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Joseph Ratzinger: La Teologia della Liturgia

Ultimo Aggiornamento: 06/11/2012 18:18
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22/12/2008 21:24
 
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liturgia 


Nel Luglio del 2001, senza gran risalto, presso l'Abbazia francese di Fontgobault un gruppo di eminenti studiosi tenne un convegno che si può definire storico: "La situazione della liturgia antica nel contesto della riforma della riforma", questo il titolo. L'assise di tre giorni chiamò all'appello molti liturgisti del "nuovo corso", con alcune oculate omissioni e qualche dimenticanza, e pose definitivamente le basi per una revisione della questione liturgica, anche e soprattutto alla luce della cosiddetta "riforma della riforma".

Ecco l'intervento limpido e appassionato che l'allora Prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede pronunciò in quell'occasione e che si può considerare a pieno titolo un testo miliare del pensiero liturgico benedettiano. Lo consigliamo a tutti coloro che, onesti e liberi come Benedetto XVI, sono disposti a maturare in se quella differenza necessaria per cogliere il senso profondo del Summorum Pontificum.

 


***

La Teologia della Liturgia.



di Joseph Ratzinger

Il Concilio Vaticano II definisce la liturgia come "l'opera del Cristo sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa" (Sacrosanctum Concilium , n. 7). L'opera di Gesù Cristo è designata nello stesso testo come l’opera della redenzione che il Cristo ha compiuto in modo particolare attraverso il mistero pasquale della Sua passione, della Sua Resurrezione dai morti e della Sua gloriosa ascensione. "Con questo mistero, morendo, ha distrutto la nostra morte e, risorgendo, ha restaurato la vita" (Sacrosanctum Concilium , n. 5).

A prima vista, in queste due frasi la parola "opera del Cristo" sembra utilizzata in due distinti significati. L’opera del Cristo designa in primo luogo le azioni redentrici storiche di Gesù, la Sua morte e la Sua Resurrezione; d’altra parte si definisce "opera del Costo" la celebrazione della liturgia. In realtà, i due significati sono inseparabilmente legati: la morte e la Resurrezione, il mistero pasquale non sono soltanto avvenimenti storici esteriori. Per la Resurrezione, questo appare molto chiaramente.

Raggiunge e penetra la storia, ma la trascende in un doppio senso; non è l’azione di un uomo bensì una azione di Dio, e conduce in tal modo Gesù risuscitato oltre la storia, là dove siede alla destra del Padre. Neanche la croce è una semplice azione umana.

L’aspetto puramente umano è presente nelle persone che condussero Gesù alla croce. Per Gesù, la croce non è un’azione, ma una passione, e una passione che significa che Egli è un tutt’uno con la volontà divina, un’unione della quale l’episodio dell’Orto degli Ulivi ci fa vedere l’aspetto drammatico.

Così la dimensione passiva della Sua messa a morte si trasforma nella dimensione attiva dell’amore: la morte diventa abbandono di se stesso al Padre per gli uomini. In questo modo l’orizzonte si estende, qui come nella Resurrezione, ben al di là del puro aspetto umano e ben al di là del puro fatto di essere stato crocifisso e di essere morto.

Il linguaggio della fede ha chiamato mistero questa eccedenza riguardo al mero istante storico e ha condensato nel termine mistero pasquale il nocciolo più intimo dell’avvenimento redentore. Se possiamo dire da allora in poi che il mistero pasquale costituì il nocciolo dell’opera di Gesù, il rapporto con la liturgia è già patente; è precisamente questa opera di Gesù che è il vero contenuto della liturgia. Tramite questa, con la fede e la preghiera della Chiesa, l’opera di Gesù raggiunge continuamente la storia per penetrarla.

Nella liturgia il puro istante storico è così trasceso di nuovo ed entra nell’azione divino-umana permanente della redenzione. In questa Cristo è il vero soggetto: e l’opera del Cristo, ma in essa Egli attira a sé la storia, precisamente in questa azione che è il luogo della nostra salvezza.

Il sacrificio rimosso in questione


Tornando al Vaticano II, vi troviamo la seguente descrizione di questi rapporti: "La liturgia, mediante la quale, soprattutto nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e l’autentica natura della vera Chiesa" (ibid. n. 2).

Tutto ciò è diventato estraneo al pensiero moderno e nemmeno trent’anni dopo il concilio, persino tra i liturgisti cattolici, è oggetto di punti interrogativi. Oggi chi parla ancora del sacrificio divino dell’Eucaristia? Certo le discussioni intorno alla nozione di sacrificio sono tornate ad essere sorprendentemente vive, sia da parte cattolica che protestante. Si avverte che in un’idea che ha sempre occupato, sotto molte forme, non soltanto la storia della Chiesa, ma la storia intera dell’umanità, vi deve esserci l’espressione di qualche cosa di essenziale che riguarda anche noi.

Ma nello stesso tempo restano ancora vive ovunque le vecchie posizioni dell’illuminismo: accusa a priori di magia e di paganesimo, sistematiche opposizioni tra rito ed ethos, concezione di un cristianesimo che si libera dal culto ed entra nel mondo profano; teologi cattolici che non hanno per nulla voglia, per l’appunto, di vedersi tacciare di anti-modernità.


Anche se si ha in un modo o nell'altro il desiderio di ritrovare il concetto di sacrificio, ciò che alla fine resta è l’imbarazzo e la critica. Così recentemente Stephan Orth, in un vasto panorama della bibliografia recente consacrata al terna del sacrificio, ha creduto di riassumere tutta la sua inchiesta con le constatazioni seguenti: oggi, persino molti cattolici ratificano il verdetto e le conclusioni di Martin Lutero, per il quale parlare di sacrificio è il più grande e spaventoso errore, è una maledetta empietà.

Per questo motivo vogliamo astenerci da tutto ciò che sa di sacrificio, compreso tutto il canone e considerare solo tutto ciò che è santo e puro.
 
Poi Orth aggiunge: " dopo il Concilio Vaticano II questa massima fu seguita anche nella Chiesa cattolica, per lo meno come tendenza, e condusse a pensare anzitutto il culto divino a partire dalla festa della Pasqua, citata nel racconto della Cena. Facendo riferimento ad un’opera sul sacrificio edita da due liturgisti cattolici di avanguardia, dice in seguito, in termini un po’ più moderati, che appare chiaramente che la nozione di sacrificio della Messa, più ancora di quella del sacrificio della Croce, è nel migliore dei casi una nozione che si presta molto facilmente a malintesi
.

Non è necessario che dica che io non faccio parte dei "numerosi" cattolici che considerano con Lutero come il più spaventoso errore e una maledetta empietà il fatto di parlare di sacrificio della Messa".

Si comprende parimenti che il redattore abbia rinunciato a menzionare il mio libro sullo Spirito della liturgia che analizza nel dettaglio la nozione di sacrificio.


La sua diagnosi risulta costernante. È anche vera? Io non conosco questi numerosi cattolici che considerano come una maledetta empietà il fatto di comprendere l’Eucaristia come un sacrificio. La seconda diagnosi, più cauta, secondo la quale si considera la nozione di sacrificio della Messa come concetto altamente esposto a malintesi, si presta invece a facile verifica. Ma, se si lascia da parte la prima affermazione del redattore, non trovandoci che una esagerazione retorica, resta un problema sconvolgente che occorre risolvere.

Una parte non trascurabile di liturgisti cattolici sembra essere praticamente arrivata alla conclusione che occorre dare sostanzialmente ragione a Lutero contro Trento nel dibattito del XVI secolo; si può del pari ampiamente constatare la medesima posizione nelle discussioni post-conciliari sul sacerdozio.

Il grande storico del Concilio di Trento, Hubert Jedin, indicava questo fatto nel 1975, nella prefazione all’ultimo volume della sua Storia del Concilio di Trento: "il lettore attento... non sarà, leggendo ciò, meno costernato dell’autore, quando si renderà conto del numero di cose, a dire il vero quasi tutte, che, avendo una volta agitato gli uomini, sono di nuovo proposte oggi".


Solo a partire da qui, dalla squalifica pratica di Trento, si può comprendere l’esasperazione che accompagna la lotta contro la possibilità di celebrare ancora, dopo la riforma liturgica, la Messa secondo il messale del 1962. Questa possibilità è la contraddizione più forte e quindi la meno tollerabile in rapporto all’opinione di colui che ritiene che la fede nell’Eucaristia formulata a Trento abbia perso il suo valore. Sarebbe facile raccogliere prove a sostegno di questa situazione.


Faccio astrazione dalla teologia liturgica estrema di Harald Schutzeichel, che si stacca completamente dal dogma cattolico ed espone, per esempio, l’affermazione avventurosa che soltanto nel Medioevo l’idea di presenza reale sarebbe stata inventata. Un liturgista di punta, come David N. Power, ci insegna che nel corso della storia non solo la maniera con la quale una verità viene espressa, ma lo stesso contenuto di ciò che vi è espresso può perdere il suo significato. Mette concretamente questa teoria in rapporto con gli enunciati di Trento.

Th. Schnitker ci dice che una liturgia rinnovata include egualmente una espressione differente della fede e dei cambiamenti teologici. Del resto, secondo lui ci sarebbero teologi, per lo meno nel cerchio della Chiesa romana e della sua liturgia, che non avrebbero ancora colto la portata di queste trasformazioni promosse dalla riforma liturgica nel campo della dottrina della fede. L’opera senza dubbio seria di R. Messner sulla riforma della Messa in Martin Lutero e l’Eucaristia della Chiesa antica, che contiene molte interessanti riflessioni, giunge tuttavia alla conclusione che Lutero comprese la Chiesa antica meglio di Trento.

La gravità di queste teorie consiste nel fatto che frequentemente passano subito nella pratica. La tesi secondo la quale è la comunità in quanto tale il soggetto della liturgia passa per una autorizzazione a manipolare la liturgia secondo la comprensione di ciascuno. Pretese nuove, scoperte e le forme che ne conseguono si diffondono con una stupefacente rapidità e con una obbedienza riguardo a tali mode che da tempo non esiste più riguardo alle norme dell’autorità ecclesiastica. Delle teorie nel campo della liturgia si trasformano oggi molto rapidamente in pratica e la pratica, a sua volta, crea o distrugge comportamenti e forme di comprensione [SM=g1744228]


La problematica del resto si è nel frattempo aggravata per il motivo che il movimento più recente dell’illuminismo supera di gran lunga Lutero. Mentre Lutero prendeva ancora alla lettera i racconti della Istituzione e li poneva come norma normans, come fondamento dei suoi tentativi di riforma, le ipotesi della critica storica stanno da tempo provocando un’ampia erosione dei testi.

I racconti della Cena appaiono come un prodotto della costruzione liturgica della comunità; dietro ad essi si cerca un Gesù storico che "naturalmente" non poteva aver pensato al dono del Suo corpo e del Suo sangue, né aver compreso la Sua croce come sacrificio di espiazione; bisognerebbe piuttosto pensare a un pasto d’addio contenente una prospettiva escatologica. [SM=g7581]


Non solo l’autorità del Magistero ecclesiale è declassata agli occhi di molti, ma anche la Scrittura, al posto della quale entrano delle ipotesi pseudo-storiche mutevoli, che in fondo daranno spazio a qual si voglia arbitrio ed espongono la liturgia alla mercé della moda. Laddove sulla base di tali idee si manipola sempre più liberamente la liturgia, i credenti sentono che in realtà nulla vi è celebrato ed è comprensibile che abbandonino la liturgia e con questa la Chiesa.

I principi della ricerca teologica


Torniamo dunque alla questione fondamentale: è giusto qualificare l’Eucaristia di sacrificio divino, oppure è una maledetta empietà? In questo dibattito occorre per prima cosa stabilire i principali presupposti che determinano in ogni caso la lettura della Scrittura e conseguentemente le conclusioni che se ne traggono. Per il cristiano cattolico qui si impongono due linee ermeneutiche essenziali di orientamento.

La prima: noi diamo fiducia alla Scrittura e ci basiamo sulla Scrittura, non su ricostruzioni ipotetiche che si collocano al di qua di essa e ricostruiscono a modo loro una storia nella quale svolge un ruolo fondamentale la domanda presuntuosa di sapere ciò che si può o ciò che non si può attribuire a Gesù; il che significa "naturalmente" solo ciò che un erudito moderno vuole attribuire a un uomo di un tempo che lui stesso ha ricostruito.


La seconda è che noi leggiamo la Scrittura nella comunità vivente della Chiesa e dunque sulla base di decisioni fondamentali, grazie alle quali è divenuta storicamente efficace e ha precedentemente gettato le basi della Chiesa. Non bisogna separare il testo da questo contesto vivente. In questo senso la Scrittura e la Tradizione formano un tutto inseparabile e questo è il punto che Lutero, all’alba del risveglio dalla coscienza storica, non è riuscito a vedere. Egli credeva alla univocità della lettera, univocità che non esiste e alla quale ha da lungo tempo rinunciato la storiografia moderna.


Che nella Chiesa nascente, l’Eucaristia sia stata sin dall’inizio compresa come sacrificio, persino in un testo come la Didachè, difficile e piuttosto marginale in rapporto alla grande tradizione, è un elemento di interpretazione di prim’ordine.

Ma c’è ancora un oltre aspetto ermeneutico fondamentale nella lettura e nella interpretazione della testimonianza biblica. Il fatto che io possa o no riconoscere un sacrificio nell’Eucaristia, così come il Signore l’ha istituita, si collega essenzialmente alla questione di sapere ciò che io intendo per sacrificio, dunque a ciò che si chiama pre-comprensione. La pre-comprensione di Lutero, per esempio, in particolare la sua concezione dell’avvenimento e della presenza storica della Chiesa, era tale che la categoria di sacrificio, così come egli la vedeva, non poteva nella sua applicazione all’Eucaristia della Chiesa apparire che come un’empietà.


I dibattiti ai quali si riferisce Stephan Orth mostrano quanto confusa e ingarbugliata è la nozione di sacrificio in quasi tutti gli autori e mettono in condizione di vedere tutto il lavoro da farsi sull’argomento. Per il teologo credente risulta evidente che è la stessa Scrittura che deve fargli da guida verso la definizione essenziale di sacrificio e ciò a partire da una lettura "canonica" della Bibbia nella quale la Scrittura è letta nella sua unità e nel suo movimento dinamico, le cui diverse tappe ricevono il loro significato ultimo da Cristo, al quale questo movimento nella sua interezza conduce.

In questa stessa misura, l’ermeneutica qui presupposta è una ermeneutica della fede, fondata sulla sua logica interna. Non dovrebbe essere, in fondo, una evidenza? Poiché senza la fede, la stessa Scrittura non è la Scrittura, ma un insieme piuttosto disparato di brani letterari, il che non potrebbe rivendicare oggi alcun significato normativo.


Il sacrificio e la Pasqua [SM=g1740720]


Il compito al quale si fa qui allusione supera di molto, beninteso, i limiti di una conferenza; mi sia allora permesso di rimandare al mio libro su Lo spirito della liturgia, nel quale ho cercato di tracciare le grandi linee di questa questione. Ciò che se no deduce è che, nel suo percorso attraverso la storia delle religioni e la storia biblica, la nozione di sacrificio assume delle connotazioni che vanno ben oltre la problematica che noi leghiamo abitualmente alla nozione di sacrificio. Di fatto, apre l’accesso alla comprensione globale del culto e della liturgia: sono queste grandi prospettive che vorrei tentare di indicare qui. In questo modo devo necessariamente rinunciare a questioni speciali d’esegesi, in particolare al problema fondamentale dell’interpretazione dei racconti dell’istituzione, riguardo alla quale, oltre al mio libro sulla liturgia, ho cercato di fornire alcuni elementi nel mio contributo su Eucaristia e Missione.


C’è tuttavia una indicazione che non posso impedirmi di dare. Nella menzionata rassegna bibliografica Stephan Orth dice che il fatto di avere evitato, dopo il Vaticano II, la nozione di sacrificio, ha condotto a "pensare il culto divino soprattutto a partire dal rito della Pasqua, rapportata nei racconti della Cena". Questa formulazione appare a prima vista ambigua: si pensa il culto divino a partire dalla Cena, oppure dalla festa di Pasqua che vengono indicate come quadro temporale, ma non vengono descritte ulteriormente?

Sarebbe giusto dire che la Pasqua ebraica, la cui istituzione è riportata in Es 12, acquista nel Nuovo Testamento un nuovo senso. Proprio in essa si manifesta un grande movimento storico che va dalle origini fino alla Cena, alla Croce e alla Resurrezione di Gesù. Ma ciò che stupisce, soprattutto nella formulazione di Orth, è l’opposizione costruita tra l’idea di sacrificio e la Pasqua.

I dati veterotestamentari giudaici privano tutto ciò di senso, poiché dalla legislazione deutoronomistica l’uccisione degli agnelli è legata al tempio; ma persino nel periodo primitivo, in cui la Pasqua era ancora una festa familiare, l’uccisione degli agnelli aveva già un carattere sacrificale. Così, per l’appunto attraverso la tradizione della Pasqua, l’idea di sacrificio arriva fino alle parole e ai gesti della Cena, dove è presente, del resto, sulla base di un secondo passaggio veterotestamentario, Es 24, che riporta la conclusione dell’Alleanza del Sinai. Là è riferito che il popolo fu asperso col sangue delle vittime condotte in precedenza e che Mosè disse in quella occasione: "Questo è il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole" (Es 24,8).
 

La nuova Pasqua cristiana è così espressamente interpretata nei racconti della Cena come un avvenimento sacrificante e, sulla base delle parole della Cena, la Chiesa nascente sapeva che la croce era un sacrifico, poiché la Cena sarebbe stata un gesto vuoto senza la realtà della croce e della Resurrezione, che vi è anticipata e resa accessibile per tutti i tempi nel suo contenuto interno. [SM=g1740721]


Menziono questa strana opposizione tra la Pasqua e il sacrificio, perché rappresenta il principio architettonico di un libro recentemente pubblicato dalla Fraternità San Pio X, che pretende esista una rottura dogmatica tra la nuova liturgia di Paolo VI e la precedente tradizione liturgica cattolica.


Questa rottura è vista precisamente nel fatto che tutto ormai si interpreta a partire dal "mistero pasquale" al posto del sacrificio redentore d’espiazione del Cristo; la categoria del mistero pasquale sarebbe l’anima della riforma liturgica ed è proprio questo a dare la prova della rottura verso la dottrina classica della Chiesa. È chiaro che vi sono autori che prestano il fianco a un simile malinteso. Ma che si tratti di un malinteso è assolutamente evidente per chi osserva il fatto da vicino. In realtà, il termine di mistero pasquale rinvia chiaramente agli avvenimenti che hanno avuto luogo nei giorni che vanno dal Giovedì Santo al mattino di Pasqua: la Cena come anticipazione della Croce, il dramma del Golgota e la Resurrezione del Signore.

Nel termine di mistero pasquale, questi episodi sono visti sinteticamente come un unico avvenimento, unitario, come "l’opera del Cristo", così come l’abbiamo inizialmente sentito dire dal Concilio, come una realtà che è storicamente avvenuta e allo stesso tempo trascende questo preciso istante.

Poiché questo avvenimento è, interiormente, un culto reso a Dio, ha potuto diventare un culto divino e in questo modo essere presente in ogni istante. La teologia pasquale del Nuovo Testamento, alla quale abbiamo dato un rapido sguardo, dà precisamente a intendere questo: l’episodio apparentemente profano della crocifissione del Cristo è un sacrificio d’espiazione, un atto salvatore dell’amore riconciliatore del Dio fatto uomo. La teologia della Pasqua è una teologia della redenzione, una liturgia di un sacrificio espiatorio. Il pastore è diventato agnello. La visione dell’agnello, che appare nella storia di Isacco, dell’agnello che rimane impigliato negli sterpi e riscatta il figlio, è diventata una realtà: il Signore si fa agnello, si lascia legare e sacrificare, per liberarci.

Tutto ciò è divenuto estremamente estraneo al pensiero contemporaneo.

Riparazione, "espiazione"
, può forse evocare qualche cosa nel quadro dei conflitti umani e nella liquidazione della colpabilità che regna tra gli esseri umani, ma la sua trasposizione al rapporto tra Dio e l’uomo non può sortire buon esito. Ciò si collega sicuramente al fatto che la nostra immagine di Dio è impallidita, si è avvicinata al deismo. Non ci si può più immaginare che l’errore umano possa ferire Dio e ancor meno che debba avere bisogno di una espiazione, simile a quella che costituisce la croce del Cristo. Stessa cosa per la sostituzione vicaria: non possiamo affatto rappresentarci qualche cosa a questo riguardo. La nostra immagine dell’uomo è diventata troppo individualista per questo.



Così la crisi della liturgia ha per base delle concezioni centrali sull’uomo. Per superarla, non è sufficiente banalizzare la liturgia e trasformarla in una semplice riunione o in un pasto fraterno. Ma come uscire da questi disorientamenti? Come ritrovare il senso di questa realtà immensa che è nel cuore del messaggio della Croce e della Resurrezione?

In ultima istanza, certamente non attraverso delle teorie e delle riflessioni erudite, ma solo per mezzo della conversione, per mezzo di un radicale cambiamento di vita, al quale possono certamente aprire la strada taluni elementi di discernimento, e vorrei proporre delle indicazioni in questo senso e ciò in tre tappe.[SM=g1740721]


L’amore, cuore del sacrificio [SM=g1740717]

La prima tappa deve essere una questione preliminare alla comprensione essenziale del termine sacrificio. Si considera comunemente il sacrificio come la distruzione di una realtà preziosa agli occhi dell’uomo; distruggendola, egli vuole consacrare questa realtà a Dio, riconoscere la sua sovranità. Tuttavia, una distruzione non onora Dio. Ecatombi di animali o di qualsiasi cosa non possono onorare Dio. "Se avessi fame, a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli nell’Altissimo i tuoi voti" — dice Dio a Israele nel salmo 50 (49), 12-14.

In che cosa consiste allora il sacrificio? Non nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando diventa amore. "È per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità", dice a proposito Agostino. A partire da questa chiave neotestamentaria, Agostino interpreta i sacrifici veterotestamentari come simboli che significano questo sacrificio propriamente detto, e per questo, dice, che il culto doveva essere trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: "Tutte le prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del prossimo" (La Città di Dio, X, 5).

Ma Agostino sa anche che l’amore diventa vero solo quando conduce l’uomo a Dio e così lo indirizza verso il suo vero fine; solo qui si può verificare l’unità degli uomini tra loro. Così il concetto di sacrificio rinvia alla comunità e la prima definizione tentata da Agostino si trova, a partire da questo momento, ampliata dal seguente enunciato: "Tutta la comunità umana riscattata, cioè l’unione e la comunità dei santi è offerta a Dio in sacrificio dal Gran Sacerdote che si è offerto lui stesso" (ibid. X, 6). E più semplicemente ancora: "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine, un solo corpo nel Cristo" (ibid. X, 6).
 

Il "sacrificio" consiste dunque —diciamolo ancora una volta — nella conformazione dell’uomo a Dio nella sua theiosis, direbbero i Padri. Consiste, per esprimersi in termini moderni, nell’abolizione delle differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: "Dio tutto in tutti" (1 Cor 15, 28).

Ma come ha luogo questo processo che fa sì che diventiamo amore e un solo corpo con il Cristo, che noi diventiamo una sola cosa con Dio, come avviene questa abolizione della differenza? Prima di tutto esiste a questo proposito una netta frontiera tra le religioni fondate sulla fede di Abramo da una parte e dall’altra parte le altre forme di religione come le troviamo in particolare in Asia, ma anche — probabilmente sulla base di tradizioni asiatiche - nel neo-platonismo di impronta plotiniana.

Là l’unione significa liberazione dalla finitezza che si svela infine come apparenza, abolizione dell’io nell’oceano del tutto che, di fronte al nostro mondo di apparenze, e il nulla, tuttavia in verità è il solo vero essere. Nella fede cristiana, che dà compimento alla fede dl Abramo, l’unità è vista in modo completamente diverso: è l’unità dell’amore, nella quale le differenze non sono abolite, ma si trasformano nell’unità superiore degli amanti, quale si trova, come in archetipo, nell’unità trinitaria di Dio. Mentre, per esempio, presso Plotino, il finito è decadenza in rapporto all’unità ed è per così dire il livello del peccato e in quanto tale e al tempo stesso il livello di ogni male, la fede cristiana non vede il finito come una negazione, ma come una creazione, come il frutto di un volere divino, che crea un partner libero, una creatura che non deve essere abolita, ma deve essere compiuta e inserirsi nell’atto libero dell’amore.


La differenza non è abolita, ma diventa la modalità di una superiore unità. Questa filosofia della libertà, che è alla base della fede cristiana e la differenzia dalle religioni asiatiche, include la possibilità della negazione. Il male non è una semplice decadenza dell’essere, ma la conseguenza di una libertà male utilizzata. Il cammino dell’unità, il cammino dell’amore, è perciò un cammino di conversione, un cammino di purificazione, prende la figura della croce, passa attraverso il mistero pasquale, attraverso la morte e la Resurrezione. Ha bisogno di un Mediatore che nella Sua morte e nella Sua Resurrezione diventa per noi la via, ci attira tutti a lui (Gv 12, 32) e ci esaudisce.


Gettiamo un colpo d’occhio addietro


Nella sua definizione: sacrificio eguale amore, Agostino si appoggia con ragione sul termine presente sotto diverse varianti nell’Antico e nel Nuovo Testamento che egli cita secondo Osea: "Voglio l’amore e non il sacrificio" (6, 6; 5. Agostino, La città di Dio, X, 5). Ma questa affermazione non mette semplicemente una opposizione tra ethos e culto — in questo caso il cristianesimo si ridurrebbe a un moralismo —, rinvia a un processo che è più che la morale, a un processo di cui Dio prende l’iniziativa. Lui solo può avviare nell’uomo il cammino verso l’amore.

È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X, 6).

Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia.


Il nuovo tempio

Vorrei ora richiamare ancora, in modo molto breve, altre due linee di avvicinamento all’aspetto centrale della questione. A mio avviso, una indicazione importante è data nella scena della purificazione del tempio, in particolare nella forma trasmessa da Giovanni. In realtà Giovanni riferisce una parola di Gesù che nei Sinottici è presente soltanto durante il processo a Gesù sulle labbra di falsi testimoni e in modo deformato. La reazione di Gesù riguardo ai mercanti e ai cambiavalute del tempio era nella pratica un attacco contro le immolazioni di animali che vi erano presentati, dunque un attacco contro la forma esistente del culto del sacrificio in generale.

È questo il motivo per cui le competenti autorità ebraiche gli domandano, con pieno diritto, con quale segno Egli giustifichi una tale azione che equivaleva a un attacco contro la legge di Mosè e le sacre prescrizioni dell’Alleanza. In proposito Gesù risponde: "Distruggete (dissolvete) questo tempio e in tre giorni lo faro risorgere" (Gv 2,19).


Questa sottile formula evoca una visione di cui Giovanni stesso dice che i discepoli non la compresero, se non dopo la Resurrezione, ricordandosi gli eventi, e che ricondusse a credere alle Scritture e alla Parola detta da Gesù (Gv 2, 22).
Ora infatti comprendono che al momento della crocifissione di Gesù il tempio è stato abolito: secondo Giovanni, Gesù fu crocifisso esattamente nel momento in cui gli agnelli pasquali venivano immolati nel santuario.

Nel momento in cui il Figlio si consegna in persona come agnello, vale a dire si dona liberamente al Padre e così (pure) a noi, giungono alla fine le antiche prescrizioni del culto, che non potevano essere altro che un segno delle realtà autentiche. Il tempio è distrutto. E ormai il Suo corpo risuscitato — Lui stesso — diventa il vero tempio dell’umanità, nel quale si svolge l’adorazione in Spirito e verità (Gv 4, 23). Ma Spirito e verità non sono concetti filosofici astratti — Lui stesso è la verità, e lo Spirito è lo Spirito Santo che da Lui procede. [SM=g1740720]


In tal modo, anche qui appare con chiarezza che il culto non è sostituito dalla morale, ma che il culto antico giunge alla fine, con le sue sostituzioni e i suoi malintesi, spesso tragici, perché la realtà stessa, il nuovo tempio, si manifesta: il Cristo risuscitato che ci attiva, ci trasforma e ci unisce a Lui. Ed è di nuovo chiaro che l’Eucaristia della Chiesa — per parlare con Agostino — è sacramentum del vero sacrificium — segno sacro nel quale si produce ciò che è significato.[SM=g1740722]


Il sacrificio spirituale


Infine vorrei segnalare molto brevemente una terza via secondo la quale è progressivamente diventato più chiaro il passaggio dal culto di sostituzione, quello della immolazione di animali, al vero sacrificio — alla comunione, alla offerta del Cristo.

