturalmente anche il Vaticano II, per struttura, svolgimento e contenuto possiede la sua inconfondibile peculiarità, ma ha in comune con tutti gli altri il fatto che sotto l'aspetto formale in ognuno è stata esercitata collegialmente la suprema autorità dottrinale e pastorale. Dal punto di vista dei contenuti si tratta della presentazione, dell'interpretazione e dell'applicazione della tradizione, alla quale ogni concilio dà il suo contributo specifico. Questo non può ovviamente consistere in un'aggiunta di nuovi contenuti al patrimonio di fede della Chiesa.

E neppure in un'eliminazione delle dottrine fino a quel momento tramandate. È piuttosto un processo di sviluppo, chiarimento e distinzione che si sta compiendo, con l'assistenza dello Spirito Santo, e attraverso questo processo ogni concilio con il suo definitivo annuncio dottrinale s'inserisce come parte integrante nella tradizione complessiva della Chiesa. Per questo i Concili guardan o sempre avanti, verso un annuncio dottrinale più ampio, più chiaro, più attuale, mai all'indietro. Un Concilio non può contraddire i suoi antecedenti, ma solo integrare, precisare, proseguire.
Tutto ciò vale anche per il Vaticano II. Anch'esso non è né più né meno che un Concilio fra gli altri, accanto e dopo altri, non al di sopra né al di fuori, ma all'interno della serie dei Concili generali della Chiesa. Anche il Vaticano II riconosce la sua collocazione nel solco della tradizione. La quantità di richiami alla tradizione nei testi del Vaticano II è impressionante.

Il Concilio accoglie diffusamente la tradizione citando i Concili, in particolare il Fiorentino (1439-1442), il Tridentino e il Vaticano I, le encicliche di numerosi Papi, la letteratura patristica e i grandi teologi, primo fra tutti Tommaso d'Aquino, come fonti alle quali attinge.


Il cardinale Joseph Ratzinger, in un incontro di qualche anno fa, ha parlato di «un isolamento oscuro del Vaticano II» e ha detto: «Alcune descrizioni suscitano l'impressione che dopo il Vaticano II tutto sia diventato diverso e che tutto ciò che è venuto prima non potesse essere più considerato o potesse esserlo soltanto alla luce del Vaticano II. Il Vaticano II non viene trattato come una parte della complessiva tradizione vivente della Chiesa, ma come un inizio totalmente nuovo. Sebbene non abbia emanato alcun dogma e abbia voluto considerarsi più modestamente al rango di Concilio pastorale, alcuni lo rappresentano come se fosse per così dire il superdogma, che rende tutto il resto irrilevante», mentre «possiamo rendere davvero degno di fede il Vaticano II se lo rappresentiamo molto chiaramente così com'è: un pezzo della tradizione unica e totale della Chiesa e della sua fede».


In effetti, negli anni postconciliari era di moda paragonare la Chiesa a un cantiere, in cui si facevano demolizioni e nuove costruzioni o ricostruzioni. Spesso l'ordine di Dio ad Abramo di andarsene dal suo paese era interpretato come un'esor tazione alla Chiesa ad abbandonare il suo passato e la sua tradizione. Si parlava con entusiasmo di partenza della nave di Pietro e del suo viaggio verso nuove sponde. Si predicava la partenza in direzione dell'ignoto, del lontano, del nuovo e la parola tradizione era diventata un insulto. Al contrario, bisogna ribadire con forza che un'interpretazione del Vaticano II al di fuori della tradizione contrasterebbe con l'essenza della fede. Su questo sfondo anche la distinzione così in voga tra "preconciliare" e "postconciliare" è molto dubbia sul piano teologico e su quello storico. Un Concilio non è mai un punto di arrivo o di partenza sul quale possa essere scandita la storia della Chiesa o addirittura la storia della salvezza.


Ci sarà un Vaticano III? Non sorprende che alcuni abbiano avanzato una richiesta di questo tipo, anche da parti opposte. Secondo alcuni dovrebbe riunirsi un nuovo Concilio che finalmente abbatta le barriere, realizzi la democratizzazione della Chiesa, consenta l'accesso ai sacramenti a coloro che dopo un matrimonio fallito hanno contratto una nuova unione, apra la strada al matrimonio dei sacerdoti e al sacerdozio femminile, e porti alla riunificazione dei cristiani divisi. Altri pensano che la confusione e la crisi dell'irrequieto periodo postconciliare avrebbero bisogno urgentemente di un Vaticano III che metta ordine e faccia da guida.

Una cosa è certa: anche questo nuovo eventuale concilio - magari Nairobiense o Moscoviense - si collocherebbe nel solco della tradizione e sarebbe solo un altro elemento di questa venerabile serie. In ogni caso il Vaticano II non è stato né l'inizio né la fine della storia conciliare e abbiamo il compito di realizzarlo, prima di parlare del futuro.

*presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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15/12/2008 11:09
 
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Thumbs up Per una corretta interpretazione del Concilio Vaticano II...è un pò lungo ma credetemi, ne vale la pena..... 

Per una corretta interpretazione del Concilio Vaticano II

L'Arcivescovo Marchetto presenta a Roma un libro sul tema



CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 giugno 2005 (ZENIT.org).- L'arcivescovo
Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per
i Migranti e gli Itineranti, ha scritto un libro sul Concilio Vaticano II
che vuole presentare la visione corretta dal punto di vista del Vaticano del
grande concilio che ha segnato un cambiamento all'interno della Chiesa.


"Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia", edito
dalla Libreria Editrice Vaticana, vuole superare "i gravi condizionamenti
prodotti da una visione ideologica che si è imposta monopolisticamente sul
mercato delle pubblicazioni".


"La mia è una storia della storiografia del Concilio, specialmente quanto si
è scritto dal 1990 fino a oggi", ha detto il prelato a ZENIT.


L'Arcivescovo ha aggiunto che la sua è "una interpretazione che vuole essere
un contrappunto per mettere in armonia alcuni aspetti che non sono corretti,
come la contrapposizione che alcuni autori hanno fatto tra Giovanni XXIII e
Paolo VI".


Agostino Marchetto è nato a Vicenza nel 1940 ed è diplomatico di carriera.


Il libro critica ampiamente alcuni libri sui concili e soprattutto sul
Concilio Vaticano II. Tra questi, le opere pubblicate da Giuseppe Alberigo,
del Gruppo di Bologna, che secondo monsignor Marchetto parte da punti di
vista sbagliati come "lo spostamento del baricentro conciliare dall'
Assemblea alle Commissione e ai diari personali, alla tendenza a considerare
nuovi schemi che tali non sono, al giudizio di acefalia dell'assemblea
conciliare e alla visione di parte circa la libertà religiosa".


Parole di apprezzamento vengono invece riservate al nuovo Centro di Ricerche
sul Concilio Vaticano II, alla Pontificia Università Lateranense e all'
Istituto Paolo VI.


Agostino Marchetto non vuole etichettare come "rottura o rivoluzione" il
Concilio Vaticano II, che definisce un "aggiornamento" in linea con la fede
di sempre.


Alla presentazione del libro, nel Campidoglio di Roma, hanno partecipato il
cardinale Camillo Ruini, Vicario di Roma, il Senatore a vita Francesco
Cossiga, il professore e storico Andrea Riccardi, fondatore della comunità
di "Sant'Egidio", insieme a monsignor Walter Brandmüller, Presidente del
Pontificio Comitato di Scienze Storiche.


Arcivescovo Marchetto: il Concilio Vaticano II non ha segnato "il nascere di
una nuova Chiesa"
In un libro di recente pubblicazione
ROMA, martedì, 12 luglio 2005 (ZENIT.org).- L'Arcivescovo Agostino
Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli
Itineranti mostra in un libro appena pubblicato le distorsioni
storiografiche esistenti nell'interpretazione del Concilio Vaticano II,
considerato come uno degli eventi più rilevanti nella storia della Chiesa
cattolica.


Nel presentare il volume "Concilio Vaticano II contrappunto per la sua
storia" (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2005, pp. 410, Euro
35,00), il 17 giugno a Roma, il Cardinale Camillo Ruini, Presidente della
Conferenza Episcopale Italiana, ha detto: "A quarant'anni dalla sua
chiusura, il Concilio Vaticano II è ancora in attesa di una sua storia non
di parte ma di verità".


Marchetto definisce "scentrata" "squilibrata" e "ideologica" l'analisi del
Concilio Vaticano II fatta da alcune scuole di storici. In questa intervista
concessa a ZENIT ne spiega i motivi.


Discontinuità nella storia della Chiesa, Curia conservatrice contro teologi
progressisti, tradizione contro rinnovamento, Paolo VI che tradisce Giovanni
XXIII, questa, secondo la lettura degli eventi fatta dal professor Giuseppe
Alberigo e dai suoi collaboratori, la storia del Concilio Vaticano II. Qual
è la sua opinione in proposito?


Monsignor Marchetto: Chi legge il mio libro si renderà conto che, pur
cercando di situarmi, nell'interpretazione storica del Concilio Ecumenico
Vaticano II, tenendo conto della cornice delle "tendenze" storiografiche
generali, conservo la mia visione specifica di quello che la Chiesa
Cattolica è, anche storicamente. Vedo dunque il Vaticano II in continuità
con tutti i Concili Ecumenici, non come una stella cometa, ma facente parte
di una costellazione, pur avendo alcune sue caratteristiche. Non vi è dunque
in esso cesura, rottura, quasi il nascere di una nuova Chiesa.


E' del resto, questo, il pensiero di Giovanni XXIII, di Paolo VI, di
Giovanni Paolo II e anche di Benedetto XVI, per limitarci ai Papi. Anche l'
opposizione "Curia conservatrice" e "teologi progressisti", è una
semplificazione, perché all'interno della Curia vi erano sensibilità e
tendenze non monolitiche. Un esempio? Fu il Cardinale Cicognani a sbloccare
la situazione cementata del primo schema sulla Chiesa, dando luce verde al
Cardinale Suenens (quindi a Monsignor Philips) per una stesura rinnovata,
non tutta nuova però, poiché, a detta sua, il 60% del primitivo schema
rimase nel secondo.


La contrapposizione, poi, fra Giovanni XXIII e Paolo VI, con un "concilio di
Giovanni", fino all'intersezione 1963-64, e uno di Paolo VI - che per l'
Alberigo inizierebbe nel dicembre 1963 - non ha fondamento ed è opinione del
resto non solo mia ma anche del noto Prof. Aubert. Per lui pure vi è
continuità nella linea conciliare dei due Papi del Concilio. Altri esempi
non mancano, ma la mia risposta è già lunga.


Secondo Alberigo e i suoi collaboratori (cfr. "Storia del concilio Vaticano
II", diretta da G. Alberigo, edizione italiana a cura di A. Melloni,
Bologna, Il mulino - Leuven, Peeters, 1995-2001) il "vero" Concilio Vaticano
II fu quello di Papa Giovanni XXIII, ritenuto "innovatore" e "progressista".
In questo contesto sarebbe stato centrale il lavoro svolto da Giuseppe
Dossetti. Ma il beato Giovanni XXIII può essere definito come un
progressista? E Dossetti ebbe veramente un ruolo così rilevante?


Monsignor Marchetto: Richiamo, per Papa Giovanni, oltre che il mio, il
pensiero di Monsignor Loris Capovilla, per tanti anni suo Segretario, e che
cito nel volume. Egli ha affermato che la sintesi del pontificato giovanneo
si trova nel binomio "fedeltà e rinnovamento", che certo non significa
"progressismo". Papa Giovanni - continua il Monsignore nostro - non aveva
smanie di innovazione, ma sapeva che la sola "fedeltà" avrebbe ridotto la
Chiesa a museo, mentre il solo rinnovamento l'avrebbe condotta all'anarchia.
Cercò dunque d'ispirare il concilio fra questi due principi. Per Dossetti
premetto che non mi riferisco qui all'uomo politico, né al monaco
spirituale, ma a chi criticò, per esempio, lo stesso Philips per il suo
sforzo di conciliazione fra le due correnti esistenti in Concilio, quella
con più sensibilità per la Tradizione e quella per il rinnovamento,
tradizionale o innovativo, cioè, di conservazione o di progresso - se si può
dire così. Era in fondo, quella del Philips, la linea scelta in Concilio di
conservare gli schemi preparatori (conciliari) come base di lavoro.
Diceva Philips: "non si tratta di fare trionfare le nostre idee personali,
ma di arrivare a un consenso su ciò che la Chiesa intera può oggi accettare
come espressione della sua fede comune, senza accettare compromessi sui
principi di fondo". Però all'interno di quei due "schieramenti",
legittimamente coesistenti nella Chiesa Cattolica e in Concilio, vi furono
degli estremismi. Così ci fu poi il tradizionalismo post-conciliare di
Lefebvre e l'estremismo della "scuola di Bologna" e di chi con essa sta.
Invece il Concilio cercò - ripeto - il consenso e fu la grande opera di Papa
Paolo VI, di questo martire del Concilio, come lo definì il Cardinale König.
Questa grande opera fu ostacolata dal Dossetti fino a dire, il Pontefice,
che quello di quasi "Segretario" dei Moderatori non era il suo posto.
In effetti nessuno lo aveva nominato, né si poteva stabilire una
contrapposizione fra lui e il Segretario Generale del Concilio, Mons.
Pericle Felici. In definitiva, ma rimando, meglio, alla lettura del mio
volume, non credo che in Concilio sia stato centrale il ruolo svolto da
Dossetti e dall'incipiente "officina bolognese". Ne ho avuto conferma anche
dalla lettura del Diario di Padre Congar, che ampiamente analizzo nel mio
libro, presentando la sua opera in modo alquanto diverso da come appare nei
volumi diretti dall'Alberigo.


Secondo la "Storia del Concilio Vaticano II" scritta da Giuseppe Alberigo e
dai suoi collaboratori, il Pontefice Paolo VI avrebbe tradito la spinta
progressista che veniva dal Concilio, su due temi fondamentali: la
collegialità rispetto al Primato di Pietro, e l'illeicità dell'uso dei
contraccettivi. Può spiegarci quale fu il senso profondo del contendere, e
in che modo agì il Papa Paolo VI?


Monsignor Marchetto: Come ho già in parte detto, il senso profondo del
contendere era l'icona del Cattolicesimo, un Concilio ecumenico, con la sua
ricerca del consenso, di mettere insieme (in una parola si dice:
aggiornamento) le due anime del Cattolicesimo, la fedeltà alla Tradizione e
l'incarnazione in quello che io chiamo l'oggi di Dio. E fu pensiero che
accomunò Giovanni XXIII e Paolo VI, pur nella diversità delle loro
personalità. Nel volume più volte presento l'intenzione dell'uno e dell'
altro, in comunione, in concilio. Per me, in esso, Tradizione e rinnovamento
si sono alla fine abbracciati.
Per quanto riguarda i due temi da Lei citati, il primo, la collegialità, fu
piuttosto caratteristica ecclesiale del primo millennio, e venne
"riscoperta" - diciamo così - dal Vaticano II. Essa fu posta accanto, senza
contraddizione, al primato pontificio, esercitato personalmente, che si
sviluppò specialmente nel secondo millennio.
Pure qui la congiunzione "e" si rivela essere cattolica: collegialità e
primato, anche perché non si può parlare di collegialità in senso stretto
senza che vi sia, nel collegio, il suo capo, il Vescovo di Roma. Per quanto
riguardo l'uso dei contraccettivi, sdoganati da un giudizio etico del
Magistero, dirò soltanto che l'accusa dell'Alberigo di un "silenzio
conciliare" al riguardo (il Concilio restò "muto") non è fondata, come non è
giusto parlare - e lui lo fa - di un "trauma suscitato in tutto il mondo
cristiano dall'Enciclica Humanae Vitae".


Lei ha definito "scentrata" "squilibrata" e "ideologica" l'analisi del
Concilio Vaticano II fatta dal "gruppo di Bologna". Quali sono secondo lei i
più gravi errori di valutazione?


Monsignor Marchetto: Fin dall'inizio ho definito "ideologica" l'ermeneutica
che fa capo al "gruppo di Bologna". E dove v'è ideologia si trova mancanza
di equilibrio, estremismo, visione sfuocata, scentrata. Mi limito a
riprendere quanto scrivevo a proposito delle conclusioni dell'Alberigo al V
volume della sua storia, vale a dire: la già citata contrapposizione tra
Giovanni XXIII e Paolo VI, la questione della "modernità" (in che senso?
Cosa significa?) e passaggio indebito, da questa, all'"umanità", lo
spostamento del baricentro conciliare dall'Assemblea (e relativi Acta
Synodalia) alle Commissioni (e ai diari personali), la tendenza a
considerare come "nuovi" schemi che tali non furono, il giudizio di
"acefalia" dell'Assemblea conciliare, la visione di parte circa la libertà
religiosa.
V'è poi un'ispirazione riduttiva del Synodus Episcoporum, la disparità tra i
vari atti approvati, per cui il loro grado di elaborazione e di
corrispondenza alle linee di fondo del Vaticano II sarebbe vistosamente
diseguale (e chi giudica al riguardo? - ci chiediamo), la svalutazione dei
voti dei Padri conciliari, lo svilimento del Codice di diritto canonico, e
al contrario l'amore per la "legge stralcio".
E ancora, il richiamo costante alla "settimana nera" (che nera non fu), la
critica alla Nota Explicativa Praevia, la pretesa lunga attesa trascorsa
dalle decisioni conciliari alla loro attuazione, che avrebbe giustificato
"spontaneità tumultuose", la riforma della Curia romana "in un'ottica
ecclesiologica neo-accentratrice e pertanto incoerente proprio col Vaticano
II", la necessità di un nuovo suo criterio di interpretazione, la reiterata
difesa della canonizzazione conciliare di Papa Giovanni, la svalutazione dei
testi, rispetto all'evento, la critica alla loro edizione tipica e, per
interposta persona, agli Acta Synodalia curati da Monsignor Vincenzo
Carbone.


Lei sostiene che ci sono studi e analisi molto più argomentati ed
equilibrati che spiegano il senso e raccontano la storia del Concilio
Vaticano II. Ce li potrebbe illustrare?


Monsignor Marchetto: Più che illustrare posso citare le opere, per esempio,
del Cardinale Scheffczyk dal titolo: "La Chiesa. Aspetti della crisi
post-conciliare e corretta interpretazione del Vaticano II" della Jaca
Book - con presentazione all'edizione italiana di Joseph Ratzinger - e
quella di Monsignor Vincenzo Carbone, intitolata: "Il Concilio Vaticano II,
preparazione della Chiesa al Terzo Millennio" (quaderni de " L'Osservatore
Romano" n. 42). Il Prof. A. Zambarbieri ha edito, poi, nel 1995, un
volumetto su "I Concili del Vaticano" che per me è il migliore breve studio
storico specifico finora edito sul Magno Sinodo Vaticano.
Aggiungerei l'ultimo Acerbi, quello che appare, molto critico dell'Alberigo,
dalla raccolta degli "Atti degli Incontri svoltosi presso il Seminario
Vescovile di Bergamo 1998-2001" (a cura di Gianni Garzaniga), Ed. San Paolo.
Penso di non poter tralasciare, infine, la citazione di colui che è ora
asceso al Sommo Pontificato, in alcuni suoi ricordi conciliari, che mi
fecero invocare un suo impegno a offrircene altri, vista l'importanza degli
squarci che ci dava in "La mia vita. Ricordi (1927-1977)". Ma adesso non è
più possibile.


Quali sono in sostanza gli intenti del suo libro? E' forse giunto il tempo
per poter discutere in verità e carità del Concilio Vaticano II?


Monsignor Marchetto: Scrivevo nella prefazione alla mia opera: "L'intento è
di contribuire a giungere finalmente ad una storia del Vaticano II che vinca
i condizionamenti gravi - e si capisce quindi quel mio 'contrappunto' del
titolo - posti finora, a tale riguardo, da una visione da me definita
ideologica fin dall'inizio e che si impone monopolisticamente sul mercato
delle pubblicazioni". Se il mio duro impegno e il mio andare controcorrente
per anni è riuscito a rompere un monopolio e a creare sollievo e libertà di
ricerca agli storici, per studiare il Vaticano II in una dimensione più
ampia di come si è fatto finora, ne sono profondamente lieto.
Ad ogni modo il dialogo è importante pure fra storici e la mia storia della
storiografia, sul Vaticano II degli ultimi 15 anni (che è storia legittima,
come ben si sa), vorrebbe contribuirvi. Del resto il "contrappunto" è un
richiamo alla musica, all'armonia, a un superamento dell'unilateralità.
A questo riguardo il Cardinale Camillo Ruini, alla fine della sua
presentazione del mio volume, in Campidoglio, ha affermato: "L'
interpretazione del concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a
finire. E' un'interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel
corpo della Chiesa. E' tempo che la storiografia produca una nuova
ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di
verità".


ARCIV. AGOSTINO MARCHETTO
IL CONCILIO VATICANO II:
CONSIDERAZIONI SU TENDENZE ERMENEUTICHE
DAL 1990 AD OGGI
La presente nota è il testo abbreviato di un più ampio studio,
che sarà prossimamente divulgato con i più importanti organi d'informazione.


"Non dovrò certo convincere nessuno dell'importanza e del valore dottrinale,
spirituale e pastorale del Concilio Vaticano II, tanto da potersi affermare
che esso è «icona» della Chiesa cattolica stessa, cioè di quello che
specialmente è il Cattolicesimo, costituzionalmente, Comunione cioè, anche
con il passato, con le origini, identità nell'evoluzione, fedeltà nel
rinnovamento.
L'immagine che viene alla mente, per illustrare il concetto, è quella
dell'albero frondoso e forte nato da umile seme, interrato duemila anni fa,
sepolto nelle tenebre - la morte redentrice di Cristo - ed esploso, in
perenne primavera, con la sua risurrezione. La vigna del Signore ha esteso
infatti le sue radici nel mondo intero e lo ricordiamo con gioia e
gratitudine in quest'anno del nostro Grande Giubileo.


PROBLEMATICA SOGGIACENTE ALLA PUBBLICAZIONE DEI DIARI


Alla «scoperta» e valorizzazione dei Diari (di cui qualcuno fece sistematica
ricerca e raccolta, in tempo «neutro», aiutato da compiacenti «amici») è
sottostante l'impegno di molti a togliere importanza ai documenti conciliari
stessi, per noi sintesi di Tradizione ed aggiornamento, per fare prevalere
una ricerca «mirata», che fin dall'inizio abbiamo definito ideologica, la
quale «punta» solo sugli aspetti innovativi emersi in Concilio, sulla
discontinuità, insomma, rispetto alla Tradizione.
Lo testimonia specialmente un volume, fondamentale a questo proposito, dal
titolo «L'evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del concilio Vaticano
II» - a cura di Maria Teresa Fattori e Alberto Melloni - (Il Mulino, Imola
1997) che considero chiaramente rivelatore di tale sottofondo ideologico
della odierna lettura conciliare di molti. Col puntare ermeneuticamente
sulla discontinuità, in fondo si sta recuperando, per la Chiesa, l'attuale
tendenza storiografica generale, la quale privilegia, nell'interpretazione
storica, l'«evento», la discontinuità appunto, il cambiamento, ovvero il
mutamento traumatico, e ciò in contrapposizione all'antecedente indirizzo
delle famose «Annales», che guardava piuttosto al periodo lungo. Esso
sottolineava la continuità storica (per Braudel la storia è «una scienza
sociale applicata che mette in luce strutture, sistemi, modelli perenni
anche se a prima vista invisibili»). E non ci si avvede, nella Chiesa, - o
non si vuol rendersene conto - che se per avvenimento si intende non tanto
un fatto degno di nota, ma una rottura, una novità assoluta, il nascere
quasi di un nuovo essere ecclesiale, «in casu», una «rivoluzione
copernicana», insomma il passaggio da un tipo di Cattolicesimo ad un
altro, - che ne perde però le caratteristiche inconfondibili - detta
prospettiva non potrà e dovrà essere accettata, almeno per quanto concerne
la Chiesa cattolica e per la storia che tenga conto della sua specificità.
Mi riferisco alla continuità della sua realtà pur misteriosa, da preservarsi
anche nella interpretazione dei suoi documenti.


A questo proposito, leggendo i contributi alla ricerca pubblicati nel citato
volume, si rimane veramente sorpresi per le critiche, in fondo radicali,
manifestate alla precedente ermeneutica conciliare di Jedin, Ratzinger e
Kasper (con le sue quattro regole ermeneutiche, considerate astratte, in
detta opera, e quindi tralasciate, anche per la sottolineatura della
peculiarietà, fra i Concili, del Vaticano II) e dello stesso Poulat. La
scelta ha il fine di portare avanti proprio l'«evento», inteso in modo
particolare, nella linea della ideologia sopra indicata. Non è difficile
rendersi conto, liberi da pregiudizi, che in tal modo quella che fu una
posizione estrema al Concilio Vaticano II, nella cosiddetta sua
maggioranza, - la definirei «oltranzista», (contraria - o non duttile - ad
una costante e fattiva ricerca del consenso, dell'abbraccio fra Tradizione e
rinnovamento) sempre più desiderosa di imporre il proprio punto di vista,
sorda ai richiami e all'opera di «cucitura» di Paolo VI - è riuscita, dopo
il Concilio, quasi a monopolizzarne finora la interpretazione, rigettando
ogni diverso procedere, che si vitupera magari di anticonciliare.
Indicativa, a questo proposito, potrebbe essere la lettura del volumetto «Il
Vaticano II. Frammenti di una riflessione» (Il Mulino, Bologna 1996) di
Giuseppe Dossetti, il famoso «segretario» dei Moderatori, per il quale Paolo
VI ebbe a dire: «quello (di «segretario») non è il suo posto». Comunque il
vero sottofondo, in tema di «evento», appare, nell'opera alla quale sopra mi
riferivo, nello studio di E. Fouilloux dal titolo «La categoria di evento
(«il suo ritorno», come attesta E. Morin) nella storiografia francese
recente» (dagli anni `50 circa). Non vi manca, giustamente, l'analisi pure
del legame stretto dell'esistenza storica dell'evento con la «
mediatizzazione » (scrive P. Nora: «perché ci sia evento, occorre che sia
conosciuto»). E «il Vaticano II risponde(rebbe) molto bene a questa
definizione mediatica dell'evento».