Presso i profeti pre-esilici c’era stata contro il culto del tempio una critica estremamente dura, che Stefano, con stupito terrore dei dottori e dei sacerdoti del tempio, riprese nel suo grande discorso. segnatamente questo versetto di Amos: "Mi avete forse offerto vittime e sacrifici per quarant’anni nel deserto, o casa di Israele? Avete preso con voi la tenda di Moloc e la stella del dio Refan, simulacri che vi siete fabbricati per adorarli" (5,25, At 7,42).

La critica dei profeti fu il presupposto interno che permise ad Israele di attraversare la prova della distruzione del tempio, dell’epoca senza culto. Allora ci si trovò nella necessità di mettere in luce in modo più profondo e nuovo che cosa è il culto, l’espiazione, il sacrificio.

Al tempo della dittatura ellenistica, in cui Israele fu di nuovo senza tempio e senza sacrificio, il libro di Daniele ci ha trasmesso questa preghiera: "Ora, Signore, noi siamo diventati più piccoli dl qualunque altra nazione.., ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti dl montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a Te e ti sia gradito, perché non c’è delusione per coloro che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto i! cuore, ti temiamo e cerchiamo il Tuo volto" (Dn, 37-41).


Così lentamente maturò la scoperta che la preghiera, la parola, l’uomo che prega e diviene lui stesso parola è il vero sacrificio. A questo proposito la lotta di Israele poté entrare in fecondo contatto con la ricerca del mondo ellenistico: anche esso cercava il ripiego per uscire dal culto di sostituzione delle immolazioni di animali, per arrivare a un culto propriamente detto, alla vera adorazione. In questa prospettiva è maturata l’idea della loghikè tysia — del sacrificio consistente nella parola che noi incontriamo nel Nuovo Testamento in Romani 12,1, dove l’apostolo esorta i credenti ad offrire se stessi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio.


Questo è indicato come loghikè latreia, come servizio divino secondo la parola, ragionevole. Sotto un’altra forma, troviamo la stessa affermazione in Eb 13, 15: "Per mezzo di Lui — il Cristo — offriamo a Dio continuamente un sacrificio di fede, cioè il frutto di labbra che confessano il Suo nome". Numerosi esempi, provenienti dai Padri della Chiesa, mostrano come queste idee furono sviluppate e divennero il punto di congiunzione tra la cristologia, la fede eucaristica e la traduzione pratico-esistenziale del mistero pasquale.
 

Vorrei solo citare, a titolo di esempio, alcune frasi di Pietro Crisologo, di cui si dovrebbe in verità leggere l’intero Sermone in questione per poter seguire questa sintesi da capo a fondo: "Singolare sacrificio, dove il corpo si offre senza il corpo, il sangue senza il sangue! Vi scongiuro, dice l’Apostolo, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente. Fratelli questo sacrificio prende ispirazione dall’esempio di Cristo che immolò il Suo corpo, perché gli uomini abbiano la vita. Diventa, uomo, diventa il sacrificio di Dio e il suo sacerdote. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua promessa, non del tuo sangue. Il fervore lo placa, non l’uccisione".


Anche qui si tratta di tutt’altra cosa che di un puro moralismo, tanto l’uomo vi è impegnato nel suo essere totale: sacrificio consistente nella parola. I pensatori greci avevano già messo questo aspetto in relazione al logos, alla parola stessa, indicando che il sacrificio della preghiera non deve essere un puro discorso, bensì la trasformazione del nostro essere ne logos, l’unione con Lui. Il culto divino implica che noi stessi diventiamo degli esseri della Parola, che ci conformiamo alla Ragione creatrice. Ma è nuovamente chiaro che non possiamo ottenere tutto questo da noi stessi e così tutto sembra di nuovo finire nel nulla, fino al giorno in cui viene il Logos, il vero, il Figlio, fino al giorno in cui sì fa carne e ci attira a se stesso nell’esodo della croce.


Questo vero sacrificio, che ci trasforma tutti in sacrificio, vale a dire ci unisce a Dio, fa di noi degli esseri conformi a Dio, è certamente fissato e fondato in un avvenimento storico, ma non si trova come una cosa del passato dietro di noi; anzi diventa contemporaneo e accessibile a noi nella comunità della Chiesa, che crede e prega, nel suo sacramento: ecco che cosa significa il sacrificio della Messa.

L’errore di Lutero si fondava - ne sono convinto — su un falso concetto di storicità, in una errata comprensione dell’unicità ( ephapax). Il sacrificio di Cristo non si trova dietro di noi come una cosa del passato. Raggiunge tutti i tempi ed è presente in noi. [SM=g1740722]


L’Eucaristia non è semplicemente la distribuzione di ciò che viene dal passato, ma più a fondo è la presenza dei mistero pasquale del Cristo che trascende ed unisce i tempi. Se il Canone romano cita Abele, Abramo, Melchisedec, annoverandoli tra coloro che celebrano l’Eucaristia, lo fa nella convinzione che anche in essi, i grandi offerenti, il Cristo attraversava i tempi, oppure meglio che nella loro ricerca essi camminavano incontro al Cristo. La teologia dei Padri, così come la troviamo nel Canone, non nega l’insufficienza dei sacrifici precristiani; però il Canone include, con le figure di Abele e Melchisedec, gli stessi "santi pagani" nel mistero di Cristo.


La conclusione è precisamente che tutto ciò che precedeva è visto nella sua insufficienza come ombra, ma pure che il Cristo attira tutto a sé, che vi è anche nel mondo pagano una preparazione al Vangelo, che anche elementi imperfetti possono condurre al Cristo, qualunque siano le purificazioni di cui hanno bisogno.
 

Il Cristo soggetto della liturgia



      

Vengo alla conclusione. Teologia della liturgia — questo significa che Dio agisce per mezzo del Cristo nella liturgia e che noi non possiamo agire che per mezzo Suo e con Lui. Da noi stessi non possiamo costruire la nostra via verso Dio. Questa via non è percorribile, eccetto il caso che Dio stesso si faccia la via. E una volta per sempre: le vie dell’uomo che non pervengono accanto a Dio sono delle non-vie.


Teologia della liturgia significa inoltre che nella liturgia il Logos stesso ci parla e non solo parla: viene con il Suo corpo, la Sua anima, la Sua carne, il Suo sangue, la Sua divinità, la Sua umanità per unirci a Lui, per fare di noi "un solo corpo". Nella liturgia cristiana tutta la storia della salvezza, anzi tutta la storia della ricerca umana di Dio, è presente, viene assunta e portata al suo compimento. La liturgia cristiana è una liturgia cosmica —abbraccia la creazione intera che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (Rm 8, 19).
 

Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido fondamento della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile. Ma noi possiamo e dobbiamo comprenderlo in un modo più profondo, attingendo alle ricchezze della testimonianza biblica e della fede della Chiesa di tutti i tempi. Vi sono autentici segni di speranza di questa comprensione rinnovata e approfondita di Trento possa, in particolare tramite la mediazione delle Chiese di Oriente, essere resa accessibile ai cristiani protestanti.
 

Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non deve essere il terreno di sperimentazione per ipotesi teologiche. In questi ultimi decenni, congetture di esperti sono entrate troppo rapidamente nella pratica liturgica, spesso anche passando a lato dell’autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella pratica seppero trasformarlo in legge liturgica.[SM=g1740730]  La liturgia trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.


La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia a per servire Colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo. La liturgia non è l’espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e cangiante. Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera e di conseguenza la sua norma è la fede della Chiesa, nella quale la Rivelazione è accolta. Le forme che si danno alla liturgia possono variare in relazione ai luoghi e ai tempi, così come i riti sono diversi. Essenziale è il legame con la Chiesa che, a sua volta, è vincolata dalla fede nel Signore. L’obbedienza della fede garantisce l’unità della liturgia, oltre la frontiera dei luoghi e dei tempi e così ci lascia sperimentare l’unità della Chiesa, della Chiesa come patria del cuore.


Infine, l’essenza della liturgia è riassunta nella preg

[Modificato da Caterina63 06/11/2012 18:18]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Ricordando anche queto:
Benedetto XVI spiega LA VERA MUSICA PER LA MESSA

leggiamo altro materiale riflessivo....



....sottolineando alcune espressioni tratte dalla presentazione del nuovo libro RACCOLTA DELLE OMELIE di Benedetto XVI qui presentato:
http://www.oriensforum.com/index.php?topic=399.msg3415#new

vi riporto questo passo davvero da VERTIGINE come dice il Magister.... Occhiolino

Benedetto XVI l'ha detto chiaro nell'omelia da lui pronunciata il 29 giugno 2008 nella festa dei santi Pietro e Paolo: la sua vocazione è di "servire come liturgo di Gesù Cristo per le genti". L'espressione ardita è di Paolo nel capitolo 15 della Lettera ai Romani. E il papa l'ha fatta propria. Ha identificato la sua missione di successore degli Apostoli proprio nel farsi servitore di una "liturgia cosmica". Poiché "quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo".

È una visione da vertigine.
Ma papa Ratzinger ha questa certezza incrollabile: quando celebra la messa sa che lì c'è tutto l'agire di Dio, intrecciato con i destini ultimi dell'uomo e del mondo. Per lui la messa non è un semplice rito officiato dalla Chiesa. È la Chiesa stessa, abitata dal Dio trinitario. È immagine e realtà della totalità dell'avventura cristiana. Non sbagliavano i pagani colti dei primi secoli, quando per identificare la cristianità la descrivevano nell'atto di celebrare. Perché questa era anche la fede di quei primi credenti. "Sine dominico non possumus", senza l'eucaristia della domenica non possiamo vivere, risposero i martiri di Abitene all'imperatore Diocleziano che proibiva loro di celebrare. E per questo sacrificarono la vita. Benedetto XVI ha richiamato questo episodio nell'omelia della sua prima messa celebrata fuori Roma da papa, a Bari, il 29 maggio del 2005. 


 [SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]


GRAZIE BENEDETTO XVI!!!!!!![SM=g1740734]

Di se stesso, questo Papa ha detto di avere la vocazione a «servire come liturgo di Gesù Cristo per le genti». Un’affermazione in cui si ritrova quella che Magister definisce una certezza incrollabile per questo Papa : «Quando celebra la Messa sa che lì c’è tutto l’agire di Dio, intrecciato con i destini ultimi dell’uomo e del mondo».

RIFLESSIONE.... [SM=g1740733]

Non sottovalutiamo questo centuplo di cui si è arricchito Benedetto XVI che da 40 anni studia, lavora e VIVE, SI NUTRE DI LITURGIA [SM=g1740720]

Non dimentichiamo che nell'Anno dedicato all'Eucarestia abbiamo avuto questi due grandi Pontefici [SM=g1740717]

Non dimentichiamo che il Signore si è scelto quale Vicario un Servo che aveva preparato da 40 anni per affrontare il problema liturgico....


Se guardiamo attentamente le fotografie dedicate al Papa quando celebra la Messa, scorgeremo uno... SGUARDO DI FANCIULLO di questo Papa di ben 81 anni quando appunto celebra la Messa, e di come i suoi occhia siano sempre fissi SUL CROCEFISSO che ha davanti, al centro dell'altare e di come lo guarda come se ppunto PARLASSE E VEDESSE QUALCOSA DI VERAMENTE VIVO E VERO...sembra che lo ASCOLTI... Occhiolino

Mentre lo incensa HA UNO SGUARDO DI SORRISO; mentre eleva l'Ostia e il Calice Consacrati ha uno sguardo più serio....
in questo cambiare espressione egli ci rammenta di questo rapporto NON con dei simboli, ma con una PERSONA VIVA E VERA SULL'ALTARE....[SM=g1740734] 
 

E' azzardato dire di se stessi" SONO IL LITURGA DI GESU'" come si espresse appunto san Paolo...ma Benedetto XVI può dirlo, perchè è in quel Centuplo che il Signore gli ha già elargito non per sè stesso, MA PER L'UFFICIO CHE DOVEVA ASSUMERE PER LA CHIESA...

Vi suggerisco, se l'argomento vi affascina, di leggere sull'argomento il Dialogo della Divina Provvidenza di santa Caterina da Siena proprio sul SACERDOTE CHE CELEBRA LA MESSA...e vi accorgerete come Benedetto XVI sia in perfetta sintonia con santa Caterina non per nulla consacrata a DOTTORE DELLA CHIESA....credo forse sia l'unica LAICA seppur consacrata, ad aver ottenuto questo titolo che è frutto del famoso centuplo che Gesù fece assaporare alla sana senese quando era in vita....[SM=g1740722] 

Santa Caterina infatti ANDAVA IN ESTASI duramente la Liturgia Eucaristica....mi chiedo quanti di noi riescono o riuscirebbo mai ad ASSAPORARE IL PARADISO attraverso certe liturgie sciatte di oggi.... [SM=g1740729]

La Liturgia è l'anticamera del Paradiso ecco perchè il Papa la sta purificando da tutte quelle aggiunte e quegli abusi che ci impediscono di assaporare tutto questo....essi CI IMPEDISCONO DI ENTRARE NELLA COMUNIONE DEI SANTI...

Un Kiko di turno, tanto per fare un esempio, che senza segreti afferma che l'interpretazione della Scrittura PER LORO non necessita della TEOLOGIA...non comprende che in questo modo ha tolto ALLA MESSA, ALLA LITURGIA L'ASPETTO TEOLOGALE....riducendola esclusivamente ad una ripetizione di SIMBOLI i quali NON esprimono un ATTO CONCRETO E REALE, MA APPUNTO UN RICORDO ed un ricorso ad una promessa che verrà.... Occhi al cielo
Non si vive così "L'ADESSO MA IL VERRA'...." e questo con dei gravi danni ALLA COMPRENSIONE ESCATOLOGICA DELLA LITURGIA STESSA e della Comunione dei Santi i quali sono già L'ADESSO e non il "verrà ".....vanificando in tal senso la presenza reale di Cristo sull'Altare ridotto AD UN MIRAGGIO seppur si dice "certo che io credo che Gesù è qui", ma senza "vederlo" bensì RACCOTANDOLO... [SM=g1740729]

Purtroppo Kiko ha avuto carta bianca e terreno fertile semplicemente perchè molti vescovi e sacerdoti che per altro NON credono neppure nell'esistenza del Diavolo...LA PENSAVANO E LA PENSANO COSI'....

il CLERO E' DIVISO!!!![SM=g1740732]
i Vescovi stessi in materia liturgica e dottrinale SONO DIVISI....
invece di essere COMUNITA' siamo stati spinti a creare ognuno il proprio TERRITORIO che ognuno difende con la spada e con i denti...ognuno vive CON PROPRIE LITURGIE CREATE CON LA SCUSA DI SVELARE IL MISTERO IVI CONTENUTO....[SM=g1740732]


Ecco, Benedetto XVI sta dicendo che tutto questo è sbagliato....LUI è quel "grande liturgo" spiegato da san Paolo e non a caso il 10 gennaio 2009 il Papa, incontrando proprio il Cammino Neucatecumenale, da loro ma anche per TUTTI, ha chiesto tre cose  Occhiolino

1) UNITA' ECCLESIALE; COMUNIONE ECCLESIALE;
2) OBBEDIENZA ALLE DIRETTIVE DELLA SANTA SEDE;
3) GUARDARE A ROMA QUALE MODELLO DA IMITARE


Cosa si intende per gradare a Roma? niente più di quanto affermò sant'Ireneo a tutte le Chiese: GUARDARE AL SUO VESCOVO QUALE ESEMPIO DA IMITARE...[SM=g1740721]

Invitiamo così i Sacerdoti, i Vescovi, I LAICI di ogni gruppo inserito nella Chiesa ad ascoltare il Papa PER METTERE IN PRATICA, OSSIA APPLICARE QUELLA FORMA LITURGICA CHE CI STA TESTIMONIANDO...questo chiedeva di fare già nel 1300 santa Caterina da Siena attraverso il Dialogo della Provvidenza....

[SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739]
I Sacerdoti di oggi sono consapevoli di che cosa sia l'ALTARE?



Parto dalla mia esperienza perchè credo di aver vissuto tre periodi differenti all'interno della Chiesa.....

1) anni '70 l'inizio delle evoluzioni liturgiche; rammento come feci la Prima Comunione nel 1972 e di come cambiò il riceverla dopo, negli anni seguenti....per non parlare dell'assetto delle chiese, degli Altari, del significato tra Sacrificio e BANCHETTO....preferendo quest'ultimo al primo e dissociandolo nel corso degli anni;

2) anni '80/'90 in qualità di catechista PRIVATA DEL CATECHISMO universale della Chiesa e nutrita con libricini più disparati contenenti un sincretismo spaventoso dove appresi che TUTTE LE FEDI ERANO UGUALI; appresi che il Catechismo san Pio X, sul quale mi fecero studiare nel 1970, era stato "abolito"  Occhi al cielo ma negli anni '90 scoprii con mia sorpresa che esisteva LA PATRISTICA....lo scoprii per un mio interesse personale perchè nelle Parrocchie dove andavo la Chiesa iniziava dal Concilio Vaticano II, sul cosa ci fosse stato prima, c'èera un silenzio assoluto, TUTTO ERA STATO CANCELLATO  e fu proprio una frase di Giovanni Paolo II a farmi interessare dell'argomento, disse in udienza che NON era corretto che in Parrocchia NON CIRCOLASSE IL MAGISTERO INTEGRALMENTE....da qui scoprii un mondo immenso...

3) anni 2000 questo tempo! La differenza la potete vedere voi stessi anche in base alla mia personale esperienza....

Dunque in questo arco di tempo capii che all'altare era stato tolto il Golgota, il Calvario, ed era stata messa una semplice tavola per il banchetto....da qui la foto che vedete e che è una mia ricostruzione nella quale l'immagine ha la sua importanza: il Santo Padre che bacia l'Altare il quale è posto sulla cima del Calvario sul quale si erge IL CROCEFISSO....questo è l'ALTARE....il fatto che esso DOPO la Consacrazione DIVENTA ANCHE IL BANCHETTO al quale siamo invitati (i fedeli che elevano le braccia al cielo) deriva appunto DALLA CROCE perchè Gesù NON è rimasto lì inchiodato, ma è RISORTO dunque diciamo: "Beati gli invitati alla Mensa del Signore, ECCO L'AGNELLO DI DIO CHE TOGLIE I PECCATI DEL MONDO...." 

Nella Messa antica per tre volte si dice:
Domine, non sum dignus ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanabitur anima mea.

anche se scoprii ben presto che la traduzione in italiano di questa frase: ut intres sub tectum meum non solo non dice la stessa cosa, ma rischia di modificarne proprio il senso quando diciamo in italiano appunto:
O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di' soltanto una parola ed io sarò salvato.

la vera traduzione è: Signore non son degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di soltanto una parola e l'anima mia sarà salvata....

se è vero che possiamo dare lo stesso senso, non è altrettanto vero che possiamo dare lo stesso significato teologico specialmente se non si è preparati[SM=g1740730] ....il senso che possiamo unire è il soggetto e l'oggetto: Gesù salva l'anima mia perchè non sono degno! il significato, invece, sminuisce, nella trasposizione in italiano, la richiesta a Gesù di quell'entrare SOTTO IL "MIO TETTO" perchè non ne sono degno....e in quell'essere salvato da quella richiesta esplicita "salva l'ANIMA MIA!"

Il problema è che con tutti questi giochi di parole si è tolto AL SACRIFICIO DELLA MESSA il suo senso proprio di Sacrificio, riducendolo esclusivamente ad un banchetto FESTOSO per il quale la Domenica la Comunità si riunisce....ecco allora i battimani, le chitarre, le strombazzate, i sacerdoti attori che scendono dal pulpito agganciando i fedeli con un tolk-show (si dice così?) perchè NON SIAMO PIU' AI PIEDI DEL CALVARIO CON MARIA AI PIEDI DELLA CROCE, MA SIAMO PARTECIPI DI UNA SCENOGRAFIA STORICA che si tenta di rendere viva con le inventive umane....[SM=g1740729]

Diceva san Padre Pio:
che per partecipare ATTIVAMENTE  alla Messa occorre assumere l'atteggiamento di Maria Santissima ai piedi della Croce....

In verità se ci facciamo caso, la stessa Beata Vergine Maria è quasi esclusa dalla Messa....ho notato per esempio che Benedetto XVI include la testimonianza e l'invocazione della Beata Vergine Maria alla conclusione di ogni Omelia, quasi a sottolineare appunto il ricordo a noi di questa PRESENZA VIVA E VERA ai piedi dell'Altare CON NOI, con il Popolo che partecipa degli eventi avvenuti sul Calvario e nella Messa RIVISSUTI....Maria sta con noi!

Quando appunto il Sacerdote BACIA L'ALTARE, non sta baciando la mensa in senso di banchetto, ma bacia il "LUOGO" sul quale avviene in modo incruento ciò che avvenne sul Calvario....ed è su quello stesso Altare del Sacrificio che si concretizza appunto, DOPO,  il Banchezzo degli INVITATI ALLA MENSA DEL SIGNORE....senza il Sacrificio NON ci sarebbe alcun Banchetto....non ci sarebbe nulla da festeggiare, non ci sarebbe la testimonianza della RISURREZIONE....
Non a caso gli Inni gregoriani, il canto Sacro, conserva alla fine della Messa Inni GIOIOSI DI FESTA, quando appunto tutto l'itinerario DEL SACRIFICIO ha avuto compimento....

Ci auguriamo che i Sacerdoti (ma anche i Vescovi) riscoprano l'importanza di insegnare a noi, fedeli Laici, PICCOLO GREGGE fin troppo esposto ad ogni scandalo... il senso della MESSA E DEL SACRIFICIO, di ritornare a parlare di ALTARE e non semplicemente di banchetto...di ritornare a parlare di MESSA e non di "Santa Cena", termine caro ai Protestanti perchè negano appunto la Presenza Reale del Cristo-Dio nell'Ostia e nel Vino Consacrati....

[SM=g1740733]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Proseguiamo con le riflessioni ancora sull'ALTARE E SULLA MESSA....

La Messa Cattolica e il desiderio Protestante

Così dice Pio XII a suo tempo ai Vescovi:

E’ necessario, Venerabili Fratelli, spiegare chiaramente al vostro gregge come il fatto che i fedeli prendano parte al Sacrificio Eucaristico non significhi tuttavia che essi godano di poteri sacerdotali.”
(Pio XII  Enciclica, Mediator Dei )

La Dottrina Cattolica insegna che il prete possiede un vero sacerdozio che gli conferisce poteri che gli altri, laici, non hanno.
La dottrina Protestante insegna che no, non esiste un sacerdozio al di fuori di quello che possiedono tutti i battezzati senza alcuna distinzione.

Il pastore Luterano L.Reed, nell’applaudire la Riforma Liturgica cattolica della Messa degli anni Settanta, dice: “Riconoscendo il principio del sacerdozio comune a tutti i fedeli, si è fatto della Confessione un atto dell’assemblea e non soltanto del sacerdozio, finalmente un passo avanti davvero rivoluzionario ed importante che Lutero avanzò molti anni fa a partire dalla celebrazione della Santa Cena, quel che celebra il sacerdote lo celebra anche il fedele….” Occhi al cielo
(La Liturgia Luterana, Luther D.Reed, pag. 257)

Lutero sosteneva quanto segue:
Si è preteso (dai cattolici), fare  della Messa un sacrificio! Ma la Messa non è un sacrificio, non è l’azione di un sacrificatore; chiamiamola benedizione o eucarestia o tavola del Signore o Santa Cena come è giusto che sia,  purchè non la insozziate con il titolo di sacrificio o di azione”.
(Lutero in  Omelia della I Domenica di Avvento, Werke, T. XI, pag. 774)

Si vede, dunque, quanto sia importante conoscere queste pagine storiche per comprendere come i Riformatori del XVI secolo pretendessero imporre che il celebrante non è il sacerdote, ma che solo “presiede l’assemblea come delegato dell’assemblea” , in tal modo i protestanti da 500 anni insegnano e divulgano che è il popolo che celebra il memoriale del Signore sotto la “presidenza del pastore, a capo dell’assemblea”.

Purtroppo con l’instaurazione del NOM anche nella Chiesa Cattolica alla fine si è insinuata questa confusione e l’errata dottrina protestante che abolisce di fatto il sacerdozio gerarchico equiparandolo a quello dei fedeli sia nel rito, sia nella amministrazione dei Sacramenti. L’errore non sta nel NOM in sé, ma nell’interpretazione che si è voluta dare e nelle rinunce della dottrina cattolica che si è voluto fare in nome dell’ecumenismo[SM=g1740732]

Un esempio lo abbiamo nell’ALTARE: spieghiamo le differenze senza apportare alcun giudizio, ma solo i fatti che stiamo vivendo.

Nella Messa Cattolica, detta oggi VOM (ma che di fatto ed è la Santa Messa della Chiesa e basta!), il sacerdote celebra ai piedi di un altare che non a caso è rialzato rispetto al piano dei fedeli in quanto esso è la figura del Golgota, del Calvario, rialzato pertanto per rammentare che li si sta per compiere il sacrificio (incruento) perfetto di Nostro Signore Gesù.... l'aver tolto quei gradini e l'aver abbassato l'altare togliendolo in molti casi pefino dal presbiterio, ha di fatto modificato l'essenza della dottrina cattolica uniformandola al pensiero protestante....

Il Sacerdote che non da le spalle al popolo per maleducazione, agendo in PERSONA CHRISTI,  rivolto VERSO DIO, offre il Sacrificio all’Eterno Padre: i fedeli non sono passivi, al contrario, essi unendosi all’immagine di Maria e di Giovanni ai piedi della Croce, ai piedi così dell’Altare (più in basso)  si uniscono al sacerdote, uniscono le loro offerte, uniscono se stessi e il tutto avviene in maniera verticale: dal basso verso l’alto, dall’uomo a Dio, tutto è orientato verso di Lui, il sacerdote e i fedeli, così come tutta la struttura della Chiesa orientata verso l’Altare sul quale sta il Padrone di Casa: Gesù vivo e vero nella Santa Eucarestia.

Vediamo ora cosa ne pensa la liturgia Protestante….

Cranmer spiega:
la forma di tavola è prescritta per portare la gente semplice dall’idea superstiziosa della Messa papista al buon uso della CENA DEL SIGNORE.[SM=g1740732]  Infatti per offrire un sacrificio occorre un altare; al contrario per servire da mangiare agli uomini, occorre una mensa, una tavola…”  Occhi al cielo
(Thomas Cranmer: Ragioni per cui il banchetto del Signore dovrebbe avere la forma di una tavola che non di un altare, Parker Society, Vol. II)

Qual è la conseguenza di questi pensieri?

Che il sacerdote perde la sua funzione di mediatore fra l’uomo e Dio e diventa semplicemente il “presidente” (colui che presiede) della assemblea verso la quale appunto egli si rivolge…;[SM=g1740730]
e che trasformando l’Altare (per altro consacrato per noi Cattolici) in una tavola e dunque in una mensa, anche la presenza del Tabernacolo non è più necessaria, porta in sostanza all’abolizione del Tabernacolo il quale infatti è stato letteralmente portato fuori della Chiesa ove si celebra l’Eucarestia. Soltanto di recente il Sommo Pontefice sta insistendo sulla presenza visibile del Tabernacolo all’interno delle nostre Chiese.