L'INTENZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI PAOLO VI


Ma ritorniamo al pensiero iniziale (caratteristico in Newman), quello che
considera la Chiesa, come ogni organismo vivente, in continua crescita,
all'interno e all'esterno, pur rimanendo se stessa. Orbene un tale sviluppo
implica, di certo, molteplici problemi, che riguardano la dottrina, il
culto, la morale, la disciplina e l'apostolato. In genere, alla loro
soluzione provvede il Magistero ordinario dei Pastori, e quello pontificio
in particolare, coadiuvati dai teologi, uniti a tutto il Popolo di Dio, in
comunione con i Pastori. A volte, peraltro, la complessità della materia o
la gravità delle circostanze storiche suggeriscono interventi straordinari,
i concili generali o ecumenici, per es., i quali promuovono, nella fedeltà
alla Tradizione, lo sviluppo dottrinale, le riforme, gli adattamenti
liturgici, l'aggiornamento disciplinare e le scelte apostoliche, in
considerazione altresì del tempo in cui si vive (i famosi «segni dei tempi»,
che non costituiscono però una nuova Rivelazione).


In questa prospettiva i Papi Giovanni e Paolo ebbero un medesimo sentire,
una stessa volontà: l'aggiornamento nella fedeltà. La dimostrazione l'ho
fornita anch'io in un articolo dal titolo: «Tradizione e rinnovamento si
sono abbracciati: il Concilio Vaticano II» («Rivista della Diocesi di
Vicenza» XC (1999) p. 1232-1245. L'articolo apparirà prossimamente altresì
in «Apollinaris».)
Citerò qui soltanto un passo, in cui Paolo VI attesta: «non sarebbe dunque
nel vero chi pensasse che il Concilio Vaticano II rappresenti un distacco,
una rottura o una liberazione dall'insegnamento della Chiesa, o autorizzi o
promuova un conformismo alla mentalità del nostro tempo, in ciò che esso ha
di effimero e di negativo» ("Insegnamenti di Paolo VI" vol.IV, 1966, p.699)


SITUAZIONE NEGLI ULTIMI DIECI ANNI


Orbene, come stiamo su questo punto, tenendo conto degli ultimi 10 anni di
ermeneutica conciliare? Non bene, diciamo subito. Vi appare in effetti uno
squilibrio, una interpretazione quasi monocorde, non nel senso di un
abbraccio fra Tradizione e rinnovamento, che è caratteristica - dicevamo -
della Chiesa cattolica e dei suoi Concili. Di fatto quel «gruppo (di
studiosi) di Bologna», guidato dal Prof. G. Alberigo, è riuscito quasi a
monopolizzare ed imporre una interpretazione - secondo noi - «scentrata»,
grazie specialmente alla pubblicazione di una «Storia del Concilio Vaticano
II», edita da Peeters/Il Mulino, prevista in cinque volumi, di cui, in
lingua italiana, ne son usciti già quattro. Basti dire, per rilevarne la
portata di influsso e le possibilità finanziarie della «società» in parola -
nonché le sue alte protezioni-, che sono in cantiere già le traduzioni in
francese, inglese, spagnolo, tedesco e portoghese. Anzi alcuni tomi in dette
lingue son già apparsi.


La gravità della conseguente situazione, nell'ermeneutica conciliare, - dal
nostro punto di vista - potrà essere rilevata dalla lettura delle mie
presentazioni dei quattro volumi finora apparsi in Italia (V. «Apollinaris»
LXIX (1996) p. 305-317 e LXX (1997) p. 331-351 ed inoltre «L'Osservatore
Romano» del 28 Agosto 1998, p. 6, e del 31 Gennaio-1° Febbraio 2000, p. 10.
Queste due ultime Note saranno pure pubblicate prossimamente su
«Apollinaris»). Non posso qui evidentemente riprendere tutto il mio forte
discorso critico. Mi limito, quindi, ad illustrazione esemplificativa, a
trascrivere qualche paragrafo della presentazione del IV volume dell'opera,
indicativo peraltro del tutto apparso finora. Ivi scrivo: «Come già misi in
evidenza per i precedenti tomi, anche questo, ponderoso e dalla consueta
bella pagina e attenta presentazione, costituisce un notevolo sforzo
enciclopedico - sottolineo enciclopedico - per quanto riguarda il magno
Sinodo Vaticano... Continua (comunque) ad aleggiare sulla presente "Storia"
un elemento che definimmo "ideologico", fin da principio, e che traspare
anche da varie animosità ingiustificate e non scientifiche contro personaggi
della minoranza conciliare - in questo pure il presente volume è monocorde -
elemento che arriva in fondo a considerare come "vero" Concilio Vaticano II
quello di Papa Giovanni, ritenuto "innovatore" e "progressista" (e tale
"assemblea sinodale"è "spinta" fino a raggiungere la soglia del settembre
1964), piuttosto che l"altro" Concilio, di Paolo VI. Invece, il magno Sinodo
fu, è, uno ed indivisibile: il Vaticano II. Nella stessa linea di soggettiva
e non fondata interpretazione appare l'idea, sottostante all'ermeneutica
sinodale di cui il volume è un esempio chiarissimo, che detto concilio
emerge sì come "evento", ma in una visione storica di novità, di rottura con
il passato, e non di continuità e di rispetto alla Tradizione, pur nel
giusto suo "aggiornamento". Infine segnalo che, come in precedenza, ...
(appaiono) interpretazioni assai dure e di parte circa il ruolo di Mons.
Felici (Segretario del Concilio), per non parlare di altri, ...senza tener
conto della "mens" papale, la stessa che si rivelerà ancor più durante
(quel)la (che tuttora, purtroppo, è chiamata) "settimana nera" (del novembre
1964)» (« LOss. Rom.» del 31 Gennaio-1° Febbraio 2000, p. 10.)


Tale espressione in effetti, pur erronea e giornalistica, continua ad essere
usata, anche se per lo più tra virgolette, sebbene ormai è riconosciuto ...
che durante quel settimanale svolgersi conciliare il Sommo Pontefice prese
giuste decisioni, altamente positive nell'economia sinodale. Così egli fece
a partire dai suoi giudizi, quali appaiono nelle «Adnotationes (manu
scriptae Summi Pontificis Pauli VI)» già del 24/ IX/64, e cioè: «Lo schema
"De libertate religiosa" non pare sia ben preparato», e del successsivo
29/IX: «Per lo schema "De libertate religiosa (1)-occorre rifarlo
(2)-associando alla Commissione qualche altra persona competente,
specialmente in Teologia e Sociolo
gia» («Acta Synodalia», VI/3, p. 418.) . È un esempio!


PER UNA CORRETTA INTERPRETAZIONE


Non voglio terminare il mio dire senza informare il lettore di due recenti
avvenimenti positivi, che fanno bene sperare in un cambiamento di tono, in
generale, nella ermeneutica conciliare futura. Concludo in tal modo non
perché voglia rispettare a tutti i costi il detto «dulcis in fundo», ma
poiché ve n'è in verità ragione.
È nato, cioè, or non è molto, un nuovo, sia pur ancora fragile, «Centro e
Ricerche sul Concilio Vaticano II», presso la Pontificia Università
Lateranense. Esso ha già pubblicato il suo primo promettente Bollettino
semestrale (Anno 1, Numero 0, del Gennaio 2000) ed organizzato, nello stesso
mese, un interessante Convegno internazionale di studio su «L'Università del
Laterano e la preparazione del Concilio Vaticano II (V. "L'Oss. Rom." del 29
Gennaio 2000).


Ma ancor più «dolce» è stato per noi il Convegno internazionale
sull'«Attuazione del Concilio Ecumenico Vaticano II», svoltosi in Vaticano a
fine febbraio del 2000 e indetto per il Grande Giubileo del 2000. Vi abbiamo
trovato finalmente attenzione a tante nostre preoccupazioni ermeneutiche. In
attesa degli «Atti» basterà leggere il discorso pontificio pubblicato da «
L'Oss. Rom.» del 28-29 Febbraio, p. 6-7. Ne citerò soltanto un passo, il
seguente: «La Chiesa da sempre conosce le regole per una retta ermeneuticà
dei contenuti del dogma. Sono regole che si pongono all'interno del tessuto
di fede e non al di fuori di esso. Leggere il Concilio supponendo che esso
comporti una rottura col passato, mentre in realtà esso si pone nella linea
della fede di sempre, è decisamente fuorviante».
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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15/12/2008 11:18
 
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Exclamation Giovedì 8 dicembre 2005: nel 40° anniversario della Conclusione del Concilio Ecumenico con Benedetto XVI

UNA DOMANDA ....


 
Mi chiedo e chiedo a voi gestori, come si concilia questo con il Magistero del passato, prima del Concilio? E forse Benedetto XVI intendeva dire qualcosaltro in questa affermazione?
..............
Caro Giuseppe.....per ora ti do una risposta sobria......... poi l'approfondiremo appena avrò un pò di tempo, il fine settimana è colmo di impegni in parrocchia........
Partiamo dal meditare che la Chiesa non è statica.......
Essa che è Madre e Maestra, cammina con gli uomini di ogni tempo......
Cosa vuol dire?
Vuol dire che la Chiesa NON deve bloccare le innovazioni, ma deve fare in modo che certe innovazioni non vadano contro il Vangelo e le dottrine stabilite........

Ora cosa ha detto Benedetto XVI? una frase che ho letto anch'io in due articoli di giornali e che alla domanda della Fallaci "come dovrebbe vivere il suo ateismo l'ateo?" il Papa risponde: " " viva come se Dio esistesse""
non vi è nulla di contraddittorio in questa frase, nel Magistero presente, passato e futuro......

Vivere come se Dio esistesse permetterà all'ateo stesso di NON chiudersi al rifiuto
....... per questo la Chiesa di recente insiste sull'unità delle LEGGI MORALI ED ETICHE che essendo naturali e perciò UNIVERSALI esse possono diventare strumento di unione anche con gli atei, anche con chi religiosamente la pensa diversamente......

Attenzione, qui non parliamo di dottrine, MA DI LEGGE NATURALE......in questo senso vivere come se Dio esistesse, per un ateo, gli permetterà lentamente di scoprire che alla fine Dio esiste.......esempio: se ateo, difendo la vita umana fin dal suo concepimento, questo gesto mi potrebbe portare alla contemplazione DEL MISTERO RACCHIUSO NELLA VITA UMANA......e così via.......

Non vi è dunque una contraposizione con il Magistero passato, al contrario, assistiamo ad una apertura della Chiesa che se andiamo a risfogliare la Lettera ai Romani e agli Ebrei di Paolo, ritroveremo le medesime indicazioni:
Nella lettera ai Romani Paolo NON esclude la salvezza AI PAGANI.........
nella lettera agli Ebrei Paolo dice la loro durezza di cuore NON ha permesso a Dio di venire meno alle sue promesse di salvezza........
Per ora vi lascio meditare queste due Lettere.....

all'Angelus sembra che il Papa stesso, caro Giuseppe, ti confermi quanto abbiamo da noi meditato:
Dio attende una risposta d’amore. In questi giorni la liturgia ci presenta come modello perfetto di tale risposta la Vergine Maria, che giovedì prossimo 8 dicembre contempleremo nel mistero dell’Immacolata Concezione.

La Vergine è Colei che resta in ascolto, pronta sempre a compiere la volontà del Signore, ed è esempio per il credente che vive nella ricerca di Dio. A questo tema, come pure al rapporto tra verità e libertà, il Concilio Vaticano II ha dedicato un’attenta riflessione. In particolare, i Padri Conciliari hanno approvato, proprio quarant’anni or sono, una Dichiarazione concernente la questione della libertà religiosa, cioè il diritto delle persone e delle comunità a poter ricercare la verità e professare liberamente la loro fede.

Le prime parole che danno il titolo a tale Documento sono "dignitatis humanae": la libertà religiosa deriva dalla singolare dignità dell’uomo che, fra tutte le creature di questa terra, è l’unica in grado di stabilire una relazione libera e consapevole con il suo Creatore. "A motivo della loro dignità – dice il Concilio – tutti gli uomini, in quanto sono persone, dotate di ragione e di libera volontà… sono spinti dalla loro stessa natura e tenuti per obbligo morale a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione" (DH, 2). Il Vaticano II riafferma così la dottrina tradizionale cattolica per cui l’uomo, in quanto creatura spirituale, può conoscere la verità e, quindi, ha il dovere e il diritto di cercarla (cfr ivi, 3).

Posto questo fondamento, il Concilio insiste ampiamente sulla libertà religiosa, che dev’essere garantita sia ai singoli che alle comunità, nel rispetto delle legittime esigenze dell’ordine pubblico. E questo insegnamento conciliare, dopo quarant’anni, resta ancora di grande attualità. Infatti la libertà religiosa è ben lontana dall’essere ovunque effettivamente assicurata: in alcuni casi essa è negata per motivi religiosi o ideologici; altre volte, pur riconosciuta sulla carta, viene ostacolata nei fatti dal potere politico oppure, in maniera più subdola, dal predominio culturale dell’agnosticismo e del relativismo.


Angelus


*********************

Chi ascolta voi, ascolta me, dice Gesù a Pietro e ai suoi apostoli....ergo, dopo Duemila anni siamo noi oggi a dover accogliere questo saggio suggerimento di Gesù: ASCOLTARE PIETRO.......


 

QUARANTA ANNI DOPO

www.avvenire.it


Un evento che rilanciò il dialogo nella Chiesa e con il mondo. Grazie a figure come il cardinale tedesco Frings. E il suo consulente, il giovane teologo Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI


«Io cronista al Vaticano II testimone della storia»

Vittorio Citterich,decano dei vaticanisti,visse in prima persona il Concilio. Da Roncalli e Montini una profezia di pace che alimentò il pontificato di Wojtyla

Di Vittorio Citterich


Eravamo più di millecinquecento cronisti, provenienti da ogni angolo del mondo, per seguire il Concilio ecumenico Vaticano II. La quarta ed ultima sessione si stava concludendo quarant'anni fa, proprio di questi giorni. Posso dire ai miei nipotini: c'ero anch'io. L'evento, più di duemila vescovi riuniti ogni giorno a pregare e discutere nella Basilica di San Pietro trasformata in aula conciliare, ha lasciato una grande traccia nella storia del mondo.


Anche nella mia piccola storia personale. Quando nel 1958 Pio XII morì e venne Papa Giovanni che, quasi per istinto dello Spirito Santo convocò il Concilio, mi trovavo ancora a Firenze per seguire, per conto del Giornale del mattino, uno dei fantasiosi «colloqui mediterranei» che La Pira, spes contra spem, riusciva a promuovere, riunendo ebrei, cristiani e musulmani che altrove si combattevano, nella ricerca di una «riconciliazione della famiglia di Abramo».

Il colloquio del 1958 era presieduto dal principe ereditario del Marocco, il futuro re Hassan II. Quando venne la notizia del malore mortale che aveva colpito Papa Pacelli tutti i presenti vennero invitati a pregare, ciascuno a suo modo. E all'annuncio della morte La Pira, a suo modo improvvisando, commentò: «E noi, adesso che cosa faremo? Con la nostra preghiera accompagneremo gli angeli che porteranno il Papa in Paradiso. E con la preghiera accoglieremo il nuovo Papa che verrà e sarà il Papa dell'Occidente e dell'Oriente, del Nord e del Sud ed estenderà a tutti i popoli la benedizione di Abramo».


Quasi un preannuncio di Papa Giovanni. Per il conclave il piccolo e battagliero giornale fiorentino dei miei esordi mi spedì a Roma. Fumata bianca, habemus Papam, Angelo Roncalli. E fui meno sorpreso di altri cronisti assai più esperti di me. Sempre da La Pira colsi il primo giudizio sul Concilio appena convocato. Lo avevo accompagnato a Mosca per il suo «ponte di preghiera e di pace fra il santuario occidentale di Fatima e il san tuario orientale di San Sergio». Ripeteva che l'ateismo imperante da quelle parti sarebbe inevitabilmente caduto e invitava l'esterrefatto Krusciov a «tagliare il ramo secco dell'ateismo» se veramente voleva la coesistenza e la pace.

E indicava proprio nel Concilio l'annuncio dei tempi nuovi
.


Ricordo le insistenze, soprattutto rivolte ai rappresentanti della Chiesa ortodossa russa: «Il Concilio è il segno dei tempi di un'epoca nuova nella quale scompare la guerra, fiorisce la pace, emergono i popoli, si unifica il mondo, crollano le ideologie ed emerge ogni giorno di più sul mondo, quasi per illuminarlo, la Chiesa». Una delle tante utopie lapiriane? Può darsi. Ma come negare, dopo le quattro sessioni conciliari e quarant'anni dopo, che la tendenza storica e religiosa di fondo del Concilio sia andata proprio in queste direzioni di «cosiddetta utopia»?


 Il Concilio, inoltre, ha portato un cambiamento decisivo nella comunicazione della Chiesa e nella Chiesa. Dalla seconda sessione in poi ne feci personale esperienza essendo passato a lavorare, a Roma, per L'Avvenire d'Italia e mentre, dopo i rigorosi segreti che avevano accompagnato la prima sessione, si passò a un'apertura che in quel tempo ci sembrò straordinaria.


Sette gruppi linguistici informavano ogni giorno i cronisti su quanto accadeva nell'aula. Nel gruppo italiano, composto dal vescovo di Livorno monsignor Pangrazio (ossia da un «padre conciliare»), dal teologo Sartori e da padre Tucci de La Civiltà cattolica (oggi cardinale) si lavorò con rispetto delle esigenze di ciascuno, a cominciare dalla pubblica opinione. E si dette, mi sembra, un'informazione completa e corretta.


Resta, nella memoria, la sola occasione che consentì anche ai cronisti di entrare nell'aula conciliare. Il ritorno di Paolo VI dal viaggio a New York per portare alle Nazioni Unite il messaggio di fondo «mai più la guerra». L'esile Papa Montini che attraversa a piedi la navata della Basilica fra gli applausi. L'impegno preso. «Avendo noi parlato della pace alle Nazioni Unite, l'intera Chiesa si è impegnata ad essere operatrice di pace perché la parola data impegna...».


Il discorso del Papa all'Onu viene inserito fra gli atti del Concilio. Quasi a preludio del lungo pontificato di Giovanni Paolo II che, portando i nomi del Papa che ha indetto il Concilio (Giovanni) e del Papa che l'ha concluso (Paolo), ha portato anche a compimento, a cominciare dall'impegno a operare per la pace, tante «utopie» della straordinaria stagione conciliare.


E c'era, in quel tempo, anche un giovane consulente ed esperto che accompagnava il cardinale Frings il quale aveva dato inizio, rifiutando gli schemi e documenti prefissati, al dialogo della Chiesa e nella Chiesa.

Quel giovane teologo si chiamava Joseph Ratzinger. Benedetto XVI.


**********************

                                 

Benedetto XVI rilegge il Concilio Vaticano II. E questa è la prefazione
A quarant’anni da quell’evento, il presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, Walter Brandmüller, fa chiarezza sulla sua storia. E l’8 dicembre il papa tira le somme

Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana dell'Angelus oggi, Festa dell'Immacolata sempre Vergine, Maria:




Cari fratelli e sorelle!

Celebriamo oggi la solennità dell’Immacolata Concezione. E’ un giorno di intenso gaudio spirituale, nel quale contempliamo la Vergine Maria, "umile e alta più che creatura / termine fisso d’eterno consiglio", come canta il sommo poeta Dante (Par., XXXIII, 3). In Lei rifulge l’eterna bontà del Creatore che, nel suo disegno di salvezza, l’ha prescelta per essere madre del suo unigenito Figlio, e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato (cfr Orazione colletta). Così, nella Madre di Cristo e Madre nostra si è realizzata perfettamente la vocazione di ogni essere umano. Tutti gli uomini, ricorda l’apostolo Paolo, sono chiamati ad essere santi e immacolati al cospetto di Dio nell’amore (cfr Ef 1,4). Guardando alla Madonna, come non lasciar ridestare in noi, suoi figli, l’aspirazione alla bellezza, alla bontà, alla purezza del cuore? Il suo celeste candore ci attira verso Dio, aiutandoci a superare la tentazione di una vita mediocre, fatta di compromessi con il male, per orientarci decisamente verso l’autentico bene, che è sorgente di gioia.

Quest’oggi il mio pensiero va all’8 dicembre del 1965, quando il Servo di Dio Paolo VI chiuse solennemente il Concilio Ecumenico Vaticano II, l’evento ecclesiale più grande del secolo ventesimo, che il beato Giovanni XXIII aveva iniziato tre anni prima. Tra l’esultanza di numerosi fedeli in Piazza San Pietro, Paolo VI affidò l’attuazione dei documenti conciliari alla Vergine Maria, invocandola col dolce titolo di Madre della Chiesa. Presiedendo questa mattina una solenne Celebrazione eucaristica nella Basilica Vaticana, ho voluto rendere grazie a Dio per il dono del Concilio Vaticano II. Ho voluto, inoltre, rendere lode a Maria Santissima per aver accompagnato questi quarant’anni di vita ecclesiale ricchi di tanti eventi. In modo speciale, Maria ha vegliato con materna premura sul pontificato dei miei venerati Predecessori, ognuno dei quali, con grande saggezza pastorale, ha guidato la barca di Pietro sulla rotta dell’autentico rinnovamento conciliare, lavorando incessantemente per la fedele interpretazione ed attuazione del Concilio Vaticano II.

Cari fratelli e sorelle, a coronamento dell’odierna giornata tutta dedicata alla Vergine Santa, seguendo un’antica tradizione nel pomeriggio mi recherò a Piazza di Spagna, ai piedi della statua dell’Immacolata. Vi chiedo di unirvi spiritualmente a me in questo pellegrinaggio, che vuole essere un atto di filiale devozione a Maria, per affidarLe l’amata città di Roma, la Chiesa e l’intera umanità.

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Romani 15:14 - Ora, fratelli miei, io stesso sono persuaso a vostro riguardo, che anche voi siete pieni di bontà, ripieni d’ogni conoscenza, capaci anche di ammonirvi gli uni gli altri.


1° Tessalonicesi 5:14 - Ora, fratelli, vi esortiamo ad ammonire i disordinati, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli e ad essere pazienti verso tutti.

Verso 17b... e se rifiuta anche di ascoltare la chiesa.
chiaro no??

2 Tess. 3:6 - Ora, fratelli, vi ordiniamo nel nome del Signor nostro Gesù Cristo, che vi ritiriate da ogni fratello che cammini disordinatamente e non secondo l’insegnamento che avete ricevuto da noi. 14-15 E se qualcuno non ubbidisce a quanto diciamo in questa epistola, notate quel tale e non vi associate a lui, affinché si vergogni. Non tenetelo però come un nemico, ma ammonitelo come fratello.


Voglio farvi notare che l'ammonizione verso i disordinati era stata già comandata da Paolo ai Tessalonicesi nella prima lettera:

"vi esortiamo ad ammonire i disordinati" ma dopo una prima ammonizione allora bisogna agire con una severità maggiore.

Romani 16:17-18 - Or io vi esorto, fratelli, a guardarvi da quelli che fomentano le divisioni e gli scandali contro la dottrina che avete appreso, e ritiratevi da loro; costoro infatti non servono il nostro Signore Gesù Cristo ma il proprio ventre, (cioè il loro proprio interesse) e con dolce e lusinghevole parlare seducono i cuori dei semplici.

Scrive Giovanni Paolo II nella:

ESORTAZIONE APOSTOLICA
CATECHESI TRADENDAE

VIII.

LA GIOIA DELLA FEDE IN UN MONDO DIFFICILE


Affermare l'identità cristiana

56. Noi viviamo in un mondo difficile, nel quale l'angoscia derivante dal vedere le migliori realizzazioni dell'uomo sfuggirgli di mano e rivoltarsi contro di lui, crea un clima d'incertezza. E' appunto entro questo mondo che la catechesi deve aiutare i cristiani ad essere, per la loro gioia e per il servizio di tutti, «luce» e «sale». Ciò esige sicuramente che essa li rafforzi nella loro propria identità e che si sottragga essa stessa di continuo all'ambiente di esitazioni, di incertezze e di svigorimento. Fra le molte difficoltà, che sono altrettante sfide per la fede, io ne rilevo soltanto qualcuna per aiutare la catechesi a superarle.

In un mondo indifferente

57. Si parlava molto, qualche anno fa, di mondo secolarizzato e di èra post-cristiana. Le mode passano...; resta, però, una realtà profonda. I cristiani di oggi debbono essere formati per vivere in un mondo che per larga parte ignora Dio o che, in materia religiosa, al posto di un dialogo esigente e fraterno, stimolante per tutti, decade troppo spesso in un indifferentismo livellatore, quando non resta arroccato in un atteggiamento sprezzante di «sospetto», in nome dei suoi progressi in materia di «spiegazioni» scientifiche. Per riuscire a «tenere» in questo mondo, per offrire a tutti un «dialogo di salvezza», nel quale ciascuno si senta rispettato nella sua dignità veramente fondamentale, quella di ricercatore di Dio, noi abbiamo bisogno di una catechesi che insegni ai giovani ed agli adulti delle nostre comunità ad essere lucidi e coerenti nella loro fede, ad affermare con serenità la loro identità cristiana e cattolica, a «vedere l'invisibile» e ad aderire così fortemente all'assoluto di Dio, da poterlo testimoniare entro una civiltà materialista, che lo nega.

Con la pedagogia originale della fede

58. L'irriducibile originalità dell'identità cristiana ha per corollario e condizione una non meno originale pedagogia della fede. Tra le numerose e prestigiose scienze umane, che registrano ai nostri giorni un immenso progresso, la pedagogia è senza dubbio una delle più importanti. Le conquiste delle altre scienze - biologia, psicologia, sociologia - le offrono elementi preziosi. La scienza dell'educazione e l'arte dell'insegnare sono oggetto di continue rimesse in discussione, in vista di un migliore adattamento o di una più grande efficacia, con risultati peraltro diversi.

Ora, vi è anche una pedagogia della fede, e non si parlerà mai abbastanza di quel che una tale pedagogia della fede può arrecare alla catechesi. E' normale, infatti, adattare in favore dell'educazione della fede le tecniche sperimentate e perfezionate dell'educazione in quanto tale. Occorre, tuttavia, tener conto in ogni istante della fondamentale originalità della fede. Quando si parla della pedagogia della fede, non si tratta di trasmettere un sapere umano, anche se il più elevato; si tratta di comunicare nella sua integrità la rivelazione di Dio. Dio medesimo, nel corso della storia sacra e soprattutto nel vangelo, si è servito di una pedagogia, che deve restare come modello per la pedagogia della fede. Una tecnica non ha valore, nella catechesi, se non nella misura in cui si pone al servizio della trasmissione della fede e dell'educazione alla fede; in caso contrario non ha alcun valore.

Linguaggio adatto al servizio del «Credo»

59. Un problema che si avvicina al precedente è quello del linguaggio. Ognuno sa quanto tale questione sia scottante al giorno d'oggi. Non è pure paradossale constatare come gli studi contemporanei, nel campo della comunicazione, della semantica e della scienza dei simboli, per esempio, diano una notevole importanza al linguaggio, e come d'altronde il linguaggio sia oggigiorno utilizzato abusivamente al servizio della mistificazione ideologica, della massificazione del pensiero, della riduzione dell'uomo alla condizione di oggetto?

Tutto ciò esercita influssi notevoli nel campo della catechesi. Ad essa incombe, infatti, il preciso dovere di trovare un linguaggio adatto ai fanciulli ed ai giovani del nostro tempo in generale, come a numerose altre categorie di persone: linguaggio per gli intellettuali, per gli uomini di scienza; linguaggio per gli handicappati ecc. Sant'Agostino aveva già incontrato un tale problema ed aveva contribuito a risolverlo, per il suo tempo, con la nota opera De catechizandis radibus. In catechesi come in teologia, la questione del linguaggio senza alcun dubbio, fondamentale. Ma non è superfluo ricordarlo qui: la catechesi non potrebbe ammettere alcun linguaggio che, sotto qualsiasi pretesto, anche se presentato come scientifico, avesse come risultato quello di snaturare il contenuto del Credo. E meno ancora conviene un linguaggio che inganni o che seduca. La legge suprema è, al contrario, che i grandi progressi nella scienza del linguaggio debbono poter essere messi al servizio della catechesi, perchè essa possa più agevolmente «dire» o «comunicare» ai fanciulli, agli adolescenti, ai giovani e agli adulti di oggi tutto il contenuto dottrinale, senza alcuna deformazione.

Ricerca e certezza di fede

60. Una sfida più sottile deriva a volte dalla concezione stessa della fede. Talune scuole filosofiche contemporanee, che sembrano esercitare una forte influenza su alcune correnti teologiche e, per loro tramite, sulla prassi pastorale, sottolineano volentieri che l'atteggiamento fondamentale dell'uomo è quello di una ricerca all'infinito, una ricerca che non raggiunge mai il suo oggetto. In teologia questa visione delle cose afferma molto categoricamente che la fede non è una certezza, ma un interrogativo, che non è una chiarezza, ma un salto nel buio!

Queste correnti di pensiero hanno certamente il vantaggio di ricordarci che la fede riguarda cose che non sono ancora possedute, perchè sono sperate, cose che non si vedono ancora se non «in uno specchio, in maniera confusa», e che Dio abita sempre in una luce inaccessibile. Esse ci aiutano a non fare della fede cristiana un atteggiamento di immobilismo, ma piuttosto una marcia in avanti, come quella di Abramo. A più forte ragione si deve evitare di presentare come certe le cose che non lo sono.

Tuttavia, non bisogna cadere - come avviene molto spesso - nell'eccesso opposto. La Lettera agli ebrei dice che «la fede è il fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono». Se noi non ne abbiamo il pieno possesso, ne abbiamo una garanzia ed una prova. Quando noi educhiamo i fanciulli, gli adolescenti ed i giovani, non presentiamo loro un concetto della fede del tutto negativo - come un non-sapere assoluto, una sorta di cecità, un mondo di tenebre -, ma sforziamoci di mostrar loro che la ricerca umile e coraggiosa del credente, lungi dal partire dal nulla, da semplici illusioni, da opinioni fallibili, da incertezze, si fonda sulla parola di Dio, il quale nè si inganna nè inganna, e si edifica di continuo sulla roccia incrollabile di tale Parola. E' la ricerca dei magi al seguito di una stella, ricerca in ordine alla quale Pascal, riprendendo un pensiero di sant'Agostino, scriveva in termini così profondi: «Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato».

E', altresì, uno scopo della catechesi quello di offrire ai giovani catecumeni quelle certezze, semplici, ma solide, che li aiutino a cercare di più e meglio la conoscenza del Signore.

Catechesi e teologia

61. In questo contesto, mi sembra importante che sia ben compreso il legame che c'è tra la catechesi e la teologia.

Questo legame appare con ogni evidenza profondo e vitale a chi comprende la missione insostituibile della teologia a servizio della fede. Non c'è da meravigliarsi, pertanto, che ogni scossa nel campo teologico provochi ugualmente ripercussioni sul terreno della catechesi. Ora la chiesa, in questo immediato post-concilio, vive un momento importante, ma rischioso, della ricerca teologica.
Alcuni padri sinodali, venuti da tutti i continenti hanno affrontato tale questione con un linguaggio molto netto: essi hanno parlato di un «equilibrio instabile», che dalla teologia rischia di passare alla catechesi, ed hanno, altresì, sottolineato la necessità di apportare un rimedio a tale inconveniente. Il pontefice Paolo VI aveva anch'egli affrontato il problema in termini non meno netti nell'introduzione alla sua Solenne professione di fede, e nell'esortazione apostolica che ricordava il quinto anniversario della chiusura del concilio Vaticano II.

Conviene insistere nuovamente su questo punto. Consapevoli dell'influsso delle loro ricerche e delle loro affermazioni sull'insegnamento catechetico, i teologi e gli esegeti hanno il dovere di stare molto attenti a non far passare come verità certe ciò che appartiene, al contrario, all'àmbito delle questioni opinabili o della disputa tra esperti. I catechisti avranno, a lor volta, la saggezza di cogliere nel campo della ricerca teologica ciò che può illuminare la loro riflessione ed il loro insegnamento, attingendo come i teologi stessi alle vere fonti, nella luce del magistero. Si asterranno dal turbare l'animo dei fanciulli e dei giovani, a questo stadio della loro catechesi, con teorie peregrine, con vari problemi e con sterili discussioni, spesso condannate da san Paolo nelle sue «Lettere Pastorali».

Il dono più prezioso, che la chiesa possa offrire al mondo contemporaneo, disorientato ed inquieto, è di formare in esso cristiani sicuri nell'essenziale ed umilmente lieti nello loro fede. La catechesi questo insegnerà loro, e ne trarrà vantaggio essa stessa per prima: «L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell'incarnazione e della rendenzione per ritrovare se stesso».

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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15/12/2008 11:23
 
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L'infallibilità del Concilio, così come quella che è riconosciuta al Romano Pontefice, non può essere estesa a piacere.

Il Vaticano I, la positivizza in un ambito tassativamente determinato:
1) l'infallibilità si ha solo nell'esercizio della suprema autorità apostolica;
2) oggetto dell'infallibilità è la definizione di una dottrina che riguardi la fede e i costumi.

"Insegniamo e definiamo essere dogma divinamente rivelato che il Romano pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa, per quell’assistenza divina che gli è stata promessa nel beato Pietro, gode di quella infallibilità, di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua chiesa, allorché definisce la dottrina riguardante la fede o i costumi. Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il consenso della chiesa.
Se poi qualcuno - Dio non voglia! - osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema".

(Vaticano I, SESSIONE IV del 18 luglio 1870, Cap. IV - Il magistero infallibile del Romano pontefice).

BENEDETTO XVI RICHIAMA LA CURIA ALL'OBBEDIENZA AD UNA CORRETTA INTERPRETAZIONE DEL CONCILIO
 
L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa.

Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare?

Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: "Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …" (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524).

Non vogliamo applicare proprio questa descrizione drammatica alla situazione del dopo-Concilio, ma qualcosa tuttavia di quanto avvenuto vi si riflette. Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione.

I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti.

Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare "ermeneutica della discontinuità e della rottura"; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'"ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.

L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito.

In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono "amministratori dei misteri di Dio" (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati "fedeli e saggi" (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: "Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto" (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.

All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio "vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti", e continua: "Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata" (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).

È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.

Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra (ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di "mondo di oggi" ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la "religione entro la pura ragione" e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio.

Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’"ipotesi Dio", aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo.

La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che senza riserva facevano professione di un proprio metodo in cui Dio non aveva accesso, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare. Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande, che ora, nell'ora del Vaticano II, attendevano una risposta. Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato.

In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

Sono tutti temi di grande portata - erano i grandi temi della seconda parte del Concilio - su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma.

In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza.

Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento.

Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve necessariamente impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.

Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue "il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio", annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8).

Chi si era aspettato che con questo "sì" fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’"apertura verso il mondo" così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) – non senza motivo Papa Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli Esercizi Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana.

Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come "apertura verso il mondo", appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.

La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.

Infine, devo forse ancora far memoria di quel 19 aprile di quest'anno, in cui il Collegio Cardinalizio, con mio non piccolo spavento, mi ha eletto a successore di Papa Giovanni Paolo II, a successore di san Pietro sulla cattedra del Vescovo di Roma? Un tale compito stava del tutto fuori di ciò che avrei mai potuto immaginare come mia vocazione. Così, fu soltanto con un grande atto di fiducia in Dio che potei dire nell'obbedienza il mio "sì" a questa scelta. Come allora, così chiedo anche oggi a tutti Voi la preghiera, sulla cui forza e sostegno io conto. Al contempo desidero ringraziare di cuore in quest'ora tutti coloro che mi hanno accolto e mi accolgono tuttora con tanta fiducia, bontà e comprensione, accompagnandomi giorno per giorno con la loro preghiera.

Il Natale è ormai vicino. Il Signore Dio alle minacce della storia non si è opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. L'arma sua è la bontà. Si è rivelato come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il suo potere completamente diverso alle potenze distruttive della violenza. Proprio così Egli ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo, in questi giorni natalizi, andargli incontro pieni di fiducia, come i pastori, come i sapienti dell'Oriente. Chiediamo a Maria di condurci al Signore. Chiediamo a Lui stesso di far brillare il suo volto su di noi. Chiediamogli di vincere Egli stesso la violenza nel mondo e di farci sperimentare il potere della sua bontà.

Con questi sentimenti imparto di cuore a tutti Voi la Benedizione Apostolica.

UDIENZA DEL SANTO PADRE ALLA CURIA ROMANA IN 

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Il Concilio Vaticano, definito dai teologi 'primavera della Chiesa', non era assimilabile a una 'Costituente', come una certa scuola di pensiero ha voluto invece. Lo ha spiegato questa mattina Benedetto XVI, sottolineando che chi ha lavorato in questa prospettiva ha rischiato di provocare una rottura all'interno della stessa Chiesa, mentre la corrente riformista che ha cercato di costruire una sintesi fra tradizione e cambiamento è quella che ha dato i frutti più significativi e duraturi per la 'barca di Pietro'. Il ragionamento è stato offerto dal Pontefice alla Curia vaticana ricevuta al completo in Vaticano per gli auguri natalizi. Coloro che hanno sostenuto la rottura rispetto al passato, ha spiegato Papa Ratzinger, hanno frainteso ''la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova''.

''Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante - ha fatto notare il Papa riflettendo sui 40 anni successivi alla chiusura della grande assise della Chiesa - cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso''. L'incontro con i vertici della Chiesa è diventata per Benedetto XVI l'occasione per disegnare con profondità il suo modello di Chiesa.

La domanda che si è posto il Santo Padre è: ''Qual è stato il risultato del Concilio? E' stato recepito nel modo giusto?'' Quindi Ratzinger ha elaborato la sua analisi: ''Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile''.

Secondo Papa Ratzinger, il ''vero spirito del Concilio'' deve piuttosto essere ricercato ''negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti''. Nel suo discorso, il Pontefice ha chiarito che la Chiesa missionaria scaturita dal Concilio annuncia Dio, crede nella liberà religiosa come parte essenziale della libertà di coscienza e rispetta le altre identità e culture in cui si imbatte. ''I martiri della Chiesa primitiva - ha speigato Ratzinger nel suo lungo intervento - sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e di professione della propria fede. Una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza''. ''Una Chiesa missionaria - ha aggiunto il successore degli Apostoli - che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti''. Benedetto XVI ha poi ricordato la figura di Giovanni Paolo II, grande nel suo magistero ma anche nella sofferenza. ''Il Santo Padre, con le sue parole e le opere - ha detto Ratzinger - ci ha donato cose grandi; ma non meno importante è la lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza''.

''Nessun Papa - ha fatto notare il Pontefice - ci ha lasciato una quantità di testi pari a quella che ci ha lasciato lui; nessun Papa in precedenza ha potuto visitare, come lui, tutto il mondo e parlare in modo diretto agli uomini di tutti i continenti. Ma, alla fine, gli è toccato un cammino di sofferenza e di silenzio''. Per Benedetto XVI, in particolare, ''restano indimenticabili le immagini della Domenica delle Palme quando, col ramo di olivo nella mano e segnato dal dolore, egli stava alla finestra e ci dava la benedizione del Signore in procinto di incamminarsi verso la Croce.

Poi l'immagine di quando nella sua cappella privata, tenendo in mano il Crocifisso, partecipava alla Via Crucis nel Colosseo, dove tante volte aveva guidato la processione portando egli stesso la Croce. Infine, la muta benedizione della Domenica di Pasqua, nella quale, attraverso tutto il dolore, vedevamo rifulgere la promessa della risurrezione, della vita eterna''. 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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15/12/2008 11:29
 
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 GIOVANNI PAOLO II E L’ANTI-CONCILIO


Un esempio proprio molto chiaro di quanto stiamo affermando ci viene dal magistero del nostro Papa Giovanni Paolo II infatti, nella "Pastores Dabo Vobis" al n. 11, a proposito della crisi d’identità del sacerdote, afferma che essa è nata proprio da una errata comprensione del magistero conciliare:

"Questa crisi - dicevo nel discorso al termine del Sinodo - era nata negli anni immediatamente successivi al Concilio.

Si fondava su un errata comprensione, talvolta persino volutamente tendenziosa, della dottrina del magistero conciliare.
Qui indubbiamente sta una delle cause del gran numero di perdite subite allora dalla chiesa, perdite che hanno gravemente colpito il servizio pastorale e le vocazioni al sacerdozio, in particolare le vocazioni missionarie. /.../ Per questo il Sinodo ha ritenuto necessario richiamare, in modo sintetico e fondamentale, la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, così come la fede della Chiesa le ha riconosciute lungo i secoli della sua storia e come il Concilio Vaticano II le ha ri-presentate agli uomini del nostro tempo".


"Il Papa Giovanni Paolo II, nella Plenaria della Congregazione per la Dottrina della fede, tenutasi il 28 gennaio 2000, ha affermato: "In questi ultimi anni, in ambienti teologici ed ecclesiali è emersa una mentalità tendente a relativizzare la rivelazione di Cristo e la sua mediazione unica ed universale in ordine alla salvezza, nonché a ridimensionare la necessità della Chiesa di Cristo come sacramento universale della salvezza". /.../ In effetti il rilievo del Papa è dovuto al fatto che il relativismo "relativizza" la rivelazione cristiana, giudicando eccessiva la rivelazione di Gesù Cristo di essere l’unico Salvatore del mondo.


"La ragione di fondo di questa asserzione — ha detto Giovanni Paolo II —pretende di fondarsi sul fatto che la verità di Dio non potrebbe essere colta e manifestata nella sua globalità e completezza da nessuna religione storica, quindi neppure dal cristianesimo e nemmeno da Gesù Cristo". /.../ "È dunque errato considerare la Chiesa come una via di salvezza accanto a quelle costituite da altre religioni, le quali sarebbero complementari alla Chiesa, pur se convergenti con questa verso il Regno di Dio escatologico —aggiunge sempre Giovanni Paolo II —perché questa equiparazione toglierebbe senso al mandato del Signore (cfr. Mt 28,19-20: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato"), mandato del Signore che invita i suoi fedeli ad annunciare che Gesù Cristo è "la Via, la Verità e la Vita" (Gv 14,6)" 



 
COSTITUZIONE DOGMATICA
LUMEN GENTIUM
SULLA CHIESA

I laici e la gerarchia

37. [...] Secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa. Se occorre, lo facciano attraverso gli organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza e prudenza, con rispetto e carità verso coloro che, per ragione del loro sacro ufficio, rappresentano Cristo.
 
I laici, come tutti i fedeli, con cristiana obbedienza prontamente abbraccino ciò che i pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono in nome del loro magistero e della loro autorità nella Chiesa, seguendo in ciò l'esempio di Cristo, il quale con la sua obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini la via beata della libertà dei figli di Dio. Né tralascino di raccomandare a Dio con le preghiere i loro superiori, affinché, dovendo questi vegliare sopra le nostre anime come persone che ne dovranno rendere conto, lo facciano con gioia e non gemendo (cfr. Eb 13,17).


 

Ha ragione Lefebvre?

(articolo dell'allora vescovo Albino Luciani)



L' ho incontrato in treno. Seduto di fronte a me, ad un certo punto ha sospesso la lettura della sua rivista e mi ha detto:

- Scusi, reverendo, ma mi pare che questo Lefebvre abbia ragione; la Chiesa ha veramente cambiato strada, ha consegnato le armi quando, al Concilio, si è pronunciata sulla libertà religiosa.

Ho chiuso piano il Breviario, che stavo recitando, e ho risposto:

- Sì, sotto un certo aspetto, il Concilio ha cambiato. Ha pensato a Carlo Magno, che tagliava le teste dei Sassoni, che rifiutavano il Battesimo; a Bernardo Gui, l' inquisitore, che inferì contro i catari della Francia meridionale, ad altri casi simili ed ha umilmente confessato: nella Chiesa del passato, "di quando in quando s' è avuto un comportamento meno conforme allo spirito evangelico, anzi contrario". (DH 12) Il Concilio ha dunque ammesso una serie di fatti non lodevoli, li ha deplorati, ha detto che essi non si devono ripettere; in questo senso ha cambiato. Quanto all' insegnamento del passato, invece, non ha cambiato, se ha potuto affermare: la Chiesa ha sempre "custodito e tramandato la dottrina del maestro degli Apostoli... che nessuno sia costretto ad abbracciare la fede". (DH 12)

- Il Maestro?, riprese il mio interlocutore. Ma qui - e diede un' occhiata alla rivista - Lefebvre cita proprio le parole di Cristo: "Chi non crederà, sarà condannato".

Ed io:

- Un momento. "Sarà condannato". Ma da Dio, ma dopo la vita presente. Il Concilio non s' è mai sognato di dire che siamo liberi davanti a Dio: tutti siamo infatti tenuti a cercare la verità, ad abbracciarla appena conosciuta, a rispondere a Dio ed alla sua Chiesa, se di questa abbiamo accettato di far parte. Il Concilio ha inteso invece parlare della sua libertà davanti allo Stato in cose religiose. Il titolo del documento conciliare, infatti, parla di "libertà sociale e civile in materia religiosa". Il potere polittico, cattolico e no, che - secondo il Concilio - né può costringere ad abbracciare la fede religiosa che non piace, né può impedire dall' abbracciare e professare una fede che piace.

- Lei, però, non mi ha ancora fatto vedere come il Concilio segua Cristo e gli Apostoli!

- Se lo desidera, cerco di dirglielo ora. Ricorda la parabola del grano e della zizzania? I servi volevano strappare dal campo la zizzania, ma il padrone: No, lasciate che l' uno e l' altra crescano insieme nel campo fino alla mietitura, cioè fino alla fine del mondo. Solo allora si farà la separazione.
In altre parole: Gesù, certo, vuole che "tutti gli uomini giungano alla conoscenza della verità"; Gesù ha tante volte invitato i suoi uditori ad aver fede e sulla fede e le opere ci giudicherà dopo la morte.
Ma la fede suppone un consenso libero. E mai, predicando, Gesù ha imposto le sue verità con la forza; mai ha impedito la propaganda delle opinioni contrarie. Quando Giacomo e Giovanni propossero di far scendere il fuoco dal cielo sui Samaritani, rimproverò i due, dicendo: "Voi non sapete di che spirito siete".


- Bene, ma mi dica: con certe idee e certi individui che girano per il mondo, non le pare che verrà il caos, se lo Stato lascia correre tutto?

- Il Concilio non dice di lasciar correre tutto; indica, anzi, due casi in cui lo Stato deve intervenire e limitare.

- E quali?

- Primo: quando la libertà religiosa sia usata da qualcuno in modo tale da mettere in pericolo la libertà o i diritti degli altri.

- E il secondo caso?

- Riguarda il bene comune e l' ordine pubblico. Lo Stato, infatti, deve essere a servizio di tutti, assicurando una vera coesistenza pacifica nel pluralismo.

- Cosicché, il Concilio pensa di aver disarmato tutti gli avversari della Chiesa con il suo documento sulla "libertà sociale in cose religiose?"

- I Padri Conciliari sapevano benissimo che la Chiesa avrà sempre avversari. Premeva loro far sapere a tutti che la Chiesa non si sente avversaria di nessuno; che desidera vivere lo spirito di Cristo suo Signore, il quale si è dichiarato mite e umile, venuto non per farsi servire, ma per servire col metodo del Servo di Jahvè: "la canna incrinata non la spezzerà, e il lucignolo fumigante non lo spegnerà".


Da "Gente Veneta", Maggio 1977

riportato da "Humilitas", Agosto 1987

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Cool I Pontefici hanno sempre combattuto l'Apostasia, in continuità nella Chiesa....

....Amici......serpeggia una certa mentalità corrotta che vedrebbe nella Chiesa di oggi un peggioramento della cattolicità a causa del Concilio Vaticano II.......ebbene.....inserirò alcuni spezzoni brevi con collegamenti ai testi integrali che vi dimostreranno come in ogni Pontificato anche i Papi prima del Concilio, scrivevano le loro preoccupazioni circa LA DISOBBEDIENZA, LE SETTE DILAGANTI E L'APOSTASIA NELLA CHIESA.......
Anche a sostegno di UN MAGISTERO LEGATO E CONTINUATO ALLA TRADIZIONE MAI SPEZZATA DAL CONCILIO, MA DA QUANTI AL CONTRARIO NON HANNO OBBEDITO AL SOMMO PONTEFICE.........