Inoltre dire “Celebriamo l’Eucarestia” e dire “Celebriamo la Santa Messa nella quale si compie l’Eucarestia” assume una importanza fondamentale per la quale all’inizio si può non percepire la differenza:
dire: Celebriamo l’Eucarestia,  insinua una ambiguità sulla comprensione piena della sana dottrina cattolica, infatti noi celebriamo la Santa Messa NELLA QUALE SI COMPIE L’EUCARESTIA, la differenza è fondamentale perché nella Santa Messa è esplicito il Sacrificio (incruento) al quale fa seguito il banchetto “Beati gli invitati alla mensa del Signore”. Nel primo caso invece si elimina psicologicamente il concetto di Sacrificio e si va alla Messa esclusivamente per il banchetto… includendo il memoriale della Morte di Gesù come un ricordo appunto, una RIVISITAZIONE DEI FATTI….[SM=g1740733]

E’ infatti un altro errore quello di pensare che “Messa e Cena” abbiano un unico significato così da aver divulgato che dire “la Messa” o dire “Cena del Signore” sia la stessa cosa…

NON è la stessa cosa: eliminare o sminuire il termine “Santa Messa” ha rimosso ciò che esso implica “la Presenza reale e la realtà di un Sacrificio – VIVO E SANTO – come si dice appunto nel Canone  che si attua (in modo incruento) per mezzo del sacerdote, trasformando il tutto in una allegra combriccola di fedeli riuniti per un semplice “invito a Cena” seppur definita “santa”…. Santa si, ma privata della sua realtà sacrificale e della sua presenza Viva e  vera.

Infatti così diceva Lutero:
“ Perciò la Messa non può e non deve chiamarsi né essere un sacrificio a motivo del sacramento, ma solo a motivo del cibo raccolto sulla mensa e delle preghiere dei fedeli con le quali Dio viene ringraziato e il cibo benedetto…” Occhi al cielo
(Lutero, Sermone sul Nuovo Testamento, la Messa)

Leggere con attenzione la dottrina protestante ci fa capire  come (in buona fede o meno non sta a me giudicare) si sia essa infiltrata  nella Chiesa Cattolica e di come abbia coinvolto non poche comunità cattoliche…. E basterebbe essere sentinelle attente e vergini con l’olio sempre pronto per comprendere il perché Benedetto XVI stia avanzando con la Riforma Liturgica… del perché abbia scritto la Sacramentum Caritatis e del perché mons. Nicola Bux abbia scritto un recente libro atto a farci comprendere quali e quanti sbagli si siano compiuti….

mons. Nicola Bux “La Riforma di Benedetto XVI” a pag. 92 scrive:

“L’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno” (Enc. Spe Salvi, n.25): la critica di Benedetto XVI a un cristianesimo che si è lasciato permeare dall’influsso della modernità e in particolare dal razionalismo, applicata alla liturgia significa che codesto razionalismo ne ha ridotto il valore.
Nella situazione attuale, la liturgia non è solo questione rituale: sapere cosa significhi il rito dal lato formale e simbolico è insufficiente, se non è capito come segno della fede dei partecipanti, della elevazione della mente a Dio “per rendergli un ossequio ragionevole e ricevere con più abbondanza la sua grazia” (Sacrosanctum Concilium, n.33) .
Si è data troppa importanza all’effetto ritardato del rito, a quello che accadeva dopo. L’efficacia del rito è immediata: MENO PARLIAMO E PIU’ COMUNICA AL NOSTRO ESSERE.
Il rito lascia a Dio di essere inesprimibile, indicibile: meglio contemplare il mistero che concettualizzare.
Ecco il motivo dell’incondizionata obbedienza al rito da parte del ministro e del fedele.
La Santa Messa è come un’opera musicale scritta da un AUTORE: va eseguita fedelmente, con fedeltà e non interpretata!
Nel cap. V del Gesù di Nazaret dedicato alla Preghiera del Signore, in premessa il Papa ricorda come il Signore stesso abbia messo in guardia dalle forme ERRATE DEL PREGARE, due in specie: l’esibizione di se stessi al posto della Sua adorazione e il profluvio di parole che soffoca lo Spirito.
(…) contiene (la Preghiera vera) un mistero che NON tollera lo spettacolo “per essere visti dagli uomini” (Mt.6,5).
In tempi caratterizzati dalla smania di apparire, questa tentazione può toccare i sacerdoti che celebrano la Liturgia, in modo particolare quelli che la dirigono come “cerimonieri”, tradendo tavolta la tendenza esagerata se non perversa a mettersi in mostra, nota come esibizionismo…..
(….) Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto OBBEDIENZA….

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Un altro aspetto che mi viene in mente

è la COMUNIONE DEI SANTI.....lo diciamo nel Credo, ma arrivo a chiedermi: CI CREDIAMO DAVVERO?[SM=g1740729]

Sabato mentre parlavo con le Monache di Clausura di san Chiara, avendo detto loro che sono laica Domenicana, prontamente una, CON SOMMO ENTUSIASMO mi ha raccontato che nella loro Liturgia delle Ore, propria del Monastero, l'unico Santo che hanno nel Breviario è SAN DOMENICO DI GUZMANN, il mio Padre Fondatore.... Occhiolino
Sapevo che molti francescani venerano la sua memoria così come noi domenicani, nel giorno della festa di san Domenico ricordiamo le gesta anche di san Francesco...ma non sapevo di questo particolare, il chè mi ha riempito il cuore di gioia.... Sorriso

Svolgendo una piccola indagine qualche anno fa mi resi conto, invece, che nei gruppi laicali, a parte qualcuno in particolare, non hanno neppure un Santo Protettore e non vi è affatto la Memoria specifica della Messa per un Santo....neppure per i Patroni..... Occhi al cielo

E ciò che mi ha ameraggiata profondamente è che anche da parte di molti sacerdoti NON c'è più il ricorso ai Santi... parlando con un sacerdote responsabile della parte giovanile diocesana mi sentii dire: " MA LA MESSA CON I SANTI NON C'ENTRA NULLA!! NOI INVOCANDO GESU' AUTOMATICAMENTE INVOCHIAMO TUTTI COLORO CHE LO HANNO SEGUITO, LA MESSA E' PER GESU' NON PER I SANTI"...  Scioccato Che?!?

Questo sacerdote è responsabile della cura dei giovani per una diocesi alla quale sono appertenuta per ben 7 anni....e la quale si lamentava che in 7 anni avevano avuto solo una vocazione....perchè meravigliarsi?  Occhi al cielo

La Messa E' PER GESU'?  Occhi al cielo
per i Santi andiamo IN AUTOMATICO ?  Occhi al cielo
La Messa con i Santi non c'entra nulla?  Occhi al cielo come fa allora ad attivarsi in "automatico"?  Occhi al cielo

No amici e amici Sacerdoti, la Comunione dei Santi non parte in "automatico".... La Santa Messa che celebrate specialmente nel giorno a loro dedicata non è un opcional, ha una sua funzione specifica ed una gratificazione PER NOI... la Messa è PER NOI non per Gesù...Gesù è il Sommo Sacerdote, voi non siete coloro che "attivano un bottone automatico" SIETE MEDIATORI.....la vostra santità è la nostra santificazione... il vostro errare può essere la nostra PERDIZIONE...[SM=g1740730]

la Comunione dei Santi è indispensabile perchè unisce terra e cielo, unisce quando celebrando la Santa Messa anche in Cielo ESSI CELEBRANO LA DIVINA E CELESTE LITURGIA INSIEME A NOI, CON NOI, lo diciamo quando stiamo per cantare il Santo: UNITI AL CORO DEI SANTI E DEGLI ANGELI, CANTIAMO IN UN UNICO CORO: SANTO, SANTO, SANTO.......
senza la Comunione dei Santi non avverrebbe questa UNITA' LITURGICA e la nostra liturgia sarebbe poveramente solo un rito fra tanti...... Imbarazzato

Se i Movimenti laicali risultano essere ancora dissociati dalla pienezza della Tradizione è anche a causa di questi travisamenti....è anche per questo che essi risultano essere ERRONEAMENTE I SALVATORI DELLA CHIESA E NON GIA' VICEVERSA...è per questi errori che alcuni di loro INVENTANO LITURGIE....

Riscopriamo, ve ne supplichiamo, la COMUNIONE DEI SANTI nel modo corretto...investiamo nella Comunione dei Santi uno dei motivi perchè andiamo alla Santa Messa: perchè lì li incontriamo TUTTI nella Divina Liturgia, ma non in modo "automatico" bensì perchè LI INVOCHIAMO....
eliminare il concetto dell'invocazione è una deviazione protestante che rientra in quell'accusa assurda contro il Culto alla Beata Vergine Maria e ai Santi....
Essi vanno invocati da noi, amati, conosciuti, e supplicati di darci un aiuto...... Essi sono lì, giorno e notte per noi a supplicare Dio di sostenerci e di aiutarci.....

Santi tutti del Paradiso ed Anime Sante del Purgatorio, pregate per noi e per i nostri Sacerdoti.....[SM=g1740733]

Dovunque vado nel mondo intero, la cosa che mi rende più triste è guardare la gente ricevere la Comunione nella mano (Madre Teresa di Calcutta)

Grazie Madre Teresa......... Sorriso

Anche le suore di Madre Teresa alla “Messa in latino”
Negli Stati Uniti d'America, la superiora delle Missionarie della Carità (l'ordine religioso fondato da Madre Teresa di Calcutta), ha chiesto ai Canonici Regolari di St. John Cantius di Chicago (Illinois), di illustrare il rito tridentino alle superiore delle proprie case religiose statunitensi. L'incontro di formazione liturgica si è svolto il 12 marzo 2008. [SM=g1740721]


[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]

...da un caro amico.....cari ricordi....... Occhiolino


Grano e zizzania crescono insieme, come insegna la parabola.
Certe volte mi viene di pensare ad una altra applicazione metaforica del brano.

Se volete, è come voler produrre il pane eucaristico col grano buono e quello pseudo-eucaristico con la zizzania, così simile al grano da confondersi con esso nella crescita.

Attorno a quel pane, tanto antico, si tesse la trama eucaristica: Cristo che diviene pane e come pane si offre.
Esiste una storia antica, un tesoro di gestualità, di silenzi, di inginocchiamenti, d'alzarsi in piedi, di tintinnare di campanelli all'elevazione, di volute di incenso che scortano verso il cielo intenzioni, epiclesi e preghiere mute.

Esistono tenui candele e lumini rossi tremuli come budini incandescenti, esistono canti a più voci nei quali la prece cancella ogni stonatura.

Esisteva, perché parlo della mia infanzia liturgica, lo stupore d'abitare la casa di Dio, lo sgomento di non poter fuggire dal suo sguardo, la gioia di non volercisi sottrarre, il desiderio che la domenica successiva giungesse in fretta.

Esisteva, perché mi rifaccio a quell'infanzia liturgica tanto lontana, la sensazione psicologica d'essere nella corretta fequenza dialogica, senza rumori di tamburi, chitarre e microfoni a 4000 watt.

C'era l'amen corale che, come un grande vescovo disse, rimbalzava da colonna a colonna come l'eco della risacca.

C'erano altari definiti, mensa e Golgota, lineari, marmorei, austeri e semplici. C'erano mani giunte e le mosse del celebrante precise come un ruotar di walzer.
Avevo la sensazione d'essere al centro di una meravigliosa coreografia nella quale ognuno era primo ballerino e prima donna, senza offuscare gli altri.

Avevo, all'ite missa est, la sensazione d'aver visionato uno degli appartamenti del condomino di Dio, d'esserne rimasto contento, di voler stipulare un mutuo vitalizio con Lui e con Lui abitare nella sua casa per tutti i giorni della mia vita.

Scusate questa botta di nostalgia, ma la dovevo a mia nonna, mia prima catechista che passò più di una notte a cucirmi il vestito per la prima comunione, fatta di pane buono e consacrata secondo la giusta ricetta...

Chisolm[SM=g1740734]

(io vi regalo la foto Sorriso
e vi rammento questo articolo di Rinascimento Sacro:
http://www.rinascimentosacro.com/2008/11/venga-meno-latteggiamento-di.html )


Restando sulle orme tracciate da Chisolm, e parlando con amici di ANEMIA MEDITERRANEA (tremenda se non curata), riflettevo sui suoi ricordi e mi sembra di riscontrare attinenza...

In sostanza leggendo le parole di Ratzinger in collegamento a RS e i ricordi di Chisolm, è come se nella Chiesa  fosse avvenuta una sorta di ANEMIA EUCARISTICA, anemia del senso del Sacro....e ci siamo come SBIADITI..[SM=g1740729] . e sono avvenute delle emorragie che san Paolo definisce in "apostasia", ossia allontanarsi dalla sana dottrina per aderire a qualcos'altro....
non a caso san Paolo termina il brano della Lettera ai Tessalonicesi invitando a CONSERVARE LA TRADIZIONE, a tramandarla, ad attenersi ad essa ricevuta sia a parole che con lettera inviata da "LORO"...

Quando tutto questo viene a mancare è come una anemia ed è inevitabile che si soffra di questo, l'organismo(=Chiesa) ne soffre e con Essa LE MEMBRA...

Sempre non a caso Cristo ci dona il suo...SANGUE...[SM=g1740720]  ricco di ferro  Ghigno SANO, INCORRUTTIBILE, risanatore...ci dona il suo CORPO, così quando il nostro fosse ridotto anche all'estremo, se è LUI a vivere in noi, le MEMBRA RESISTONO ad ogni tipo di anemia...[SM=g1740722]





[Modificato da Caterina63 30/10/2009 23:11]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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28/02/2009 23:47
 
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ATTENZIONE TESTO IMPORTANTE
[SM=g1740734]


Papa Benedetto XVI e la liturgia

BOLOGNA, sabato, 28 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata dal prof. Davide Ventura sul tema “Papa Benedetto XVI e la liturgia - Importanza e centralità della liturgia", intervenendo il 22 febbraio scorso a Bologna, presso la chiesa di S. Maria della Pietà, in occasione del III anniversario dell’apertura della causa di beatificazione del Servo di Dio Tomas Josef M. Tyn O.P. [SM=g1740734]



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Importanza e centralità della liturgia


Che la liturgia sia un tema che sta a cuore a Papa Benedetto XVI è cosa ampiamente dimostrata dalla mole e dalla frequenza dei suoi interventi in tale materia in questi primi anni del suo pontificato. Innumerevoli sono ormai i discorsi, le allocuzioni, le catechesi rivolte a tale soggetto, che ritorna poi con insistenza anche nei documenti “maggiori”, dalle encicliche al recente motu proprio “Summorum Pontificum”. Questi interventi, avvenuti in tempi a noi prossimi e “sotto i riflettori” del pontificato, sono abbastanza noti, anche se non risulterà inutile rivolgere loro uno sguardo d’assieme. Meno note ai più sono forse invece le tante opere che il Papa ha scritto riguardo alla liturgia prima della sua elezione, come teologo – insieme a svariate interviste e discorsi. Tutto questo materiale manifesta una totale continuità con il suo attuale magistero, e si svolge con una potenza di pensiero e una profondità di analisi che lascia ammirato il lettore. Inoltre, per il loro essere meno “irrigiditi” dei documenti magisteriali, di norma relativamente brevi e mirati a circostanze particolari, gli scritti dell’allora Cardinal Ratzinger sono di grande aiuto per manifestarne pienamente il pensiero nella sua ispirazione di fondo. Senza pretendere di sostituire una lettura delle opere in questione (che è al contrario fortemente raccomandata), queste pagine mirano a prendere in esame alcune direttive fondamentali del pensiero liturgico del Papa basandosi sulle sue parole, scritte o pronunciate sia prima che dopo la sua elezione; e questo per aiutare a meglio orizzontarsi anche nelle controversie che tale insegnamento ha occasionalmente suscitato – come sempre capita quando il sale del Vangelo si rifiuta ostinatamente di perdere il suo sapore.

Perché mai un tale posto centrale per la liturgia? Non hanno piuttosto ragione quegli ambienti ecclesiali che tendono a relegarla in secondo piano, come se si trattasse di un semplice elemento formale – una questione in fondo poco importante di usi e di abitudini?

Non per il Papa. Nel libro-intervista Rapporto sulla fede così si esprime l’allora cardinale: "Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia ci sono, come di consueto, modi diversi di concepire la Chiesa, dunque Dio e i rapporti dell'uomo con Lui. Il discorso liturgico non è marginale: è stato proprio il Concilio a ricordarci che qui siamo nel cuore della fede cristiana".



Il punto non è banale: se il fine dell’uomo è conoscere, amare e servire Dio, allora diviene del tutto essenziale il modo in cui ci si pone di fronte a Lui per riceverne i doni sacramentali, per espiare le proprie cadute, per rendere grazie della salvezza offerta in Cristo. La vita cristiana è un rapporto personale con il Padre che chiama a sé i suoi figli; è dunque fondamentalmente dialogo. Questo dialogo può ben essere privato e individuale; ma per essere realmente tale ha comunque bisogno di essere sorretto e quasi immerso in quel perenne canto d’amore della Sposa per il suo Sposo che è la liturgia pubblica della Chiesa. E questo canto ha ritmi e tonalità tutti propri, che divengono essi stessi contenuto, e non meramente forma. Lex orandi, lex credendi, dicevano i cristiani dei primi secoli: i modi e le forme del pregare – inteso come pregare pubblico, liturgico – determinano i contenuti del credere. E, storicamente, è innegabile che i cambiamenti avvenuti nella lex orandi accompagnano e segnalano invariabilmente parallele mutazioni delle accentuazioni e della comprensione dei contenuti di fede.



In un’altra opera, l’allora cardinale riprende lo stesso tema richiamando l’atteggiamento a suo parere superficiale con cui da più parti venne accolto l’invito del Concilio Vaticano II a un rinnovamento della liturgia: “Poté sembrare a molti che la preoccupazione per una forma corretta della liturgia fosse una questione di pura prassi, una ricerca della forma di Messa più adeguata e accessibile agli uomini del nostro tempo. Nel frattempo si è visto sempre più chiaramente che nella liturgia si tratta della nostra comprensione di Dio e del mondo, del nostro rapporto a Cristo, alla Chiesa e a noi stessi. Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Così la questione liturgica ha acquistato oggi un’importanza che prima non potevamo prevedere” (J. Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo, p. 9).


In un altro luogo ancora lo stesso concetto viene espresso con drastica concisione: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia” (J. Ratzinger, La mia vita, p. 112).



Ma nel pensiero del Papa l’importanza della liturgia si estende persino al di là dei limiti della Chiesa, per costituire un elemento fondamentale della vita e dell’ambiente umano: “Il diritto e la morale non stanno insieme se non sono ancorati nel centro liturgico e non traggono da esso ispirazione. […] Solo se il rapporto con Dio è giusto anche tutte le altre relazioni dell’uomo – quelle degli uomini tra di loro e dell’uomo con le altre realtà create – possono funzionare” (J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p. 16). È un testo estremamente impegnativo, e verrebbe la tentazione di metterlo in dubbio se le circostanze dei nostri tempi non ne confermassero così clamorosamente la validità. Ma dove risiede il fondamento di questa influenza del culto liturgico sulla vita umana in generale? Il futuro Papa risponde nel seguito del testo citato: “L’adorazione, la giusta modalità del culto, del rapporto con Dio, è costitutiva per la giusta esistenza umana nel mondo: essa lo è proprio perché attraverso la vita quotidiana ci fa partecipi del modo di esistere del «cielo», del mondo di Dio, lasciando così trasparire la luce del mondo divino nel nostro mondo. […] (Il culto) prefigura una vita più definitiva e, in tal modo, dà alla vita presente la sua misura. Una vita in cui manca tale anticipazione, in cui il cielo non è più abbozzato, diverrebbe plumbea e vuota”. Si tratta di una visione di notevole potenza: per il Papa la liturgia della Chiesa diviene il canale privilegiato del governo divino sulla terra, e possiede di per sé una potenza demiurgica che plasma sul suo modello gli eventi mondani, facendosi “misura” alla “vita presente”. La liturgia è il cielo sulla terra; essa perciò deve parlare la lingua del cielo – questo è il motivo per cui non si tratta di cercare la forma “più adeguata e accessibile agli uomini del nostro tempo”, come riportato sopra.



Il valore del messale antico e il “Motu proprio” Summorum Pontificum
Paghiamo subito il necessario tributo all’attualità, e fra le tante questioni aperte legate alla liturgia soffermiamoci su quella che il magistero del Papa ha più di recente affrontato – e che ha suscitato le maggiori reazioni anche nell’opinione “laica”. È noto ai più che nel 1970 Papa Paolo VI promulgò il nuovo messale elaborato negli anni precedenti dalla commissione incaricata dell’attuazione della riforma liturgica avviata per impulso del concilio Vaticano II. Tale messale conteneva in effetti sostanziosi cambiamenti rispetto a quello fino ad allora in vigore, edito a sua volta da Giovanni XXIII nel 1962. Quest’ultimo non era in effetti altro che l’ultima revisione minore di un tipo liturgico che risaliva con continuità alla riforma effettuata dal Concilio di Trento (il cosiddetto messale di Pio V). A sua volta, Pio V aveva nel XVI secolo semplicemente rivisto e riproposto un repertorio di testi liturgici che si era tramandato con minimi cambiamenti durante tutto il Medio Evo, risaliva nella sua sostanza a Gregorio Magno (VI secolo), e conteneva parti che risalivano alla più remota antichità cristiana.



E qui si dà il problema: mentre, come si è visto, il messale romano ha conosciuto fino al 1962 – lungo diciassette secoli di storia – solo modifiche graduali e non particolarmente sostanziali, di un tratto nel 1970 venne introdotta una forma liturgica che si discostava in modo significativo da tale immemorabile tradizione. Contestualmente all’introduzione del nuovo si ebbe nella pratica la proibizione dell’uso del messale tradizionale, cosa che provocò vivaci reazioni in molti ambienti, fino a divenire una delle maggiori motivazioni dietro allo scisma promosso da Mons. Lefebvre.



Il documento pubblicato da Benedetto XVI il 7 luglio scorso, dal titolo “Summorum Pontificum”, mette finalmente ordine definendo la situazione giuridica, che era divenuta alquanto ambigua, della liturgia tradizionale di fronte a quella riformata. Vale la pena, vista la storica importanza del documento, scorrere i suoi contenuti fondamentali. In primo luogo il Papa dichiara che il precedente messale non è mai stato abrogato. Non si tratta perciò di una “reintroduzione”, bensì del riconoscimento di una perenne validità che l’introduzione del nuovo messale del 1970 non ha affatto menomato.

Al contrario, dopo alcune osservazioni storiche che ne lodano l’antichità e la continuità di uso durante tutta la storia della Chiesa latina, il Papa definisce il rapporto fra i due Messali con le seguenti parole: “Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della «lex orandi» della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve essere considerato come espressione straordinaria della stessa «lex orandi» e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della «lex orandi» della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella «lex credendi» della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa”.



Dopo questa capitale affermazione, il Papa prosegue definendo che ogni sacerdote può usare del messale tradizionale nelle sue Messe private, a cui possono di propria volontà associarsi anche altri fedeli. Gli istituti di vita consacrata sono poi liberi di celebrare, saltuariamente o anche abitualmente, con il vecchio messale. Gruppi stabili di fedeli all’interno delle parrocchie possono a loro volta chiedere al parroco di celebrare per loro con il messale del 1962. Il parroco è invitato ad “accogliere volentieri” le loro richieste; qualora sia personalmente impossibilitato (e – si suppone – per validi e non pretestuosi motivi), la richiesta deve passare al Vescovo diocesano. “Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei». Il vescovo che vuole soddisfare a tali richieste di fedeli laici, ma per varie cause ne è impedito, può affidare la questione alla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei», che gli darà consiglio ed aiuto”. Se la situazione lo consiglia, il Vescovo può raggruppare le richieste con la costituzione di una “parrocchia personale”.



Si comprende chiaramente l’intenzione del Papa: la Messa tradizionale, essendo tuttora in vigore, costituisce un diritto dei fedeli; le loro richieste (purché non fatte per spargere discordia…) di accedere a tale forma liturgica vanno esaudite: a livello parrocchiale, ove possibile, ovvero diocesano. In nessun caso tale richiesta può essere semplicemente ignorata – l’autorità stessa della Santa Sede, tramite la Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, se ne fa garante.

Viene poi riconosciuto che i membri del clero, obbligati alla recita quotidiana del breviario, possono adempiere a tale obbligo mediante il breviario pubblicato da Giovanni XXIII.



Estremamente ricca di contenuto è anche la lettera inviata dal Papa a tutti i vescovi in concomitanza con l’uscita del Motu proprio. Vi si dice che, all’atto della pubblicazione del nuovo messale di Paolo VI, vi era chi pensava che l’uso della forma più antica sarebbe sparita da sé. Questo non è però avvenuto, e l’attaccamento all’uso antico è rimasto proprio “nei Paesi in cui il movimento liturgico aveva donato a molte persone una cospicua formazione liturgica e una profonda, intima familiarità con la forma anteriore della Celebrazione liturgica”. Non si tratta perciò necessariamente, secondo il Papa, di una forma di ribellione contro l’autorità della Chiesa, anzi “… molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai Vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia”. E non si tratta solo di anziani: “È emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia”.



Se questa liturgia, così antica e venerabile, non è mai stata giuridicamente abrogata, da cosa nasce la sua pressoché totale sparizione, specialmente considerando che già Papa Giovanni Paolo II aveva pubblicato durante il suo pontificato atti che chiedevano ai vescovi di provvedere affinché le legittime richieste di celebrare secondo tale forma venissero più largamente accolte? Più che da Roma, il problema è evidentemente sorto dagli episcopati nazionali, “anzitutto perché spesso i Vescovi, in questi casi, temevano che l’autorità del Concilio fosse messa in dubbio”. Così, mentre i documenti di Giovanni Paolo II avevano lasciato ai vescovi un largo margine applicativo, Benedetto XVI conclude che “è sorto un bisogno di un regolamento giuridico più chiaro che, al tempo del Motu Proprio del 1988 non era prevedibile; queste Norme intendono anche liberare i Vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come sia da rispondere alle diverse situazioni”.

“Roma locuta, causa soluta” dicevano gli antichi: Roma ha parlato, la causa è risolta. Oggi, purtroppo, questo è lontano dall’essere un fatto scontato; ma che Roma abbia parlato chiaro, questo nessuno potrà metterlo in dubbio.



L’applicazione della riforma liturgica


Il Vaticano II ha richiamato in molti documenti la necessità di un rinnovamento liturgico, che accogliesse le acquisizioni migliori di un movimento liturgico che aveva saputo nei decenni precedenti investigare i tesori storici della Chiesa per trovare il modo di restituire al loro originario splendore forme rituali che il tempo aveva ricoperto di un velo di polvere. Se poi, come osserva il Papa nel documento citato, proprio persone di “cospicua formazione liturgica” hanno preso partito di non seguire le forme liturgiche emerse dall’auspicato rinnovamento liturgico, è segno che qualcosa non ha funzionato. Sentiamo di nuovo il Papa nella citata lettera di accompagnamento al Motu proprio: “Questo avvenne anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”.



Papa Benedetto parla quindi di “deformazioni arbitrarie”; si tratta, secondo questa analisi, di applicazioni errate sopraggiunte più tardi, e non del messale di Paolo VI in sé. Circa quest’ultimo, in più riprese nei suoi scritti il Papa ammonisce quelli che lo ritengono esso stesso una deformazione della tradizione ecclesiale ed espressione di una teologia eterodossa. Non a caso preferisce non parlare di due riti, ma di “due forme di uno stesso rito”: forma extraordinaria, l’antico messale; forma ordinaria il nuovo; e “non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum”.

La stessa cosa l’allora cardinale Ratzinger la aveva dichiarata più estesamente in un discorso del 24 ottobre 1998: “Si può dire questo: che viene spesso ampliata la libertà che il nuovo Ordo Missae lascia alla creatività, e che la differenza fra liturgie che si celebrano secondo i nuovi libri, così come vengono di fatto messe in pratica e celebrate nei diversi luoghi, è spesso più grande di quella tra l'antica e la nuova liturgia, quando l'una e l'altra vengono celebrate in conformità con le prescrizioni dei libri liturgici. Il cristiano medio, privo di una cultura liturgica specialistica, ha difficoltà a distinguere tra una Messa cantata in latino secondo il vecchio messale ed una cantata in latino secondo quello nuovo. La differenza fra una celebrazione liturgica che si attiene fedelmente al messale di Paolo VI e la realtà di celebrazioni in lingua corrente, con tutte le possibili libertà di partecipazione e di creatività, quella differenza sì che può essere enorme!”.