Roma, 13 marzo 1825
Leone XII
Quo graviora


Bolla
1. Quanto più gravi sono le sciagure che sovrastano il gregge di Cristo Dio e Salvatore nostro, tanta maggiore sollecitudine devono usare, per rimuoverle, i Romani Pontefici, ai quali sono stati affidati il potere e l’impegno di pascere e di governare quel gregge in nome del Beato Pietro, principe degli Apostoli. Compete infatti ad essi, come a coloro che sono posti nel più alto osservatorio della Chiesa, lo scorgere più da lontano le insidie che i nemici del nome cristiano ordiscono per distruggere la Chiesa di Cristo, senza che mai possano conseguire tale scopo; ad essi compete non solo indicare e rivelare le stesse insidie ai fedeli, perché se ne guardino, ma anche, con la propria autorità, stornarle e rimuoverle. I Romani Pontefici Nostri Predecessori compresero quale gravoso incarico fosse loro affidato; perciò si imposero di vigilare sempre come buoni pastori. Con le esortazioni, gl’insegnamenti, i decreti e dedicando la stessa vita al loro gregge, ebbero cura di proibire e di distruggere totalmente le sette che minacciavano l’estrema rovina della Chiesa. Né la memoria di questo impegno pontificio può essere desunta soltanto dagli antichi annali ecclesiastici: lo si evince chiaramente dalle azioni compiute dai Romani Pontefici dell’età nostra e dei nostri Padri per opporsi alle sette clandestine di uomini nemici di Cristo. Infatti, non appena Clemente XII, Nostro Predecessore, si avvide che di giorno in giorno si rafforzava e acquistava nuova consistenza la setta dei Liberi Muratori, ossia dei Francs Maçons (o chiamata anche in altro modo), che per molti validi motivi egli aveva considerata non solo sospetta ma altresì implacabile nemica della Chiesa Cattolica, la condannò con una limpida Costituzione che comincia con le parole In eminenti, pubblicata il 28 aprile 1738, il cui testo è il seguente.

Quo graviora - 15 marzo 1825




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Benedetto XIV 1741

Fra coloro che professano la Fede Cattolica non c’è nessuno che ignori quanta cura sia necessario usare non solo perché il Sacrosanto Sacrificio della Messa sia celebrato con tutto il culto e la venerazione propri della Religione, ma anche perché dalla dignità di così alto Sacrificio siano eliminate le occasioni di guadagno di qualunque genere, i contratti e quelle importune e illiberali richieste di elemosine (che sono piuttosto esazioni) e altre simili cose che non sono lontane dall’ignominiosa simonia, o per lo meno da un turpe guadagno.
1. In verità, non senza grande dolore del Nostro cuore siamo venuti a sapere che l’avarizia – la quale è servitù agli idoli – è progredita a tal punto che alcuni, sia da parte degli Ecclesiastici, sia dei Laici, accumulano, per la celebrazione delle Messe, tanto le elemosine quanto i compensi previsti dalle consuetudini locali o dalle Disposizioni dei Sinodi Diocesani a titolo di sussidio per gli alimenti del singolo Sacerdote. Anzi, fanno in modo che le Messe siano celebrate altrove quando le elemosine o i compensi per ciascuna Messa siano minori, secondo la consuetudine o la legge Sinodale, di quelli che si corrispondono là dove essi li ricevono.
2. Quanto ciò sia discordante e quanto sia estraneo alla volontà, sia espressa che tacita, dei devoti offerenti, tutti facilmente comprendono. Né si deve diversamente interpretare. Ciascuno infatti vuole che le Messe siano celebrate in quella Chiesa alla quale, mosso dagli stimoli della religione e della pietà, porta le elemosine, o nella quale per caso è stato seppellito qualcuno dei suoi, piuttosto che in un’altra Chiesa che gli è del tutto sconosciuta.
Questo fatto, di essere indotti quasi a mercanteggiare per una vergognosa avidità di guadagno, non solo non è esente dal sospetto e dalla colpa di avarizia, ma neppure dal reato di furto, onde soggiace all’obbligo della restituzione. Ne deriva che molte persone buone, a conoscenza di tale mercato, fortemente sdegnate si astengono dall’offrire ancora elemosine per celebrare le Messe.

Quanta cura - 30 giugno 1741

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Nel supremo governo della Chiesa Cattolica, che Dio Onnipotente Ci ha affidato per l’ineffabile generosità della sua Divina Bontà, Noi confidavamo che avremmo trovato un non lieve aiuto alla Nostra debolezza nella concordia generale dei Principi Cristiani. Donde, al Nostro animo quasi prostrato e atterrito per la grandezza e la difficoltà di un così grande impegno, era derivata una grande speranza di trovarci in tempi nei quali, spenti gl’incendi delle guerre, ottenuta l’unione dei Regni, scomparso il timore dei nemici e ottenuta la tranquillità per mezzo di Colui che comanda ai venti e al mare, avremmo potuto adempiere più facilmente ai doveri del Nostro Ufficio Pastorale e alla cura del gregge del Signore.

Ma dopo aver avuto un esordio meno aspro nell’ufficio intrapreso, in seguito si manifestò gradualmente una situazione della Cristianità sempre più triste e luttuosa, fino al punto che, deflagrando tutta l’Europa, come se fossero state poste ovunque le faci di guerra, ora Ci agitano i flutti turbolentissimi della tempesta, e quasi Ci sommergono; così da essere costretti a denunciare a Voi più apertamente e con gemiti e lamenti, con il Nostro Predecessore San Gregorio Magno, la fine di un mondo ormai senescente e l’avvicinarsi del giorno dell’ira e della vendetta.
Infatti abbiamo notizia che insorge un Regno contro l’altro Regno e un popolo contro l’altro popolo, pur essendo tutti onorati del nome di Cristiani; la loro aggressività affligge le terre e quello che accade altrove Noi, versando tante lacrime, scorgiamo che avviene qui sotto gli stessi Nostri occhi. Vari terremoti in diversi luoghi avevano dato in precedenza l’avvertimento affinché fuggissimo dalla zona di pericolo: campi e raccolti portati via da alluvioni; un pestifero contagio fra i peggiori ha spopolato in lungo e in largo diverse regioni; i campi abbandonati dai coloni; moltissimi uomini uccisi dalla sete e dalla fame. Le città vuote di abitanti; le vie coperte di cadaveri; corpi insepolti sopra altri corpi e inoltre il sangue sparso come acqua: segni evidenti dello sdegno divino apparvero ovunque e ancor oggi mostrano il braccio di una giustizia vendicatrice; anzi, affinché non appaia che manchi qualcosa a queste acerbissime calamità che sovrastano specialmente l’Italia, Noi stessi viviamo fra le spade e quasi temiamo che, percosso il Pastore, le pecore si disperdano.

In suprema Catholicae - 20 novembre 1744


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3. Ma poiché, per quanto Ci è stato riferito, alcuni non hanno avuto difficoltà di affermare e diffondere pubblicamente che la detta pena di scomunica imposta dal Nostro Predecessore non è più operante perché la relativa Costituzione non è poi stata da Noi confermata, quasi che sia necessaria, perché le Apostoliche Costituzioni mantengano validità, la conferma esplicita del successore;

4. ed essendo stato suggerito a Noi, da parte di alcune persone pie e timorate di Dio, che sarebbe assai utile eliminare tutti i sotterfugi dei calunniatori e dichiarare l’uniformità dell’animo Nostro con l’intenzione e la volontà dello stesso Predecessore, aggiungendo alla sua Costituzione il nuovo voto della Nostra conferma;

5. Noi certamente, fino ad ora, quando abbiamo benignamente concesso l’assoluzione dalla incorsa scomunica, sovente prima e principalmente nel passato anno del Giubileo, a molti fedeli veramente pentiti e dolenti di avere trasgredito le leggi della stessa Costituzione e che assicuravano di cuore di allontanarsi completamente da simili Società e Conventicole, e che per l’avvenire non vi sarebbero mai tornati; o quando accordammo ai Penitenzieri da Noi delegati la facoltà di impartire l’assoluzione a Nostro nome e con la Nostra autorità a coloro che ricorressero ai Penitenzieri stessi; e quando con sollecita vigilanza non tralasciammo di provvedere a che dai competenti Giudici e Tribunali si procedesse in proporzione del delitto compiuto contro i violatori della Costituzione stessa, il che fu effettivamente più volte eseguito; abbiamo certamente fornito argomenti non solo probabili ma del tutto evidenti ed indubitabili, attraverso i quali si sarebbero dovute comprendere le disposizioni dell’animo Nostro e la ferma e deliberata volontà consenzienti con la censura imposta dal predetto Clemente Predecessore. Se un’opinione contraria si divulgasse intorno a Noi, Noi potremmo sicuramente disprezzarla e rimettere la Nostra causa al giusto giudizio di Dio Onnipotente, pronunciando quelle parole che un tempo si recitavano nel corso delle sacre funzioni...

Providas Romanorum - 18 marzo 1751


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Papa Pio VIII
Litterae fraternitatis - 30 giugno 1829


All'Arcivescovo del Guatemala.

La lettera della tua Fraternità, indirizzata il 27 maggio dell’anno scorso al Nostro Predecessore Leone XII di felice memoria. Ci è stata consegnata più tardi di quanto l’urgente gravità dell’argomento non richiedesse. Sentimmo il cuore colpito da intima amarezza e quasi acerbamente ferito quando da essa apprendemmo che il nefando scisma, scoppiato costà da più anni, perdura ancora e si propaga con forse maggiore risolutezza per gli intensi sforzi di alcuni scellerati.

Hai comunicato che il parroco Mattia Delgado è l’istigatore o il principale promotore di così grande scelleratezza, determinato a non obbedire ai moniti e alle minacce dello stesso Nostro Predecessore, dal quale aveva ricevuto da tempo una lettera in cui erano contenute simili esortazioni e minacce; tuttavia ha ulteriormente progredito nello scisma, ed osa con estrema impudenza accordare le dispense agli impedimenti matrimoniali che sono di competenza della Santa Sede. Per questo chiedevi che egli fosse punito con anatema da questa Santa Sede come protervo scismatico e promotore di scisma, e che fosse denunziato come scomunicato alla Chiesa tutta.

Ora, per procedere in materia di tanta gravità con la circospezione e la ponderatezza che essa richiedeva, giudicammo che un accurato esame della questione fosse da affidare ad una speciale Congregazione di alcuni Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti alla trattazione degli affari ecclesiastici straordinari.

Udita tale Congregazione, e attentamente valutata l’intera questione, quale risultava sia dalla tua relazione, Venerabile Fratello, sia da documenti inviatici; considerati inoltre con attenzione tutti gli atti già raccolti sull’argomento, Ci è parso opportuno aderire alla tua richiesta. Pertanto, insieme a questa Nostra lettera riceverai anche la Nostra sentenza contro lo stesso parroco e contro tutti coloro che sono complici del suo crimine, e dovrai curare che essa sia notificata a coloro cui si riferisce, e che consegua il suo effetto nel modo da Noi prescritto.

Litterae fraternitatis - 30 giugno 1829

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Questa che segue sembra scritta per noi oggi..........


Papa Pio IX

Romani, e quanti - 1848



Romani, e quanti siete Figli e Sudditi Pontifici, ascoltate ancora una volta la voce di un Padre che vi ama e che desidera vedervi amati e stimati da tutto il mondo.

Roma è la Sede della Religione, ove sempre ebbero stanza i Ministri della medesima, che sotto diverse forme costituiscono quella mirabile varietà della quale è bella la Chiesa di Gesù Cristo. Noi v’invitiamo tutti e vi inculchiamo di rispettarla, e di non provocare giammai il terribile anatema di un Dio sdegnato, che fulminerebbe le sue sante vendette contro gli assalitori degli Unti suoi. Risparmiate uno scandalo del quale il mondo intero resterebbe meravigliato, e la maggior parte dei sudditi afflitta e dolente. Risparmiate il colmo all’amarezza, ond’è già travagliato il Pontefice per fatti di simil genere testé accaduti altrove. Ché se anche fra gli uomini, che in qualunque Istituto appartengono alla Chiesa di Dio, ve ne fossero di quelli che meritassero, per la loro condotta, la disistima e la diffidenza, è sempre aperta la strada alle rappresentanze legali: quando esse siano giuste, Noi, come Sommo Pontefice, saremo pronti ad accoglierle per provvedervi.

Siamo persuasi che queste parole basteranno a far tornare in senno tutti coloro i quali (speriamo siano pochi) avessero formato qualche pravo disegno, la cui esecuzione, mentre servirebbe al Nostro cuore di acuto dolore, chiamerebbe sul loro capo i flagelli che Dio sempre scagliò sopra gl’ingrati. Ché se queste Nostre voci, per somma sventura, non bastassero a trattenere i traviati, Noi intendiamo di far prova della fedeltà della Civica, e di tutte le forze che sono da Noi destinate a mantenere l’ordine pubblico. Noi siamo pieni di fiducia di vedere il buon effetto di queste Nostre disposizioni, e di veder sostituita in tutto lo Stato all’agitazione la calma, e i pratici sentimenti di Religione, che deve professare un popolo eminentemente cattolico, sul quale hanno diritto di prendere norma le altre nazioni.

Non vogliamo amareggiare il Nostro spirito e il cuore di tutti i buoni con la previsione delle risoluzioni che saremmo costretti a prendere per non soffrire lo spettacolo dei flagelli con i quali Iddio suole richiamare i popoli dagli errori; e invece speriamo che la Benedizione Apostolica, che spargiamo sopra tutti, allontanerà ogni funesto presagio.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 14 marzo 1848, anno secondo del Nostro Pontificato.

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NON POSSIAMO NON CITARE SAN PIO X, PATRONO DI QUESTO FORUM.... ....CHE COSI' AMMONIVA:

E supremi apostolatus - 4 ottobre 1903


Imperciocché, oltre allo stimarCi del tutto indegni dell’onore del Pontificato per la Nostra pochezza; chi non sarebbe stato commosso nel vedersi designato a succedere a Colui, che avendo, pressoché per ventisei anni, retta la Chiesa con somma sapienza, di tanta sublimità di mente, di tanto lustro di ogni virtù si mostrò adorno, da trarre in ammirazione di sé pur gli avversari e lasciar memoria di se stesso in imprese preclarissime? — Per tacere poi di ogni altro motivo, Ci atterrivano, sopra ogni altra cosa, le funestissime condizioni, in che ora versa l’umano consorzio. Giacché chi non iscorge che la società umana, più che nelle passate età, trovasi ora in preda ad un malessere gravissimo e profondo, che, crescendo ogni dì più e corrodendola insino all’intimo, la trae alla rovina?

Voi comprendete, o Venerabili Fratelli, quale sia questo morbo: l’apostasia di Dio, di cui invero è più congiunto collo sfacelo, stante la parola del profeta: "Ecco che coloro i quali da te si dilungano, periranno"(Psal. LXXII, 26). Vedevamo pertanto che, in forza del Pontifical Ministero che Ci si voleva affidato, era per Noi doveroso accorrere a rimedio di tanto male, stimando come vòlto a Noi quel comando divino: "Io ti ho oggi costituito sulle genti e sui regni affinché svella e distrugga, ed edifichi e pianti" (Ier. I, 10). Ma, consapevoli della Nostra fiacchezza, rifuggivamo spaventati da un còmpito quanto urgente altrettanto difficilissimo.

Pure, poiché al voler divino piacque di sollevar la Nostra bassezza a tanta sublimità di potere, pigliamo coraggio in Colui che Ci conforta; e ponendoCi all’opera, appoggiati nella virtù di Dio, proclamiamo di non avere, nel Supremo Pontificato, altro programma, se non questo appunto di "ristorare ogni cosa in Cristo" (Eph. I, 10)cotalché sia "tutto e in tutti Cristo" (Coloss. III, 11).

Non mancheranno di sicuro coloro i quali, misurando alla stregua umana le cose divine, cercheranno di scrutare quali siano le secrete mire del Nostro animo, torcendole a scopo terreno ed a studi di parte. A recidere ogni vana lusinga, diciamo a costoro che Noi altro non vogliamo essere, né col divino aiuto altro saremo dinanzi alla società umana, se non il Ministro di Dio, della cui autorità siamo depositarî. Gli interessi di Dio saranno gli stessi Nostri; pei quali siamo risoluti di tutte spendere le Nostre forze e la vita stessa. Per lo che, se alcuno da Noi richiede una parola d’ordine, che sia espressione della Nostra volontà, questa sempre daremo e non altra: "Restaurare ogni cosa in Cristo".

Nella quale magnifica impresa C’infonde somma alacrità, o Venerabili Fratelli, la certezza che vi avremo tutti cooperatori generosi.

Del che se dubitassimo, dovremmo, ingiustamente, ritenervi o inconsci o noncuranti di quella guerra sacrilega che ora, può darsi in ogni luogo, si muove e si mantiene contro Dio. Giacché veramente contro il proprio Creatore "fremettero le genti e i popoli meditarono cose vane" (Psal. II, 1),talché è comune il grido dei nemici di Dio: "Allontanati da noi" (Iob. XXI, 14).E conforme a ciò, vediamo nei più degli uomini estinto ogni rispetto verso Iddio Eterno, senza più riguardo al suo supremo volere nelle manifestazioni della vita privata e pubblica; che anzi, con ogni sforzo, con ogni artifizio si cerca che fin la memoria di Dio e la Sua conoscenza sia del tutto distrutta.

Chi tutto questo considera, bene ha ragione di temere che siffatta perversità di menti sia quasi un saggio e forse il cominciamento dei mali, che agli estremi tempi son riservati; che già sia nel mondo il figlio di perdizione, di cui parla l’Apostolo (II Thess. II, 5).

Tanta infatti è l’audacia e l’ira con cui si perseguita dappertutto la religione, si combattono i dogmi della fede e si adopera sfrontatamente a sterpare, ad annientare ogni rapporto dell’uomo colla Divinità! In quella vece, ciò che appunto, secondo il dire del medesimo Apostolo (Sap. XI, 24),è il carattere proprio dell’anticristo, l’uomo stesso, con infinita temerità si e posto in luogo di Dio, sollevandosi soprattutto contro ciò che chiamasi Iddio; per modo che, quantunque non possa spegnere interamente in se stesso ogni notizia di Dio, pure, manomessa la maestà di Lui, ha fatto dell’universo quasi un tempio a sé medesimo per esservi adorato: "Si asside nel tempio di Dio mostrandosi quasi fosse Dio" (II Thess. II, 2).


E supremi apostolatus - 4 ottobre 1903


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VI BASTA?

Mi chiedo e vi chiedo: QUANDO I CATTOLICI O CHE TAL SI VOGLIONO DIRE INIZIERANNO A PRENDERE SUL SERIO IL MAGISTERO, A LEGGERLO , MEDITARLO E METTERLO IN PRATICA?


[Modificato da Caterina63 04/08/2012 21:18]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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15/12/2008 11:41
 
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Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha forse cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa ?

Risposta:
Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente.
Proprio questo affermò con estrema chiarezza Giovanni XXIII all’inizio del Concilio1. Paolo VI lo ribadì2 e così si espresse nell’atto di promulgazione della Costituzione Lumen gentium: "E migliore commento sembra non potersi fare che dicendo che questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione"3. I Vescovi ripetutamente manifestarono e vollero attuare questa intenzione4.




La Chiesa di Gesù è solo quella CATTOLICA

«La Chiesa di Gesù è quella cattolica»

di Andrea Tornielli - venerdì 06 luglio 2007

da Roma (IL GIORNALE)

La Chiesa di Cristo non è distinta o distinguibile dalla Chiesa cattolica, che è l’unica a possedere «tutti gli elementi della Chiesa istituita da Gesù». Lo ribadirà all’inizio di questa settimana la Congregazione per la dottrina della fede, rispondendo ai «dubbi» sollevati in questi ultimi anni. La presa di posizione dottrinale dell’ex Sant’Uffizio, che non mancherà di suscitare discussioni, dovrebbe essere accompagnata da un autorevole commento teologico pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano.

Al centro del dibattito ancora una volta il significato del verbo «sussiste», utilizzato dal Concilio nella Costituzione Lumen gentium, dove si legge che l’unica Chiesa di Cristo «sussiste nella Chiesa cattolica» (in latino «subsistit in»). Parole su cui, nel corso degli anni, sono state costruite varie interpretazioni, compresa quella secondo la quale Gesù in realtà non avrebbe pensato di fondare una Chiesa, e nel caso lo avesse fatto, questa si sarebbe poi divisa in tante Chiese e comunità ecclesiali. Dunque, non esistendo più l’unità iniziale, non esisterebbe più la vera Chiesa di Cristo, ma soltanto degli spezzoni di essa. Questa tesi ricorrente è già stata smentita più volte dai Papi. Nel 1973 con la dichiarazione Mysterium Ecclesiae di Paolo VI; nel 1985, con la notificazione della Congregazione per la dottrina della fede su un libro del teologo della liberazione Leonardo Boff; nel 1992 con la Lettera ai vescovi Communionis notio e infine nel 2000, in pieno Giubileo, con la dichiarazione Dominus Iesus, approvata da Giovanni Paolo II. Ciononostante, i dubbi ciclicamente ritornano e, così come è spesso usuale considerare una religione uguale all’altra come via di salvezza, in ambito cristiano si tende talvolta a credere che una confessione valga l’altra: un’abitudine che l’allora cardinale Joseph Ratzinger, sette anni fa, aveva definito «relativismo ecclesiologico».

In realtà, con il verbo «sussiste» il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa cattolica: esiste cioè la Chiesa come soggetto nella realtà storica. Il significato era dunque - come spiegava Ratzinger - esattamente il contrario di quello relativistico, in quanto con quel «sussiste» intendeva dire «esiste realmente».
Il breve responso della Congregazione per la dottrina della fede la cui uscita, dopo un lungo e attento lavoro di redazione, è attesa nei prossimi giorni, ribadirà che la Chiesa di Cristo esiste realmente nella Chiesa cattolica e che tutti gli elementi della Chiesa istituita da Gesù si ritrovano in essa e soltanto in essa. Al contrario, secondo il magistero cattolico, la Chiesa di Cristo non «sussiste» nelle altre Chiese e comunità ecclesiali cristiane. Ciò non significa, ovviamente, come ha già spiegato lo stesso Concilio, che le Chiese (quelle orientali e ortodosse, che hanno conservato la successione apostolica) e le comunità separate (quelle nate con la Riforma protestante), non abbiano un ruolo nella storia della salvezza.
Il Vaticano II spiegava infatti nel decreto Unitatis redintegratio che, pur avendo esse delle «carenze», non sono «affatto spoglie di valore», perché lo Spirito di Cristo «non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica». In quello stesso testo si puntualizzava però che «solo per mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è il mezzo generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza».
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Indubbiamente questo Documento scatenerà l'ira funesta di quanti, manipolando il Concilio, erano arrivati ad un SICRETISMO fra i cristiani.......
Ma non dobbiamo farci scoraggiare, per troppi anni siamo rimasti nelle ambiguità e nella confusione..finalmente I SUCCESSORI DEGLI APOSTOLI iniziano a parlare chiaro definendo la verità del Concilio Vaticano II nella sua bellezza e TRASPARENZA.....
Per comprendere questo testo che posterò qui a seguire, sarà necessario che i cattolici riprendano in mano LA DOMINUS JESUS

http://www.vatican.va/roman_curia/co...-iesus_it.html


dichiarazione dominus iesus circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della chiesa, 6 agosto 2000

Exclamation Documento: Aspetti circa la Dottrina sulla Chiesa

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
RISPOSTE A QUESITI RIGUARDANTI ALCUNI ASPETTI
CIRCA LA DOTTRINA SULLA CHIESA

Introduzione

Il Concilio Vaticano II, con la Costituzione dogmatica Lumen gentium e con i Decreti sull'Ecumenismo (Unitatis redintegratio) e sulle Chiese orientali (Orientalium Ecclesiarum), ha contribuito in modo determinante ad una comprensione più profonda dell'ecclesiologia cattolica. Al riguardo anche i Sommi Pontefici hanno voluto offrire approfondimenti e orientamenti per la prassi: Paolo VI nella Lettera Enciclica Ecclesiam suam (1964) e Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Ut unum sint (1995).
Il conseguente impegno dei teologi, volto ad illustrare sempre meglio i diversi aspetti dell'ecclesiologia, ha dato luogo al fiorire di un'ampia letteratura in proposito. La tematica si è infatti rivelata di grande fecondità, ma talvolta ha anche avuto bisogno di puntualizzazioni e di richiami, come la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae (1973), la Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica Communionis notio (1992) e la Dichiarazione Dominus Iesus (2000), tutte pubblicate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.

La vastità dell'argomento e la novità di molti temi continuano a provocare la riflessione teologica, offrendo sempre nuovi contributi non sempre immuni da interpretazioni errate che suscitano perplessità e dubbi, alcuni dei quali sono stati sottoposti all'attenzione della Congregazione per la Dottrina della Fede. Essa, presupponendo l'insegnamento globale della dottrina cattolica sulla Chiesa, intende rispondervi precisando il significato autentico di talune espressioni ecclesiologiche magisteriali, che nel dibattito teologico rischiano di essere fraintese.

RISPOSTE AI QUESITI

Primo quesito: Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha forse cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa ?

Risposta: Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente.
Proprio questo affermò con estrema chiarezza Giovanni XXIII all’inizio del Concilio1. Paolo VI lo ribadì2 e così si espresse nell’atto di promulgazione della Costituzione Lumen gentium: "E migliore commento sembra non potersi fare che dicendo che questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione"3. I Vescovi ripetutamente manifestarono e vollero attuare questa intenzione4.

Secondo quesito: Come deve essere intesa l’affermazione secondo cui la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica ?

Risposta: Cristo "ha costituito sulla terra" un’unica Chiesa e l’ha istituita come "comunità visibile e spirituale"5, che fin dalla sua origine e nel corso della storia sempre esiste ed esisterà, e nella quale soltanto sono rimasti e rimarranno tutti gli elementi da Cristo stesso istituiti6. "Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica […]. Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui"7.
Nella Costituzione dogmatica Lumen gentium 8 la sussistenza è questa perenne continuità storica e la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo nella Chiesa cattolica8, nella quale concretamente si trova la Chiesa di Cristo su questa terra.