Questa affermazione, netta e reiterata, che la differenza fra il vecchio e il nuovo “ordo Missae” non è sostanziale, e che si tratta anzi di due forme dello stesso rito, può piacere o meno – si tratta in ogni caso del parere del Papa, espresso in modo piuttosto formale in atti di elevato valore magisteriale. Prestiamo dunque a tale parere il religioso assenso che esso richiede, e passiamo ad esaminare quali siano le deformazioni “al limite del sopportabile” di cui si parla, avvertiti dalle stesse parole del Papa che “… resta da vedere sino a che punto le singole tappe della riforma liturgica dopo il Vaticano II siano state veri miglioramenti o non, piuttosto, banalizzazioni; sino a che punto siano state pastoralmente sagge o non, al contrario, sconsiderate” (J. Ratzinger, Rapporto sulla fede, pp. 123-124).



La liturgia non è prodotto umano


Nel “mirino” del Papa, sia prima che dopo la sua elezione, c’è in primo luogo il concetto di “creatività liturgica”: è parso infatti spesso, in questi ultimi decenni, che ogni comunità, ogni singolo sacerdote, fossero chiamati a “inventare” le forme del culto secondo la propria sensibilità. In una intervista del 5 settembre 2003 l’allora cardinale dichiara: “In generale, ritengo che la riforma liturgica non sia stata applicata bene, perché si trattava di una idea generale. Oggi la liturgia è una cosa della comunità. La comunità rappresenta se stessa, e con la creatività dei preti o di altri gruppi si creano le loro liturgie particolari . Si tratta più della presenza delle loro esperienze ed idee personali, che dell’incontro con la Presenza del Signore nella Chiesa; e con questa creatività e questa auto-presentazione della comunità sta scomparendo l’essenza della liturgia. Con l’essenza della liturgia noi possiamo superare le nostre proprie esperienze e ricevere ciò che non deriva da esse, ma che è un dono di Dio. Così penso che dobbiamo restaurare non tanto certe cerimonie, ma l’idea essenziale della liturgia - capire che nella liturgia non rappresentiamo noi stessi, ma riceviamo la grazia della presenza del Signore nella Chiesa del cielo e della terra. E mi sembra che l’universalità della liturgia sia essenziale”.

Le ultime righe sono fondamentali: nel pensiero costante del Papa, la liturgia è data dall’alto. Poi certo, questo dono passa attraverso mediazioni umane (ciò che costituisce la Chiesa come comunità profetica), ma rimane tutt’altro che un prodotto umano; e visto il suo carattere di culto pubblico, esso è e deve rimanere universale.



Nel libro “Introduzione allo spirito della liturgia”, p. 17-18, troviamo espresso in modo molto forte lo stesso concetto. Parlando della nascita del culto del popolo di Dio sul Sinai, ma pensando all’oggi, il cardinal Ratzinger scrive: “L’uomo non può «farsi» da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra. Quando Mosè dice al faraone: «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore» (Es 10,26), nelle sue parole emerge di fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie. […] la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. Essa implica una qualche forma di istituzione. Essa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra creatività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice autoconferma”. Questo carattere non arbitrario del culto emerge per contrasto in modo drammatico nell’episodio del vitello d’oro. “Questo culto, guidato dal sommo sacerdote Aronne, non doveva affatto servire un idolo pagano. L’apostasia è più sottile. […] non si riesce a mantenere la fedeltà al Dio invisibile, lontano e misterioso. Lo si fa scendere al proprio livello, riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità. In tal modo il culto non è più un salire verso di lui, ma un abbassamento di Dio alle nostre dimensioni. […] L’uomo si serve di Dio secondo il proprio bisogno e così si pone in realtà al di sopra di lui. […] Questo culto diventa così una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa. Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira intorno a se stesso […] La storia del vitello d’oro è un monito contro un culto realizzato a propria misura e alla ricerca di se stessi […]. Ma alla fine resta anche la frustrazione, il senso di vuoto. Non c’è più quell’esperienza di liberazione che ha luogo lì dove avviene un vero incontro con il Dio vivente”.



A queste righe impressionanti si può obiettare (come di fatto si è da più parti obiettato): ma la comprensibilità della liturgia non è un valore positivo? Se essa è “segno”, il segno non deve necessariamente essere decifrabile dal suo destinatario umano? Nel libro “Il sale della terra”, p. 199, il cardinal Ratzinger risponde: “Nella nostra riforma liturgica c'è la tendenza, a parer mio sbagliata, ad adattare completamente la liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine, essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più «piatta». In questo modo, però, l'essenza della liturgia e la stessa celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché in essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall'eternità”. È la condanna del razionalismo teologico, la stessa in fondo che già nel XVI secolo la Chiesa aveva opposto a Lutero: Dio, ragione assoluta, è al di sopra della nostra ragione limitata. E la liturgia, con i suoi simboli sottili, è appunto una delle modalità soprarazionali con cui Dio si comunica all’uomo.



In seguito all’abuso della “creatività” “è andato disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi" (dal libro-intervista “Rapporto sulla fede”). Continua lo stesso testo: "Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve essere «predeterminata», «imperturbabile», perché attraverso il rito si manifesta la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata «la vecchia rigidità rubricistica», accusata di togliere «creatività», ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del «fai-da-te», banalizzandola perché l'ha resa conforme alla nostra mediocre misura”.



Lo sviluppo organico della liturgia


Questo carattere ultramondano della liturgia ne determina due caratteri apparentemente in contrasto fra loro. Da una parte, come si è appena visto, essa è “predeterminata” e “imperturbabile”, sottratta quindi agli arbitri del celebrante della comunità o del celebrante. D’altra parte essa non è fissa in senso assoluto. Come tutte le forme della Chiesa, essa accompagna l’uomo nel suo corso storico; e come mutano le condizioni storiche e culturali dell’uomo, anche essa può mutare, e di fatto è mutata. Ma lo fa in modo “organico”. Il termine è del concilio Vaticano II, che lo introduce normativamente al punto 23 della costituzione Sacrosanctum Concilium: “Non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti”.

Questo termine significa che la liturgia cresce e si modifica come lo fanno gli organismi vitali, cioè lentamente, senza strappi, e in virtù non di forze esterne ma di un impulso vitale interno (in questo caso rappresentato dallo Spirito Santo). Così come avviene nelle Chiese orientali, e come è sempre avvenuto anche in Occidente fino a tempi recenti, i cambiamenti possono sopraggiungere, ma devono essere interpretabili nel senso della continuità con l’esistente; e il giudizio su di essi non deve soggiacere solo alla Gerarchia: è anche l’uso e l’accettazione dei fedeli che, nei secoli, determina l’accoglimento di una modifica o la soppressione di un’altra.



Quello della “organicità” del cambiamento è per Benedetto XVI l’unico e vero criterio di legittimità liturgica. “La liturgia non è paragonabile a una apparecchiatura tecnica, a qualcosa che si fa, ma a una pianta, a qualcosa, cioè, di organico, che cresce e le cui leggi di crescita determinano le possibilità di un ulteriore sviluppo” (Introduzione allo spirito della liturgia, p. 161). Nel seguito dello stesso testo il Papa si pone il problema del ruolo dello stesso papato nella definizione dello sviluppo liturgico. Il pontefice, osserva, “ha sempre più chiaramente rivendicato anche la legislazione liturgica”. Ma “quanto più fortemente si imponeva questo primato, tanto più emergeva la questione dell’estensione e dei limiti di tale autorità che, certamente, non è mai stata, in quanto tale, oggetto di riflessione. Dopo il concilio Vaticano II si è ingenerata l’impressione che il papa potesse fare qualunque cosa in materia liturgica, soprattutto se agiva su incarico di un concilio ecumenico. È accaduto così che l’idea della liturgia come qualcosa che ci precede e che non può essere «fatta» a proprio arbitrio sia andata ampiamente perduta nella coscienza diffusa dell’Occidente. Difatti, però, il concilio Vaticano I non ha per nulla inteso definire il papa come un monarca assoluto, ma, al contrario, come il garante dell’obbedienza rispetto alla parola tramandata: la sua potestà è legata alla tradizione della fede e questo vale anche nel campo della liturgia. Essa non è «fatta» da funzionari. Anche il papa può solo essere umile servitore del suo giusto sviluppo e della sua permanente integrità e identità”. Questa sorprendente riflessione prosegue comparando l’esperienza dell’Oriente cristiano con quella occidentale, concludendo che “… la via battuta dall’Occidente, con la sua specificità e lo spazio lasciato alla libertà e alla storia, non può essere in nessun modo condannata in blocco. Ma se si abbandonano le intuizioni fondamentali dell’Oriente, che sono le intuizioni fondamentali della Chiesa antica, si giungerebbe davvero alla dissoluzione dei fondamenti dell’identità cristiana. L’autorità del papa non è illimitata; essa sta al servizio della santa tradizione”. Ci sia consentito di osservare che queste fondamentali righe, se prese sul serio da entrambe le parti, sarebbero probabilmente sufficienti al superamento del fossato creatosi fra la Chiesa romana e quelle ortodosse…



Da questi principi fondamentali, Papa Benedetto XVI trae le logiche conclusioni: la liturgia tradizionale, anche dopo l’introduzione del nuovo messale, non è mai stata abrogata in quanto non abrogabile. “Nel corso della sua storia la Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa” (dalla conferenza "A dieci anni del Motu proprio Ecclesia Dei", 24 ottobre 1998).

Lo stesso concetto è ripreso, come abbiamo visto, anche dal recente Motu proprio “Summorum pontificum”. Ma, al di là delle pur importanti forme giuridiche, è l’atteggiamento stesso verso la liturgia tradizionale a provocare il corruccio del Papa. “Per una retta presa di coscienza in materia liturgica è importante che venga meno l’atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970. Chi oggi sostiene la continuazione di questa liturgia o partecipa direttamente a celebrazioni di questa natura, viene messo all’indice; ogni tolleranza viene meno a questo riguardo. Nella storia non è mai accaduto niente del genere; così è l’intero passato della Chiesa ad essere disprezzato. Come si può confidare nel suo presente se le cose stanno così? Non capisco nemmeno, ad essere franco, perché tanta soggezione, da parte di molti confratelli vescovi, nei confronti di questa intolleranza, che pare essere un tributo obbligato allo spirito dei tempi, e che pare contrastare, senza un motivo comprensibile, il processo di necessaria riconciliazione all’interno della Chiesa”. (Dio e il mondo. Una conversazione con Peter Seewald, p. 380).



Ma il testo più significativo per una valutazione storica della rottura di continuità avvenuta nel 1970 si trova ne “La mia vita: ricordi, 1927-1977”, p. 110. All’atto della pubblicazione del nuovo messale, dice l’allora cardinale, “rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale”. L’autore prosegue rammentando una possibile obiezione: anche Pio V, esattamente quattro secoli prima, con l’introduzione del suo messale aveva proibito l’uso dei testi precedenti. Ma si trattava di una circostanza completamente diversa: la diffusione della riforma protestante si era insinuata in molti rituali, approfittando del pluralismo liturgico che aveva caratterizzato la Chiesa medievale, “tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire”.

In questa situazione di emergenza, nell’impossibilità di controllare una per una tutte le innumerevoli varianti locali, Pio V impose di adottare il Messale romano, sicuramente ortodosso, a tutte le chiese locali i cui rituali non potessero vantare una antichità di almeno due secoli. Svariati usi liturgici, come quello mozarabico in Spagna o quello ambrosiano a Milano, rimasero dunque intatti accanto a quello romano. Alcuni riti ortodossi finirono sicuramente vittime di questa prescrizione, ma non intenzionalmente: l’intenzione del papa fu quella di supporre che qualunque rituale nato dopo il 1370 fosse a forte rischio di deviazione dall’ortodossia, e fu in base a questa presupposizione che essi vennero aboliti. “Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati”, prosegue il testo. “Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia «fatta», che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di «donato», ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna «comunità» voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l’incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita”.



Si scorge in questo lungo testo che il punto fondamentale non è, come si è detto, la natura del nuovo rituale, per sé perfettamente ortodosso, bensì la soppressione (mediante abuso di autorità) di quello tradizionale, cosa che ha generato una artificiale contrapposizione fra un “vecchio” da eliminare frettolosamente e un “nuovo” prodotto a tavolino da una commissione di esperti.



Esiste un’altra obiezione: per alcuni, l’essenza della riforma liturgica sarebbe determinata non tanto dalla rottura della tradizione, ma al contrario dal tentativo di ricondurre il rito a una sua “primitiva purezza”, disincrostandolo dalle aggiunte accumulate nei secoli. Al capitolo nono del citato “Rapporto sulla fede”, l’allora cardinal Ratzinger risponde a tale “archeologismo romantico di certi professori di liturgia, secondo i quali tutto ciò che si è fatto dopo Gregorio Magno sarebbe da eliminare come un'incrostazione, un segno di decadenza. A criterio del rinnovamento liturgico non hanno posto la domanda: «Come deve essere oggi?», ma l'altra: «Come era allora?». Si dimentica che la Chiesa è viva, che la sua liturgia non può essere pietrificata in ciò che si faceva nella città di Roma prima del Medio Evo. In realtà, la Chiesa medievale (o anche, in certi casi, la Chiesa barocca) hanno proceduto a un approfondimento liturgico che occorre vagliare con attenzione prima di eliminare. Dobbiamo rispettare anche qui la legge cattolica della sempre migliore e più profonda conoscenza del patrimonio che ci è stato affidato. Il puro arcaismo non serve, così come non serve la pura modernizzazione”.

continua.............


[Modificato da Caterina63 28/02/2009 23:48]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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L’abbandono della bellezza

Delineato a sufficienza il “trauma” ecclesiale determinato dalla abolizione forzata delle forme tradizionali, rimane da esaminare nel dettaglio i principali elementi che le parole del Papa chiamano “deformazioni arbitrarie della liturgia” intervenute in quegli anni.

Vi è in primo luogo il fattore estetico e artistico. È noto come nei secoli la Chiesa abbia tributato culto a Dio anche tramite l’impiego delle migliori e più magnifiche forme di espressione artistica, non accontentandosi delle esistenti, ma suscitando dal suo interno continuamente nuovi stili di espressione del bello e del sublime.

Durante l’ultimo mezzo secolo (con consistenti anticipi anteriori) si è invece manifestata all’interno della Chiesa l’opposta tendenza alla semplificazione delle forme estetiche, all’insegna della “povertà” del culto, nella presupposizione che il “trionfalismo” delle forme artistiche, figurative, architettoniche e sonore, non farebbe che ricoprire e falsare la vera natura della liturgia.

Ora, per Benedetto XVI “«l'abbandono della bellezza» si è dimostrato, alla prova dei fatti, un motivo di sconfitta pastorale” (Rapporto sulla fede, p. 132). Il testo continua: “È divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all'utile. L'esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull'unica categoria del «comprensibile a tutti» non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere. Liturgia «semplice» non significa misera o a buon mercato: c'è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica”.

Per quanto il Papa abbia dedicato pagine notevoli alla iconografia e alla architettura religiosa, è soprattutto la musica sacra che attira la sua attenzione come insostituibile veicolo di reale partecipazione liturgica. Il testo citato sopra continua: “Si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della «partecipazione attiva»: ma questa «partecipazione» non può forse significare anche il percepire con lo spirito, con i sensi? Non c'è proprio nulla di «attivo» nell'ascoltare, nell'intuire, nel commuoversi? Non c'è qui un rimpicciolire l'uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità? Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo per far cantare tutto il popolo, opporsi alla «musica d'uso»: significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità pastorali”. E ancora: “Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica «corrente» cade nell'inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche «città della gloria», luogo dove sono raccolte e portate all'orecchio di Dio le voci più profonde dell'umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano”.

“Actuosa participatio”

Come ricordato in quest’ultimo testo, il concilio Vaticano II ha in più riprese richiesto una “actuosa participatio”, una “partecipazione attiva” dei fedeli al culto. Come si sa, questo è stato di solito interpretato nel senso di una condanna al preteso ruolo “passivo” a cui la liturgia tradizionale avrebbe relegato i fedeli. La frase sopra citata, “Non c'è proprio nulla di «attivo» nell'ascoltare, nell'intuire, nel commuoversi?”, rivela chiaramente il pensiero del Papa in merito. Più notevoli ancora, e in parte sorprendenti, sono le righe che leggiamo in “Introduzione allo spirito della liturgia” a p. 167: “In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile.

La parola «partecipazione» rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte”. Quale sarà dunque in realtà questa “actio”, questa azione a cui tutta l’assemblea è chiamata, ora come sempre, a partecipare? Come accenna il Papa, si sa che di solito si è dato a questa domanda la risposta pratica di moltiplicare e distribuire a quante più persone possibile i servizi paraliturgici durante la celebrazione: vi è chi accende le candele e chi le spegne, chi bada all’acqua e chi al vino, chi legge il profeta e chi l’epistola, chi canta il salmo e chi il Gloria; la preghiera dei fedeli deve vedersi alternare una persona diversa per ogni invocazione, e la processione dell’offertorio deve a volte somigliare a un corteo. Non così per il Papa. Continua il testo citato: “Con il termine «actio», riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico.

La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. […] Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, il «canone» - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del temine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (così come è stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio. […] Ma come possiamo noi avere parte a questa azione? […] noi dobbiamo pregare perché (il sacrificio del Logos) diventi il nostro sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel Logos e diveniamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta”.

Qui, all’interno della fornace ardente che è il centro stesso della fede cristiana, siamo realmente a miglia di distanza dalle interpretazioni sociologiche banalizzanti di cui si diceva. E infatti prosegue il Papa: “La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui è dato oggi di assistere soprattutto nella preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato dell’essenziale. Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sono molte e che vengono artificiosamente accresciute di numero) diventano l’essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un generico agire, allora viene misconosciuto il vero teodramma della liturgia, che viene anzi ridotto a parodia”.


continua.......





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Il problema della lingua liturgica

Chi abbia poco frequentato i testi (invero voluminosi) del concilio Vaticano II, è di solito persuaso che esso abbia decretato la soppressione della lingua latina nella Messa a favore di quella volgare. Si resta perciò colpiti nel leggere, all’inizio del punto 36 della costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium, la perentoria affermazione: “L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini (cioè salvo che nei riti orientali, N.d.R.)”. La medesima costituzione delimita con precisione il possibile ambito della lingua volgare: “Dato però che, sia nella Messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”. Il successivo punto 54, dopo aver ripreso tali possibili concessioni, definisce che “si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della messa che spettano ad essi”. È del tutto evidente che i Padri conciliari, nell’approvare questo testo, non avevano minimamente l’intenzione di provocare la totale o quasi scomparsa della lingua latina dalla liturgia, cosa che invece accadde ben presto.

Non valendo per i chierici, che si supponeva ovviamente istruiti nella antica lingua liturgica, il problema di comprensibilità dei riti, la medesima costituzione conciliare afferma perentoriamente al punto 101: “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell'ufficio divino la lingua latina”. Come è noto, anche questa richiesta del concilio è stata quasi immediatamente e totalmente disattesa.

Nella già menzionata intervista del 5 settembre 2003, l’allora cardinal Ratzinger chiarisce in merito il suo pensiero. “In generale”, dichiara, “io penso che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: «io sono nella stessa Chiesa». Perciò in generale, le lingue parlate sono una soluzione. Ma una qualche presenza del latino potrebbe essere utile per avere una maggiore esperienza di universalità.

In “Dio e il mondo”, p. 381, dice: “Oggi il latino nella Messa ci pare quasi un peccato. Ma così ci si preclude anche la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti”.

Oltre alla lingua latina, anche un’altra lingua liturgica comune è caduta, salvo qualche eccezione, sotto i colpi delle riforme postconciliari: la lingua del silenzio. Nella liturgia tradizionale, offertorio e canone eucaristico formavano grandi zone di silenzio sacro, in cui il sacerdote celebrava sottovoce di fronte all’altare, mentre il popolo accompagnava l’azione in silenzio orante. Come si è visto, sotto i colpi della interpretazione sociologica della “actuosa participatio” questo sacro silenzio si è ridotto a una breve pausa durante l’elevazione.

Nel più volte citato e fondamentale “Introduzione allo spirito della liturgia”, a p. 210-211, l’allora cardinale scrive: “Con disgusto di molti liturgisti nel 1978 avevo sostenuto che non è affatto detto che tutto il canone deve essere pronunciato a voce alta. Dopo averci riflettuto, vorrei ripeterlo ancora una volta con forza, nella speranza che dopo vent’anni questa tesi possa trovare un po’ di comprensione. […] Non è affatto vero che la recitazione ad alta voce, ininterrotta, della preghiera eucaristica sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale della celebrazione eucaristica. La mia proposta di allora era: da una parte l’educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significato essenziale e l’indirizzo fondamentale del canone; dall’altra, le prime parole delle singole preghiere dovrebbero essere pronunciate a voce alta come un invito a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silenziosa di ciascuno faccia propria l’intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria, quella comunitaria nella dimensione personale. Chi ha personalmente vissuto l’unità della Chiesa nel silenzio della preghiera eucaristica ha sperimentato che cos’è il silenzio davvero pieno, che rappresenta insieme un forte e penetrante grido rivolto a Dio, una preghiera colma di spirito”.

Versus orientem

L’attuale papa ha sempre sostenuto, con numerosi interventi orali e scritti, il carattere arbitrario, contrario a una tradizione risalente ai tempi apostolici e pastoralmente poco produttivo, dell’orientamento verso il popolo del celebrante. Fino all’antichità cristiana più remota risale invece il fatto liturgico del comune orientamento di assemblea e celebrante, orientamento che – secondo la stessa etimologia del termine – era rivolto ad oriente, verso la direzione del sole nascente, simbolo del Cristo e della sua futura, definitiva venuta.

Nella citata intervista del 5 settembre 2003 l’allora cardinale Ratzinger afferma: “«Versus orientem», direi che potrebbe essere un aiuto, perché si tratta realmente di una tradizione dei tempi apostolici. Non è solo una norma, ma è anche l’espressione della dimensione cosmica e della dimensione storica della liturgia. Noi celebriamo con il cosmo, con il mondo. È la direzione del futuro del mondo, della nostra storia rappresentata dal sole e dalle realtà cosmiche. Io penso che oggi questa nuova scoperta del nostro rapporto con il mondo creato può essere capita anche dalla gente, forse meglio di 20 anni fa. E ancora, si tratta di una direzione comune - prete e popolo orientati insieme verso il Signore. Per questo penso che potrebbe essere un aiuto. Da sempre, i gesti esteriori non sono semplicemente un rimedio in se stessi, ma possono essere un aiuto, perché si tratta della classica interpretazione di cos’è la direzione nella liturgia”.

Un intero capitolo di “Introduzione allo spirito della liturgia” è dedicato a questo problema. Vi si legge ad esempio: “Al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene” (p. 70-71).

Si dà di solito una duplice motivazione dell’innovazione consistente nell’orientamento del sacerdote verso il popolo: in primo luogo, egli rappresenterebbe Cristo nell’ultima cena seduto a tavola dirimpetto agli Apostoli; in secondo luogo, le grandi basiliche romane, e in primis San Pietro, sono rivolte verso occidente: il celebrante, se voleva volgersi a oriente durante la preghiera, doveva perciò guardare verso l’ingresso, e quindi verso il popolo. Nel testo sopra citato, il cardinal Ratzinger rivolge queste osservazioni a tali tesi, citando a sua volta e facendo proprio il testo di L. Bouyer “Architettura e liturgia”: “È evidente che in questo modo si è frainteso il senso della basilica romana e della disposizione dell’altare al suo interno. […] Cito in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella data (cioè prima del secolo XVI) non abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si sia attribuita qualche importanza o solo anche qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il popolo davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia veramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente … Anche quando l’orientamento della Chiesa permetteva al celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all’altare, non era solo il presbitero a doversi volgere verso oriente: era l’assemblea intera che lo faceva insieme a lui”.

Quanto all’Ultima Cena, si legge: “In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma. Da nessuna parte, dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. Anzi, il carattere comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizione contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola”.

In ogni caso, l’autore si prende immediatamente cura di segnalare che secondo la dottrina cattolica l’immagine del “pasto” e del “banchetto” è totalmente insufficiente a determinare la natura della celebrazione eucaristica. Per l’allora cardinale “il Signore ha indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell’ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha comandato di ripetere questa novità, non il banchetto come tale”. [SM=g1740721]

All’atto pratico, l’effetto più notevole della modifica apportata è di aver reso il sacerdote (e non più Dio) il centro della celebrazione. “Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione […]. L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio ed è sempre più importante quello che fanno le persone […]. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era «celebrazione verso la parete», non significava che il sacerdote «volgeva le spalle al popolo»: egli non era poi considerato così importante” (p. 76 del testo cit.). Insomma “si è così introdotta una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza” – in stridente contrasto con i fini dichiarati della riforma.

Vale la pena di sottolineare che le righe citate poco sopra, in cui l’attuale Papa disapprova la riduzione della celebrazione eucaristica a memoria di una cena, vanno a toccare tutto l’argomento della svalutazione dell’aspetto sacrificale proprio dell’eucaristia, svalutazione portata avanti da molti ambienti nel postconcilio. Nel citato libro-intervista “Rapporto sulla fede” leggiamo: “La Messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare l'ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. È la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo”. La presenza reale del Signore nelle specie consacrate genera poi del tutto legittimamente forme di culto eucaristico anche esterne al rito della Messa: “Si è dimenticato che l'adorazione è un approfondimento della comunione. Non si tratta di una devozione «individualistica» ma della prosecuzione o della preparazione del momento comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione del Corpus Domini. Anche su questa gli «archeologi» della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella processione non c'era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi: al sensus fidei del popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire, di portare alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato”.

Unità nella diversità

Abbiamo seguito i dettagli di una riforma liturgica che, secondo papa Benedetto XVI, non ha rispettato al meglio le richieste del concilio Vaticano II. Nelle parole del Papa che abbiamo riportato sono emerse varie proposte concrete di revisione della riforma: reintroduzione della celebrazione verso oriente, valorizzazione del sacro silenzio nel canone eucaristico, maggior spazio alla lingua liturgica universale e al canto gregoriano – e si tratta sempre di punti che vanno nella direzione di una maggiore aderenza all’ultimo concilio, nello spirito da più parti richiamato di una “riforma della riforma”. Un altro punto caldeggiato nei suoi scritti precedenti l’elezione papale, cioè la liberalizzazione dell’antica liturgia, è oggi in via di compimento per impulso del suo motu proprio Summorum Pontificum. Quale dovrebbe essere dunque l’evoluzione della riforma liturgica secondo il Papa? I due filoni menzionati sono infatti ben distinti: Benedetto XVI mira a una restaurazione della antica liturgia, ovvero punta a rettificare la liturgia esistente?

Il Papa stesso non ha mancato di accennare una risposta a questa fondamentale questione. Ne “Il sale della terra”, p. 200, in replica a una domanda sulla opportunità di restaurare il rito tradizionale, il futuro Benedetto XVI risponde: “Da sola, questa non è una soluzione. […] un semplice ritorno all'antico non è una soluzione. La nostra cultura si è così trasformata negli ultimi trent'anni che una liturgia celebrata esclusivamente in latino comporterebbe un'esperienza di estraniamento insuperabile per molte persone. Quello di cui abbiamo bisogno è una nuova educazione liturgica, soprattutto dei sacerdoti. […] I luoghi dove la liturgia viene celebrata senza fronzoli e in modo riverente esercitano notevole forza di attrazione, anche se non si capisce ogni suo singolo elemento. Abbiamo bisogno di luoghi come questi, capaci di offrire dei modelli”. Indietro non si torna. Piaccia o meno, l’atteggiamento che prevede la pura e semplice restaurazione del passato non è in sintonia con l’intenzione del Papa. I motivi allegati sono stringenti: un conto è non piegarsi a concessioni eccessive e gratuite alla attualità, un altro è il non accorgersi dei devastanti mutamenti culturali sopraggiunti dagli anni dell’ultimo concilio in poi. In un altro luogo Papa Benedetto XVI rammenta come, da professore in Germania, poteva ancora permettersi di citare passi in latino all’uditorio studentesco certo di essere compreso; adesso non più.