Secondo la dottrina cattolica, mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse9, la parola "sussiste", invece, può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica, poiché si riferisce appunto alla nota dell’unità professata nei simboli della fede (Credo…la Chiesa "una"); e questa Chiesa "una" sussiste nella Chiesa cattolica10.


Terzo quesito: Perché viene adoperata l’espressione "sussiste nella" e non semplicemente la forma verbale "è" ?

Risposta: L’uso di questa espressione, che indica la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica, non cambia la dottrina sulla Chiesa; trova, tuttavia, la sua vera motivazione nel fatto che esprime più chiaramente come al di fuori della sua compagine si trovino "numerosi elementi di santificazione e di verità", "che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all’unità cattolica"11.
"Perciò le stesse Chiese e Comunità separate, quantunque crediamo che hanno delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso. Infatti lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica"12.

Quarto quesito: Perché il Concilio Ecumenico Vaticano II attribuisce il nome di "Chiese" alle Chiese orientali separate dalla piena comunione con la Chiesa cattolica ?

Risposta: Il Concilio ha voluto accettare l’uso tradizionale del nome. "Siccome poi quelle Chiese, quantunque separate, hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora uniti con noi da strettissimi vincoli"13, meritano il titolo di "Chiese particolari o locali"14, e sono chiamate Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche15.
"Perciò per la celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce"16. Siccome, però, la comunione con la Chiesa cattolica, il cui Capo visibile è il Vescovo di Roma e Successore di Pietro, non è un qualche complemento esterno alla Chiesa particolare, ma uno dei suoi principi costitutivi interni, la condizione di Chiesa particolare, di cui godono quelle venerabili Comunità cristiane, risente tuttavia di una carenza17.
D’altra parte l’universalità propria della Chiesa, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui, a causa della divisione dei cristiani, trova un ostacolo per la sua piena realizzazione nella storia18.

Quinto quesito: Perché i testi del Concilio e del Magistero successivo non attribuiscono il titolo di "Chiesa" alle Comunità cristiane nate dalla Riforma del 16° secolo ?

Risposta: Perché, secondo la dottrina cattolica, queste Comunità non hanno la successione apostolica nel sacramento dell’Ordine, e perciò sono prive di un elemento costitutivo essenziale dell’essere Chiesa. Le suddette Comunità ecclesiali, che, specialmente a causa della mancanza del sacerdozio ministeriale, non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico19, non possono, secondo la dottrina cattolica, essere chiamate "Chiese" in senso proprio20.


Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha approvato e confermato queste Risposte, decise nella sessione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 29 giugno 2007, nella solennità dei Ss. Pietro e Paolo, Apostoli.
William Cardinale Levada
Prefetto

+ Angelo Amato, S.D.B.
Arcivescovo tit. di Sila
Segretario
_______________________
1
GIOVANNI XXIII, Allocuzione dell’11 ottobre 1962: "…il Concilio…vuole trasmettere pura e integra la dottrina cattolica, senza attenuazioni o travisamenti…Ma nelle circostanze attuali il nostro dovere è che la dottrina cristiana nella sua interezza sia accolta da tutti con rinnovata, serena e tranquilla adesione…E’ necessario che lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero compia un balzo in avanti, che la medesima dottrina sia conosciuta in modo più ampio e approfondito…Bisogna che questa dottrina certa e immutabile, alla quale è dovuto ossequio fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l’epoca nostra richiede. Altra è la sostanza del depositum fidei, o le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, ed altro è il modo in cui vengono enunciate, sempre tuttavia con lo stesso senso e significato" : AAS 54 [1962] 791; 792.
2 Cf. PAOLO VI, Allocuzione del 29 settembre 1963: AAS 55 [1963] 847-852.
3 PAOLO VI, Allocuzione del 21 novembre 1964: AAS 56 [1964] 1009-1010 (trad. it. in: L’Osservatore Romano, 22 novembre 1964, 3).
4 Il Concilio ha voluto esprimere l’identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica. Ciò si trova nelle discussioni sul Decreto Unitatis redintegratio. Lo Schemadel Decreto fu proposto in Aula il 23. 9. 1964 con una Relatio (Act Syn III/II 296-344). Ai modi inviati dai vescovi nei mesi seguenti il Segretariato per l’Unità dei Cristiani risponde il 10.11.1964 (Act Syn III/VII 11-49). Da questa Expensio modorum si riportano quattro testi concernenti la prima risposta.
A) [In Nr. 1 (Prooemium) Schema Decreti: Act Syn III/II 296, 3-6]
"Pag. 5, lin. 3-6: Videtur etiam Ecclesiam catholicam inter illas Communiones comprehendi, quod falsum esset.
R(espondetur): Hic tantum factum, prout ab omnibus conspicitur, describendum est. Postea clare affirmatur solam Ecclesiam catholicam esse veram Ecclesiam Christi"
(Act Syn III/VII 12).
B) [In Caput I in genere: Act Syn III/II 297-301]
"4 - Expressius dicatur unam solam esse veram Ecclesiam Christi; hanc esse Catholicam Apostolicam Romanam; omnes debere inquirere, ut eam cognoscant et ingrediantur ad salutem obtinendam...
R(espondetur): In toto textu sufficienter effertur, quod postulatur. Ex altera parte non est tacendum etiam in aliis communitatibus christianis inveniri veritates revelatas et elementa ecclesialia"(
Act Syn III/VII 15). Cf. anche ibidem punto 5.
C) [In Caput I in genere: Act Syn III/II 296s]

"5 - Clarius dicendum esset veram Ecclesiam esse solam Ecclesiam catholicam romanam...
R(espondetur): Textus supponit doctrinam in constitutione ‘De Ecclesia’ expositam, ut pag. 5, lin. 24-25 affirmatur"
(Act Syn III/VII 15). Quindi la commissione che doveva valutare gli emendamenti al Decreto Unitatis redintegratio esprime con chiarezza l’identità della Chiesa di Cristo e della Chiesa cattolica e la sua unicità, e vede questa dottrina fondata nella Costituzione dogmatica Lumen gentium.
D) [In Nr. 2 Schema Decreti: Act Syn III/II 297s]
"Pag. 6, lin. 1- 24: Clarius exprimatur unicitas Ecclesiae. Non sufficit inculcare, ut in textu fit, unitatem Ecclesiae.
R(espondetur): a) Ex toto textu clare apparet identificatio Ecclesiae Christi cum Ecclesia catholica, quamvis, ut oportet, efferantur elementa ecclesialia aliarum communitatum".
"Pag. 7, lin. 5: Ecclesia a successoribus Apostolorum cum Petri successore capite gubernata (cf. novum textum ad pag. 6, lin.33-34) explicite dicitur ‘unicus Dei grex’ et lin. 13 ‘una et unica Dei Ecclesia’ "
(Act Syn III/VII).
Le due espressioni citate sono quelle di Unitatis redintegratio 2.5 e 3.1.
5 Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.1.
6 Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 3.2; 3.4; 3.5; 4.6.
7 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.2.
8 Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Mysterium Ecclesiae, 1.1: AAS 65 [1973] 397; Dich. Dominus Iesus, 16.3: AAS 92 [2000-II] 757-758; Notificazione sul libro di P. Leonardo Boff, OFM, "Chiesa: carisma e potere": AAS 77 [1985] 758-759.9 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, 11.3: AAS 87 [1995-II] 928.
10 Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.2.
11 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.2.
12 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 3.4.
13 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 15.3; cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, 17.2: AAS, 85 [1993-II] 848.
14 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 14.1.
15 Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 14.1; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Ut unum sint, 56 s : AAS 87 [1995-II] 954 s.
16 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 15.1.
17 Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, 17.3: AAS 85 [1993-II] 849.
18 Cf. ibid.
19 Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 22.3.
20 Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, 17.2: AAS 92 [2000-II] 758.

[01035-01.01] [Testo originale: Latino]

www.vatican.va
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"Se sarete ciò che dovrete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (S.Caterina da Siena)


 
A tal riguardo vi offro un testo interessantessimo tra i DOSSIER di Propaganda Fides.... che fa luce e mette in chiaro alcuni aspetti da noi quotidianamente vissuti e combattuti.... Occhiolino

si legge:

La Chiesa post-conciliare è quella autentica?

Il provocatorio titolo che ho voluto dare a questo paragrafo ha la finalità di mettere in luce le tante mistificazioni che si tentano di far passare quando si parla di Concilio Vaticano II. Se nel linguaggio della gente comune possono essere accettate formulazioni del tipo: “la Chiesa del dopo concilio è più vicina alla gente”; oppure, finalmente con il Concilio “ la Chiesa perde il suo volto dogmatico per mostrarne uno più umano” o altro. Diventa, tuttavia assai più grave quando formulazioni di questo genere, semmai più raffinate, provengono da uomini di Chiesa o talvolta da sedicenti intellettuali cattolici.
(...)
Ma essere passati dalla considerazione di un Concilio come evento straordinario al tentativo di contrapporre una Chiesa post-conciliare ad una pre-conciliare è senz’altro grave. La Chiesa, aveva affermato Giovanni XXXI, ha la missione di custodire il deposito della fede e dedicarsi “con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la nostra età esige, proseguendo così il cammino, che la Chiesa compie da quasi venti secoli” (Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962).

(...)
“Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole, per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di ricerche e di incertezza, e si fa fatica a dare la gioia della comunione; predichiamo l'ecumenismo e ci distacchiamo sempre di più dagli altri, e cerchiamo di scavare abissi invece che colmarli. Come è avvenuto questo? Noi vi confideremo un pensiero che può essere - lo mettiamo noi stessi qui in libera discussione - che può essere infondato, e cioè che ci sia stato un potere, un potere avverso, diciamo il suo nome, il diavolo, questo misterioso essere che c'è […]. Noi crediamo in qualche cosa di preternaturale avvenuto nel mondo proprio per turbare, quasi per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico e non lasciare che la Chiesa scoppiasse nell'inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé” (Paolo VI, Fortes in fide, omelia nella Messa per il nono anniversario dell'incoronazione, del 29-6-1972 in: Insegnamenti di Paolo VI, Roma: Libreria Editirice Vaticana, vol. X, pp. 703-709).

(...)
Nel tentativo, spero riuscito, di sgombrare il dubbio circa una contrapposizione tra una Chiesa pre e postconciliare, passo ad affrontare la questione che qui ci interessa più da vicino: la liturgia. Infatti è su questo versante che l’“ermeneutica della discontinuità e della rottura” (fu l’espressione usata da Benedetto XVI nel discorso in occasione degli auguri natalizi alla Curia romana il 22 dicembre 2005. In quella circostanza il Pontefice, approfittando del 40° anniversario dalla chiusura del Concilio, ne delineò un breve bilancio. Nell’esprimere un giudizio positivo sull’assise conciliare, stigmatizzò l’atteggiamento di coloro che avevano voluto contrapporre la Chiesa pre-conciliare ad una post-conciliare. Ad una “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, Benedetto XVI indicava per una lettura corretta del Vaticano II “un’ermeneutica della riforma e della continuità”) ha fatto più “vittime”. È sul versante liturgico che il popolo di Dio ha avuto il martellante insegnamento che finalmente si era passati da una liturgia in cui i fedeli erano in una posizione di passività ad una di autentica partecipazione. I fronti su questo livello sono tanti: dalla lingua liturgica, alla posizione del sacerdote durante la celebrazione; dall’arte sacra alla musica sacra.

Sembra comunque che l’“ermeneutica della discontinuità” abbia fatto del termine “partecipazione” la sua parola d’ordine.

Qui il testo in formato word
”Incontro con Gesù di Nazareth - Improvvisazione o fedeltà creativa alla Tadizione”


 
Tanto per dare forza a quanto stiamo dicendo.....riporto ad memoriam un passo delle parole di Giovanni Paolo II..dell'Esortazione Apostolica:
Catechesi Tradendae - Giovanni Paolo II -  ...
..si di quelle parole che NON si leggono nei forums, nè tanto meno nei siti che idolatrano il Papa perchè li confermi nella fede, ma poi non lo ascoltano e non obbediscono...
Romani 15:14 - Ora, fratelli miei, io stesso sono persuaso a vostro riguardo, che anche voi siete pieni di bontà, ripieni d’ogni conoscenza, capaci anche di ammonirvi gli uni gli altri.


1° Tessalonicesi 5:14 - Ora, fratelli, vi esortiamo ad ammonire i disordinati, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli e ad essere pazienti verso tutti.

Verso 17b... e se rifiuta anche di ascoltare la chiesa. chiaro no??

2 Tess. 3:6 - Ora, fratelli, vi ordiniamo nel nome del Signor nostro Gesù Cristo, che vi ritiriate da ogni fratello che cammini disordinatamente e non secondo l’insegnamento che avete ricevuto da noi. 14-15 E se qualcuno non ubbidisce a quanto diciamo in questa epistola, notate quel tale e non vi associate a lui, affinché si vergogni. Non tenetelo però come un nemico, ma ammonitelo come fratello.


Voglio farvi notare che l'ammonizione verso i disordinati era stata già comandata da Paolo ai Tessalonicesi nella prima lettera:

"vi esortiamo ad ammonire i disordinati" ma dopo una prima ammonizione allora bisogna agire con una severità maggiore.

Romani 16:17-18 - Or io vi esorto, fratelli, a guardarvi da quelli che fomentano le divisioni e gli scandali contro la dottrina che avete appreso, e ritiratevi da loro; costoro infatti non servono il nostro Signore Gesù Cristo ma il proprio ventre, (cioè il loro proprio interesse) e con dolce e lusinghevole parlare seducono i cuori dei semplici.
Linguaggio adatto al servizio del «Credo»

59. Un problema che si avvicina al precedente è quello del linguaggio. Ognuno sa quanto tale questione sia scottante al giorno d'oggi. Non è pure paradossale constatare come gli studi contemporanei, nel campo della comunicazione, della semantica e della scienza dei simboli, per esempio, diano una notevole importanza al linguaggio, e come d'altronde il linguaggio sia oggigiorno utilizzato abusivamente al servizio della mistificazione ideologica, della massificazione del pensiero, della riduzione dell'uomo alla condizione di oggetto?

Tutto ciò esercita influssi notevoli nel campo della catechesi. Ad essa incombe, infatti, il preciso dovere di trovare un linguaggio adatto ai fanciulli ed ai giovani del nostro tempo in generale, come a numerose altre categorie di persone: linguaggio per gli intellettuali, per gli uomini di scienza; linguaggio per gli handicappati ecc. Sant'Agostino aveva già incontrato un tale problema ed aveva contribuito a risolverlo, per il suo tempo, con la nota opera De catechizandis radibus. In catechesi come in teologia, la questione del linguaggio senza alcun dubbio, fondamentale. Ma non è superfluo ricordarlo qui: la catechesi non potrebbe ammettere alcun linguaggio che, sotto qualsiasi pretesto, anche se presentato come scientifico, avesse come risultato quello di snaturare il contenuto del Credo. E meno ancora conviene un linguaggio che inganni o che seduca. La legge suprema è, al contrario, che i grandi progressi nella scienza del linguaggio debbono poter essere messi al servizio della catechesi, perchè essa possa più agevolmente «dire» o «comunicare» ai fanciulli, agli adolescenti, ai giovani e agli adulti di oggi tutto il contenuto dottrinale, senza alcuna deformazione.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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LA FALSA INTERPRETAZIONE DEL CONCILIO CHE HA DATO IL VIA AGLI ABUSI LITURGICI NELLA SANTA MESSA...

VATICANO - LE PAROLE DELLA DOTTRINA a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello - La presenza del Signore Gesù precede e permane oltre l’assemblea liturgica
Fonte: Fides.Org (Agenzia Fides 10/7/2008)

Città del Vaticano (Agenzia Fides) - All’inizio della riforma liturgica postconciliare si fece strada l’idea che il tabernacolo fosse di ostacolo alla Messa “rivolta al popolo”, malgrado le istruzioni lo ritenessero lecito (cfr “Inter Oecumenici” n. 95 ed “Eucharisticum Mysterium” n. 54). Si diceva: Gesù Cristo diventa presente con la consacrazione nella Messa, lasciarlo stare nel tabernacolo vuol dire far nascere un conflitto di segni.

Questa idea, in verità, ha trovato posto nella medesima istruzione (cfr EM 55) e in apparenza, sembra coerente. Ma è successo, pian piano, che i “diversi” o “principali modi della presenza” di Gesù Cristo (cfr “Lumen gentium” n. 48; Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1373; EM n. 9 e n. 55) sono stati ritenuti, più o meno, equivalenti: insomma si è fatto strada, in questo ambito, prima che altrove, il relativismo. Tutt’oggi molti fedeli non sono in grado di distinguere le diverse forme della “presenza di Cristo” nei santi segni.Quando il Concilio stava per cominciare l’ultima sessione, Paolo VI, il 3 settembre 1965, emanava l’enciclica “Mysterium Fidei”. Per fronteggiare il ridimensionamento e la negazione della presenza reale del Signore nel Santissimo Sacramento, ribadiva che Sacrificio e Sacramento sono un unico mistero inseparabile e che questo è la carne di Gesù Cristo crocifisso e risorto; che è il più grande dei miracoli: che grazie alla transustanziazione è una nuova realtà ontologica; che il Santissimo Sacramento è da conservare nei templi e oratori come il centro spirituale di ogni comunità, di tutta la Chiesa e dell’umanità.

Ma non bastò. Mentre il Papa, con l’enciclica, prendeva le difese dell’Eucaristia, la riduzione simbolistica era penetrata nella Chiesa e si verificava il primo e più vistoso effetto: lo spostamento del tabernacolo dal centro dell’altare. Il motivo apparente era appunto il “conflitto di segni” tra Presenza permanente e Sacrificio della Messa. Tale apparente conflitto, con le relativistiche conseguenze, è arrivato fino a noi. Cosa fare?

Bisogna spiegare che Cristo è “sempre presente nella sua Chiesa” (SC n. 7; CCC n. 1088), specialmente nelle specie eucaristiche, nelle quali lo è per antonomasia, cioè in modo corporale e sostanziale, come Dio e come Uomo, tutto intero e ininterrottamente. La formula classica sempre valida è: corpo, sangue, anima e divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. Egli è il Santissimo Sacramento (cfr MF in EM n. 10).
Si deve poi spiegare che, nei sacramenti, Egli è presente con la sua “virtù” o potenza. In terzo luogo, si deve chiarire che nel sacerdote che celebra, nella Chiesa adunata in preghiera, nella Parola proclamata, Egli è presente in spirito. Dunque, non vi sono molteplici presenze ma un’unica presenza permanente che è, per definizione, quella eucaristica (SC n. 7; CCC nn. 1373-1374).

Intanto si è fatta strada un’altra teoria: l’equiparazione della presenza di Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento alla presenza della sua Parola. Eppure il Concilio Vaticano II dice che la presenza di Cristo nella Parola c’è “quando nella chiesa si legge la Sacra Scrittura” (SC n. 7), cioè, a due condizioni: quando la lettura si fa “nella chiesa”, - la realtà composta di gerarchia e fedeli, - non privatamente, e quando “si legge” la Sacra Scrittura: non basta, quindi, che ci sia il libro sacro sull’ambone o sull’altare. (O, ormai, in qualunque altro luogo, come davanti, o addirittura sopra, al tabernacolo o ai piedi delle statue).

La presenza nella Parola è legata all’uso, è una presenza “morale” legata a un atto dello spirito, alla condizione spirituale dell'individuo e limitata nel tempo. Mentre la presenza nel sacramento eucaristico è sostanziale e permanente. Pertanto è particolarmente importante ribadire il rapporto imprescindibile, e nel contempo asimmetrico, esistente tra Parola ed Eucaristia (cfr “Dei Verbum” n. 21, con l’indispensabile nota esplicativa).

In conclusione, non si può continuare ad affermare che la presenza reale nell'Eucaristia sia “legata all'uso” e “finisca con esso”, che sia una questione di grado e non di sostanza, senza incorrere in un grave errore dottrinale. Recentemente, dopo aver contrapposto l’ecclesiologia del Vaticano II a quella di Trento, si è scritto ancora di presenze e di gradualità diverse, lamentando che quella sacramentale continui a essere compresa in modo ontologico: si è forse dimenticato che Paolo VI, ha già definito che, dopo la transustanziazione, il pane e il vino “acquistano nuovo significato e nuovo fine in quanto contengono una ‘nuova realtà’, che giustamente denominiamo ontologica” (“Mysterium Fidei” n. 47).

Dunque, la presenza di Gesù Cristo “precede” l’assemblea liturgica, come la colonna di fuoco precedeva il popolo di Dio in cammino, “permane” oltre l’assemblea e “non è prodotta” dall’assemblea."


....quanto scritto da don Bux sopra riportato  apre una serie di ulteriori considerazioni che faremo bene ad analizzare.....


Dunque quanto detto da don Bux ci spinge a chiederci come mai nel Documento del 1993 se non erro che parla sulle "nuove costruzioni di Chiese" si sottolinea fortemente che il Tabernacolo NON deve OSTACOLARE l'Altare....non deve più essere posto sull'altare e che viene concesso il suo mantenimento su di esso solo nelle chiese dove non è possibile fare nuovi lavori??

Non oso rispondere...

Tuttavia la presenza del Tabernacolo rivalutata grazie all'Anno dedicato all'Eucarestia, al conseguente Sinodo dei Vescovi del 2005 ed alla Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI è stata riportata alla luce a tal punto che lo stesso Pontefice si è raccomandato più volte che tale presenza DEVE RITORNARE AD ESSERE IL CENTRO E IL CUORE DELLA VITA DELLA COMUNITA'....

Chiunque stia facendo il tentativo di porre la Sacra Scrittura quale INCIAMPO per l'Eucarestia (o viceversa), non sta facendo altro che seguire la dottrina Protestante per la quale la Scrittura è diventato UN SOSTITUTO DELL'EUCARESTIA....
Guai a noi se soltanto azzardassimo di fare certi paragoni.....per noi Scrittura ed Eucarestia sono inseparabili ed indivisibili ma come appunto evidenzia don Bux:

si deve chiarire che nel sacerdote che celebra, nella Chiesa adunata in preghiera, nella Parola proclamata, Egli è presente in spirito. Dunque, non vi sono molteplici presenze ma un’unica presenza permanente che è, per definizione, quella eucaristica (SC n. 7; CCC nn. 1373-1374).

**********

il punto, o almeno un punto nodale, ritengo sia proprio questo la questione del concetto di PRESENZA.......
Un conto è dunque la Presenza del Cristo in "Spirito" attraverso la proclamazione della Parola attraverso la quale E' LUI CHE CI PARLA, altra cosa è il SACRAMENTO nel quale la presenza E' VIVA E VERA.....ANIMA, CORPO E DIVINITA', presenza non così esplicita nella Scrittura in quanto TESTO APPOGGIATO APPUNTO SUL LAMBONE....

Noi infatti VENERIAMO il Sacro Testo quando appunto viene incensato e portato all'altare, mentre ADORIAMO L'EUCARESTIA IN GINOCCHIO ....

Un altra sottolineatura importante è la conclusione di don Bux che dice:

Dunque, la presenza di Gesù Cristo “precede” l’assemblea liturgica, come la colonna di fuoco precedeva il popolo di Dio in cammino, “permane” oltre l’assemblea e “non è prodotta” dall’assemblea."

**********************

la presenza del Cristo NON E' PRODOTTA DALL'ASSEMBLEA, l'Eucarestia E' DONO... anche la Parola che ascoltiamo è dono e non è prodotta dall'assemblea, ma non subisce alcuna transustanziazione...[SM=g6811]

A quanto riportato da don Bux, dunque, possiamo sostenere quanto riportò Sandro Magister il 5.12.2005:

Lo scorso giugno Ruini ha detto: “È tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”.

Bersaglio della critica del cardinale era, in particolare, la storia del Concilio Vaticano II prodotta dalla “scuola di Bologna” con l’ausilio di una équipe internazionale, tradotta in varie lingue e molto letta in tutti i continenti, ma giudicata da Ruini e dallo stesso Ratzinger come “debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa”.

Su “Avvenire” del 29 novembre, mons.Brandmüller connazionale di Ratzinger, ha messo in evidenza gli elementi “assolutamente nuovi” che distinguono il Vaticano II dagli altri Concili che l’hanno preceduto nella storia.

Ha messo in luce il “grado molto diverso di obbligatorietà” dei suoi documenti e il suo “timore di pronunciare condanne dottrinali e definizioni dogmatiche”.

Ha spiegato perché da esso sia venuto uno scisma come quello di Levebvre e perché a poca distanza dalla sua conclusione alcuni abbiano subito invocato un nuovo Concilio.

Ma soprattutto Brandmüller ha mostrato l’insostenibilità storica – oltre che teologica – di un’interpretazione del Concilio Vaticano II “come un inizio totalmente nuovo, come se fosse il superdogma che rende tutto il resto irrilevante”: parole, queste ultime, riprese da Ratzinger.

***********

Lo stesso Ratzinger ebbe a dire ricordando gli eventi del Concilio: AVREI DOVUTO OSARE DI PIU'....
ma lui osò....di fatto è stato uno dei pochi vescovi e poi cardinali a studiare per 40 anni la questione Liturgica, a difendere la Tradizione.... a sostenere il concetto della CONTINUITA' CONDANNANDO SPESSO L'IDEA ERRATA DI UN CONCILIO CHE ROMPEVA CON IL PASSATO....

Il problema più grave è in fatto in questa discontinuità dalla quale continuano a nascere nuovi "fondatori" di chiese "nuove" con riti più o meno strambi.....[SM=g6810]

Infine

Il cardinale Joseph Ratzinger, incontrando nel 1988 a Santiago i vescovi cileni, ha parlato di “un isolamento oscuro del Vaticano II” e ha detto:

<< Alcune descrizioni suscitano l'impressione che dopo il Vaticano II tutto sia diventato diverso e che tutto ciò che è venuto prima non potesse essere più considerato o potesse esserlo soltanto alla luce del Vaticano II. Il Vaticano II non viene trattato come una parte della complessiva tradizione vivente della Chiesa, ma come un inizio totalmente nuovo. Sebbene non abbia emanato alcun dogma e abbia voluto considerarsi più modestamente al rango di Concilio pastorale, alcuni lo rappresentano come se fosse per così dire il superdogma, che rende tutto il resto irrilevante”, mentre “possiamo rendere davvero degno di fede il Vaticano II se lo rappresentiamo molto chiaramente così com'è: un pezzo della tradizione unica e totale della Chiesa e della sua fede”.

In effetti, negli anni postconciliari era di moda paragonare la Chiesa a un cantiere, in cui si facevano demolizioni e nuove costruzioni o ricostruzioni. Molto spesso nelle prediche l'ordine di Dio ad Abramo di andarsene dal suo paese era interpretato come un'esortazione alla Chiesa ad abbandonare il suo passato e la sua tradizione.

Al contrario, bisogna ribadire con nettezza che un'interpretazione del Vaticano II al di fuori della tradizione contrasterebbe con l'essenza della fede: la tradizione, non lo spirito del tempo, è l’elemento costitutivo del suo orizzonte interpretativo. Certo non può mancare lo sguardo sull’oggi. Sono i problemi attuali che richiedono risposte. Ma queste non possono venire se non dalla rivelazione divina, che la Chiesa tramanda. Questa tradizione rappresenta anche il criterio a cui ogni nuova risposta deve attenersi, se vuole essere vera e valida.

Su questo sfondo anche la distinzione così in voga tra “preconciliare” e “postconciliare” è molto dubbia sul piano teologico e su quello storico. Un Concilio non è mai un punto di arrivo o di partenza sul quale possa essere scandita la storia della Chiesa o addirittura la storia della salvezza. Un concilio è piuttosto un anello di una catena la cui fine nessuno conosce al di fuori del Signore della Chiesa e della storia. Non può mai introdurre una frattura nella continuità dell’azione dello Spirito
>>

per ora fraternamente CaterinaLD

    
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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07/03/2009 23:29
 
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Ratzinger: "Il mio Concilio: ricordi dell'attuale Pontefice" (Reset e Repubblica)


Grazie al preziosissimo e straordinario lavoro di Gemma possiamo leggere un documento fondamentale per comprendere il Concilio visto da chi vi ha partecipato come perito: Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.
Consiglio a tutti la lettura di questo testo che spazza via tanti pregiudizi e ci consente di conoscere meglio le emozioni, le aspettative e la preparazione teologica del Santo Padre.
Grazie a Gemma per il lavoro encomiabile
.
Raffaella

Vedi anche:

Intervista esclusiva di Andrea Tornielli a Mons. Georg Ratzinger: "Mio fratello Papa Ratzinger (che voleva fare l'imbianchino)"

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte prima

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte seconda

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte terza

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte quarta

Norbert Trippen: "Joseph Ratzinger, il cardinale Frings e il Concilio Vaticano II" (Osservatore Romano)

Ratzinger: "Il mio Concilio: ricordi dell'attuale Pontefice" (Reset e Repubblica)

Conferenza stampa di presentazione del 1° volume dell'Opera Omnia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI in edizione tedesca

Joseph Ratzinger presenta se stesso: discorso di Presentazione alla Pontificia Accademia delle Scienze

Le origini tirolesi di Joseph Ratzinger: i ricordi del fratello Georg (da Gelmi Josef, „Die Päpste mit dem Namen Benedikt“)

Ratzinger

Il mio Concilio

I ricordi dell’attuale Pontefice

Pasquale Chessa e Francesco Villari

Da Repubblica del 13 maggio 2005, una parte di un testo di Joseph Ratzinger presentato da Reset maggio-giugno 2005. E’ la trascrizione dell’intervista realizzata da Pasquale Chessa e Francesco Villari per l’Archivio delle memorie di Raisat Extra...

Al momento del Concilio, ero un giovane professore all’Università di Bonn, vicino Colonia: l’Arcivescovo competente per questa università era il cardinale Frings. Avevo tenuto una conferenza sulla teologia del Concilio alla quale assisteva il cardinale, che la apprezzò e mi invitò ad accompagnarlo al Concilio. In precedenza Frings, mi aveva già chiesto di preparargli un discorso da tenere, su invito del cardinale Siri , a Genova, sui problemi da trattare nel Concilio: “questa conferenza, che poteva apparire forse rivoluzionaria no, ma certo un po’ audace, piacque moltissimo a Papa Giovanni XXIII, che abbracciando Frings, gli disse: - Proprio queste erano le mie intenzioni nell’indire il Concilio -”.
Vedere la Chiesa viva, tremila vescovi presenti, è un avvenimento eccezionale: raramente nella storia la si può vedere così, toccarla nella sua universalità e in un momento di grande realizzazione della sua stessa missione.

La vita romana

Abitavo col cardinale nel Collegio dell’Anima, in via della Pace: era un’istituzione austriaca dall’atmosfera simpatica. Il Cardinale aveva riunito tutti i vescovi di lingua tedesca nella sala del Collegio ed io ero incaricato di tenere loro una conferenza e di introdurre tutto l’episcopato di lingua tedesca al lavoro del Concilio.

Per un giovanissimo professore – avevo trentadue anni e avevo appena cominciato ad insegnare all’università – si trattava di una cosa veramente impressionante, in un certo senso anche pesante: la responsabilità di tracciare la pista che i vescovi tedeschi avrebbero preso era sensibilmente sulle mie spalle. Da una parte c’era quindi grande gioia nel partecipare realmente ai lavori del Concilio, dall’altra sentivo una grande responsabilità davanti a Dio e davanti alla storia.

Il Concilio era per me, anche personalmente un avvenimento storico: mi trovavo insieme con tante persone conosciute solo attraverso libri. Per un giovane professore che aveva vissuto fino ad allora nel suo mondo accademico, anche partecipare alla vita romana era una realtà del tutto nuova. Nel Collegio dell’Anima si vedeva il mondo, si sentivano soprattutto i rumori della vecchia Roma. Andare al caffè con altri e conoscere la vita romana, talmente diversa dalla mia vita universitaria, suscitò in me un’impressione grandissima che ha marcato la mia vita.

La morte di Giovanni XXIII

Durante il Concilio morì papa Giovanni: mi ricordo della grande tristezza che ci fu in Germania. La Germania è di solito un paese non vicino ai papi, eppure tutti soffrirono per il Papa morente, che era amato moltissimo. Fu incredibile vedere come questa persona avesse unito tutti in un amore straordinario, avvicinandoli al papato.
E poi, naturalmente, c’era la questione del successore. Essendo solo professore, non partecipai al conclave e, in quel momento, neppure parlai col cardinale Frings. Noi pensavamo che l’Arcivescovo di Milano avrebbe dovuto essere il successore: era conosciuto già quando era sostituto della Segreteria di Stato qui a Roma, così che già nel 58, quando morì Papa Pio XII, avevamo detto: “Peccato che questo Montini non sia cardinale, dovrebbe essere il papa futuro”.
Non fu quindi una sorpresa quando venimmo a sapere che l’arcivescovo Montini era stato eletto Papa. Era per noi il garante della continuità del Concilio, nello spirito di papa Giovanni. E papa Giovanni stesso aveva fatto capire che desiderava l’arcivescovo di Milano come suo successore. Fu accolto senza difficoltà, anzi come un portatore di speranza.

Roncalli e Montini, simili e diversi.

Il Concilio fu un’esperienza fondamentale anche per il passaggio tra i due papi, realmente consoni nelle loro intenzioni fondamentali, ma con personalità del tutto diverse.
Era interessante vedere papa Giovanni, totalmente carismatico, che viveva dell’ispirazione del momento e della vicinanza al popolo e, dall’altra parte, trovarsi papa Paolo VI, un’intellettuale che rifletteva su tutto con una serietà incredibile.
A proposito di Montini ricordo, per esempio, che su un punto difficile della
Costituzione sulla Rivelazione c’era resistenza a dare lo spazio dovuto alla tradizione: si trattava di un punto importante.
Il Papa, con grande delicatezza e rispetto per i vescovi e per i teologi, da una parte, ma anche con la sua responsabilità da garante della tradizione, ci trasmise, mi sembra, diciotto versioni, diciotto modi diversi su come si poteva inserire il tema in questione, lasciando il massimo di libertà e al tempo stesso garantendo un punto dottrinale importante.
Questa delicatezza era per me un ritratto di quella
persona: di come considerava gli altri, nel rispetto della libertà e della collegialità ma, nello stesso tempo, nella responsabilità per la continuità della vita della Chiesa. Il tutto unito da un lavoro puntiglioso
.
Durante il Concilio non ho mai visto l’arcivescovo di
Cracovia: a quel tempo non avevo ancora conosciuto il cardinale Wojtyla.

L’incontro con gli “esperti”

Ero seduto nella tribuna dove gli esperti avevano il loro posto, così potevo seguire i lavori conciliari.
Nei primi due mesi, tuttavia, non ero ancora un perito ufficiale, solo un perito privato del cardinale. Soltanto in novembre il Papa mi nominò anche perito ufficiale, e da quel momento ho partecipato ufficialmente a tutte le sedute.
All’inizio, potevo partecipare ai lavori , ma non regolarmente a tutte le sedute: in queste circostanze era un grande avvenimento vedere tutti gli esperti, grandi personalità che avevo conosciuto attraverso lo studio: Henri De Lubac, Jean Danielou (1905-1974), Yves Congar (1904-1995), Marie-Dominique Chenu (1895-1990) e altri grandi nomi. Fu straordinario incontrare questi personaggi venerati perché erano persone che ammiravo. Era un avvenimento grande anche vedere i rappresentanti delle altre chiese e confessioni cristiane; e poi, naturalmente, il Papa stesso.
Avevo visto il papa a Pasqua, un’udienza a San Pietro.
In quell’udienza, trattò dei problemi
: “che cos’è meditazione”, “che cos’è la preghiera”, e li sviluppò con citazioni patristiche che mostravano che era un uomo di una profonda cultura teologica, ma nello stesso momento un uomo che parla anche per i semplici e si fa capire da questi.

Nella posizione ufficiale in cui mi trovavo, era un avvenimento ancora più grande essere testimone di un momento storico; e poi rimane indimenticabile quella famosa sera con la fiaccolata e con la luna, quando il Santo Padre disse alle mamme presenti: “Date un bacio ai bambini, dite che viene dal Papa”.
Tutto questo era per me un’esperienza anche doppiamente nuova, perché non conoscevo la vita romana (…)

Salvezza per tutti?

Non solo il dialogo interreligioso, ancora non molto in vista, ma anche il problema della salvezza dei non cristiani era profondamente sentito, perché non solo in Asia o in Africa erano presenti i non cristiani ma soprattutto nella nostra società cominciava ad avvertirsi il peso dei non credenti, dei non cristiani. Se c’era salvezza anche fuori dalla Chiesa, qual’era allora la funzione della Chiesa per l’universo?
Un altro settore era per noi quello dell’esegesi e della lettura della Sacra Scrittura. Si voleva un cristianesimo che fosse di nuovo immediatamente nutrito dalla Scrittura, ma anche una maggiore libertà per l’interpretazione scientifica della Sacra Scrittura.
Capire meglio che cos’è la rivelazione, che cos’è la Scrittura e la tradizione: si trattava di temi al centro del colloquio con i protestanti. In Germania, il problema generale era quello di uscire da una certa chiusura del mondo cattolico, aprendosi alla comunione con tutti: allora era piuttosto un tema francese, mentre per gli americani il tema della libertà religiosa era dominante.

Riscoprire il peso del “mondo” nella teologia.

Al tempo del Concilio ero un tipico universitario tedesco. Facevamo teologia, e al tempo stesso prendevamo anche atto del mondo politico e dei problemi del mondo: Kennedy, Krusciov etc. Tuttavia, per noi si trattava di due mondi diversi: non volevamo mischiare i problemi politici con il nostro lavoro scientifico , “alla tedesca”.

Solo durante il Concilio abbiamo imparato che tutti i problemi di questo mondo entrano anche nel lavoro della teologia: che il dialogo con le grandi visioni del mondo, anche anticristiane, come il comunismo, è tuttavia costitutivo per un vero lavoro teologico; che si deve non solo difendere la possibilità di essere cristiani, ma anche mostrare che questa è la scelta migliore e quindi, entrare in una vera discussione con gli argomenti degli altri; e integrare i problemi di una nuova visione del mondo, in chiave non cristiana ma anticristiana, nel nostro lavoro teologico. Questa per me, era una lezione da imparare.

Il rapporto con l’ebraismo

Come ho detto, il problema delle altre religioni, al momento del Concilio non era in Germani ancora molto
presente: per noi si trattava piuttosto del problema della salvezza di tutti. Invece, dovevamo dialogare anche con gli ebrei, chiarire con loro la nostra relazione, soprattutto dopo gli avvenimenti del nazismo e nonostante la resistenza cristiana, che ancora esisteva. Ristabilire una relazione con il mondo ebraico era per noi realmente una priorità, fin dall’inizio.
Era già cominciata una nuova lettura dell’Antico Testamento: condividevamo con gli ebrei la maggior parte della nostra Bibbia, quindi i fondamenti della nostra fede, perché anche il Nuovo Testamento si riferisce sempre all’altro e non è leggibile senza di esso. Ed erano anche già iniziati dialoghi amichevoli con ebrei di diverse correnti.
La priorità era ristabilire, quindi, una nuova relazione col popolo
ebreo: da una parte, volevamo esprimere la nostra amicizia, ma anche il nostro pentimento per i fatti negativi di duemila anni di storia, e dall’altra parte, senza offendere gli ebrei, anche esprimere la nostra identità.

…E quello con l’Islam

I vescovi arabi non erano in linea di massima contrari a un documento sugli ebrei ma dissero: “Se voi volete parlare di una rinnovata relazione col popolo ebreo, fatelo, ma in quel caso dovete anche parlare col mondo islamico”. “Questo equilibrio “, dicevano, “è per noi fondamentale”. Così, si è aggiunto al dialogo con gli ebrei una seconda parte, sull’Islam.
A quel punto dicemmo a noi stessi: “Se già parliamo dell’Islam, dobbiamo anche parlare delle altre religioni”. Bisognava considerare il problema più a fondo: che cosa sono le religioni del mondo; quali tipologie esistono; qual è la loro portata teologica e umana; quali le nostre relazioni con queste religioni.
Così, il documento
Nostra Aetateè cresciuto in aula mano a mano che ci trovavamo di fronte alle situazioni concrete del dialogo. Così oggi: ma a quel tempo il documento era considerato un po’ secondario, mentre oggi capiamo che è uno dei documenti fondamentali del Concilio, che ha aperto la porta per un nuovo studio delle razioni tra fede cristiana e religioni del mondo.
Un grande problema per noi in Germania, e anche in Francia, era la riforma liturgica: il movimento liturgico era molto forte fin dagli anni venti e sempre più determinante per la vita della Chiesa, e il desiderio di restituire la forma organica della liturgia era grande (…)

© Copyright Repubblica, 13 maggio 2005

Fraternamente CaterinaLD

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giovedì 30 aprile 2009

Convegno su P. Tomas Tyn


PADRE TOMÁŠ TYN E LA SANTITÀ CATTOLICA

Domenica 3 maggio 2009, ore 16.30

Parrocchia Santa Maria della Pietà

via san Vitale, 112 - Bologna

Per informazioni: tel. 051.22.65.27




Il 4 agosto 1985, nella festa di san Domenico, padre Tomas scrisse all’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede per esprimergli la sua gioia per la pubblicazione del volume Rapporto sulla fede e per manifestargli alcune preoccupazioni concernenti la vita della Chiesa. [SM=g1740733]

In questa lunga lettera egli scrive che la letizia con cui, ancora ragazzo, aveva accolto il Concilio Vaticano II si era presto «cambiata in tristezza, nel vedere cattive interpretazioni e applicazioni di una dottrina in se stessa sana sfigurare crudelmente il volto della sposa immacolata di nostro Signore Gesù Cristo ed opprimere nella mestizia gli animi dei buoni e di coloro che sentono con la Chiesa».

Nel libro del cardinale Ratzinger, padre Tyn afferma di aver trovato ciò che fin dall’inizio aveva sempre pensato: «bisogna tornare al vero Concilio, ossia a quello che è conforme alla tradizione di tutti i secoli della Cristianità cattolica e si interpreta in quella luce!». Padre Tomas denuncia quindi il soggettivismo e il relativismo contemporaneo, che già l’enciclica Pascendi di san Pio X aveva svelato e denunciato.

Il nome di san Pio X, «patrono della tradizione»,[SM=g1740721]  per aver «fulminato l’“evoluzionismo modernista”», gli sarà altrettanto caro di quello di Pio IX, non ancora beato. Di fronte agli errori del nostro tempo, padre Tomas afferma di essere sempre più persuaso «che il Sillabo di Pio IX ha stabilito una dottrina non solo vera, ma anche massimamente attuale».

La lettera si sofferma quindi lungamente sul tema della liturgia.

Nel 1974, fra Tomas, non ancora sacerdote, insieme con alcuni Confratelli tedeschi, aveva rivolto una petizione al Capitolo generale, per chiedere il mantenimento della liturgia tradizionale dell’Ordine domenicano. Purtroppo il Capitolo non aveva accolto la richiesta e aveva obbligato l’Ordine a seguire il nuovo Messale di Paolo VI.
Ora padre Tomas ringraziava il cardinale Ratzinger per aver favorito l’indulto che permetteva la celebrazione del Divin Sacrificio secondo il Rito tridentino, scrivendo: «Quanto santa e sublime è quella letizia della quale si riempie il cuore tanto del sacerdote celebrante quanto del popolo assistente, allorché quel rito, venerabile per l’antichità, viene compiuto, quel rito, cioè, che tutto e soltanto a Dio si volge, a cui come a Padre clementissimo, il Figlio crocifisso nell’oblazione del suo divino sacrificio, rende somma gloria e lode (…) Non ho mai potuto capire, e neanche adesso riesco a capire, perché tanta bellezza debba esse stata espulsa dalla Chiesa».

«Infine – conclude – mi permetta, Eminenza, La prego, una considerazione che faccio con personale amarezza: nella mia patria occorre molto coraggio per professarsi cristiani, ma anche nel “libero” Occidente deve esser dotato di un non minor coraggio chi vuol mostrare apertamente la propria fedeltà verso la tradizione cattolica, a causa della disposizione ostile di alcuni ecclesiastici, i quali tuttavia tollerando se stessi con gran clamore, si dichiarano democratici e pluralisti».

Le parole di padre Tomas erano mosse solo, come egli scrive, dall’amore per la Chiesa, «la quale, lungi dal doversi conformare a questo mondo, ha piuttosto il compito di santificarlo e di consacrarlo a Dio, convertendolo a Lui».

Altrettanto forte e significativa va giudicata, nella sua brevità, la risposta del cardinale Ratzinger a padre Tomas:

«Leggendo (la sua lettera) sono stato preso da una grande gioia per la piena concordanza tra noi, sentendo in tal modo la forza unificatrice della verità, la quale ci è concessa nella fede cattolica. Mi è di grande consolazione sapere che Ella insegna teologia morale, la quale disciplina veramente fondamentale per la retta formazione della vita cristiana, molto da molti è deformata, i quali offrono ai fedeli pietre al posto di pani, sicché è assai necessaria una nuova e profonda riflessione sui veri fondamenti della vita cristiana»
[SM=g1740722] [SM=g1740721]

(Fonte:
Radici Cristiane)


[SM=g1740717] [SM=g1740720]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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J. Ratzinger ricorda gli anni del Concilio: la riforma liturgica e la discussione sulle "fonti della rivelazione":Scrittura e Tradizione (La mia vita)


Grazie al sapiente lavoro della nostra Gemma, possiamo leggere alcune pagine dell'autobiografia di Benedetto XVI. Si tratta di una fonte preziosa, utile per capire come si sono svolti i lavori del Concilio ed il ruolo che ebbe il teologo Ratzinger nella stesura della "Dei Verbum".
Grazie ancora a Gemma :-)

Raffaella


da
"La mia vita. Ricordi (1927-1977)"

……..La prima questione che si poneva, era come cominciare il Concilio, quale compito si dovesse più precisamente attribuirgli. Il Papa aveva indicato solo in termini molto generali la sua intenzione riguardo al Concilio lasciando ai Padri uno spazio quasi illimitato per la concreta configurazione: la fede doveva tornare a parlare a questo tempo in modo nuovo, mantenendo pienamente l’identità dei suoi contenuti, e, dopo un periodo in cui ci si era preoccupati di fare definizioni restando su posizioni difensive, non si doveva più condannare, ma “usare la medicina della misericordia”. C’era, certo, un tacito consenso circa il fatto che la Chiesa sarebbe stato il tema principale dell’adunanza conciliare, che in tal modo avrebbe ripreso e portato a termine il cammino del concilio Vaticano I, precocemente interrotto a causa della guerra franco-prussiana del 1870. I cardinali Montini e Suenens predisposero dei piani per un impianto teologico di vasto respiro dei lavori conciliari, in cui il tema “Chiesa” doveva essere articolato nelle questioni “Chiesa ad intra” e “Chiesa ad extra”.
La seconda articolazione tematica doveva permettere di affrontare le grandi questioni del presente dal punto di vista del rapporto Chiesa-mondo.

Per la maggioranza dei padri conciliari la riforma proposta dal movimento liturgico non costituiva una priorità, anzi per molti di loro essa non era nemmeno un tema da trattare. Per esempio, il cardinale Montini, che poi come Paolo VI sarebbe divenuto il vero papa del Concilio, presentando una sua sintesi tematica all’inizio dei lavori conciliari aveva detto con chiarezza di non riuscire a trovare qui alcun compito essenziale per il Concilio.

La liturgia e la sua riforma erano divenute, dalla fine della prima guerra mondiale, una questione pressante solo in Francia e in Germania, e più precisamente nella prospettiva di una restaurazione la più pura possibile dell’antica liturgia romana; a ciò si aggiungeva anche l’esigenza di una partecipazione attiva del popolo all’evento liturgico. Questi due paesi, allora teologicamente in primo piano (a cui bisognava ovviamente associare il Belgio e l’Olanda), nella fase preparatoria erano riusciti a ottenere che venisse elaborato uno schema sulla sacra liturgia, che si inseriva piuttosto naturalmente nella tematica generale della Chiesa.

Che, poi, questo testo sia stato il primo a essere esaminato dal Concilio non dipese per nulla da un accresciuto interesse per la questione liturgica da parte della maggioranza dei Padri, ma dal fatto che qui non si prevedevano grosse polemiche e che il tutto veniva in qualche modo considerato come oggetto di un’esercitazione, in cui si potevano apprendere e sperimentare i metodi di lavoro del Concilio. A nessuno dei Padri sarebbe venuto in mente di vedere in questo testo una “rivoluzione”, che avrebbe significato “la fine del medioevo”, come nel frattempo alcuni teologi hanno ritenuto di dover interpretare. Il tutto, poi, era visto come una continuazione delle riforme avviate da Pio X e portate avanti, con prudenza, ma anche con risolutezza, da Pio XII. Le norme generali come “i libri liturgici siano riveduti quanto prima” (n. 25) intendevano appunto dire: in piena continuità con quello sviluppo che vi è sempre stato e che con i pontefici Pio X e Pio XII si è configurato come riscoperta delle classiche tradizioni romane. Ciò comportava naturalmente anche il superamento di alcune tendenze della liturgia barocca e della pietà devozionale del secolo XIX, promuovendo una sobria sottolineatura della centralità del mistero della presenza di Cristo nella sua Chiesa.

In questo contesto non sorprende che la “messa normativa”, che doveva subentrare all’Ordo missae precedente, e di fatto poi vi subentrò – venne respinta dalla maggioranza dei Padri convocati in un sinodo speciale nel 1967. Che poi, alcuni (o molti?) liturgisti, che erano presenti come consulenti, avessero fin dal principio intenzioni che andavano molto più in là, oggi lo si può dedurre da certe loro pubblicazioni; sicuramente, essi però non avrebbero avuto il consenso dei Padri conciliari a questi loro desideri. In ogni caso di essi non si parla nel testo del Concilio, anche se in seguito si è cercato di trovarne a posteriori le tracce in alcune delle norme generali.

Il dibattito sulla liturgia fu tranquillo e procedette senza vere tensioni. Vi fu, invece, uno scontro drammatico quando venne presentato per la discussione il documento sulle “fonti della rivelazione”.
Per “fonti della rivelazione” si intendevano la Scrittura e la tradizione; il rapporto tra loro e con il magistero aveva trovato una solida trattazione nelle forme della scolastica post-tridentina, sul modello dei manuali allora in uso.