Si tratta dunque di prendere in esame la liturgia riformata, espungerne gli abusi mano a mano introdotti, e ricondurla nell’alveo delle intenzioni espresse a chiare lettere dal concilio Vaticano II. Qual è in tale progetto il ruolo della restituzione all’uso della liturgia tradizionale? Lo stesso Pontefice lo spiega nella lettera di accompagnamento al motu proprio Summorum Pontificum scritta ai vescovi: “Le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione «Ecclesia Dei» in contatto con i diversi enti dedicati all’ «usus antiquior» studierà le possibilità pratiche.

Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale”. La evoluzione “organica” delle due forme del rito romano deve dunque, per il Papa, riprendere di nuovo. Ed esse possono influenzarsi a vicenda: la forma tradizionale dovrà compiere gli aggiornamenti minimali (ad esempio circa il calendario liturgico) richiesti dal suo essere rimasta cristallizzata per quarantacinque anni. E soprattutto la forma riformata potrà e dovrà riconoscere nella forma antica un polo di attrazione, una norma a cui ispirarsi per tornare gradualmente nell’alveo della medesima evoluzione organica da cui gli anni della sperimentazione estrema l’avevano fatta uscire.

Le due forme potranno poi in futuro confluire in una – il Papa lascia aperta questa eventualità. Ma se anche non dovessero farlo, molte dichiarazioni passate e presenti dello stesso Pontefice lasciano capire che un certo pluralismo liturgico – pur nell’unità di fondo del rito – non sarebbe un male. Anzi, tale situazione di pluralismo si è sempre data all’interno del rito latino, senza minimamente danneggiare il culto: “Prima di Trento, la Chiesa ammetteva nel suo seno una diversità di riti e di liturgie. I Padri tridentini imposero a tutta la Chiesa la liturgia della città di Roma, salvaguardando, tra le liturgie occidentali, solo quelle che avessero più di due secoli di vita. È il caso, ad esempio, del rito ambrosiano della diocesi di Milano. Se potesse servire a nutrire la religiosità di qualche credente, a rispettare la pietas di certi settori cattolici, sarei personalmente favorevole al ritorno alla situazione antica, cioè a un certo pluralismo liturgico” (Rapporto sulla fede, cap. 9).

Nel già citato discorso tenuto a Roma, presso l'Hotel Ergife il 24 ottobre 1998, in occasione delle celebrazioni per i dieci anni del Motu proprio "Ecclesia Dei", il futuro Papa Benedetto pronuncia le seguenti parole, che citiamo per esteso a conclusione di queste pagine:

“C'è una pericolosa tendenza a minimizzare il carattere sacrificale della Messa e ad indurre alla sparizione del mistero e del sacro con il pretesto - un pretesto asserito imperativo - che in questo modo ci si fa comprendere meglio. Infine si percepisce la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo arbitrariamente in rilievo il suo carattere comunitario e conferendo all'assemblea il potere di decidere riguardo alla celebrazione.

Esiste anche, fortunatamente, una certa avversione per un razionalismo pieno di banalità e per un pragmatismo di certi liturgisti, siano essi dei teorici o dei pratici, e si constata un ritorno al mistero, all'adorazione, al sacro e al carattere cosmico ed escatologico della liturgia, come sottolineato dalla "Oxford Declaration on the Liturgy" del 1996. Occorre riconoscere, d'altra parte, che la celebrazione della vecchia liturgia aveva perduto molto, rifugiandosi nell'individualismo e nel privato, e che la comunione fra sacerdote e popolo era insufficiente. Ho grande rispetto per i nostri vecchi che durante la Messa bassa recitavano le orazioni contenute nei loro libri di preghiere, ma non si può certo considerare questo come l'ideale di una celebrazione liturgica.

Forse, queste riduzioni delle forme celebrative sono la vera ragione per cui in molti paesi la scomparsa dei vecchi libri liturgici non ha avuto peso e la loro perdita non ha causato dolore. Non c'era mai stato, infatti, un contatto con la liturgia in sé. D'altra parte, là dove il Movimento liturgico aveva suscitato un certo amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio - come, ad esempio, la partecipazione di tutti nella preghiera all'azione liturgica — proprio lì è stato maggiore il dolore, di fronte ad una riforma intrapresa troppo frettolosamente e spesso limitata all'esteriorità. Là dove, invece, il Movimento liturgico non è mai esistito la riforma non ha sollevato, in un primo tempo, dei problemi. Questi sono sorti solo sporadicamente là dove il mistero sacro ha ceduto il posto ad una creatività selvaggia.

Per questo è molto importante osservare i principi essenziali della «Costituzione sulla sacra liturgia», che ho ricordati sopra, anche quando si celebra con il vecchio Messale. Nel momento in cui questa liturgia tocca profondamente i fedeli con la sua bellezza e ricchezza, allora essa sarà amata e non la si porrà più in contrapposizione inconciliabile con la nuova liturgia, purché i criteri siano fedelmente applicati secondo i desideri del Concilio.

Continueranno ad esistere, certamente, accenti spirituali e teologici differenti: non saranno due modi opposti di essere cristiani ma, al contrario, patrimonio della stessa ed unica fede.

Quando, pochi anni fa, qualcuno ha proposto «un nuovo movimento liturgico» per evitare che le due forme liturgiche si distanziassero troppo fra loro e per portare a frutto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno espresso il timore che questo fosse solo uno stratagemma o un trucco per ottenere finalmente la completa eliminazione della vecchia liturgia. Queste preoccupazioni e queste paure debbono finire! Se l'unità della fede e l'unicità del mistero appaiono chiaramente in entrambe le forme di celebrazione, ciò può essere solo motivo di rallegrarsi e ringraziare Dio. Quanto più noi tutti crediamo, viviamo e agiamo con tale motivazione, tanto più saremo capaci di persuadere i vescovi che la presenza dell'antica liturgia non turba né rompe l'unità delle loro diocesi, ma è invece un dono destinato a rafforzare il Corpo di Cristo, del quale siamo tutti i servitori.

Così, miei cari amici, vorrei esortarvi a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere dalla liturgia la forza per rendere testimonianza al Signore in questo nostro tempo".


Bibliografia

Riportiamo una bibliografia essenziale dei libri pubblicati dall’attuale Pontefice, dandone l’edizione italiana consultata. Le citazioni nel testo, per quanto estese, non fanno ovviamente giustizia a un pensiero vasto e articolato, in cui il tema liturgico ricorre di frequente, a volte anche intrecciato insieme ad altri argomenti. Laddove possibile, un accesso diretto a tali opere è quindi insostituibile.

La festa della fede – Jaca Book – 1984

Rapporto sulla fede – Edizioni Paoline – 1985

Il sale della terra – San Paolo – 1997

Introduzione allo spitito della liturgia – San Paolo – 2001

Il Dio vicino – San Paolo – 2003

La comunione nella Chiesa – 2004

La fraternità cristiana – Queriniana – 2005

Fede, verità e tolleranza – Cantagalli – 2005

L’Europa di Benedetto – Cantagalli – 2005

Ragione e fede in dialogo – Marsilio – 2005

(prefazione a) Uwe Michael Lang – Rivolti al Signore – Cantagalli – 2006


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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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J. Ratzinger: Nei confronti della liturgia il Papa ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta le vecchie


Lo sviluppo organico della liturgia


In alternativa ai riformisti radicali e ai loro avversari intransigenti, uno sviluppo adeguato della liturgia è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”

di Joseph Ratzinger

Negli ultimi decenni, la questione della corretta celebrazione della liturgia è diventata sempre più uno dei punti centrali della controversia attorno al Concilio Vaticano II, ovvero a come dovrebbe essere valutato e accolto nella vita della Chiesa.

Ci sono gli strenui difensori della riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l’ultima edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è considerata come “semper reformanda”, cosicché alla fine è la singola “comunità” che fa la sua “propria” liturgia, nella quale esprime sé stessa. Un Liturgisches Kompendium [Compendio liturgico, ndr] protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat, Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come «progetto di riforma» (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti liturgisti cattolici.

D’altra parte vi sono anche i critici accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua pratica applicazione, ma anche le sue basi conciliari. Essi vedono la salvezza solo nel totale rifiuto della riforma.

Tra questi due gruppi, i riformisti radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile solo se viene preservata l’identità della liturgia, e sottolineano che uno sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”. Come un giardiniere accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue energie vitali e alle sue leggi, così anche la Chiesa dovrebbe accompagnare rispettosamente il cammino della liturgia attraverso i tempi, distinguendo ciò che aiuta e risana da ciò che violenta e distrugge.

Se le cose stanno in tal modo, allora dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua energia vitale nel mutare dei tempi, per incrementarla e rinnovarla.
Il libro di dom Alcuin Reid si colloca in questa linea.

Percorrendo la storia del Rito romano (messa e breviario), dalle sue origini fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, esso cerca di stabilire quali siano i principi del suo sviluppo liturgico, attingendo così dalla storia, con i suoi alti e bassi, i criteri su cui ogni riforma deve basarsi.
Il libro è diviso in tre parti. La prima, molto breve, analizza la storia della riforma del Rito romano dalle sue origini alla fine del XIX secolo. La seconda parte è dedicata al movimento liturgico fino al 1948. La terza – di gran lunga la più estesa – tratta della riforma liturgica sotto Pio XII, fino alla vigilia del Concilio Vaticano II.

Questa parte si rivela molto utile, proprio perché tale fase della riforma liturgica non viene più molto ricordata, nonostante che proprio in essa – come anche nella storia del movimento liturgico, evidentemente – si ritrovino tutte le questioni circa le modalità corrette per una riforma, facendo sì che sia possibile acquisire anche dei criteri di giudizio. La decisione dell’autore di fermarsi alla soglia del Concilio Vaticano II è molto saggia. Egli evita così di entrare nella controversia legata all’interpretazione e alla ricezione del Concilio, illustrando il momento storico e la struttura delle varie tendenze, la quale risulta determinante per la questione circa i criteri della riforma.

Alla fine del suo libro, l’autore elenca i principi per una corretta riforma: essa dovrebbe essere in egual misura aperta allo sviluppo e alla continuità con la Tradizione; dovrebbe sapersi legata a una tradizione liturgica oggettiva e fare sì che la continuità sostanziale sia salvaguardata.
L’autore, poi, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica, sottolinea che «anche la suprema autorità della Chiesa non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia» (CCC n. 1125; nel libro a p. 258). Come criteri ulteriori, troviamo infine la legittimità delle tradizioni liturgiche locali e l’interesse per l’efficacia pastorale.

Vorrei sottolineare ulteriormente, dal mio punto di vista personale, alcuni dei criteri già brevemente indicati del rinnovamento liturgico. Comincerò con gli ultimi due criteri fondamentali.

Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l’essenza del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione e perciò il primo garante dell’obbedienza.

Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono. La legge cui deve attenersi non è l’agire ad libitum, ma l’obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie.

Il “rito”, e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l’insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis.

È importante a tale riguardo interpretare correttamente la “continuità sostanziale”. L’autore ci mette espressamente in guardia dalla strada sbagliata sulla quale potremmo essere condotti da una teologia sacramentaria neoscolastica slegata dalla forma vivente della liturgia. Partendo da essa, si potrebbe ridurre la “sostanza” alla materia e alla forma del sacramento, e dire: il pane e il vino sono la materia del sacramento, le parole dell’istituzione sono la sua forma; solo queste due cose sono necessarie, tutto il resto si può anche cambiare.
Su questo punto modernisti e tradizionalisti si trovano d’accordo. Basta che ci sia la materia e che siano pronunciate le parole dell’istituzione: tutto il resto è “a piacere”.

Purtroppo molti sacerdoti oggi agiscono sulla base di questo schema; e persino le teorie di molti liturgisti, sfortunatamente, si muovono in questa direzione. Essi vogliono superare il rito come qualcosa di rigido e costruiscono prodotti di loro fantasia, ritenuta pastorale, attorno a questo nocciolo residuo, che viene così relegato nel regno del magico oppure privato del tutto del suo significato.

Il movimento liturgico aveva cercato di superare questo riduzionismo, prodotto di una teologia sacramentaria astratta, e di insegnarci a considerare la liturgia come l’insieme vivente della Tradizione fattasi forma, che non si può strappare in piccoli pezzi, ma che deve essere visto e vissuto nella sua totalità vivente. Chi, come me, nella fase del movimento liturgico alla vigilia del Concilio Vaticano II, è stato colpito da questa concezione, può solo constatare con profondo dolore la distruzione di quel che ad esso stava a cuore.


Vorrei brevemente commentare altre due intuizioni che appaiono nel libro di dom Alcuin Reid.
L’archeologismo e il pragmatismo pastorale – quest’ultimo, peraltro, è spesso un razionalismo pastorale – sono entrambi errati. Potrebbero essere descritti come una coppia di gemelli profani.

I liturgisti della prima generazione erano per la maggior parte storici e, di conseguenza, inclini all’archeologismo. Volevano dissotterrare le forme più antiche nella loro purezza originale; vedevano i libri liturgici in uso, con i loro riti, come espressione di proliferazioni storiche, frutto di passati fraintendimenti e ignoranza. Si cercava di ricostruire la più antica Liturgia romana e di ripulirla da tutte le aggiunte posteriori. Non era cosa del tutto sbagliata; ma la riforma liturgica è comunque qualcosa di diverso da uno scavo archeologico, e non tutti gli sviluppi di qualcosa di vivo devono seguire la logica di un criterio razionalistico/storicistico. Questa è anche la ragione per cui – come l’autore giustamente osserva –, nella riforma liturgica, non deve spettare agli esperti l’ultima parola. Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi).


Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori.

Poiché spesso, ovviamente, risulta impossibile elevare la conoscenza storica al rango di nuova norma liturgica, molto facilmente questo “archeologismo” si è legato al pragmatismo pastorale. Si è deciso in primo luogo di eliminare tutto ciò che non era riconosciuto come originale, e di conseguenza come “sostanziale”, per poi integrare lo “scavo archeologico” – qualora fosse sembrato ancora insufficiente – con “il punto di vista pastorale”.

Ma che cos’è “pastorale”? I giudizi intellettualistici dei professori su queste questioni erano sovente determinati dalle loro considerazioni razionali e non tenevano conto di ciò che realmente sostiene la vita dei fedeli. Cosicché oggi, dopo la vasta razionalizzazione della liturgia nella prima fase della riforma, si è di nuovo alla ricerca di forme di solennità, di atmosfere “mistiche” e di una certa sacralità.

Ma siccome esistono – necessariamente e sempre più evidentemente – giudizi largamente divergenti su che cosa sia pastoralmente efficace, l’aspetto “pastorale” è divenuto il varco per l’irruzione della “creatività”, la quale dissolve l’unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità.

Con questo non si vuol dire che la liturgia eucaristica, come anche la liturgia della Parola, non siano molte volte celebrate, a partire dalla fede, in modo rispettoso e “bello” nel senso migliore della parola.
Ma dato che stiamo cercando i criteri della riforma, dobbiamo pure menzionare i pericoli che negli ultimi decenni, purtroppo, non sono rimasti soltanto fantasie di tradizionalisti nemici della riforma.
Vorrei soffermarmi ancora sul fatto che, in quel compendio liturgico citato sopra, il culto è stato presentato come “progetto di riforma”, e cioè come un cantiere dove ci si dà sempre un gran da fare. Simile, seppure un po’ diverso, è il suggerimento, da parte di alcuni liturgisti cattolici, di adattare la riforma liturgica al mutamento antropologico della modernità e di costruirla in modo antropocentrico.
Se la liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo.


A questa tendenza la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? In ogni riforma liturgica e in ogni celebrazione liturgica, il primato di Dio dovrebbe sempre occupare il primissimo posto.
Con questo sono andato molto oltre il libro di dom Alcuin. Ma credo che, comunque, sia risultato chiaro che questo libro, con la ricchezza dei suoi spunti, ci insegna dei criteri e ci invita a un’ulteriore riflessione. Per questo ne raccomando la lettura.

(traduzione di Lorenzo Cappelletti e Silvia Kritzenberger)
30Giorni dicembre 2004


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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25/09/2009 11:19
 
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Testo del signor Cardinale Joseph Ratzinger apparso all’inizio dell’edizione francese del libro di Mons. Klaus Gamber “La Réforme liturgique en question” (tit. orig. “Die Reform der Römischen Liturgie”), ed. Sainte-Madeleine (1992), 84330 Le Barroux, Francia. Il testo francese è stato preso dal sito dei monaci dell’Abbazia di Sainte-Madeleine di Barroux (http://www.barroux.org/docum/documpres.html). 

 “Il coraggio di un vero testimone”

Un giovane sacerdote mi diceva di recente: “Ci vorrebbe oggi un nuovo movimento liturgico”. Era l’espressione di una preoccupazione che, di questi giorni, solo degli spiriti volontariamente superficiali potrebbero allontanare. Ciò che importava a questo sacerdote, non era di conquistare nuove e audaci libertà: quali libertà non ci siamo già arrogati? Sentiva che abbiamo bisogno di un nuovo inizio che tragga origine dall’intimo della liturgia, come l’aveva voluto il movimento liturgico quando si trovava all’apogeo della sua vera natura, quando non si trattava di fabbricare testi, di inventare azioni e forme, ma di scoprire il centro vivente, di penetrare nel tessuto propriamente detto della liturgia, affinché l’adempimento di questa fosse il risultato della sua stessa sostanza.


La riforma liturgica, nella sua concreta realizzazione, si è allontanata sempre più da questa origine. Il risultato non è stata una rianimazione ma una devastazione. Da un canto, abbiamo una liturgia degenerata in “show”, nella quale si cerca di rendere la religione interessante con l’aiuto di idiozie alla moda e di massime morali seducenti, con dei successi momentanei nel gruppo dei fabbricanti di liturgia, e una attitudine all’arretramento tanto più pronunciata presso coloro che cercano nella liturgia non lo “shomaster” spirituale, ma l’incontro col Dio vivente davanti al quale ogni “fare” diventa insignificante, essendo solo questo incontro capace di farci accedere alle autentiche ricchezze dell’essere. D’altro canto, abbiamo la conservazione di forme rituali la cui grandezza emoziona sempre, ma che, spinte all’estremo, manifestano un isolamento ostinato e alla fine non lasciano altro che tristezza. Certo, tra i due estremi rimangono tutti i sacerdoti e le loro parrocchie che celebrano la nuova liturgia con rispetto e solennità, ma vengono rimessi in discussione dalla contraddizione tra i due estremi, e la mancanza di unità interna nella Chiesa alla fine fa comparire la loro fedeltà, a torto per molti di loro, come una semplice verità personale di neoconservatorismo. Un nuovo impulso spirituale è quindi necessario affinché la liturgia sia di nuovo per noi una attività della comunità della Chiesa e che venga strappata all’arbitrio dei sacerdoti e dei loro gruppi liturgici.
Non si può “costruire” un movimento liturgico di questo genere –non più di quanto si possa costruire un qualche cosa di vivo-, ma si può contribuire al suo sviluppo sforzandosi di assimilare di nuovo lo spirito della liturgia e difendendo pubblicamente quanto abbiamo fin qui ricevuto. Questo nuovo inizio ha bisogno di “padri” che siano dei modelli, e che non si contentino di indicare la via da seguire. Chi cerca oggi di tali “padri” incontrerà immancabilmente la persona di Klaus Gamber, che ci è stato purtroppo portato via troppo presto, ma che forse, e proprio nel lasciarci, ci è divenuto autenticamente presente in tutta la forza delle prospettive che ci ha dischiuso. Giustappunto perché lasciandoci sfugge alla diatriba delle parti, potrebbe in questo momento di sconforto, divenire il “padre” di un nuovo inizio. Gamber ha portato con tutto il suo cuore la speranza dell’antico movimento liturgico. Senza dubbio, venendo da una scuola straniera, è rimasto un “outsider” sulla scena tedesca, dove non lo si voleva accettare sul serio; ancora di recente una tesi ha incontrato ingenti difficoltà perché la giovane ricercatrice aveva osato citare Gamber troppo diffusamente e con troppa benevolenza. Ma forse questo essere messo da parte è stato provvidenziale perché ha costretto Gamber a seguire la sua propria via e gli ha evitato il peso del conformismo.
E’ difficile esprimere in poche parole ciò che, nella disputa tra i liturgisti, è veramente essenziale e ciò che non lo è. Forse l’indicazione seguente potrà essere utile. J.A. Jungmann, uno dei veri grandi liturgisti del nostro secolo, aveva definito a suo tempo la liturgia, tale quale la si ascoltava in Occidente rappresentandola soprattutto attraverso la ricerca storica, come una “liturgia frutto di uno sviluppo”; probabilmente anche per contrasto con la nozione orientale che non vede nella liturgia il divenire e la crescita storici, ma solamente il riflesso della liturgia eterna, la cui luce, attraverso lo svolgimento sacro, illumina il nostro tempo mutevole con la propria bellezza e grandezza immutabili. Le due concezioni sono legittime e in definitiva non sono inconciliabili.

Ciò che è avvenuto dopo il Concilio significa tutt’altro: al posto di una liturgia frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e di divenire per entrare nella fabbricazione.

Non si è più voluto proseguire il divenire e la maturazione organici del vivente attraverso i secoli, e li si è rimpiazzati – come fosse una produzione tecnica – con una fabbricazione, prodotto banale del momento. Gamber, con la vigilanza di un autentico profeta e con il coraggio di un autentico testimone, si è opposto a questa falsificazione e ci ha insegnato instancabilmente la viva pienezza di una liturgia autentica, grazie alla sua conoscenza incredibilmente ricca delle fonti. Un uomo che conosceva e amava la storia, ci ha mostrato le molteplici forme del divenire e del cammino della liturgia; un uomo che vedeva la storia dall’interno, ha visto in questo sviluppo il frutto dello sviluppo stesso e il riflesso intangibile della liturgia eterna, la quale non è oggetto del nostro fare ma che può continuare meravigliosamente a maturare e fiorire, se  ci uniamo intimamente al suo mistero. La morte di questo uomo e sacerdote eminente dovrebbe stimolarci; la sua opera potrebbe aiutarci a prendere nuovo slancio.
Joseph, cardinale RATZINGER.
KLAUS GAMBER
Storia della liturgia
Molto volentieri, in occasione del decesso improvviso di Klaus Gamber, dirò qualche parola in sua memoria, conoscendo il defunto da lunga data, soprattutto attraverso le sue pubblicazioni scientifiche consacrate alla storia della liturgia.
Ci sono poche discipline per le quali la storia abbia una importanza tanto fondamentale quanto per la liturgia, ovvero la scienza del culto cristiano nel senso più vasto del termine. Senza la conoscenza delle origini della liturgia, della sua evoluzione, delle suo modifiche e degli sviluppi che ha subito, non si possono comprendere le ragioni e lo stato attuale dei riti e dei testi liturgici, né il loro svolgersi nei tempi, lo spazio e le cose.
 
La conoscenza della storia della liturgia è dunque la condizione indispensabile per una interpretazione corretta e per un apprezzamento della liturgia di ieri così come per quella di oggi.

Considerando lo stretto legame esistente tra la fede e la liturgia (lex orandi – lex credendi), quest’ultima obbedisce a delle leggi analoghe a quelle della fede stessa, bisogna sapere che essa esige di essere preservata con grande cura, e quindi che è essenzialmente orientata verso la conservazione. Ogni ulteriore sviluppo dovrà essere oggetto di  una prudente riflessione, essere in qualche modo guidata dal sensus fidelium, e non potrà divenire effettivo se non sotto il controllo attento dell’autorità. Per diversi motivi, durante questi lunghi periodi di evoluzione, possono sorgere delle deformazioni, che saranno spesso rilevate postume, e che, presto o tardi, dovranno essere corrette.
Per apprezzare al pertinenza delle riforme e degli sviluppi che la liturgia ha conosciuto nel passato, come per apportarvi eventuali rettifiche, e ancora più per contribuire allo sviluppo del culto richiesto dai nostri tempi, la conoscenza esatta degli elementi costitutivi e della loro evoluzione è una condizione importante e addirittura indispensabile.
(Translation from French made by courtesy of Angela, totustuus.biz)

Per tal ragione vi invitiamo ad acquistare e a studiare:

INTROIBO AD ALTARE DEI (imperdibile)

                                              

AD IMPARARE CIO' CHE NON SI CONOSCE DELLA NOSTRA TRADIZIONE LITUGICA...tutto sulla Messa detta san Pio V che Benedetto XVI ha reso libera oggi nella forma "Straordinaria"

Di che cosa tratta?: del " servizio all'altare nella Liturgia Romana tradizionale"

Ma...cosa significa: Introibo ad altare Dei
significa: Mi accosterò all'altare di Dio...
ed è l'antifona che il sacerdote dice dopo aver avviato la Messa con il segno della croce, ed è bella anche la risposta che diamo:
"Ad Deum qui laetificat iuventutem meam", ossia:
"Al Dio che allieta la mia giovinezza"...

Fatevi questo regalo....oppure, se volete fare un regalo al vostro parroco e non sapete cosa fare, questo libro è davvero un ottimo regalo per lui...


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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08/10/2009 12:37
 
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Pensieri di riforma.

.

"Tutto questo esige secondo il parere degli esperti, un lavoro tanto grande quanto diuturno; e perciò è necessario che passino molti anni, prima che questo, per così dire 'edificio' liturgico [...] riappaia di nuovo splendente nella sua dignità e armonia, una volta che sia stato come ripulito dallo squallore dell'invecchiamento" (Abhinc duos annos, 23/10/1913).

S.Pio X


"[...] per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure". Succede però qualcosa nel frattempo, perché "[...] a causa dei diversi errati tentativi di restauro o di ricostruzione, nonché per il disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, questo affresco è stato messo gravemente a rischio e minaccia di andare in rovina, se non si provvede rapidamente a prendere le misure necessarie per porre fine a tali influssi dannosi". Non si tratta, ovviamente, di coprirlo di nuovo d'intonaco, ma "[...] è indispensabile una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà, così che l'averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina".(Introduzione allo Spirito della Litugia)

Benedetto XVI



Fraternamente CaterinaLD

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LITURGIA FRA MUTABILITA' E IMMUTABILITA'


di don Matteo De Meo

La Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II subito dopo aver affermato il desiderio di una riforma generale della liturgia, ne evidenzia la natura essenziale.
Nel Proemio ribadisce subito che essa si radica nel mistero della Chiesa pellegrina nel tempo : «...tutto questo in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati. ...» (SC, 2).
Per cui la sua natura è essenzialmente misterica (umano-divina).

Poi prosegue chiarendo ulteriormente:«...Questa infatti consta di una parte immutabile, perchè di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o addirittura devono variare, qualora si siano introdotti in esse elementi meno rispondenti alla intima natura della liturgia stessa, oppure queste parti siano diventate non più idonee. ...» (SC, 21).In seguito precisa anche il criterio con cui queste “eventuali” variazioni, -che non riguardano la natura immutabile della liturgia- devono avvenire: «...l’ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria...» (SC, 21) e in che senso è da attuarsi un “innovazione” se non in connessione con la “sana Tradizione”: «...non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti...» (SC, 23).

Si delineano subito tre elementi che devono essere tenuti in assoluta considerazione per una riforma liturgica autenticamente attenta allo spirito del Concilio:

-la natura essenzialmente misterica: il primato è di Dio che agisce, è della grazia;
-l’immutabilità della “intima natura” della liturgia come paradigma di quelle eventuali parti variabili, finalizzate ad esprimere “più chiaramente quelle sante realtà che significano”;
-il criterio di continuità con la Tradizione come terreno naturale da cui “le nuove forme” devono organicamente scaturire.

Quindi un progresso che deve avvenire -come è sempre stato nella storia della liturgia- con una logica di continuità e non di rottura con il passato.



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IL TESORO DELL'ARTE


L’arte è un tesoro di catechesi inesauribile, incredibile. Per noi è anche un dovere conoscerla e capirla bene. Non come fanno qualche volta gli storici dell’arte, che la interpretano solo formalmente, secondo la tecnica artistica. Dobbiamo piuttosto entrare nel contenuto e far rivivere il contenuto che ha ispirato questa grande arte. Mi sembra realmente un dovere — anche nella formazione dei futuri sacerdoti — conoscere questi tesori ed essere capaci di trasformare in catechesi viva quanto è presente in essi e parla oggi a noi.

(Benedetto XVI - Incontro del Santo Padre con i parroci e il clero della Diocesi di Roma - 22 Febbraio 2007)

APPELLO AL PAPA PER RITORNARE ALL'ARTE SACRA VERA ED AUTENTICA

Il Papa ci salvi dalle brutte chiese

Francesco Borgonovo

Quando a Foligno è stata inaugurata la chiesa a forma di cubo progettata da Massimiliano Fuksas, i cittadini umbri hanno tempestato il web di messaggi per protestare contro l’opera, da alcuni considerata tra gli edifici più brutti d’Italia.
Quel caso ha permesso che fra critici e architetti si aprisse un dibattito, di cui ha dato conto su queste pagine Caterina Maniaci qualche tempo fa.
Ora la questione viene sollevata nientemeno che di fronte a Papa Benedetto XVI, tramite
un appello che sarà reso pubblico il prossimo 4 novembre, in previsione dell’incontro con gli artisti provenienti da tutto il mondo che si terrà il 21 del mese.
Il documento sta ancora circolando fra gli esperti, ma finora pare abbia raccolto adesioni importanti. Per esempio quella dello scrittore Martin Mosebach, autore di Eresia dell’informe, del giornalista Sandro Magister, dell’architetto Ciro Lomonte, del filosofo Enrico Maria Redaelli. E ancora compaiono lo storico Paul Badde (corrispondente del giornale Die Welt), il filologo Francesco Colafemmina, il teologo Michele Loconsole e l’editore Manuel Grillo.

Strutture poco amate dai fedeli

Il fatto è che molte delle nuove chiese - come quella di Dio Padre Misericordioso nel quartiere di Tor Tre Teste a Roma, quella di San Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano o quella di Gesù Redentore a Modena ideata da Mauro Galantino - non spiccano per bellezza e, soprattutto, non sono amate dai fedeli.
«Vediamo crescere di giorno in giorno edifici sacri spogliati del sacro e costruiti senza alcuna cognizione della liturgia, ma modellati sul funzionalismo o sull’estro inconsulto e arbitrario dell’architetto creatore», recita l’appello. «Vediamo le nostre chiese pullulare di immagini e simbolismi più genericamente “religiosi”, ma che non illustrano alcuna realtà genuinamente cattolica». Secondo gli estensori, «l’arte e l’architettura sacre oggi non sembrano favorire l’incontro dolce e vivificante» con Dio, ma piuttosto «ostacolano e pervertono costantemente».
Di chi è la responsabilità se i credenti si devono raccogliere in edifici orrendi? Non solo degli architetti che li progettano, ma anche di chi commissiona le opere.
Ecco che, su questo punto, l’appello fa riferimento al Discorso intorno alle immagini sacre e profane del cardinal Gabriele Paleotti, risalente al 1582, secondo il quale «gli abusi non sono tanto da ascrivere agli errori che gli artisti commettono nel dar forma alle immagini, quanto piuttosto agli errori dei signori che le commissionano e che trascurano di commissionarle come si dovrebbe: essi sono le vere cause degli abusi, in quanto gli artisti non fanno che seguire le loro indicazioni».
Insomma, anche i committenti si fanno spesso incantare dalle sirene della moda, motivo per cui si affidano ad archistar come Massimiliano Fuksas o Renzo Piano, forse senza pensare che i trend passano, ma gli edifici restano.
«L’opera artistica e architettonica», scrivono Lomonte e gli altri, «a differenza della liturgia, permane anche dopo la conclusione della liturgia stessa. Essa ha perciò il compito aggiuntivo di essere eco della liturgia, una volta che questa sia terminata. Pertanto la decorazione della chiesa e la sua struttura architettonica debbono rivendicare una inalienabile funzione pedagogica e protrettica verso la fedeltà al messaggio evangelico e liturgico».

Il sito internet per le adesioni

Dunque basta con le chiese che assomigliano a capannoni o cubi di cemento, meglio qualcosa di più semplice, che però si adatti al ruolo che gli edifici sacri devono svolgere.
Il documento, come dicevamo, sarà disponibile online dal prossimo 4 novembre sul sito internet
http://www.appelloalpapa.blogspot.com/.

Per aderire, invece, basta scrivere una email all’indirizzo appelloalpapa@gmail.com. Chissà che Benedetto XVI non decida di prendere personalmente in mano la questione.

© Copyright Libero, 1° novembre 2009



Fraternamente CaterinaLD

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29/06/2010 10:35
 
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Con la pubblicazione di «Teologia della liturgia»
s'inaugura l'edizione in lingua italiana dell'«Opera omnia» di Joseph Ratzinger

Lì dove tutti diventiamo bambini



Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell'esistenza cristiana (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 849, euro 55)  è  il  volume che  inaugura  la  pubblicazione della traduzione italiana (a cura di Ingrid Stampa) dell'Opera omnia di Joseph Ratzinger curata da Edmondo Caruana e Pierluca Azzaro.
"Quando, dopo qualche esitazione, ho deciso di accettare il progetto di un'edizione di tutte le mie opere - scriveva Benedetto XVI il 29 giugno 2008 - avevo  ben  chiaro  che  doveva  valere  l'ordine  di  priorità  seguito dal Concilio e che quindi all'inizio doveva esserci il volume con i miei scritti sulla liturgia. La liturgia della Chiesa è stata per me fin dall'infanzia  la  realtà  centrale  della  mia  vita  e,  alla scuola teologica di maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini, è diventata anche il centro del mio impegno teologico". Pubblichiamo l'inizio del primo capitolo dedicato alla "Natura della liturgia" e, sotto a sinistra, la prefazione scritta dal cardinale segretario di Stato per l'edizione in lingua italiana.

Liturgia - che cos'è propriamente? Che cosa avviene in essa? Quale tipo di realtà v'incontriamo? Negli anni Venti del ventesimo secolo si propose d'intendere la liturgia come un "gioco"; il termine di paragone era innanzitutto il fatto che la liturgia, come il gioco, ha regole proprie, crea un suo mondo, che vale quando vi si entra e che poi naturalmente vien meno quando il "gioco" finisce.

Un altro termine di paragone era il fatto che il gioco è sì dotato di senso, ma al contempo non ha uno scopo specifico, e proprio per questo ha in sé qualcosa di terapeutico, anzi, di liberatorio, poiché ci fa uscire dal mondo degli obiettivi quotidiani con le loro costrizioni e ci introduce in una dimensione priva di scopi, liberandoci quindi per un certo tempo da tutto il peso del nostro mondo del lavoro. Il gioco sarebbe, per così dire, un mondo diverso, un'oasi di libertà, in cui per un momento possiamo lasciar fluire liberamente il nostro essere; di tali momenti di evasione dal potere del quotidiano abbiamo bisogno per riuscire a sopportarne il peso.
 
In tutto questo c'è qualcosa di vero, ma una simile osservazione non può bastare. Infatti, in questo caso sarebbe in fondo del tutto secondario a quale gioco ci dedichiamo; tutto ciò che è stato detto si può applicare a qualunque gioco, la cui necessaria intrinseca serietà dell'osservanza delle regole sviluppa ben presto una propria fatica e conduce anche ad elaborare nuovi scopi specifici:  se pensiamo all'odierno mondo dello sport, al campionato di scacchi o a qualsiasi altro gioco, ovunque si rende evidente che il gioco, dalla dimensione completamente diversa di un mondo alternativo o di un non-mondo, presto si trasforma in un mondo particolare con leggi proprie, supposto che non voglia perdersi in un semplice e vuoto passatempo.

C'è ancora un altro aspetto di questa teoria del gioco che merita di essere menzionato e che già ci avvicina di più alla particolare natura della liturgia:  il gioco dei bambini appare in gran parte come una specie di anticipazione della vita, come un'esercitazione per entrare nella vita di poi, senza comportarne la fatica e la serietà.

Così la liturgia potrebbe indurci a pensare che noi, prima della vita vera e propria alla quale vorremmo giungere, rimaniamo, in fondo, tutti bambini o comunque dovremmo rimanere tali; la liturgia sarebbe allora un modo completamente diverso di anticipazione, di esercizio preliminare:  preludio della vita futura, della vita eterna che, come dice Agostino, a differenza della vita presente non è più caratterizzata da bisogni e necessità, ma interamente dalla libertà del donare e del dare. Allora la liturgia sarebbe un risveglio di ciò che nel nostro intimo è il vero essere bambini, un risveglio dell'apertura interiore verso ciò che ci attende di grande e che con la vita adulta certamente ancora non è compiuto.

Essa sarebbe una forma strutturata della speranza, che già ora vive in anticipo la vita futura, quella vera; che ci addestra alla vita autentica:  quella della libertà, dell'immediatezza con Dio e della schietta apertura reciproca. Così, essa imprimerebbe anche nella vita, che appare reale, della quotidianità, i segni anticipatori della libertà che rompono le costrizioni e portano il riverbero del cielo sulla terra.

Una simile interpretazione della teoria del gioco differenzia la liturgia in modo essenziale dal gioco comune, in cui vive pur sempre la nostalgia per il vero "gioco", per il totalmente altro di un mondo in cui ordine e libertà si fondono tra loro; rispetto al carattere superficiale e tuttavia finalizzato o invece umanamente vuoto del gioco usuale, essa fa emergere la particolarità e l'alterità del "gioco" della Sapienza, di cui parla la Bibbia e che si può quindi mettere in relazione con la liturgia. Ma ancora ci manca un contenuto essenziale di questo abbozzo, poiché l'idea della vita futura è apparsa intanto solo come un vago postulato, e il guardare a Dio, senza il quale la "vita futura" sarebbe solo deserto, è rimasto ancora del tutto indeterminato. Vorrei quindi proporre un nuovo approccio, questa volta a partire dalla concretezza di testi biblici.

Nei racconti degli eventi che precedettero l'uscita d'Israele dall'Egitto, come anche dello stesso svolgimento di essa, appaiono due differenti finalità dell'esodo. Una, nota a noi tutti, è quella del raggiungimento della Terra Promessa, in cui Israele potrà finalmente vivere sul proprio territorio, in confini sicuri, come popolo con una sua libertà ed indipendenza. Accanto ad essa, però, compare ripetutamente l'indicazione di un diverso scopo.

Il comando originario rivolto da Dio al faraone suona così:  "Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto!" (Es 7, 16). Questa frase - "Lascia partire il mio popolo, perché mi possa servire" - viene ripetuta con piccole varianti quattro volte, cioè in tutti gli incontri tra il faraone e Mosè/Aronne (Es 7, 26; 9, 1; 9, 13; 10, 3). Nel corso delle trattative col faraone, lo scopo si concretizza ulteriormente. Il faraone si mostra pronto al compromesso. Per lui, nel conflitto si tratta della libertà di culto degli israeliti, che egli inizialmente concede nella forma seguente:  "Andate a sacrificare al vostro Dio, ma nel paese!" (Es 8, 21). Mosè, però - secondo il comando di Dio - insiste nell'affermare che per il culto è necessario l'Esodo.

Il suo luogo dovrà essere il deserto:  "Andremo nel deserto, a tre giorni di cammino, e sacrificheremo al Signore, nostro Dio, secondo quanto egli ci ordinerà!" (Es 8, 23). Dopo il succedersi delle piaghe, il faraone amplia la sua offerta di compromesso. Ora concede che il culto si compia secondo il volere della divinità, quindi nel deserto, ma esige che vi si rechino soltanto gli uomini, mentre donne e bambini, come anche il bestiame, devono rimanere a casa in Egitto. Egli presuppone una prassi cultuale allora corrente, secondo la quale solo gli uomini erano protagonisti attivi nel culto. Mosè, però, non può negoziare la modalità del culto con l'uomo di potere straniero, non può subordinare il culto a compromessi politici:  il modo di prestare il culto non è una questione che si possa risolvere politicamente.
 
Esso porta la sua norma in se stesso, può essere cioè regolato solo in base alla norma della Rivelazione, a partire da Dio. Per questo viene respinta anche la terza proposta di compromesso del sovrano, che ora estende notevolmente la sua offerta, acconsentendo la partenza anche di donne e bambini. "Solo rimangano le vostre greggi e i vostri armenti" (10, 24). Mosè obietta che deve portare con sé tutto il bestiame, poiché "noi non sapremo quel che dovremo sacrificare al Signore finché non saremo arrivati in quel luogo" (10, 26). In tutto ciò non si tratta della Terra Promessa; come unico scopo dell'Esodo appare l'adorazione, che può avvenire solo secondo la norma di Dio ed è quindi sottratta alle regole del gioco proprie del compromesso politico.

Israele non parte per essere un popolo come tutti gli altri; parte per servire Dio. La meta dell'Esodo è il monte di Dio, ancora sconosciuto, lo scopo è il servizio da rendere a Dio. A questo punto si potrebbe obiettare che l'ostinarsi sul culto nelle trattative con il faraone era di natura tattica. Il reale e, in definitiva, unico scopo dell'esodo non era il culto, ma la Terra, che costituiva appunto il contenuto vero e proprio della promessa fatta ad Abramo. Non credo che con questo si renda giustizia alla serietà che domina nei testi. In fondo, la contrapposizione fra Terra e culto non ha senso:  la Terra viene data perché ci sia un luogo d'adorazione del vero Dio.
 
Il semplice possesso della Terra, la semplice autonomia nazionale, declasserebbe Israele allo stesso livello di tutti i popoli. Ridurre tutto a questa finalità significherebbe disconoscere la particolarità dell'elezione:  l'intera storia raccontata dai libri dei Giudici e dei Re, ripresa e reinterpretata nelle Cronache, mostra proprio questo:  che la terra in quanto tale, presa in se stessa, rimane un bene ancora indeterminato; essa diventa il vero bene, il dono reale di una promessa adempiuta solo se vi regna Dio; non semplicemente se la terra esiste in qualche modo come Stato autonomo, ma se è lo spazio dell'obbedienza, in cui si compie la volontà di Dio e in questo modo si sviluppa la maniera giusta dell'esistenza umana.

L'esame del testo biblico ci concede però una definizione ancora più precisa del rapporto tra i due scopi dell'esodo. È vero che l'Israele peregrinante non viene ancora a sapere dopo tre giorni (come annunciato nel discorso con il faraone) quale tipo di sacrificio Dio esiga. Tre mesi dopo l'uscita, però, "nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai" (Es 19, 1). Il terzo giorno avviene poi la discesa di Dio sulla vetta del monte (19, 16-20). Ed ora Dio parla al popolo, nelle sante Dieci Parole (20, 1-17) gli comunica la sua volontà e, attraverso Mosè, stabilisce l'Alleanza (Es 24), che si concretizza in una forma minuziosamente regolamentata di culto.
 
Così lo scopo della peregrinazione nel deserto, indicato al faraone, è compiuto:  Israele impara a venerare Dio nel modo da Lui stesso voluto. A tale venerazione appartiene il culto, la liturgia nel senso vero e proprio; ma essa richiede anche il vivere secondo la volontà di Dio, che è una parte irrinunciabile della retta adorazione. "La gloria di Dio è l'uomo vivente, ma la vita dell'uomo è vedere Dio", afferma sant'Ireneo, cogliendo proprio il nucleo di ciò che era avvenuto nell'incontro sul monte nel deserto:  in definitiva, la vita stessa dell'uomo, l'uomo che vive rettamente, è la vera adorazione di Dio, ma la vita diventa vita vera solo se riceve la sua forma dallo sguardo rivolto a Dio. Il culto serve a questo:  a consentire tale sguardo e a donare così quella vita, che diventa gloria per Dio.

In tutto sedici volumi



Lo scopo dell'"Opera omnia" di Joseph Ratzinger è presentare nel modo più completo possibile la sua opera già stampata, integrata con testi ancora inediti o non ancora stampati in lingua tedesca e italiana. Le monografie di Ratzinger vengono incluse immutate e integrate volta per volta con ulteriori testi di tema affine:  ai testi espressamente scientifici vengono aggiunti articoli per enciclopedie, recensioni e meditazioni.

I volumi di saggi che raccolgono i contributi su uno stesso tema vengono sciolti e i singoli scritti inseriti nel nuovo ordine sistematico. L'"Opera omnia" si apre - per quanto riguarda la numerazione dei volumi che non segue l'effettivo momento della pubblicazione - con i due scritti scientifici legati alla qualificazione accademica:  la tesi di dottorato sull'ecclesiologia di Agostino e lo scritto per l'abilitazione alla libera docenza sulla teologia della storia e sulla comprensione della rivelazione in Bonaventura. Vengono aggiunti di volta in volta ulteriori studi e testi riguardanti sia Agostino che Bonaventura.

Il terzo volume riprende come punto di partenza la prolusione pronunciata all'università di Bonn nel 1959, sul tema "Il Dio della fede e il Dio dei filosofi", e associa a essa tutti gli altri testi sullo stesso ambito tematico di fides et ratio. Vi rientrano, per esempio, anche tutte le riflessioni sulle fondamenta storico-spirituali dell'Europa.

Il quarto volume si apre con l'"Introduzione al cristianesimo" (1968) e aggiunge ulteriori testi sulla confessione della fede, il battesimo, la conversione, la sequela di Cristo e la realizzazione dell'esistenza cristiana.

I volumi che vanno dal quinto al dodicesimo sono orientati nel senso più ampio secondo il canone tematico della teologia sistematica:  il quinto volume raccoglie i testi classificabili come trattati sulla dottrina della creazione, sull'antropologia e sulla dottrina della grazia, il sesto, partendo dal libro Gesù di Nazaret (2007), mette insieme gli studi di cristologia, mentre i volumi settimo e ottavo rappresentano, con l'ecclesiologia, un altro punto centrale del lavoro di Ratzinger. Il settimo mette insieme innanzitutto i vari testi sulla teologia del Concilio, mentre l'ottavo propone i lavori ecclesiologici in senso più stretto e inserisce soprattutto anche gli scritti sull'ecumenismo.

Al punto d'incrocio tra teologia fondamentale e dogmatica si trova il nono volume, che raccoglie le opere prodotte nell'intero arco di tempo della sua attività nel campo della gnoseologia e dell'ermeneutica.

Il decimo volume prende come punto di partenza L'Escatologia (1977), l'unico libro di testo dogmatico-teologico pubblicato da Ratzinger, e unisce a esso tutti gli altri studi e testi nell'ambito tematico di speranza, morte, risurrezione, vita eterna. Dopo la Teologia della liturgia nell'undicesimo volume, il dodicesimo raccoglie appositamente testi sul ministero ecclesiastico, mentre il tredicesimo raccoglie numerose interviste. Il quattordicesimo volume presenta una scelta ampia quanto possibile della vasta opera omiletica, nella quale si terrà conto anche di meditazioni e discorsi meno conosciuti e finora inediti.

Il quindicesimo volume unisce, partendo dall'autobiografia apparsa nel 1997/98, Aus meinem Leben, ulteriori testi biografici e contributi di carattere personale, mentre il volume conclusivo offrirà una bibliografia completa delle opere di Joseph Ratzinger in lingua tedesca, come anche un ampio indice sistematico generale.

 



(©L'Osservatore Romano - 28-29 giugno 2010)

[Modificato da Caterina63 29/06/2010 10:39]
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Come il Papa vede la priorità di Dio

di Tarcisio Bertone


La Libreria Editrice Vaticana (Lev) ha già avuto il privilegio di arricchire il suo catalogo con decine di documenti dell'insegnamento e del magistero di Benedetto XVI, documenti tra i quali spiccano, per la loro importanza teologica, le tre encicliche Deus caritas est, Spe salvi e Caritas in veritate, ma anche interventi preziosi come l'Esortazione apostolica postsinodale sull'Eucaristia, Sacramentum caritatis, e la Lettera apostolica "Motu proprio data" Summorum Pontificum, che hanno rivelato e ribadito la sua predilezione per il tema della Sacra Liturgia, tema specifico di questo undicesimo volume dell'"Opera Omnia".
Lo stesso Santo Padre ha chiarito che questa sua predilezione per la liturgia è strettamente legata al modo in cui Egli vede la "priorità di Dio" (Primat Gottes).
Tale priorità trova la sua espressione più significativa proprio nel culto di adorazione che la Chiesa ha sempre tributato a Dio, fin dagli inizi della sua storia, nella celebrazione liturgica dei riti sacri, innanzi tutto mediante il Sacrificio eucaristico della Santa Messa, centro propulsore di tutta la vita cristiana.
Questi documenti e scritti si inseriscono in maniera mirabile nel flusso straordinario di un profondo pensiero filosofico e teologico, che Joseph Ratzinger ha avuto occasione di esprimere con sorprendente originalità e coerente continuità fin dai primi anni di un'"attività accademica" di prim'ordine, e poi in un costruttivo "ministero della parola" da lui esercitato nell'attività pastorale di sacerdote e di vescovo a servizio del popolo di Dio.
Per questo motivo, la Libreria Editrice Vaticana può sentirsi onorata e lieta di pubblicare in sedici volumi, in collaborazione con la casa editrice Herder, tutti gli scritti nei quali Joseph Ratzinger ha regalato all'umanità contemporanea la ricchezza del suo pensiero nel corso della sua instancabile attività d'insegnamento e di ministero sacerdotale.
Sorprendente è la capacità comunicativa con cui egli sa rivolgersi ai lettori, anche sui temi filosoficamente e teologicamente più impegnativi. Va rilevata, per altro, una "creatività" lessicale corrispondente a una "creatività" concettuale con cui Egli sa rivolgersi non solo alla "fede" del credente, per confermarla e irrobustirla, ma anche alla "ragione" che è appannaggio di ogni uomo. Di qui l'importanza della fedele e perfetta traduzione dalla lingua originale, che l'editrice si è premurata di assicurare.
L'auspicio è dunque che vengano presto pubblicati gli altri volumi dell'Opera, e che nella mente e nel cuore di molti lettori possa fruttificare quel seme che l'illuminato Teologo/Pastore di anime ha voluto e saputo gettare nel "campo" del Popolo di Dio.

(©L'Osservatore Romano - 28-29 giugno 2010)

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Un inedito di Ratzinger sulla Messa tradizionale

Sul Blog di P. Augè quest'ultimo ha pubblicato un proprio scambio di lettere con l'allora card. Ratzinger, alla cui visione liturgica il P. Augé rimproverava già gli argomenti che abbiamo imparato a conoscere, nostro malgrado, per via delle polemiche insorte in seguito al motu proprio Summmorum Pontificum. Questo carteggio è una documentazione importante, in particolare perché è uno spaccato del convincimento di Joseph Ratzinger in questa materia, esposto quando egli era ancora libero di dire fino in fondo quel che pensava. Non che abbia cambiato idea in seguito: anzi il comportamento da che è Papa lo conferma. Ma certo deve necessariamente esprimersi con maggior diplomazia.

Ci permettiamo (da Messainlatino) di interpolare in rosso alcune considerazioni (P. Augé non ce ne voglia) e di evidenziare con sottolineature i migliori passaggi; in particolare, col suo buon senso illuminante, l'osservazione finale del card. Ratzinger, in risposta alla frusta accusa per cui la celebrazione della Messa antica minaccerebbe l'unità della Chiesa.
Enrico

Lettera di P. Augé

Roma, 16 novembre 1998

Eminenza Reverendissima,

Mi perdoni se ardisco di scrivere questa lettera. Lo faccio con semplicità, e anche con grande sincerità. Sono professore di liturgia al Pontificio Istituto Liturgico di S. Anselmo e alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense nonché Consultore della Congregazione per il Culto Divino. Ho letto la Conferenza che Lei ha tenuto poco tempo fa con occasione dei “Dix ans du Motu Proprio ‘Ecclesia Dei’”. Confesso che il suo contenuto mi ha lasciato profondamente perplesso. Mi hanno colpito, in particolare, le risposte che Lei dà alle obiezioni fatte da coloro che non approvano “l’attaccamento all’antica liturgia”. E’ su queste che vorrei soffermarmi in questa lettera che Le invio.

L’accusa di disobbedienza al Vaticano II viene respinta dicendo che il Concilio non ha riformato esso stesso i libri liturgici, ma ha semplicemente ordinato la loro revisione. Verissimo! e l’affermazione non può essere contraddetta. Le faccio notare però che neppure il Concilio di Trento ha riformato i libri liturgici, avendo dato solo dei principi molto generali al riguardo. La riforma come tale, il Concilio l’ha demandata al papa, e Pio V e i suoi successori l’hanno fedelmente attuata.

Non riesco a capire, poi, come i principi del Concilio Vaticano II concernenti la riforma della messa presenti nella Sacrosanctum Concilium, nn.47-58 (quindi non solo i nn. 34-36 da Lei citati) possano andare d’accordo con il ripristino della cosiddetta messa tridentina. Se prendiamo inoltre per buona l’affermazione del Cardinale Newmann [sic] da Lei ricordata, e cioè che la Chiesa non ha mai abolito o proibito “forme liturgiche ortodosse”, allora mi domando se, ad esempio, i notevoli cambiamenti introdotti da Pio X nel salterio romano o da Pio XII nella Settimana Santa abbiano o meno abolito gli antichi ordinamenti tridentini. Il suddetto principio potrebbe indurre alcuni, ad esempio in Spagna, a pensare che è permesso celebrare l’antico rito ispano - visigotico, ortodosso e rimesso a nuovo dopo il Vaticano II. Parlare poi del rito tridentino come diverso dal rito del Vaticano II non mi sembra esatto, anzi direi che è contrario alla nozione stessa di ciò che s’intende qui per rito. Sia il rito tridentino che quello attuale sono un solo rito: il rito romano, in due diverse fasi della sua storia [interessante passaggio: chissà che non abbia dato per primo al futuro Benedetto XVI l'idea dell'unico rito in due forme, ripresa nel motu proprio; fino ad allora, il card. Ratzinger continuava a parlare di due riti distinti. Se così fosse, temiamo comunque che P. Augè, data la sua avversione al motu proprio, non ne trarrebbe motivo di fierezza].

La seconda obiezione che si fa è che il ritorno all’antica liturgia rischia di rompere l’unità della Chiesa. Questa obiezione viene affrontata da Lei distinguendo tra l’aspetto teologico e pratico del problema. Posso condividere molte delle considerazioni che Lei fa a questo proposito, eccetto alcuni dati storicamente non sostenibili, come ad esempio l’affermazione che fino al Concilio di Trento esistevano i riti mozarabico di Toledo e altri, da esso soppressi. Il rito mozarabico infatti era stato soppresso già da Gregorio VII con esclusione di Toledo, dove rimane in vigore. Il rito ambrosiano, da parte sua, non è stato mai soppresso. Ciò che al riguardo non riesco a capire è che si dimentichi quanto Paolo VI afferma nella Costituzione apostolica del 3.4.1969, con cui promulga il nuovo Messale, e cioè: “...confidiamo che questo Messale sarà accolto dai fedeli come mezzo per testimoniare e affermare l’unità di tutti, e che per mezzo di esso, in tanta varietà di lingue, salirà al Padre celeste... una sola e identica preghiera”. Paolo VI vuole quindi che l’uso del nuovo Messale sia espressione di unità della Chiesa; e aggiunge poi concludendo: “Quanto abbiamo qui stabilito e ordinato vogliamo che rimanga valido ed efficace, ora e in futuro, nonostante quanto vi possa essere di contrario nelle Costituzioni e negli Ordinamenti Apostolici dei nostri predecessori e in altre disposizioni, anche degne di particolare menzione e deroga”.