Nel frattempo però, il metodo storico-critico dell’esegesi biblica aveva trovato un suo posto stabile anche all’interno della teologia cattolica. Di per sé questo metodo, per sua stessa natura, non tollera alcuna delimitazione a opera di un magistero autoritativo: esso non può, cioè, riconoscere alcuna istanza diversa da quella dell’argomento storico. Di conseguenza anche il concetto di tradizione era divenuto problematico, dato che, partendo dal metodo storico, non si riesce a comprendere una tradizione orale, che procede accanto alla Scrittura e risale fino agli Apostoli, che possa rappresentare una fonte di conoscenza storica accanto alla Bibbia: proprio questo aveva già reso tanto difficile e insolubile la disputa sul dogma dell’assunzione corporea di Maria in cielo. Con questo testo era quindi in discussione tutto il problema dell’esegesi biblica moderna, ma soprattutto la questione di come storia e spirito possano rapportarsi e comporsi nella struttura della fede.

Determinante per la forma concreta che assunse questo dibattito si rivelò una presunta scoperta storica che il teologo di Tubinga, J.R. Geiselmann, riteneva di aver fatto negli anni cinquanta. Negli atti del concilio di Trento egli aveva scoperto che, nell’elaborazione del decreto sulla tradizione, in un primo tempo era stata proposta una formula secondo cui la rivelazione sarebbe “in parte nella Scrittura, in parte nella tradizione”. Nel testo finale. Però l”in parte-in parte” fu evitato e sostituito da “e”.

Scrittura e tradizione ci trasmettono insieme la rivelazione. Geiselmann ne traduceva che Trento aveva voluto insegnare che non esiste alcuna divisione dei contenuti della fede tra Scrittura e tradizione , ma che, piuttosto, ambedue –Scrittura e tradizione – contengono, ciascuna per conto proprio, il tutto, siano cioè in se stesse complete. Ora, però, in quel momento non interessava la presunta o reale completezza della tradizione; quel che interessava era l’affermazione che secondo la dottrina di Trento la Scrittura conteneva l’intero deposito della fede. Si parlava della “completezza materiale” della Bibbia nelle questioni di fede.

Questa formula, che ora girava dappertutto e che era considerata la nuova, grande scoperta, si svincolò ben presto dal suo punto di partenza, che era l’interpretazione del decreto tridentino.
L’inevitabile conseguenza fu che si cominciò a ritenere che la Chiesa non potesse insegnare nulla che non fosse espressamente rintracciabile nella Sacra Scrittura, dato che quest’ultima contiene appunto in modo completo tutto ciò che riguarda la fede
.

E dato che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate, ciò significava che la Chiesa non poteva insegnare nulla che non reggesse alla prova del metodo storico-critico. Con ciò era ampiamente messo in ombra il principio luterano della “sola Scriptum”, che era poi ciò di cui si sera trattato a Trento. Infatti, questa nuova tendenza significativa che nella Chiesa l’esegesi doveva diventare l’ultima istanza, ma, dato che per la stessa natura della ragione umana e della ricerca storica non può sussistere la piena unanimità tra gli esegeti di testi tanto difficili (poiché in gioco ci sono sempre delle opzioni pregiudiziali, siano esse consce o inconsce), la conseguenza era che la fede doveva ritrarsi nell’indeterminatezza e nella continua mutabilità di ipotesi storiche o apparentemente tali:
alla fine “credere” significava qualcosa come “ritenere”, aver un’opinione soggetta a continue revisioni. Naturalmente il Concilio dovette opporsi a teorie così formulate, ma nell’opinione pubblica ecclesiale la parola d’ordine della “completezza materiale”, con tutte le sue conseguenze, era ben più forte del testo finale del Concilio.
 

Il dramma dell’epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d’ordine e dalle sue conseguenze logiche. Personalmente avevo già avuto modo di conoscere le tesi di Geiselmann nell’aprile del !956 , durante il già citato convegno dogmatico di Konigstein, in cui il professore di Tubinga presentò per la prima volta la sua presunta scoperta (che, peraltro, egli non estendeva fino alle conseguenze fin qui descritte, che si sono sviluppate in questi termini solo nella “propaganda conciliare”).

All’inizio ne fui affascinato, ma molto presto mi balzò agli occhi che il grande tema del rapporto tra Scrittura e tradizione non poteva essere risolto in maniera così semplice. In seguito ho io stesso minuziosamente studiato gli atti di Trento e ho potuto constatare che la variante redazionale, che Geiselmann considerava di importanza centrale, non era stata che un insignificante aspetto secondario nel dibattito tra i Padri conciliari, che si spinse molto più a fondo per illuminare la questione fondamentale di come la rivelazione possa tradursi in parola umana e, quindi, in parola scritta.

In questo fui aiutato dalle mie conoscenze acquisite con i miei studi sul concetto di rivelazione di Bonaventura. Trovai che l’orientamento di fondo dei Padri di Trento nel modo di pensare la rivelazione nella sostanza era rimasto lo stesso del tardo medioevo. Proprio a partire da queste acquisizioni, che ora non posso certo sviluppare oltre, le mie obiezioni nei confronti dello schema conciliare che ci era stato sottoposto erano di tutt’altra natura rispetto alle tesi sostenute da Geiselmann e alla loro grossolana volgarizzazione nell’eccitato clima conciliare. Tuttavia vorrei almeno accennare al suo aspetto essenziale: la rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l’uomo, il Suo venirgli incontro è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura.

Come si è già visto a proposito dei miei lavori su Bonaventura, nel medioevo e a Trento sarebbe stato impossibile definire la Scrittura semplicemente come “la rivelazione”, come oggi invece avviene nel linguaggio corrente. La Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di vivo, di più grande – perché sia tale essa deve giungere a destinazione e deve essere percepita, altrimenti essa non è divenuta “rivelazione”. La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli. La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge.

Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini , di unirli tra loro – per questo essa implica la Chiesa. Ma se si da questa sporgenza della rivelazione rispetto alla Scrittura, allora l’ultima parola su di essa non può venire dall’analisi dei campioni minerali – il metodo storico-critico - , ma di essa fa parte l’organismo vitale della fede di tutti i secoli.
Proprio questa sporgenza della rivelazione sulla Scrittura, che non può a sua volta essere espressa in un codice di formule, è quel che noi chiamiamo “tradizione”.

Nel clima generale del 1962, che si era impadronito delle tesi di Geiselmann nella forma sopra descritta, mi fu impossibile far comprendere questa mia prospettiva, che avevo acquisito dallo studio delle fonti e rispetto alla quale, del resto, già nel 1956, non ero stato capito. La mia posizione venne semplicemente annoverata nell’opposizione generale allo schema ufficiale e valutata come un’altra voce in direzione di Geiselmann.

Per desiderio del cardinale Frings, misi allora per iscritto un piccolo schema, in cui cercavo di esprimere la mia prospettiva; alla sua presenza, potei quindi leggere quel testo a un gran numero di influenti cardinali, che lo trovarono interessante, ma sul momento non vollero, né potevano esprimere alcun giudizio in proposito.

Ora, quel piccolo saggio era stato scritto in gran fretta e non poteva nemmeno lontanamente competere per solidità e precisione con lo schema ufficiale, che aveva avuto origine in un lungo processo di elaborazione ed era passato attraverso molte revisioni di studiosi competenti. Era chiaro che il testo doveva essere ulteriormente elaborato e approfondito.

Un simile lavoro richiedeva l’intervento anche di altre persone. Fu dunque stabilito che io redigessi insieme con Karl Rahner, una seconda redazione, più approfondita.

Questo secondo testo, che va ascritto molto più a Rahner che a me, fu poi fatto circolare tra i Padri e suscitò in parte delle aspre reazioni. Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner e io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo su due pianeti diversi. Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e dalla sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica in cui, alla fin fine, la Scrittura e i Padri non avevano una parte tanto importante, in cui, soprattutto la dimensione storica era di scarsa importanza.

Io, al contrario, proprio per la mia formazione, ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico: in quei giorni ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui io ero passato, e quella di Rahner, anche se dovette passare ancora qualche tempo prima che la distanza che separava le nostre strade fosse pienamente visibile all’esterno.


Ora era chiaro che lo schema di Rahner non poteva essere accolto, ma anche il testo ufficiale andò incontro alla bocciatura con un’esigua differenza di voti. Si dovette quindi procedere al rifacimento del testo. Dopo complesse discussioni, solo nell’ultima fase dei lavori conciliari si potè arrivare all’approvazione della Costituzione sulla parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno.

All’inizio si impose in pratica solo quello che era passato come la presunta novità nel modo di pensare questi argomenti da parte dei Padri. Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare.

da Joseph Ratzinger "
La mia vita: ricordi, 1927-1977", Edizioni San Paolo, 1997.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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07/09/2009 19:01
 
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IMPORTANTISSIMO DISCORSO DI BENEDETTO XVI AI VESCOVI DEL BRASILE....


Amati Fratelli, nei decenni successivi al Concilio Vaticano ii, alcuni hanno interpretato l'apertura al mondo non come un'esigenza dell'ardore missionario del Cuore di Cristo, ma come un passaggio alla secolarizzazione, scorgendo in essa alcuni valori di grande spessore cristiano, come l'uguaglianza, la libertà e la solidarietà, e mostrandosi disponibili a fare concessioni e a scoprire campi di cooperazione. Si è così assistito a interventi di alcuni responsabili ecclesiali in dibattiti etici, in risposta alle aspettative dell'opinione pubblica, ma si è smesso di parlare di certe verità fondamentali della fede, come il peccato, la grazia, la vita teologale e i novissimi. Inconsciamente si è caduti nell'autosecolarizzazione di molte comunità ecclesiali; queste, sperando di compiacere quanti erano lontani, hanno visto andare via, defraudati e disillusi, coloro che già vi partecipavano:  i nostri contemporanei, quando s'incontrano con noi, vogliono vedere quello che non vedono in nessun'altra parte, ossia la gioia e la speranza che nascono dal fatto di stare con il Signore risorto.
Attualmente c'è una nuova generazione nata in questo ambiente ecclesiale secolarizzato che, invece di registrare apertura e consensi, vede allargarsi sempre più nella società il baratro delle differenze e delle contrapposizioni al Magistero della Chiesa, soprattutto in campo etico. In questo deserto di Dio, la nuova generazione prova una grande sete di trascendenza
.
 
Sono i giovani di questa nuova generazione a bussare oggi alla porta del seminario e ad aver bisogno di trovarvi formatori che siano veri uomini di Dio, sacerdoti totalmente dediti alla formazione, che testimonino il dono di sé alla Chiesa, attraverso il celibato e una vita austera, secondo il modello di Cristo Buon Pastore. Così questi giovani impareranno a essere sensibili all'incontro con il Signore, nella partecipazione quotidiana all'Eucaristia, amando il silenzio e la preghiera e cercando, in primo luogo, la gloria di Dio e la salvezza delle anime.

Amati Fratelli, come sapete, è compito del Vescovo stabilire i criteri fondamentali per la formazione dei seminaristi e dei presbiteri nella fedeltà alle norme universali della Chiesa:  è in questo spirito che si devono sviluppare le riflessioni sul tema, oggetto dell'Assemblea Plenaria della vostra Conferenza Episcopale, svoltasi lo scorso aprile.
Certo di poter contare sul vostro zelo per quel che concerne la formazione sacerdotale, invito tutti i Vescovi, i loro sacerdoti e i seminaristi a riprodurre nella propria vita la carità di Cristo Sacerdote e Buon Pastore, come fece il santo Curato d'Ars
. E, come lui, prendano come modello e protezione della propria vocazione la Vergine Madre, la quale rispose in modo unico alla chiamata di Dio, concependo nel suo cuore e nella sua carne il Verbo fatto uomo per donarlo all'umanità. Alle vostre diocesi, con un cordiale saluto e la certezza della mia preghiera, portate una paterna Benedizione Apostolica.




Fraternamente CaterinaLD

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09/07/2010 09:08
 
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[SM=g1740722] riporto da Messainlatino quanto segue....
ascoltate attentamente, ne vale la pena....


La Messa antica è moderna?

Da ascoltare, gustare, diffondere. Ottima apologetica 'tridentina'. Che, provenendo da un sacerdote diocesano, tra l'altro molto impegnato nell'apostolato giovanile, ha ancora più mordente.

blog.messainlatino.it/2010/07/la-messa-antica-e-moderna.html




[SM=g1740738]

12. La messa antica è moderna? from sentinelledelmattino on Vimeo.



[SM=g1740757]

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26/08/2010 20:07
 
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Da venerdì 27 a lunedì 30 a Castel Gandolfo

Sul concilio Vaticano II l'incontro
degli ex allievi del Papa



L'ermeneutica del concilio Vaticano II è al centro quest'anno del tradizionale seminario estivo degli ex allievi di Benedetto XVI, riuniti nel cosiddetto Ratzinger Schülekreis.
L'incontro si svolgerà da venerdì 27 a lunedì 30 agosto, nel centro congressi Mariapoli di Castel Gandolfo. I partecipanti saranno una quarantina, tutti ex allievi del professor Ratzinger, che hanno discusso le loro tesi con lui negli anni in cui era docente in Germania.

Relatore principale è l'arcivescovo Kurt Koch, già vescovo di Basilea, nominato lo scorso 1° luglio presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani. Il presule terrà due interventi:  il primo su "Il concilio Vaticano II tra tradizione e innovazione. L'ermeneutica della riforma tra l'ermeneutica di una continuità con rottura e di una continuità non storica"; il secondo su "Sacrosanctum concilium e la riforma postconciliare della liturgia".

Il nome del relatore principale e il tema dell'incontro - come riferisce al nostro giornale il salvatoriano Stephan Horn, presidente dell'associazione degli ex allievi del Papa - sono stati indicati e approvati dallo stesso Benedetto XVI tra una rosa di scelte possibili propostagli dagli organizzatori. La maggioranza dei partecipanti proviene dalla Germania e dall'Austria. Oltre a questi, vi sono anche un italiano, un irlandese, un olandese, una coreana e un indiano.

Tra i presenti ci saranno il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, il vescovo ausiliare di Amburgo Hans-Jochen Jaschke, docenti, parroci, religiosi, religiose e laici. Come di consueto gli incontri - curati sotto l'aspetto organizzativo da padre Horn, che recentemente ha festeggiato i 50 anni di ordinazione sacerdotale - avranno luogo a porte chiuse.

Nei giorni di venerdì e sabato, dopo la relazione dell'arcivescovo Koch, si terrà una libera discussione sull'argomento, alla quale prenderà parte anche il Pontefice. Domenica mattina il momento culminante:  gli ex allievi parteciperanno alla celebrazione eucaristica presieduta da Benedetto XVI al centro congressi Mariapoli.

Dopo la prima colazione con il Papa, i presenti - ai quali si uniranno le nuove generazioni di ex allievi, cioè coloro che hanno svolto la loro tesi di laurea su testi di Ratzinger - prenderanno parte anche all'Angelus nel cortile del Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo. È divenuta ormai consuetudine che nell'ultimo giorno del seminario estivo si aggiungano al gruppo i nuovi ex allievi, costituiti in circolo tre anni fa.

Da segnalare che durante l'incontro di quest'anno padre Horn consegnerà al Pontefice, a nome di tutti gli ex allievi, il volume che raccoglie le relazioni del seminario estivo del 2008, che aveva per tema "Conversazioni su Gesù".

La pubblicazione è stata promossa dalla fondazione Joseph Ratzinger Papa Benedetto XVI, con sede a Monaco di Baviera, che ha per scopo la preparazione e l'organizzazione dell'incontro annuale, la promozione degli studi intrapresi da Ratzinger quando era docente, la diffusione del suo insegnamento teologico e della sua spiritualità, oltre che la pubblicazione dei libri di Benedetto XVI.
Il primo incontro di Ratzinger con i suoi ex allievi avvenne nel marzo 1977, quando fu nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga. Da quel giorno l'appuntamento si ripete con cadenza annuale su un tema particolare. Come conferma padre Horn, "al Pontefice vengono proposti tre temi ed è lui stesso a compiere la scelta. Quello di quest'anno era il primo tema della lista che gli abbiamo sottoposto".

Il tema dello scorso anno è stato la missione ad gentes, mentre l'incontro di due anni fa era incentrato sulla questione della rispondenza del Gesù descritto dai Vangeli alla storicità della sua figura e sul racconto della Passione.


(©L'Osservatore Romano - 27 agosto 2010)


la riflessione dal blog Messainlatino:

 A scuola dal Papa sull'enigma Concilio

Finalmente ci siamo: si è aperto oggi l'incontro del Papa teologo coi suoi ex allievi sul tema centrale del suo pontificato, e della vita della Chiesa: l'interpretazione del Concilio. I danni causati da quel concilio, o se preferite dalla sua applicazione malsana (un filosofo idealista però obbietterebbe: ma che cos'è il concilio se non la sua concreta interpretazione da parte dello Zeitgeist, lo spirito del suo tempo?), sono talmente giganteschi, diffusi e in espansione, che solo la crisi ariana potrebbe reggere la comparazione con i nostri tempi. Benedetto XVI ne ha piena consapevolezza e cerca di correggere la rotta con tutte le sue forze, purtroppo indebolite da un ceto ecclesiastico che in larga misura ha perso il senso della realtà e della propria missione (ed è esattamente questo, per inciso, il danno incommensurabilmente più grave prodotto dalla temperie postconciliare).
Nessuno può sognarsi che un bel giorno la Chiesa ammetta che il Concilio sia caduto in errore: essa rinnegherebbe se stessa, se lo facesse, e violerebbe il proprio principio di non contraddizione, creando un pericolosissimo precedente e fomentando l'impressione che la dottrina della Chiesa sia soggetta a fluttuazioni e ripensamenti secondo la stagione: idea molto modernista, tra l'altro.
No: la soluzione è salvare il salvabile di quel concilio (che al 95%, peraltro, è inappuntabile e ripete la dottrina antecedente); intepretare le parti ambigue e problematiche secondo l'insegnamento di sempre, con i dovuti chiarimenti e disambiguazioni chiesti, ad esempio, da mons. Gherardini (il cui libro sul Concilio proprio a sollecitare quel chiarimento è dedicato); infine lasciar cadere, riaffermandone l'aspetto pastorale e quindi per definizione contingente e caduco, le - poche - parti che apparissero davvero in rottura con la dottrina cattolica.
Leggiamo l'articolo che segue sull'incontro di questi giorni, e ricordiamo che esso non può non avere come sfondo i problemi e gli spunti che negli ultimi mesi sono stati sollevati nel corso dei colloqui con la FSSPX, videoregistrati e quindi visionati quasi certamente dal Papa teologo.
Enrico

di Salvatore Izzo

(AGI) "Perche' la ricezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si e' svolta in modo cosi' difficile?". A questa domanda che Benedetto XVI ha posto nel suo primo memorabile discorso alla Curia Romana, il 22 dicembre del 2005, tenteranno di rispondere da domani i teologi del "Ratzinger Schulerkreis", il circolo che raduna gli ex studenti di Joseph Ratzinger e che si riunisce ormai da decenni, seppur in forma diversa nel tempo, con il loro maestro ed ex professore di teologia nelle universita' di Tubinga e Ratisbona.

La pista indicata dal Papa all'inizio del suo Pontificato e' chiara: "i problemi - erano state le sue parole - sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre piu' visibilmente, ha portato e porta frutti". La prima interpretazione il Pontefice teologo l'ha chiamata "ermeneutica della discontinuita' e della rottura", la seconda "ermeneutica della continuita'", una linea che il Papa stesso sta concretizzando promuovendo nella Chiesa Cattolica un "rinnovamento nella tradizione".

All'incontro di Castelgandolfo sara' relatore il vescovo svizzero Kurt Koch, nuovo "ministro dell'ecumenismo" vaticano, un teologo ratzingeriano chiamato un mese fa a sostituire il card. Walter Kasper, seguace di una linea diversa.

Tra i partecipanti all'incontro, le cui sessioni saranno anche quest'anno a porte chiuse, l'Osservatore Romano elenca oggi il card. Christoph Schoenborn, arcivescovo di Vienna, il vescovo ausiliare di Amburgo Hans-Jochen Jaschke, docenti, parroci, religiosi, religiose e laici. "Nei giorni di venerdi' e sabato, dopo la relazione dell'arcivescovo Koch, si terra' - riferisce il giornale della Santa Sede - una libera discussione sull'argomento, alla quale prendera' parte anche il Pontefice.
Domenica mattina il momento culminante: gli ex allievi parteciperanno alla celebrazione eucaristica presieduta da Benedetto XVI al centro congressi Mariapoli. Dopo la prima colazione con il Papa, agli ex allievi si uniranno le nuove generazioni di coloro che hanno svolto la loro tesi di laurea su testi di Ratzinger, prenderanno parte anche all'Angelus nel cortile del Palazzo Pontificio di Castelgandolfo. [..]

Dopo l'elezione al Pontificato, Papa Ratzinger ha affrontato con gli ex allievi temi sempre molto impegnativi: "il concetto di Dio nell'islam" (2005), "Creazione ed evoluzione" (2006 e 2007), "il Gesu' storico e il Gesu' dei Vangeli" (2008), "la missione della Chiesa" (2009).

"Il circolo di Joseph Ratzinger era una palestra di opinioni e confronti, in cui il maestro non si imponeva e non rinchiudeva tutte le idee in un unico sistema definito, ma garantiva la relazione con gli studenti, l'obiezione e la critica", scrive Gianni Valente nel suo bel libro "Ratzinger professore".

"Il suo ruolo - spiega il giornalista - era di carattere maieutico: si dedicava a chiarire le questioni, a suggerire degli spunti e delle piste di ricerca, secondo il
magistero dei grandi classici della teologia, primo tra tutti Sant' Agostino".

L'insegnamento di Ratzinger, prosegue ancora Valente, "affrontava le questioni nodali della cultura moderna in dialogo con la Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa e si distingueva per la ricchezza delle tesi e l'ampiezza dei dibattiti proposti".

Nel suo libro, Valente ricorda un commento dell'allora prefetto del seminario di Frisinga, Alfred Laepple, che riferiva le confidenze e l'obiettivo ultimo del Ratzinger docente: "Mentre fai lezione, il massimo e' quando gli studenti lasciano da parte la penna e ti stanno a sentire. Finche' continuano a prendere appunti su quello che dici vuol dire che stai facendo bene, ma non li hai sorpresi. Quando lasciano la penna e ti guardano mentre parli, allora vuol dire che forse hai toccato il loro cuore".
[..]



********************************


E' vero che la Chiesa non potrà mai ammettere l'errore di un Concilio senza rischiare di contraddirsi e creare un grave panico al suo interno con buona pace degli esterni.... ma è certo che solo cinque anni fa discutere su questi aspetti era davvero impensabile...  
 
La Gaudium et spes all'inizio dice:  
 
Per questo il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, non esita ora a rivolgere la sua parola non più ai soli figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini. A tutti vuol esporre come esso intende la presenza e l'azione della Chiesa nel mondo contemporaneo.  
 
*******************  
 
è ovvio dunque che in tali termini, corretti, la "colpa" non è del Concilio, ma sta in questo PARLARE... in che cosa si è detto "a nome del Concilio" a queste nostre generazioni....  
 
 faccio un esempio con una domanda:  
se nel Decreto Ad Genetes o nella Costituzione Lumen Gentium PER SPIEGARLE-INTERPRETARLE, usassi "Libertas" di Leone XIII o la "Notre charge apostolique" di san Pio X contro i pericoli del modernismo, non sarebbe una correttissima AZIONE PASTORALE nella continuità magisteriale della Chiesa? Wink  
 
Nel mio piccolo ciò che vedo come gravissimo errore è stato quello di scrivere i testi del Concilio e di interpretarli(=azione pastorale ) come se fossero documenti NUOVI PER UNA NUOVA CHIESA, UNA NUOVA VISIONE DI ESSA... è come se il concetto di pastorale fosse stato inventato per la prima volta in questo Concilio....come se la Chiesa in Duemila anni non avesse mai evangelizzato o, non potendolo negare, è come se tutto ciò che la Chiesa aveva fino ad allora detto e fatto fosse stato tutto un errore... Undecided  
 
Quando leggo anche lo stesso Ratzinger parlare di liturgia coperta dalla polvere, mi viene a mente tuttavia una santa Teresa del Bambin Gesù, Dottore della Chiesa, che NON SE NE E' MAI LAMENTATA... diciamoci la verità: si lamentavano i fedeli o piuttosto si lamentava un certo Clero ANNOIATO DALL'ABITUDINARIETA' E DESIDEROSO DI UNA RIVOLUZIONE?  
Del resto questo atteggiamento non sarebbe nuovo... c'è sempre stata una fetta di Clero (con presbiteri e vescovi ), ma anche di teologi laici, INQUIETA... da Tertulliano a Marcione, da Donato ad Ario.... da Valdo a Lutero e fino ai giorni nostri, ciò che mosse lo spirito di riforma seppur in buona fede, ha sempre prodotto la divisione... "lo scandalo NECESSARIO" come avverte Cristo stesso...  
 