Conosco le sottili distinzioni avanzate da alcuni giuristi o ritenuti tali [ritenuti tali... sprezzante il Padre. Chissà come avrà preso l'opposta affermazione del motu proprio, per cui l'antico messale non è mai stato abrogato]. Credo però che si tratti semplicemente di “sottigliezze” che, in quanto tali, non meritano grande attenzione. Si potrebbero citare diversi documenti in cui si dimostra chiaramente la volontà di Paolo VI al riguardo. Ricordo solo la lettera che l’11 ottobre 1975 il Card. J. Villot scriveva a Mons. Coffy, presidente della Commissione episcopale francese di liturgia e di pastorale sacramentaria (Segreteria di Stato n.287608), in cui diceva tra l’altro: “Par la Constitution Missale Romanum, le Pape prescrit, comme vous le savez, que le nouveau Missel doit remplacer l’ancien, nonobstant les Constitutions et Ordonnances apostoliques de ses prédécesseurs, y compris par conséquent toutes les dispostions figurant dans la Constitution Quo Primum et qui permettrait de conserver l’ancien missel [...] Bref, comme dit la Constitution Missale Romanum, c’est dans le nouveau Missel romain et nulle part ailleurs que les catholiques de rite romain doivent chercher le signe et l’instrument de l’unité mutuelle de tous...

Eminenza, come professore di liturgia io mi trovo a insegnare delle cose che mi sembrano diverse da quelle da Lei espresse nella conferenza suddetta. E credo di dover continuare su questa strada in obbedienza al magistero pontificio [questa frase, riletta oggi che Ratzinger esprime "magistero pontificio", deve causare acuto fastidio in P. Augè... chissà se oggi insegna "in obbedienza al magistero pontificio", ossia alle tesi di Benedetto XVI]. Lamento anch’io gli eccessi con cui alcuni dopo il Concilio hanno celebrato o celebrano ancora la liturgia riformata. Ma non riesco a capire perché alcuni Eminentissimi Cardinali, non solo Lei, abbiano creduto opportuno porvi rimedio mettendo “di fatto” in discussione una riforma approvata dopo tutto dal sommo pontefice Paolo VI e aprendo sempre di più le porte all’uso dell’antico Messale di Pio V. Con umiltà, ma anche con parresia apostolica, sento il bisogno di affermare la mia contrarietà a simili orientamenti. Ho preferito dire apertamente ciò che molti liturgisti e non, che ci sentiamo figli obbedienti della Chiesa, diciamo nei corridoi degli Atenei romani.

Suo dev.mo in Cristo
Matias Augé cmf

Risposta del card. Ratzinger
18 febbraio 1999


Reverendo Padre,

ho letto con attenzione la Sua lettera del 16 novembre u.s., nella quale Lei ha formulato alcune critiche alla Conferenza da me tenuta il giorno 24 ottobre 1998, in occasione del 10o anniversario del Motu proprio “Ecclesia Dei”.

Capisco che Lei non condivida le mie opinioni sulla riforma liturgica, la sua attuazione, e la crisi che deriva da talune tendenze in essa nascoste, come la desacralizzazione.

Mi sembra, però, che la sua critica non prenda in considerazione due punti:

1. è il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II che ha concesso, con l’Indulto del 1984, l’uso della liturgia anteriore alla riforma paolina, sotto certe condizioni; in seguito lo stesso Pontefice ha pubblicato, nel 1988, il Motu proprio “Ecclesia Dei”, che manifesta la sua volontà di andare incontro ai fedeli, che si sentono attaccati a certe forme della liturgia latina anteriore, e pertanto chiede ai vescovi di concedere “in modo ampio e generoso” l’uso dei libri liturgici del 1962.

2. una parte non piccola dei fedeli cattolici, anzitutto di lingua francese, inglese e tedesca, [vergogna per noi italiani, che dobbiamo recuperare lo svantaggio; ma d'altronde, come diceva Montanelli, gli italiani fanno le rivoluzioni solo col permesso dei carabinieri, sicché in maggioranza solo dopo la liberalizzazione del Summorum Pontificum ci siamo scoperti tradizionalisti] rimangono fortemente attaccati alla liturgia antica, e il Sommo Pontefice non intende ripetere nei loro confronti ciò che era accaduto nel 1970, dove si imponeva la nuova liturgia in maniera estremamente brusca, con un tempo di passaggio di soli 6 mesi, mentre il prestigioso Istituto liturgico di Treviri, infatti, per tale questione, che tocca in maniera così viva il nervo della fede, giustamente aveva pensato ad un tempo di 10 anni, se non sbaglio.

Sono dunque questi due punti, cioè l’autorità del Sommo Pontefice regnante e il suo atteggiamento pastorale e rispettoso verso i fedeli tradizionalisti, che sarebbero da prendere in considerazione.

Mi permetta, pertanto, di aggiungere alcune risposte alle Sue critiche circa il mio intervento.

1. Quanto al Concilio di Trento non ho mai detto che esso avrebbe riformato i libri liturgici, al contrario ho sempre sottolineato che la riforma postridentina, situandosi pienamente nella continuità della storia della liturgia, non ha voluto abolire le altre liturgie latine ortodosse (i cui testi esistevano da più di 200 anni) e neppure imporre una uniformità liturgica.

Quando ho detto che anche i fedeli, che fanno uso dell’Indulto del 1984, devono seguire gli ordinamenti del Concilio, volevo mostrare che le decisioni fondamentali del Vaticano II sono il punto d’incontro di tutte le tendenze liturgiche e che quindi sono anche il ponte per la riconciliazione in campo liturgico. Gli ascoltatori presenti hanno, in realtà, capito le mie parole come un invito all’apertura al Concilio, all’incontro con la riforma liturgica. Penso che chi difende la necessità ed il valore della riforma, dovrebbe essere pienamente d’accordo con questo modo di avvicinare i “tradizionalisti” al Concilio.

2. La citazione di Newman vuole significare che l’autorità della Chiesa non ha mai abolito nella sua storia con un mandato giuridico una liturgia ortodossa. Si è verificato invece il fenomeno di una liturgia che scompare, e poi appartiene alla storia, non al presente.

3. Non vorrei entrare in tutti i dettagli della Sua lettera, anche se non sarebbe difficile rispondere alle Sue diverse critiche dei miei argomenti. Mi sta però a cuore quello che riguarda l’unità del Rito Romano. Questa unità oggi non è minacciata dalle piccole comunità che fanno uso dell’Indulto e si trovano spesso trattati come lebbrosi, come persone che fanno qualcosa di indecoroso, anzi di immorale; no, l’unità del Rito Romano è minacciata dalla creatività selvaggia, spesso incoraggiata da liturgisti [standing ovation!] (per esempio in Germania si fa la propaganda del progetto “Missale 2000”, dicendo, che il Messale di Paolo VI sarebbe già superato). Ripeto quanto ho detto nel mio intervento, che la differenza tra il Messale di 1962 e la messa fedelmente celebrata secondo il Messale di Paolo VI è molto minore che la differenza fra le diverse applicazioni cosiddette “creative” del Messale di Paolo VI. In questa situazione la presenza del Messale precedente può divenire una diga contro le alterazioni della liturgia purtroppo frequenti, ed essere così un appoggio della riforma autentica. Opporsi all’uso dell’Indulto del 1984 (1988) in nome dell’unità del Rito Romano è, secondo la mia esperienza, un atteggiamento molto lontano dalla realtà [il futuro Papa conosceva già molto bene, e sapeva smascherare, tutti i pelosi paralogismi dei liturgisti e dei modernisti]. Del resto mi rincresce un po’, che Lei non abbia percepito, nel mio intervento, l’invito rivolto ai “tradizionalisti” ad aprirsi al Concilio, a venirsi incontro verso la riconciliazione, nella speranza di superare, col tempo, la spaccatura tra i due Messali.

Tuttavia, La ringrazio per la Sua parresia, che mi ha permesso di discutere francamente [in questa franchezza, oggi non più concessa a un pontefice, è il grande valore di questa lettera] su una realtà che ci sta ugualmente a cuore [ulteriore ammissione della centralità della liturgia nella visione di Ratzinger].

Con sentimenti di gratitudine per il lavoro che Lei svolge nella formazione dei futuri sacerdoti, La saluto

Suo nel Signore
+ Joseph Card. Ratzinger






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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L'arricchimento mutuo in marcia
 
Un libro sul nuovo movimento liturgico conquista i lettori francesi (*). Scritto da padre Claude Barthe, già autore di vari libri sulla liturgia antica, questo breve saggio tratta della "messa a posto" della messa di Paolo VI. Eccone una presentazione, tradotta dall'intervista rilasciata da padre Barthe alla rivista francese Monde et Vie.


1/ Padre, il suo ultimo lavoro ci spiazza un po'. La conosciamo come difensore della messa tradizionale e la scopriamo attento alla messa di Paolo VI. Come mai un tale interesse da parte sua?

La partecipazione attiva alla difesa della messa tradizionale, non mi ha mai impedito di interessarmi alla trasformazione dell'altra, la messa di Paolo VI. Nel 1997, dieci anni prima del Motu Proprio, avevo pubblicato un libro di riflessioni - "Reconstruire la liturgie. Entretiens sur l’état de la liturgie dans les paroisses" edizioni F-X di Guibert -, in cui il tema era esattamente quello dell'attuale Quaderno.
 E' chiaro che il Motu Proprio del 2007 ha rilanciato questo proposito, che consiste nel sottolineare come le due critiche parallele dei cambiamenti attuati sotto Paolo VI, nello specifico quella frontale, tesa a promuovere una larga diffusione della liturgia antica, e quella riformista, detta "riforma della riforma", che cerca di mettere in pratica dei cambiamenti dall'interno della liturgia di Paolo VI, sono state strettamente legate sin dall'inizio.

Il progetto di riforma della riforma non può realizzarsi senza quella colonna vertebrale costituita dalla celebrazione più ampia possibile secondo il messale tradizionale. D'altro canto quest'ultimo non può sperare di reinserirsi massicciamente nelle parrocchie ordinarie senza la rinascita di un ambiente favorevole alimentato dal vitale sostegno della riforma della riforma.


2/ I fondamentalisti della forma straordinaria ritengono che il messale di Paolo VI non sia riformabile e che sarebbe necessario disfarsene. Lei pensa che invece possa essere salvato, o che si possa addirittura arricchirlo, come?

Penso innanzitutto che sia completamente irrealistico credere che con un colpo di bacchetta magica in tutte le parrocchie del mondo tutte le messe vengano di nuovo celebrate secondo l'uso antico. Di contro posso constatare, insieme ad altri, compresi alcuni che sono ai vertici della gerarchia cattolica, che il messale di Paolo VI contiene un'infinità di opzioni, sfumature e possibilità d'interpretazione. Operando una scelta progressiva o sistematica, o sistematicamente progressiva, delle opzioni a carattere tradizionale che contiene, si può rendere possibile nelle parrocchie, in modo perfettamente canonico, un aggiustamento, in senso ortodosso, del suo utilizzo. D'altra parte è una semplice constatazione: Moltissimi parroci praticano già questa riforma della riforma, spesso per tappe, e nella grande maggioranza dei casi, parallelamente, celebrano la messa tradizionale.

Per rispondere dunque alla domanda, direi che credo che la liturgia romana possa essere salvata, come si può constatare in pratica, attraverso un'azione a doppia velocità: diffusione del messale di San Pio V e riforma della riforma. Questo farà si che, parafrasando un celebre discorso di Paolo VI, si abbandoni progressivamente tutto ciò che questa riforma comporta che è già vecchio e fuori moda proprio perché non tradizionale. Dopo questa operazione vedremo bene cosa si salverà...


3/ Lei ci fa scoprire una parte poco conosciuta della storia liturgica di questi ultimi quarant'anni. Mentre i sostenitori della messa tradizionale non sentivano il bisogno di preoccuparsi del nuovo messale, alcuni adepti "moderati" di quest'ultimo, una corrente decisamente minoritaria a dire il vero, si sono adoperati per proporne una riforma. Ci può brevemente descrivere questa posizione?

E' la storia di quella che potremmo chiamare la critica riformatrice del nuovo messale. In breve, e parlando solo della Francia, possiamo ricordare che un teologo come Louis Bouyer, che aveva partecipato attivamente alla riforma conciliare, è entrato molto presto in conflitto con un certo numero dei suoi aspetti, in particolare in riferimento all'orientamento della celebrazione. L'abbazia di Solesmes e, in gradi differenti, alcune delle sue "figlie" hanno accettato la riforma, ma senza derogare all'uso del latino e del gregoriano. La Comunità Saint-Martin, di Monsignor Guérin, ha optato per il messale di Paolo VI, ma secondo un'interpretazione molto "tradizionalizzante". Monsignor Maxime Charles, rettore della Basilica di Montmartre, e l'abate Michel Gitton, il suo principale erede spirituale, un tempo parroco di St-Germain-l’Auxerrois a Parigi, hanno avuto come linea di condotta la conservazione di ciò che sembrava poter essere recuperabile in mezzo alle rovine.

Soprattutto, c'è stato il fenomeno Ratzinger. Già nel 1966, Joseph Ratzinger era intervenuto in modo molto severo al Katholikentag di Bamberga a proposito della riforma in corso. La lotta contro quello che riteneva essere un "falso spirito del Concilio" è divenuta, per così dire, sostanziale per colui che è stato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1981, e poi Papa nel 2005.
 In materia di liturgia Joseph Ratzinger andava molto più lontano rispetto agli altri riformisti. Sappiamo oggi che il 16 novembre 1982 aveva organizzato a Roma una riunione cardinalizia "riguardo le questioni liturgiche", ed aveva ottenuto che tutti i Prefetti delle Congregazioni presenti alla riunione affermassero che il messale romano antico doveva essere "ammesso dalla Santa Sede in tutta la Chiesa per le messe celebrate in lingua latina". Nel 1982... esattamente un quarto di secolo prima della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum!


4/ La Sua opera è sottotitolata "Un nuovo movimento liturgico". E' un pio auspicio, o la constatazione del fatto che attorno a Benedetto XVI, punta di diamante di questa riforma della riforma, si è costituito un gruppo influente di prelati e uomini di Chiesa che intendono, se non portarla velocemente a compimento, almeno dargli una spinta decisiva?

Appunto: Appoggiandosi sulle opere di Joseph Ratzinger ("Rapporto sulla fede", "La mia vita", "Introduzione allo spirito della liturgia", "Cantate al Signore un canto nuovo", "La festa della fede") e trovando in queste un'autorevole legittimazione, si è costruita una nuova generazione di teologi, storici del culto divino e membri della Curia , che forma oggi il nucleo degli ideatori della riforma della riforma e dei sostenitori del Motu Proprio.

Detto questo, nessuno di loro, a cominciare dal Papa, intende promuovere questa riforma della riforma attraverso testi, decreti o tramite la pubblicazione di un nuovo messale di sintesi fra il nuovo e l'antico: Un messale "Benedetto XVI" che non farebbe altro che aggiungersi al messale Paolo VI. Vogliono piuttosto procedere con l'esempio, l'esortazione, l'educazione e soprattutto, per evocare il tema dell'Epistola ai Romani di San Paolo, provocare una sana "gelosia" della forma detta oggi ordinaria nei confronti di quella detta straordinaria. Questa è del resto la caratteristica della restaurazione voluta dal cardinale Ratzinger fin dal 1985: Cercare di arrivare al cuore delle questioni conciliari, ma in modo esortativo e mai coercitivo.

La riforma della riforma, infatti, da già i suoi frutti in un gran numero di parrocchie.
E' sufficiente dunque incoraggiarla, diffonderla, e soprattutto farla arrivare al livello delle diocesi. Sarebbe giusto e opportuno che, invece di riguardare solo i parroci alla base, e il Papa alla sommità, essa venisse messa in pratica anche dai vescovi. Immaginiamo per un momento l'effetto prodigioso della restaurazione non solo della liturgia, ma di tutto ciò che ad essa si accompagna, intendo le vocazioni, la dottrina, il catechismo, il rinnovamento della pratica cattolica, che si scatenerebbe se un vescovo, poi due, poi tre... girasse nuovamente l'altare nella sua Cattedrale, ristabilisse l'uso della comunione in ginocchio, reintroducesse il latino e il gregoriano, e vi facesse regolarmente celebrare la messa tradizionale.


5/ Benedetto XVI, durante il suo viaggio apostolico nel Regno Unito, ha celebrato tutte le sue messe con il prefazio e il canone letti in latino. Cosa le ispira questa novità solo l'ultima di una serie a partire dall'elezione del cardinale Ratzinger, riguardo le celebrazioni pontificie?

Mi ispira "gaudium et spem", gaudio e speranza. Spero, per esempio, che in un prossimo viaggio apostolico, il Papa celebri pubblicamente la messa secondo la forma straordinaria del rito romano, cosa che, si dice, lui faccia regolarmente in privato....

(*) "La Messe à l'endroit – Un nouveau mouvement liturgique"
Éditions de l'Homme Nouveau

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Nel volume "Teologia della liturgia" di Joseph Ratzinger

L'arte cristiana e la nuova esperienza del tempo


Nel pomeriggio di martedì 7 dicembre, al Palazzo Ducale di Genova, verrà presentato l'undicesimo volume dell'Opera omnia di Joseph Ratzinger Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell'esistenza cristiana (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 849, euro 55). All'incontro, introdotto e moderato dal nostro direttore, interverranno il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, Sandra Isetta - della sua relazione anticipiamo alcuni stralci - e Lucetta Scaraffia.

di Sandra Isetta

Il Papa analizza in questo volume uno dei temi più spinosi:  l'autodeterminazione del culto, l'uomo che non può "fare" da sé il culto. La liturgia è "fatta" per Dio e non per noi stessi. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno essa è attraente. "Umiltà e obbedienza non sono virtù servili, che rendono gli uomini repressi, ma contrastano superbia e presunzione che disgregano ogni comunità e portano alla violenza", come il conformismo dell'oggi confina l'uomo nella superficialità. Il giovenco d'oro testimonia questa arbitrarietà del culto:  con l'idolo si vuole non allontanarsi da Dio, ma glorificare quel Dio che ha portato Israele fuori dall'Egitto.

Eppure c'è defezione da Dio:  non si crede nella sua immagine invisibile, il culto non è un salire verso di Lui, ma un tirarlo giù, nella dimensione umana. Questo è il gioco vuoto della liturgia, un tradimento di Dio, camuffato sotto un manto di sacralità. Grazie alla linearità di ragionamento e linguaggio, divengono accessibili complicati concetti teologici. Ad esempio, l'opposizione tra culto orientato cosmicamente, tipico delle religioni naturali, che porta a una sorta di religione "di scambio" tra la divinità e gli uomini, e culto rivelato nella storia, nel giudaismo, nel cristianesimo e nell'Islam.

Ratzinger sfuma questa netta contrapposizione tra orientamento cosmico e storico del culto, tramite l'interpretazione del racconto della creazione, che va verso il sabato. Il sabato è il giorno in cui l'uomo e l'intera creazione partecipano del riposo di Dio, della sua libertà, dove schiavo e padrone sono uguali, quando tutti i rapporti di subordinazione sono sospesi e la fatica del lavoro si interrompe.
Il sabato è il segno dell'Alleanza che Dio vuole stringere con l'uomo e il creato è il luogo dell'incontro, dell'adorazione.

Questi fondamenti veterotestamentari sono ripresi nella terza parte del volume, "La celebrazione dell'Eucaristia", ben 300 pagine in 11 sezioni. Essa inizia con il significato della domenica cristiana, che subentra al sabato giudaico. Esegesi e teologia si compenetrano nella spiegazione del terzo giorno, il giorno della teofania. Nell'Antico Testamento nel terzo giorno si stipula l'Alleanza sul Sinai, nel Nuovo Testamento il terzo giorno dopo la morte Gesù risorge. Per i primi cristiani, la domenica è il "giorno del Signore", o il "primo" dei sette della creazione, il giorno della creazione della luce, o l'"ottavo giorno", che spalanca la finestra dell'eternità dopo il sabato.

Il culto cristiano, per le sue radici bibliche, non è dunque imitazione del cosmo ma di Dio stesso che si rivela.
Finalità del culto e finalità del creato sono identiche, perché nella stessa dimensione cosmica appare anche quella storica. La creazione stabilisce un dialogo d'amore, per giungere al ritorno a casa, l'idea cristiana del "Dio tutto in tutti". È impossibile un'ascesa, un ritorno, contando solo sulle proprie forze, occorre il sacrificio, l'essenza del culto, che è altro rispetto all'autonomia totale, al non aver bisogno dell'altro.

Ratzinger apre un'ampia parentesi sul significato dell'arte, che inizia con rimandi storico-archeologici. Il giudaismo contemporaneo a Gesù rappresentava immagini del mistero della salvezza, tratte da episodi messianici dell'Antico Testamento. In seguito, mentre giudaismo e islam hanno risposto con rigore alla lotta iconoclasta, consentendo raffigurazioni solamente astratte e geometriche, il cristianesimo ha perseverato nei racconti (haggadà) figurativi delle gesta compiute da Dio. Ed è vero, come afferma Ratzinger, che nell'arte cristiana delle catacombe è preservata la continuità tra Sinagoga e Chiesa, nel rendere presenti, e quindi celebrare, eventi passati, attraverso la memoria che diventa figura.
Eventi dell'Antico Testamento sono accostati e quindi spiegati alla luce di episodi del Nuovo:  l'arca di Noè e il passaggio del Mar Rosso sono figure del battesimo, come il sacrificio di Isacco e il convito di Abramo con i tre angeli raccontano il sacrificio di Cristo e l'Eucaristia. L'arte cristiana raffigura una "nuova esperienza del tempo", in cui "passato, presente e futuro si toccano", nella "concentrazione cristologica della storia":  è il medesimo concetto del "presente liturgico" che porta sempre in sé la "speranza escatologica".

Le prime immagini sono dunque "allegoriche", come il Buon Pastore che riassume l'intera storia della salvezza:  portare a casa anche l'ultima pecorella smarrita. Più avanti, ne spiega la ricaduta liturgica nell'Agnus Dei, il Pastore fatto Agnello che porta le nostre colpe sulle spalle, come ricorda il battersi il petto.
A partire dal vi secolo, quando apparvero le misteriose immagini acherótipe, cioè non dipinte da alcuna mano - ricordiamo il mandylion - l'Oriente cristiano elabora una vera e propria teologia dell'icona. L'icona di Cristo è sempre icona del Risorto, in cui i tratti del volto non contano, ma veicolano lo sguardo al di là del sensibile, come accadde ai discepoli di Emmaus che dovettero vedere con altri occhi per riconoscere il Maestro, nella stessa luce della trasfigurazione del monte Tabor. La vastità trinitaria e ontologica dell'icona del Figlio consente di vedere l'immagine del Padre.
Ratzinger percorre le tappe più significative dell'arte figurativa cristiana, a partire dallo scopo funzionale pedagogico di quella occidentale rispetto a all'orientale, da Agostino e Gregorio Magno e fino al romanico. Con il gotico l'occidente sostituisce il Pantokràtor, il Signore dell'universo nella pienezza dell'ottavo giorno, con il crocifisso nella sua passione e morte.

Ne indica le motivazioni filosofiche nella svolta dal platonismo all'aristotelismo, con conseguenze sull'arte e la liturgia che prepongono la storicità alla bellezza dell'invisibile. Cita Matthias Grünewald e il realismo della sofferenza, ne spiega la funzione consolatoria per i malati di peste, per la pietà popolare. Del Rinascimento sottolinea l'estetica, perché "emancipa" l'uomo, la sua autonomia e bellezza, quasi in "una nostalgia degli dèi, del mito" che cancella il peccato e la sofferenza della croce e può anche spiegare la reazione della Riforma cattolica. Definisce il barocco "un inno fortissimo di gioia, un alleluia divenuto immagine".

Giunge al positivismo, formulato in nome della serietà scientifica che però "ha ristretto l'orizzonte al dimostrabile, togliendo al mondo la sua trasparenza e all'uomo la visione dell'invisibile". Si interroga infine sul "nostro mondo delle immagini" che segna forse "la fine dell'immagine". Sempre dalle prime raffigurazioni delle catacombe trae spunto per spiegare le posizioni della liturgia:  stare insieme e stare seduti. L'orante è sempre una figura femminile "perché lo specifico umano davanti a Dio trova espressione nella figura della donna" che rappresenta non la Chiesa ma "l'anima-sposa che sta in adorazione davanti al volto di Dio".

Le mani sono allargate, gesto di non violenza, come ali con cui si vuole salire o simili alle braccia di Cristo sulla croce, che è anche forma della pianta delle chiese. Lo stare in piedi dell'orante è la "posizione del vincitore, della disponibilità a scattare, a camminare verso il futuro". L'inginocchiarsi esprime il nostro "adesso", il "frattempo", mentre lo stare seduti, introdotto in tempi più recenti, serve al raccoglimento, per facilitare l'ascolto e la comprensione con il corpo rilassato.
Il gesto delle mani giunte è espressione di fiducia e fedeltà. Anche nell'inchinarsi si mescolano gesto del corpo e gesto spirituale, espressione corporea dell'umiltà, "gesto servile per i Greci" e atteggiamento fondamentale cristiano, su cui Agostino costruisce la sua teologia cristologica:  l'hybris, la superbia, contrapposta all'humilitas, poiché Dio stesso si è inchinato nella lavanda dei piedi, "in ginocchio davanti ai nostri piedi, è lì che lo troviamo".

Ratzinger fa seguire una splendida definizione di "corpo" nel linguaggio biblico, che indica l'intera persona in cui corpo e spirito sono inscindibilmente una cosa sola. "Questo è il mio corpo" significa dunque:  questa è l'intera mia persona che vive nel corpo; è insieme confine e comunione. Cita le parole di Albert Camus sulla "situazione tragica degli uomini nei loro rapporti reciproci:  è come quando due persone sono separate l'una dall'altra dalla parete di vetro di una cabina telefonica:  Si vedono, sono molto vicine, ma c'è lì quella parete che le rende irraggiungibili l'una all'altra".

Diverse pagine dedica al Corpus Domini, dense di concetti teologici ma anche del ricordo personale dello splendore della processione nella sua terra natale, la Baviera. Portare il Signore stesso, il Creatore, attraverso città e villaggi, su prati e su laghi, spiega che con la liturgia "si tratta di ciò che il cielo e la terra racchiudono, dell'umanità e di tutta la creazione", nel comune ricordo. "Una sorta di reazione alla smemoratezza nel "nostro rapporto col tempo" nell'epoca del computer, delle riunioni e delle agende, usate ormai perfino da scolaretti, divenuti spaventosamente spensierati e smemorati. Il nostro rapporto col tempo è dimenticare. Noi viviamo nell'istante. Vogliamo addirittura dimenticare, perché rinneghiamo la vecchiaia e la morte. L'unico modo di far veramente fronte al tempo è il perdono e la gratitudine, un atteggiamento che riceve il tempo come dono e, nella gratitudine, lo lascia trasformare".

Discute sulla "nobile semplicità" dei riti, quella "semplicità estrema" che corrisponde alla "semplicità del Dio infinito e rinvia ad essa". Essa va però "percepita con occhio e cuore", nella grande semplicità di una piccola chiesa di paese o con grande solennità nella bellezza di una cattedrale. Condizione è che "grandiosità e fastosità non siano autonome, ma servano umilmente a sottolineare la vera festa", il compleanno della vita nel suo assenso a Dio.

Conclude con una riflessione di Friedrich Nietzsche:  "La festa comporta orgoglio, spavalderia, sfrenatezza (...) un divino dire di sì a se stessi sulla spinta di un'animalesca pienezza ed integralità" tutti stati ai quali un cristiano non può onestamente assentire; la festa sarebbe paganesimo per eccellenza. È vero il contrario:  soltanto quando c'è una legittimazione divina a rallegrarsi - solo quando Dio stesso garantisce che la mia vita e il mondo sono motivo di gioia - può esserci una vera festa.