Ha ragione Benedetto XVI quando nella Lettera ai Vescovi sottolinea che chi vuole difendere il Concilio deve RICONOSCERE la validità ininterrotta di tutti gli altri Concili.... e per riconoscere questo occorre che su certi temi e questioni dottrinali, se i Documenti dell'ultimo Concilio non sono soddisfacenti, ricorrere agli altri Concili che ne parlarono come per esempio quello di Trento....non si scappa, questo è il vero ed unico sistema per portare la correzione....il Papa lo ha detto, bene, ora si passi ai fatti!







[Modificato da Caterina63 28/08/2010 09:43]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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28/08/2010 17:42
 
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Seconda giornata dell’incontro del Papa con i suoi ex allievi sull’interpretazione del Concilio Vaticano II

Seconda giornata, al Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, del Ratzinger Schülerkreis, il tradizionale incontro estivo degli studenti di Benedetto XVI. Tema dell’incontro, a porte chiuse, al quale prende parte anche il Papa, è quest’anno l’ermeneutica, ovvero l’interpretazione, del Concilio Vaticano II. Il momento culminante della riunione sarà la Messa presieduta domani mattina dal Pontefice al Centro Congressi Mariapoli. Riascoltiamo alcuni pensieri di Benedetto XVI sull’ermeneutica del Concilio, nel servizio di Alessandro Gisotti:


Qual è la giusta ermeneutica, la “giusta chiave di lettura e di applicazione” del Concilio Vaticano II? Benedetto XVI sottolinea che la risposta a questo interrogativo ci aiuta a comprendere perché la recezione del Concilio si sia svolta in modo così difficile in grandi parti della Chiesa. Ciò, avverte il Papa, deriva da una “ermeneutica della discontinuità” secondo la quale occorrerebbe seguire “non i testi del Concilio, ma il suo spirito”. Con ciò però, spiega il Papa, si fraintende la natura di un Concilio come tale. Esso infatti verrebbe considerato come una specie di Costituente, “che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova”. Ma la Costituente, prosegue, ha bisogno di un mandante, il popolo, e di una conferma dello stesso:

“I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso”. (
Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005)

A queste ermeneutica della discontinuità, osserva Benedetto XVI, “si oppone l’ermeneutica della riforma”, a cui si riferì Giovanni XXIII proprio nel suo discorso d’apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962. Papa Roncalli ribadiva infatti che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina senza attenuazioni o travisamenti” e che dovere dei Padri conciliari è non solo custodire il deposito della fede, ma anche approfondirlo e presentarlo “in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo”. Ecco allora, afferma il Papa, che è nell’ “insieme di continuità e discontinuità” che possiamo vedere la natura della vera riforma del Concilio:

“In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole”. (
Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005)

Per questo, è la riflessione del Pontefice, bisogna imparare a riconoscere che, in tali decisioni, “solo i principi esprimono l’aspetto duraturo”. Così, avverte, “le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare”:

“Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza”. (
Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005)

In definitiva, sottolinea Benedetto XVI, il “passo fatto dal Concilio verso l’età moderna” “appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione”. Adesso, conclude, “questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta” dalla Chiesa in questo momento:

“Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa”. (
Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005)

 Radio Vaticana
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31/08/2010 18:49
 
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l relatore monsignor Koch racconta l'esperienza dell'incontro a Castel Gandolfo

Un dibattito vivace e ricco di interventi



"Fedeltà alla tradizione, apertura al futuro:  è l'interpretazione più corretta del concilio Vaticano ii, che resta la magna charta della Chiesa anche nel terzo millennio". È quanto è emerso nel cosiddetto Ratzinger Schülerkreis secondo l'arcivescovo Kurt Koch, relatore principale all'incontro del Papa con i suoi ex allievi svoltosi dal 27 al 30 agosto a Castel Gandolfo.

Al nostro giornale il nuovo Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani parla di "un'esperienza concreta, vivace, positiva" e riassume i contenuti delle due relazioni tenute sabato 28 agosto.

"Nella prima - dice - ho proposto una riflessione su come leggere e interpretare il concilio Vaticano ii, indicando la priorità di una ermeneutica di riforma". Una "questione che ho ripreso e sviluppato nella seconda relazione, approfondendo in particolare la Costituzione Sacrosanctum concilium sulla liturgia, proprio per mostrare in concreto come si possa realizzare un'ermeneutica di riforma".

Alle due relazioni, spiega, "è seguito un dibattito di oltre un'ora, molto interessante e ricco di contributi significativi".

Secondo monsignor Koch "si è potuto cogliere come sia fondamentale la dimensione spirituale della vita cristiana, in ogni aspetto.
E questo vale, dal mio punto di vista, anche nel dialogo ecumenico che costituisce il campo di lavoro più diretto davanti a me". Proprio "la concretezza ha reso il dibattito molto utile per il lavoro di ciascuno".

A confermarlo le parole di incoraggiamento che gli ha rivolto personalmente Benedetto XVI nell'udienza privata del 30 agosto. "Abbiamo parlato - dice l'arcivescovo - di questa mia nuova sfida ecumenica perché il Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani non è una realtà a se stante ma ha un mandato del Papa per vedere come il dialogo possa svilupparsi in futuro".

Entrando nel dettaglio delle sue due relazioni, monsignor Koch spiega che la prima, centrata sul "concilio Vaticano ii tra tradizione e innovazione", è stata articolata in sette punti: 
"- una storia di ricezione e non ricezione;
- ermeneutica di riforma in una continuità fondamentale;
- rottura della tradizione del concilio; ritorno alle fonti e aggiornamento;
 - criteri di una ermeneutica della riforma (interpretazione integrale dei testi conciliari, unità di dogmatica e pastorale, nessuna divisione fra spirito e lettera);
- ampiezza e pienezza cattoliche;
- l'eredità del concilio nelle sfide attuali;
 - riforma ecclesiale come compito spirituale".

Per la seconda relazione, sulla "riforma postconciliare della liturgia tra continuità e discontinuità", monsignor Koch ha seguito uno schema di otto tematiche.
"Sono partito - spiega - dalla constatazione che
- la liturgia è il punto cruciale dell'ermeneutica conciliare, per poi trattare la fenomenologia e la teologia della liturgia;
- la liturgia nel suo sviluppo organico (con il principio della partecipazione attiva di tutti i fedeli alla liturgia e il principio di una più facile comprensibilità e semplicità dei riti);
 - luci e ombre nella liturgia post-conciliare;
- la tutela del grande patrimonio della liturgia;
- la necessaria riforma della riforma, basata sul primato cristologico,
- l'unità di culto neotestamentario e la liturgia neotestamentaria,
- la liturgia cristiana e le religioni dell'umanità,
- la dimensione cosmica della liturgia.
 Infine, la rivitalizzazione del mistero pasquale è stata l'ultima tematica presentata prima delle conclusioni".


(©L'Osservatore Romano - 1 settembre 2010)




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11/02/2011 22:52
 
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Grazie al lavoro della nostra "stakanovista" Gemma leggiamo questo secondo brano tratto da "Perchè siamo ancora nella Chiesa". Si tratta della conferenza che l'allora professor Ratzinger tenne il 4 giugno 1970.
Clicca
qui per leggere la prima parte.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli 2008

PERCHE’ SONO ANCORA NELLA CHIESA

Una metafora per la natura della Chiesa

Una Chiesa che venga considerata solo dal punto di vista politico, cioè contro tutta la sua storia e la sua natura, non ha alcun senso e la decisione di rimanere in essa, se è una decisione esclusivamente politica, non è leale anche se si presenta come tale.

Ma di fronte alla situazione attuale, come si può giustificare la permanenza nella Chiesa? In altri termini: se vuole avere senso, la scelta a favore della Chiesa deve essere di carattere spirituale – ma come si può motivare una simile scelta spirituale? Vorrei dare una prima risposta di nuovo con un paragone e con il ricorso a un’affermazione fatta in precedenza per descrivere la situazione attuale.

Avevamo detto che noi, con la nostra analisi approfondita della Chiesa, siamo arrivati talmente vicino a essa che non riusciamo più a percepirla nel suo complesso.

Questo pensiero si può approfondire ricorrendo a un’immagine che i Padri della Chiesa scoprirono nella loro meditazione simbolica sul mondo e sulla Chiesa. Essi spiegarono che nella struttura del cosmo materiale il ruolo della luna è una metafora di ciò che la Chiesa rappresenta per la realizzazione della salvezza nel cosmo spirituale- religioso. Viene ripreso qui un antichissimo simbolismo della storia delle religioni (i Padri non hanno mai parlato di "teologia delle religioni", ma l’hanno attuata), in cui la luna, come simbolo tanto della fertilità e della fragilità, della morte e della caducità, quanto anche della speranza nella rinascita e nella resurrezione, era l’immagine dell’esistenza umana, "patetica e insieme consolatrice".

Il simbolismo lunare e quello terrestre si fondono spesso: la luna, nella sua fugacità e nella sua rinascita, rappresenta il mondo dell’uomo, il mondo terreno, questo mondo che è limitato dal bisogno di ricevere e che ottiene la propria fertilità non da se stesso, ma da qualche altra parte, dal sole
.

In questo modo il simbolismo lunare diventa anche il simbolo dell’essere umano, così come esso si manifesta nella donna, che concepisce ed è fertile in forza del seme che riceve. I Padri applicarono il simbolismo lunare alla Chiesa soprattutto per due motivi: per la relazione luna-donna (madre) e per il fatto che la luce della luna non è luce propria, ma luce del sole, senza il quale essa sarebbe solo oscurità; la luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di qualcun altro. Essa è buio e luce allo stesso tempo. In se stessa è oscurità, ma dona luminosità in virtù di un altro, di cui riflette la luce.

Proprio per questo essa rispecchia la Chiesa, che illumina pur essendo essa stessa buio; non è luminosa in virtù della propria luce, ma riceve quella del vero sole, Gesù Cristo, cosicché – sebbene essa stessa sia solo terra (anche la luna non è che un’altra terra) – è tuttavia in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - la luna narra il mistero di Cristo.

Non si devono forzare i simboli; ciò che hanno di prezioso consiste proprio in una ricchezza di immagini che si sottrae agli schematismi logici. Tuttavia oggi, nell’epoca del viaggio sulla luna, si impone un ampliamento del paragone, con il quale si metta in evidenza, confrontando il pensiero fisico e quello simbolico, lo specifico della nostra situazione anche rispetto alla realtà della Chiesa.

L’astronauta e la sonda lunare scoprono la luna solo come roccia, deserto, sabbia, montagne, ma non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto questo: deserto, sabbia, roccia. Tuttavia, per merito di altri e in funzione di altri ancora, essa è anche luce e rimane tale anche nell’epoca dei viaggi nello spazio. E’ quindi ciò che non è in se stessa.
L’altro, ciò che non è suo, fa comunque parte anche della sua realtà. Esiste una verità della fisica e una verità poetico-simbolica e l’una non annulla l’altra. Allora chiedo: questa non è forse un’immagine molto precisa della Chiesa?

Chi la esplora e la percorre con la sonda spaziale, può scoprire solo deserto, sabbia, roccia, le debolezze dell’uomo, i deserti, la polvere e le altezze della sua storia. Tutto ciò le appartiene, ma non rappresenta la sua effettiva realtà.

L’elemento decisivo è che essa, benché sia solo sabbia e sassi, è di certo anche luce in virtù di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è veramente suo, la sua effettiva natura, anzi, la sua natura consiste nel fatto che essa non vale per ciò che è, bensì solo per ciò che non è suo. Essa esiste in qualcosa che è al di fuori di essa e ha una luce che, pur non essendo sua, costituisce tutta la sua essenza. Essa è "luna" -mysterium lunae – e così riguarda i credenti, perché proprio così essa è il luogo di una costante scelta spirituale.

Poiché il significato espresso in quest’immagine mi sembra di importanza decisiva, prima di tradurlo dal linguaggio metaforico in affermazioni oggettive, vorrei chiarirlo meglio con un’altra osservazione.
Dopo la traduzione in tedesco della liturgia, secondo l’ultima riforma, mi si presentava continuamente una difficoltà linguistica nel recitare un testo, che appartiene proprio a questo stesso contesto e che è sintomatico per ciò di cui si tratta qui.

Nella traduzione tedesca del Suscipiat si dice: il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio "per il bene nostro e di tutta la Sua santa Chiesa"
.

A me veniva sempre spontaneo dire: "E di tutta la nostra santa Chiesa".

In questa difficoltà linguistica viene alla luce tutta la problematica che stiamo trattando e diventa chiaro il fatto che siamo incorsi in una deviazione di prospettiva.

Al posto della Sua Chiesa è subentrata la nostra e con essa le molte chiese: ognuno ha la propria.
Le chiese sono diventate nostre imprese, di cui siamo orgogliosi o ci vergogniamo, tante piccole proprietà private che stanno una accanto all’altra, chiese soltanto "nostre, che noi stessi costruiamo, che sono opera e proprietà nostra, e che noi vogliamo trasformare o conservare come tali.

Dietro alla "nostra Chiesa" o anche alla "vostra Chiesa" è scomparsa la "sua Chiesa".
Ma solo quest’ultima interessa e se non esiste più anche la "nostra" Chiesa deve abdicare.
Se fosse soltanto nostra, la Chiesa sarebbe solo un inutile gioco da bambini
.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli

Copia di questo post viene pubblicata sul blog "RACCOLTA DI TESTI DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI"

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11/02/2011 23:17
 
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"Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia"


da Joseph Ratzinger "La mia vita: ricordi, 1927-1977", Edizioni San Paolo, 1997.

...

Il secondo grande evento all'inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi.

Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo.

Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale.

Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale.
Ma la verità storica è un'altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli.

Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, però, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste.
 
C'è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica.

Il nuovo, dopo il concilio di Trento, fu di altra natura: l'irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di "riforme" liturgiche. Non c'erano semplicemente una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l'una accanto all'altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire.

In questa situazione di confusione, resa possibile dalla mancanza di una normativa liturgica unitaria e dal pluralismo liturgico ereditato dal medioevo, il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima.
 
Dove questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro. Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati.
 
Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche.

Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti.

Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi.

In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia "fatta", che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di " donato ", ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna " comunità " voglia darsi una propria liturgia.

Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita.

Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita "etsi Deus non daretur": come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta.

Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l'unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov'è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale?
Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena. E, dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza, ma, in quanto unità, ha origine per la fede dal Signore stesso, diventa inevitabile in queste condizioni che si arrivi alla dissoluzione in partiti di ogni genere, alla contrapposizione partitica in una Chiesa che lacera se stessa. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano II. 

Libreria Editrice Vaticana

da Joseph Ratzinger "
La mia vita: ricordi, 1927-1977", Edizioni San Paolo, 1997.
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28/08/2011 00:34
 
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VERITA', LITURGIA E CARITA': TRINOMIO INSCINDIBILE NELLA VITA DELLA CHIESA

di don Enrico Finotti

(Parroco di S. Maria del Carmine di Rovereto -TN)

 

La vita della Chiesa è fondata sul mandato missionario, che il Signore Gesù ha dato ai suoi discepoli:

 «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 18-20).

 

Jesus

 

 

Questo ‘mandato’ contiene in perfetta sintesi e in ordine logico le tre attività fondamentali che costituiscono l’azione ministeriale della Chiesa per l’edificazione di se stessa e la sua missione nel mondo: l’annunzio del vangelo di Verità (munus docendi); la celebrazione liturgico-sacramentale dei Misteri (munus santificandi) e l’educazione morale alla Vita evangelica (munus gubernandi). Ogni cristiano, in realtà, ha ricevuto, fin dal battesimo, il triplice munus - profetico, sacerdotale e regale -, che lo abilita ad assolvere il ‘mandato’ di Cristo. “Egli stesso ti consacra con il crisma di salvezza, perché inserito in Cristo, sacerdote, re e profeta, sia sempre membro del suo corpo per la vita eterna” (Rito romano del battesimo). La Chiesa è allora chiamata all’annunzio della Verità, alla celebrazione della Liturgia, all’esercizio della Carità. Verità, Liturgia e Carità sono così i pilastri portanti della vita della Chiesa di tutti i tempi e in tutti i luoghi. Queste tre colonne sono così importanti per la Chiesa in quanto, come si è visto, reggono la stessa vita divina ad intra: Dio, infatti, è somma Verità, Culto perfetto e beatificante, Carità infinita e vivificante.  Esse poi, nella pienezza del tempo, risplendono sul volto di Cristo, immagine del Padre. Esse sono pure impresse dal Creatore nella natura angelica e umana. Sono quindi la struttura ultima dell’Essere assoluto e degli esseri creati a sua immagine. La Chiesa quindi, assolvendo a questi tre compiti, nella sua vita ad intra e nella sua missione ad extra, non fa che assecondare in se stessa e manifestare al mondo quella che è la sua identità profonda, impressa dal Creatore ed elevata dal Redentore. La coscienza di questa impostazione teologica viene eloquentemente consacrata ed espressa nella Costituzione dogmatica Lumen gentium del Concilio Vaticano II, a cui fa eco l’impostazione del Codice di Diritto Canonico e quella del Catechismo della Chiesa Cattolica. Ciò che ancora importa rilevare è la connessine indissolubile dei tre elementi, in maniera tale che nessuno può reggere senza gli altri o comunque la corruzione di uno porta alla inevitabile debilitazione degli altri. Valgono qui le parola del Signore “L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto” (Mc 10, 9). L’indagine condotta in questo studio, lungo le tappe della storia della salvezza, lo dimostra in modo convincete alla luce dell’esperienza millenaria delle vicende dell’umanità secondo la testimonianza del testo biblico.

In particolare si può osservare che la crisi della Verità genera ineluttabilmente quella della Liturgia e della Carità. Infatti quando il nostro sguardo contempla la Verità in tutto il suo splendore o comunque in immagini vere, subito nel nostro cuore nasce la gioia, la gratitudine, l’approvazione, la lode, l’acclamazione e infine l’adorazione a Dio che si rivela a noi nella verità di ogni cosa che ci circonda e che i nostri sensi corporei colgono la nostra mente elabora. Questo moto interiore di riconoscimento grato e adorante della Verità è in fin dei conti un atto liturgico, che insorge in ogni persona retta e buona, che si incontra con ciò che é vero, bello e buono, comunque e dovunque si manifestino. La Verità, dunque, suscita la Liturgia. Al contempo ne nasce un ulteriore moto, quello dell’amore, che immediatamente spinge il cuore umano ad accogliere, ad abbracciare, a gioire, a desiderare e a donare quella verità che sta davanti e che suscita tanta contemplazione e gratitudine. Ecco allora che Verità, Liturgia e Carità sono moti simultanei e concatenati di un profondo e spontaneo impulso vitale dell’uomo, che è fatto geneticamente ed è proiettato irresistibilmente per accogliere la Verità, contemplandola liturgicamente e abbracciandola caritatevolmente. Quando tuttavia alla nostra mente e ai nostri sensi si presenta la caricatura della verità e ci si trova davanti alla falsità, ossia quando davanti al nostro sguardo la Verità, la Bontà e la Bellezza sono offesi e degenerati, subito insorge un moto interiore di disgusto, lo sguardo si ritrae, il volto si fa’ triste, la lode si spegne, la gratitudine si arresta, l’adorazione si paralizza. In altri termini, crolla la Liturgia. Essa infatti non contempla più il suo oggetto o lo vede avvilito in riduzioni indegne e in caricature abbiette. La Liturgia, infatti, ha il fiuto della Verità, e s’allontana dalla sua falsificazione. Al contempo il cuore che cerca e ama ciò che è vero, buono e bello, s’arresta dall’oggetto del suo desiderio vedendolo debilitato, abbruttito, mostrificato e l’amore si cambia in odio, ossia in avversione, in allontanamento e in fuga da ciò che invece avrebbe dovuto attrarre. E’ la crisi della Carità, che crolla davanti al crollo della Verità, che sola ha diritto di raccogliere e soddisfare la facoltà amante dell’uomo. Ecco che crollata la Verità crollano inevitabilmente la Liturgia e la Carità, perché incapaci geneticamente di aderire ad oggetti che non possono reggere nel confronto della Verità. E’ ciò che succede nell’idolatria come forma corrotta di adesione agli idoli, falsificazione dell’unico e sommo Dio.

Allora la Liturgia trova la sua più vera identità e la più solida stabilità nella saldezza del dogma della fede. La crisi del dogma, l’incrinatura della dottrina, la nebulosità dell’annunzio evangelico provocano il crollo della Liturgia, in quanto minano il contenuto interiore del Mistero che la Liturgia celebra. La radice sintattica del termine ortodossia, che si usa normalmente per affermare la retta fede, significa letteralmente ortodoxia (Doxa = gloria), ossia il retto modo di glorificare, di adorare e quindi il modo giusto di celebrare. La regola della fede coincide allora con la regola della liturgia(1). Ma la crisi della Liturgia oggi si inscrive nel contesto della ben più profonda crisi della Verità, non solo nell’ambito teologico della riflessione e in quello omiletico e catechistico della pastorale, ma ancor più nella crisi filosofica della metafisica. Infatti, oggi è la ragione come facoltà in grado di poter cogliere le verità spirituali, al di là dell’esperienza scientifica, che è compromessa. Non si crede più, anzi si nega, o comunque si dubita, che la ragione umana sia capace di individuare con sicurezza, anche se in modo analogico, le verità soprannaturali, al di sopra di quelle quantificabili dalle scienze empiriche, ossia si dichiara l’impossibilità della metafisica. La crisi della fede allora è anzitutto oggi la crisi della ragione, senza la quale la fede stessa sarebbe privata di un costitutivo essenziale quale è la retta razionalità e si ridurrebbe ad un fragile e soggettivo fideismo. Nella crisi generale, propria della cultura europea, della filosofia fondamentale, non fa meraviglia che ne segua una generale crisi dei principi stessi su cui si fonda la Liturgia, venendo meno la possibilità di approccio al suo contenuto, il mistero rivelato, nell’oggettività di fatti storici e di precisi contenuti logici.

Al contempo anche la crisi della Liturgia, che intendesse esprimersi in forme inadeguate, difformi dalla divina bellezza e in una creatività soggettiva, intacca il dogma della fede, o comunque lo oscura, lo riduce e lo traduce in espressioni insufficienti, mancanti e mediocri. La crisi del linguaggio liturgico è una conseguenza della più vasta crisi del linguaggio in generale. Infatti, in analogia alla crisi del concetto, non si ritiene possibile l’impiego di termini e simboli universali e permanenti, ma solo di espressioni contingenti, continuamente mutevoli e create volta a volta dal soggetto, senza alcuna base oggettiva. E’ questa una delle cause di una certa creatività sempre in movimento e di una continua ricerca mai conclusa. Da ciò si capisce come Verità e Liturgia interagiscano a vicenda e senza possibilità di indipendenza e l’una e l’altra subiscano i contraccolpi positivi o negativi del loro stato di salute.

Infine la pastorale, in tutte le sue manifestazioni più varie, che sono l’espressione molteplice della Carità che irrompe benefica in ogni aspetto della vita sociale e individuale, determinerà la sua qualità, sia dalla Verità del dogma, che è oggetto dell’annunzio, quale Parola di Dio, sia dalla Liturgia, che è l’incontro salvifico  e la contemplazione orante col Mistero che qui ed ora ci salva. Infatti la Liturgia, che porta in se stessa anche il momento più eccelso ed efficace dell’annunzio della Verità, è il culmine verso cui tende l’azione pastorale della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù (SC 10). È allora evidente come Verità, Liturgia e Carità esprimano quel trinomio così inscindibile e interagente da essere quasi l’immagine dell’unione mirabile e della comunione indivisibile della Trinità divina, in seno alla quale Verità, Liturgia e Carità hanno la loro fonte e il loro modello. inizio

 

(Testo tratto da “La centralità della liturgia nella storia della salvezza”, Edizioni Fede & Cultura, pp. 84-88).

(1)  J. RATZINGER, Introduzione allo spirito della liturgia, pp. 155-156.

 

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per ricordare:

[SM=g1740733]

"Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia"  
 Joseph Ratzinger da: "La mia vita: ricordi, 1927-1977", Edizioni San Paolo, 1997.  
 
Benedetto XVI al Clero di Lorenzago luglio 2007  
 I tempi di un post-Concilio sono quasi sempre molto difficili. Dopo il grande Concilio di Nicea - che per noi è realmente il fondamento della nostra fede, di fatto noi confessiamo la fede formulata a Nicea – non è nata una situazione di riconciliazione e di unità come aveva sperato Costantino, promotore di tale grande Concilio, ma una situazione realmente caotica di lite di tutti contro tutti. San Basilio nel suo libro sullo Spirito Santo paragona la situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea ad una battaglia navale di notte dove nessuno più conosce l’altro, ma tutti sono contro tutti. Era realmente una situazione di caos totale: così descrive con colori forti il dramma del dopo Concilio, del dopo Nicea, San Basilio. Poi 50 anni dopo, per il Concilio primo di Costantinopoli, l’imperatore invita San Gregorio Nazianzeno a partecipare al Concilio e San Gregorio Nazianzeno risponde: No, non vengo, perché io conosco queste cose, so che da tutti i Concili nasce solo confusione e battaglia, quindi non vengo. E non è andato. Quindi non è adesso, in retrospettiva, una sorpresa così grande come era nel primo momento per noi tutti digerire il Concilio...... 

[SM=g1740771]

[Modificato da Caterina63 04/08/2012 20:48]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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