(©L'Osservatore Romano - 6-7 dicembre 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il Card. Bagnasco presenta l'XI volume dell'Opera Omnia di Joseph Ratzinger


ROMA, martedì, 7 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato questo martedì a Genova, nella  cornice del Salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, dal Card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in occasione della presentazione dell'XI volume edito dalla Libreria Editrice Vaticana dell'Opera Omnia di Joseph Ratzinger.



* * *

Sono lieto di partecipare alla presentazione del I Volume dell’Opera Omnia del Santo Padre Benedetto XVI, e ringrazio i Promotori dell’iniziativa. Saluto con stima e cordialità gli Ospiti che sono intervenuti da Roma, il Prof. Gianmaria Vian, Direttore dell’Osservatore Romano e la Prof. Lucetta Scaraffia nota in campo non solo cattolico per i suoi interventi culturali e filosofici sempre puntuali e documentati.

Tutti oggi concordano nel riconoscere essere Papa Benedetto un grande teologo, con una invidiabile capacità di esporre con chiarezza il proprio pensiero. L’opera omnia, destinata a raccogliere in modo organico e sistematico il frutto della sua riflessione teologica, sta prendendo corpo e testimonia la fecondità e la profondità dei suoi studi. Potrebbe però sorprendere non poco il fatto che il primo volume pubblicato raccolga gli studi sulla liturgia: perché un grande teologo si occupa di liturgia? Non vi sono forse temi più rilevanti e meritevoli di interesse? Nel contesto culturale contemporaneo non sarebbe più utile impegnarsi nel mostrare la rilevanza della fede cristiana per la costruzione di una società più giusta e più rispettosa della dignità dell’uomo?

1. Liturgia e primato di Dio

A questi interrogativi risponde lo stesso Benedetto XVI nella prefazione al volume dedicato alla Teologia della liturgia. Partire dalla liturgia, in continuità con l’ordine cronologico delle Costituzioni del Concilio Vaticano II, significa mettere «inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità assoluta del tema “Dio”» (p. 5). Non possiamo non notare la sintonia di Papa Benedetto con le parole pronunciate da Paolo VI alla chiusura del secondo periodo del Concilio, mentre annunciava la promulgazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium: «Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto; la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che noi possiamo fare al popolo cristiano, con noi credente e orante, e primo invito al mondo, perché sciolga in preghiera beata e verace la muta sua lingua e senta l’ineffabile potenza rigeneratrice del cantare con noi le lodi divine e le speranze umane, per Cristo Signore e nello Spirito Santo»[1]. Comprendiamo bene allora che occuparsi di liturgia non significa dimenticare le difficoltà che la fede cristiana incontra oggi nel confronto con la cultura contemporanea, al contrario è alta testimonianza di ciò che costituisce il cuore della fede cristiana. Dichiara infatti il Concilio che la liturgia «è estremamente efficace perché i fedeli esprimano nella vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere umana e insieme divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; e questo in modo che in essa ciò che è umano sia ordinato al divino e ad esso subordinato, ciò che è visibile all’invisibile, quello che è azione alla contemplazione e quello che è presente alla futura città che cerchiamo» (SC 2). Penso che queste espressioni di SC possano aiutare a comprendere in modo adeguato il pensiero di J. Ratzinger sul valore della liturgia come manifestazione al mondo del primato di Dio. La Chiesa infatti, quando celebra, si riconosce e si manifesta come realtà che non può essere ridotta al solo aspetto terreno e organizzativo. Nella celebrazione appare manifesto che il cuore pulsante della comunità cristiana è da ricercarsi “oltre” i confini di questo mondo. Non solo: nella celebrazione appare come tutto sia subordinato a questo “oltre”. Il linguaggio simbolico rituale è il più adatto ad esprimere e a custodire la priorità dell’azione di Dio nell’agire dell’uomo. Il rito infatti è azione umana: è l’uomo che compie azioni simboliche, pone gesti, pronuncia parole, si serve di elementi naturali (acqua, pane, vino, olio…). Al tempo stesso però l’uomo non “crea” il rito, lo riceve da una tradizione che ospita la fede di secoli dove «passato, presente e futuro si congiungono in un unico grande coro di preghiera» (Lettera ai Seminaristi, n. 2). E anche quando la Chiesa interviene nel modificare il rito pone in atto una particolarissima cautela in modo che «in qualche modo le nuove forme procedano organicamente dalle forme già esistenti» (SC 23). A questo proposito J. Ratzinger esplicita: «Se ora ci chiediamo ancora una volta che cosa sia il rito nell’ambito della liturgia cristiana, la risposta è questa: esso è espressione, divenuta forma, dell’ecclesialità e della comunitarietà della preghiera e dell’azione liturgica – una comunitarietà che supera la storia. In esso si concretizza il legame della liturgia con il soggetto vivente “Chiesa”, che a sua volta è caratterizzato dal legame con il profilo della fede cresciuto nella Tradizione apostolica» (p. 159).

Tutta questa attenzione e cura è costante richiamo al fatto che nella celebrazione accade molto di più di quanto noi stessi possiamo inventarci di volta in volta: «la semplicità dei segni nasconde l’abisso della santità di Dio»[2]. In questa luce va quindi compresa la preoccupazione di Benedetto XVI, autorevolmente espressa nell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, di custodire il rito da manipolazioni indebite, che potrebbero essere indotte da una non corretta applicazione del dettato conciliare sulla partecipazione attiva dei fedeli (cf. in particolare n. 38). La celebrazione adeguata del rito, che scaturisce dall’obbedienza alle norme liturgiche, non è infatti residuo nostalgico di un ritualismo già dichiarato fuorviante da Pio XII nella Mediator Dei[3], ma immersione nel “noi” ecclesiale, sapiente utilizzo dei linguaggi propri del rito per esprimere l’incontro con il mistero di Dio: l’agire rituale della Chiesa è infatti un agire che dà spazio all’azione di Dio. Risuonano sempre attuali le parole di un grande maestro di J. Ratzinger, Romano Guardini: «Deve risvegliarsi il desiderio del grande stile della preghiera. La via però è quella della disciplina, della rinuncia alle piacevoli compiacenze; un lavoro severo, compiuto, nell’obbedienza alla Chiesa, su tutto il nostro essere e comportamento religioso»[4].

La liturgia, oltre ad esprimere la priorità assoluta di Dio, manifesta anche il suo essere il «Dio-con-noi». Scrive Benedetto XVI nella Deus caritas est: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (n. 1). Come negare che questo incontro è avvenuto per noi prima di tutto, in mysterio, nel giorno del nostro Battesimo? Nella liturgia si realizza ogni volta l’’incontro con Dio: è la storia della salvezza che continua nell’oggi della Chiesa (cf. SC 6). Commentando Dt 4,7 (“Quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?”), così si esprimeva a proposito della partecipazione alla Messa domenicale: «Il Signore ha reso il primo giorno della settimana il giorno suo, nel quale ci viene incontro, nel quale prepara la mensa per noi e ci invita a sé. Dalla frase dell’Antico Testamento, su cui stiamo riflettendo, deduciamo che gli Israeliti trovavano nella vicinanza di Dio non un peso, ma il motivo della loro fierezza e della loro gioia. In effetti, la comunione domenicale con il Signore non è un peso, ma è grazia, un dono che illumina tutta la settimana; defraudiamo noi stessi, se ad essa ci sottraiamo» (p. 550).

Infine, la liturgia esprime la priorità di Dio anche mostrandosi come «liturgia di pellegrinaggio». Leggiamo in Lo spirito della liturgia. Un’introduzione: «la liturgia cristiana è, come abbiamo visto, liturgia della promessa adempiuta… ma essa rimane liturgia della speranza. Anch’essa porta ancora in sé il segno della provvisorietà. Il nuovo Tempio, non costruito da mani d’uomo, è presente, ma al contempo è ancora in costruzione. Il grande gesto dell’abbraccio che viene dal Crocifisso non è ancora giunto al suo traguardo, ma è solo cominciato. La liturgia cristiana è una liturgia in cammino, una liturgia di pellegrinaggio verso la trasformazione del mondo, che sarà compiuta quando Dio sarà “tutto in tutti”» (p. 61).

Il rito ha infatti la capacità di esprime questa tensione escatologica: esso non ha la pretesa di spiegare tutto, non sempre offre serenità e pace, anzi a volte produce inquietudine, ci mette di fronte alle nostre fragilità, ci addita una meta che non è mai pienamente raggiunta su questa terra, ha la pretesa di unirci all’assemblea del cielo che canta le lodi di Dio, «nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo».

2. Liturgia e interesse teologico-fondamentale

L’interesse per la liturgia del teologo Ratzinger è da leggersi poi alla luce della sua scelta di occuparsi di questioni di teologia fondamentale. Scrive nell’introduzione al volume che stiamo presentando: «La materia che scelsi fu la teologia fondamentale, perché prima di tutto volevo andare al fondo della domanda: perché noi crediamo? Ma in questa domanda fin dall’inizio era compresa intrinsecamente l’altra domanda, quella della giusta risposta da dare a Dio e quindi la domanda circa il culto divino. A partire da qui vanno compresi i miei lavori sulla liturgia. Il mio obiettivo non erano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia all’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nell’insieme della nostra esistenza umana» (p. 6). È un obiettivo che merita qualche approfondimento. Qui il nostro Autore dichiara prima di tutto che occuparsi di liturgia non distoglie dalla domanda fondamentale sulla fede: la liturgia, unfatti, è ancorata all’atto fondamentale della nostra fede e della nostra esistenza.

Un saggio di non facile e immediata lettura contenuto nel nostro volume – La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana – è un’illuminante attuazione di quanto sopra enunciato. Alla domanda «che cosa fa realmente l’uomo che celebra il culto della Chiesa, i Sacramenti di Gesù Cristo?» e perché lo fa?, Ratzinger risponde: «Lo fa perché sa che, in quanto uomo, egli può incontrare Dio solo in modo umano. In modo umano però vuol dire: nella forma della comunione, della corporeità e della storicità. E lo fa perché sa che, in quanto uomo, egli non può disporre da sé quando e come e dove Dio gli si debba mostrare; sa di essere piuttosto colui che riceve, che dipende dall’autorità che gli vien data, autorità che non è lui a concedersi, ma che rappresenta il segno della libertà sovrana di Dio, il quale decide autonomamente il modo della sua presenza» (pp. 239-240). Celebrando i sacramenti l’uomo scopre come essi siano in sintonia con la propria esperienza di uomo, soprattutto con quelle particolari esperienze come la nascita, la morte, il pasto, la comunione sessuale tra uomo e donna, nelle quali si rende trasparente la realtà spirituale. Sono esperienze in cui l’uomo sperimenta che la materia e il corpo sono «fessure attraverso le quali l’eternità getta uno sguardo nel procedere uniforme della vita quotidiana» (p. 225).

I Sacramenti, però, al tempo stesso rivelano all’uomo anche la propria identità di essere che tende alla comunione, che vive nella corporeità e nella storia e che proprio «in modo umano» Dio gli si rende presente, e proprio nella storia dell’umanità la salvezza ha fatto irruzione con «quell’Uomo che al tempo stesso era Dio». Egli «si è inserito in questa dimensione orizzontale e così ha spalancato la prigione: la catena della dimensione orizzontale, che tiene legato l’uomo, è diventata in Cristo la fune di salvataggio che ci tira alla riva dell’eternità di Dio» (pp. 235-236). L’attenzione per la liturgia e per la dinamica del linguaggio simbolico-rituale offre, per J. Ratzinger, un prezioso apporto al fine di contrastare una lettura puramente funzionale della realtà, nella quale le cose sono viste soltanto come cose, per riguadagnare uno spazio a quella «trasparenza simbolica della realtà verso l’eterno» (p. 222).

3. Liturgia forma dell’esistenza

L’ultima parte de Lo spirito della liturgia. Una introduzione è titolata: «La forma liturgica». In essa l’Autore tratta del rito e dei riti, dei gesti, delle posizioni e degli atteggiamenti che il corpo assume nella celebrazione, della partecipazione attiva. In questo ultimo contesto è interessante notare come, riferendosi all’esercizio del corpo e alla disciplina degli sportivi richiamata dall’Apostolo Paolo, Ratzinger accosti la liturgia all’allenamento. Scrive: «È – diciamolo ancora una volta in modo diverso – un esercizio per imparare ad accogliere l’altro nella sua alterità, un allenamento all’amore – un allenamento ad accogliere il totalmente Altro, Dio, a lasciarsi plasmare ed usare da lui» (p. 167). Celebrare la liturgia è lasciarsi plasmare dal totalmente Altro, da Dio. La partecipazione alla liturgia è quindi sì attiva, ma al tempo stesso in un certo qual modo anche “passiva” o “iniziatica”. Porre l’attenzione anche alla dimensione iniziatica del rito liturgico, che significa prima di tutto non la riforma che la liturgia subisce nei propri riti, ma la riforma che la liturgia promuove con i propri riti, conduce nel cuore del mistero celebrato. È illuminate a questo proposito l’omelia pronunciata da Benedetto XVI a Colonia nella concelebrazione conclusiva della Giornata Mondiale della Gioventù (21 agosto 2005), dove legge il mistero dell’Eucaristia e della sua celebrazione attraverso la categoria della “trasformazione”: «Facendo del pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli [Gesù] anticipa la sua morte, l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore […]. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28) […]. Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e il suo Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare Corpo di Cristo, consanguinei a Lui. Tutti mangiamo l’unico pane, ma questo significa che tra noi diventiamo una cosa sola»[5].

In uno degli ultimi testi del Card. Ratzinger sulla liturgia, pubblicato alla vigilia della sua elezione alla Cattedra di Pietro, egli riprende questo concetto, ribadendo che nella liturgia Dio diventa dono per noi e così noi possiamo essere transustanziati con lui e trasformati a nostra volta in amore: «Il dono unico che Dio aspetta, l’unica cosa che non è ancora sua, è la nostra libertà, è la risposta del nostro amore. Dio ha creato un mondo libero, ha creato la libertà, ha creato così la possibilità di dire “sì” o “no”, come possibilità di fare un dono libero a Dio. L’unico e vero sacrificio può quindi essere soltanto il nostro “sì”, la gioia di essere uniti con Dio nell’amore […]. Un mondo umanizzato, un mondo nel quale l’amore è il segno di tutto, sarà il vero sacrificio. Solo così entriamo nel cuore del NT, perché la morte di Cristo non è una distruzione, non è la glorificazione della sofferenza, ma si qualifica come l’estremo gesto d’amore nel quale il Signore, con le sue braccia aperte, ci abbraccia e, come è detto nel Vangelo di Giovanni (cap. 12), ci “tira” nelle sue mani. Con questo amore, nel quale Dio si dona e diventa dono per noi, noi possiamo essere transustanziati con Lui e trasformati in amore con un “sì” libero»[6].

Siamo grati al teologo Ratzinger e al Papa Benedetto XVI per l’opera di profondo rinnovamento che porta avanti nella Chiesa, perché sia sempre più fedele al suo Signore e alla sua viva Tradizione. Con disarmante chiarezza e rigore, egli mette in luce, spiega e approfondisce la centralità che il Concilio Vaticano II ha affermato a proposito della sacra liturgia considerandola “fonte e culmine” della vita del cristiano, della vita e della missione della Chiesa. Con le parole di quella Assise mi è caro concludere questo mio intervento: “Il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il Battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al Sacrificio e alla mensa del Signore” (SC 10).



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1) Paolo VI, Discorso a chiusura del secondo periodo del Concilio, in EV 1, pp. [127]-[129].

2) Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucaristia (17 aprile 2003), n. 48.

3) «Non hanno, perciò, una esatta nozione della sacra liturgia coloro i quali la ritengono come una parte soltanto esterna e sensibile del culto divino o come un cerimoniale decorativo; né sbagliano di meno coloro i quali la considerano una mera somma di leggi e di precetti con i quali la Gerarchia ecclesiastica ordina il compimento dei riti». AAS 39 (1947), p. 532.

4) R. Guardini, Formazione liturgica, Ed. OR, Milano 1988, p. 98.

5) Cf il testo completo in: Benedetto XVI, La rivoluzione di Dio, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2005, pp. 69-76. Lo stesso concetto è ribadito in Deus caritas est, n. 13: «L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione» (cf. anche Sacramentum caritatis, 70).

6) J. Ratzinger, Il centro della liturgia cristiana, “Terra ambrosiana”, 46 (2005), pp. 17-21 (qui, p. 20).


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Discorso del Papa sulla liturgia: "Maldestro contrapporre tradizione e progresso"

(Il sottolineato è nostro)

                                   Pope Benedict XVI kisses a baby at the end of his weekly general audience in St. Peter's square at the Vatican on May 4, 2011.

CONVEGNO PROMOSSO DAL PONTIFICIO ATENEO SANT’ANSELMO, NEL 50° ANNIVERSARIO DI FONDAZIONE DEL PONTIFICIO ISTITUTO LITURGICO

DISCORSO DEL SANTO PADRE


Eminenze
Reverendo Padre Abate Primate,
Reverendo Rettore Magnifico,
Illustri Professori,
Cari Studenti,

Vi accolgo con gioia in occasione del IX Congresso Internazionale di Liturgia che celebrate nell'ambito del cinquantesimo anniversario di fondazione del Pontificio Istituto Liturgico. Saluto cordialmente ciascuno di voi, in particolare il Gran Cancelliere, l'Abate Primate dom Notker Wolf, e lo ringrazio per le cortesi espressioni che ha voluto rivolgermi a nome di tutti voi.

Il Beato Giovanni XXIII, raccogliendo le istanze del movimento liturgico che intendeva dare nuovo slancio e nuovo respiro alla preghiera della Chiesa, poco prima del Concilio Vaticano II e nel corso della sua celebrazione volle che la Facoltà dei Benedettini sull'Aventino costituisse un centro di studi e di ricerca per assicurare una solida base alla riforma liturgica conciliare.

Alla vigilia del Concilio, infatti, appariva sempre più viva in campo liturgico l’urgenza di una riforma, postulata anche dalle richieste avanzate dai vari episcopati. D'altra parte, la forte esigenza pastorale che animava il movimento liturgico richiedeva che venisse favorita e suscitata una partecipazione più attiva dei fedeli alle celebrazioni liturgiche attraverso l'uso delle lingue nazionali e che si approfondisse il tema dell'adattamento dei riti nelle varie culture, specie in terra di missione.

Inoltre, si rivelava chiara fin dall'inizio la necessità di studiare in modo più approfondito il fondamento teologico della Liturgia, per evitare di cadere nel ritualismo o di favorire il soggettivismo, il protagonismo del celebrante e affinché la riforma fosse ben giustificata nell'ambito della Rivelazione divina e in continuità con la tradizione della Chiesa.

Papa Giovanni XXIII, animato da spirito profetico, per raccogliere e rispondere a tali esigenze creò l'Istituto Liturgico, a cui volle subito attribuire l'appellativo di "Pontificio" per indicarne il peculiare legame con la Sede Apostolica.

Cari amici, il titolo scelto per il Congresso di quest’Anno Giubilare è alquanto significativo: "Il Pontificio Istituto Liturgico tra memoria e profezia". Per quanto concerne la memoria, dobbiamo constatare i frutti abbondanti suscitati dallo Spirito Santo in mezzo secolo di storia, e per questo rendiamo grazie al Datore di ogni bene, nonostante anche i malintesi e gli errori della realizzazione concreta della riforma. E come non ricordare i pionieri, presenti all'atto della fondazione della Facoltà: dom Cipriano Vagaggini, dom Adrien Nocent, dom Salvatore Marsili e dom Burkhard Neunheuser, che, accogliendo le istanze del Pontefice fondatore, si impegnarono, specialmente dopo la promulgazione della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, ad approfondire "l'esercizio della missione sacerdotale di Gesù Cristo, mediante la quale con segni visibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell'uomo, e viene esercitato dal Corpo Mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale" (n. 7).

Appartiene alla "memoria" la vita stessa del Pontificio Istituto Liturgico, che ha offerto il suo contributo alla Chiesa impegnata nella recezione del Vaticano II, attraverso un cinquantennio di formazione liturgica accademica. Formazione offerta alla luce della celebrazione dei santi misteri, della liturgia comparata, della Parola di Dio, delle fonti liturgiche, del magistero, della storia delle istanze ecumeniche e di una solida antropologia. Grazie a questo importante lavoro formativo, un elevato numero di laureati e licenziati prestano ora il loro servizio alla Chiesa in varie parti del mondo, aiutando il Popolo santo di Dio a vivere la Liturgia come espressione della Chiesa in preghiera, come presenza di Cristo in mezzo agli uomini e come attualità costitutiva della storia della salvezza.

Infatti, il Documento conciliare pone in viva luce il duplice carattere teologico ed ecclesiologico della Liturgia. La celebrazione realizza contemporaneamente un'epifania del Signore e un'epifania della Chiesa, due dimensioni che si coniugano in unità nell'assemblea liturgica, ove il Cristo attualizza il Mistero pasquale di morte e di risurrezione e il popolo dei battezzati attinge più abbondantemente alle fonti della salvezza. Nell'azione liturgica della Chiesa sussiste la presenza attiva di Cristo: ciò che ha compiuto nel suo passaggio in mezzo agli uomini, Egli continua a renderlo operante attraverso la sua personale azione sacramentale, il cui centro è costituito dall'Eucaristia.

Con il termine "profezia", lo sguardo si apre su nuovi orizzonti. La Liturgia della Chiesa va al di là della stessa "riforma conciliare" (cfr Sacrosanctum Concilium, 1), il cui scopo, infatti, non era stato principalmente quello di cambiare i riti e i testi, quanto invece quello di rinnovare la mentalità e porre al centro della vita cristiana e della pastorale la celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo. Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui "esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa.

La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita". A ricordarcelo è il Beato Giovanni Paolo II nella Vicesimus quintus annus, dove la liturgia è vista come il cuore pulsante di ogni attività ecclesiale. E il Servo di Dio Paolo VI, riferendosi al culto della Chiesa, con un’espressione sintetica affermava: “Dalla lex credendi passiamo alla lex orandi, e questa ci conduce alla lux operandi et vivendi” (Discorso del 2 febbraio 1970).

Culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e insieme fonte da cui promana la sua virtù (cfr Sacrosanctum Concilium, 10), la Liturgia con il suo universo celebrativo diventa così la grande educatrice al primato della fede e della grazia. La Liturgia, teste privilegiato della Tradizione vivente della Chiesa, fedele al suo nativo compito di rivelare e rendere presente nell'hodie delle vicende umane l'opus Redemptionis, vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio, lucidamente esplicitato dalla Costituzione conciliare al n. 23.

Con questi due termini, i Padri conciliari hanno voluto consegnare il loro programma di riforma, in equilibrio con la grande tradizione liturgica del passato e il futuro
. Non poche volte si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione include essa stessa in qualche modo il progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce.

Cari amici, confido che questa Facoltà di Sacra Liturgia continui con rinnovato slancio il suo servizio alla Chiesa, nella piena fedeltà alla ricca e preziosa tradizione liturgica e alla riforma voluta dal Concilio Vaticano II, secondo le linee maestre della Sacrosanctum Concilium e dei pronunciamenti del Magistero
. La Liturgia cristiana è la Liturgia della promessa compiuta in Cristo, ma è anche la Liturgia della speranza, del pellegrinaggio verso la trasformazione del mondo, che avrà luogo quando Dio sarà tutto in tutti (cfr 1Cor 15,28). Per intercessione della Vergine Maria, Madre della Chiesa, in comunione con la Chiesa celeste e con i patroni San Benedetto e Sant'Anselmo, invoco su ciascuno la Benedizione Apostolica.


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                                    Pope Benedict XVI reads his speech to Italian President Giorgio Napolitano (unseen) in the Paolo VI hall at the Vatican on May 5, 2011, at the end of a concert offered by the President to the Pope to mark his sixth anniversary of papacy. Pope Benedict XVI  was inaugurated in May of 2005.

CONCERTO OFFERTO DAL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA GIORGIO NAPOLITANO IN ONORE DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI IN OCCASIONE DEL VI ANNIVERSARIO DI PONTIFICATO, 05.05.2011

Questo pomeriggio, alle ore 18, nell’Aula Paolo VI, in Vaticano, ha luogo un Concerto offerto dal Presidente della Repubblica Italian, S.E. il Sig. Giorgio Napolitano, in onore del Santo Padre Benedetto XVI, in occasione del sesto anniversario di Pontificato.
L’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretti rispettivamente dal Maestro Jesús López Cobos e dal Maestro Roberto Gabbiani, eseguono il Credo RV 591 di Antonio Vivaldi e lo Stabat Mater di Gioachino Rossini.
Prima del Concerto, il Presidente della Repubblica indirizza al Santo Padre voti augurali per il felice anniversario.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti al termine dell’esecuzione musicale:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signor Presidente della Repubblica,
Signori Cardinali,
Onorevoli Ministri e Autorità,

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
Gentili Signori e Signore!

Anche quest’anno, con la consueta e squisita cortesia, il Presidente della Repubblica Italiana, Onorevole Giorgio Napolitano, ha voluto farci vivere un momento di elevazione musicale per l’anniversario di inizio del mio Pontificato. Mentre La saluto con deferenza, Signor Presidente, unitamente alla Sua gentile Signora, esprimo vivo ringraziamento per questo gradito omaggio e per le cordiali parole che mi ha rivolto, manifestando anche la vicinanza del caro popolo italiano al Vescovo di Roma e ricordando l’indimenticabile momento della beatificazione di Giovanni Paolo II. Saluto anche le altre Autorità dello Stato italiano, i Signori Ambasciatori, le varie Personalità, il Comune di Roma, e tutti voi. Un particolare ringraziamento al Direttore, ai Solisti, all’Orchestra e al Coro del Teatro dell’Opera di Roma per la splendida esecuzione dei due capolavori di Antonio Vivaldi e di Gioacchino Rossini, due sommi musicisti di cui l’Italia, che celebra i 150 anni dell’unificazione politica, deve essere fiera. Un grazie anche a tutti coloro che hanno reso possibile questo evento.

"Credo", "Amen": sono le due parole con cui inizia e si conclude il "Credo", la "Professione di fede" della Chiesa, che abbiamo ascoltato. Che cosa vuol dire credo? E’ una parola che ha vari significati: indica accogliere qualcosa tra le proprie convinzioni, prestare fiducia a qualcuno, essere certi. Quando, però, la diciamo nel "Credo", essa assume un significato più profondo: è affermare con fiducia il senso vero della realtà che ci sostiene, che sostiene il mondo; significa accogliere questo senso come il solido terreno su cui possiamo stare senza timore; è sapere che il fondamento di tutto, di noi stessi, non può essere fatto da noi, ma può essere solo ricevuto.

E la fede cristiana non dice "Io credo in qualcosa", bensì "Io credo in Qualcuno", nel Dio che si è rivelato in Gesù, in Lui percepisco il vero senso del mondo; e questo credere coinvolge tutta la persona, che è in cammino verso di Lui. La parola "Amen", poi, che in ebraico ha la stessa radice della parola "fede", riprende lo stesso concetto: il fiducioso poggiare sulla base solida, Dio.

E veniamo al brano di Vivaldi, grande rappresentante del Settecento veneziano. Purtroppo di lui si conosce poco la musica sacra, che racchiude tesori preziosi: ne abbiamo avuto un esempio nel brano di stasera, composto probabilmente nel 1715. Vorrei fare tre annotazioni. Anzitutto un fatto anomalo nella produzione vocale vivaldiana: l’assenza dei solisti, c’è solo il coro. In questo modo, Vivaldi vuole esprimere il "noi" della fede. Il "Credo" è il "noi" della Chiesa che canta, nello spazio e nel tempo, come comunità di credenti, la sua fede; il "mio" affermare "credo" è inserito nel "noi" della comunità. Poi vorrei rilevare i due splendidi quadri centrali: Et incarnatus est e Crucifixus. Vivaldi si sofferma, come era prassi, sul momento in cui il Dio che sembrava lontano si fa vicino, si incarna e dona se stesso sulla Croce. Qui il ripetersi delle parole, le modulazioni continue rendono il senso profondo dello stupore di fronte a questo Mistero e ci invitano alla meditazione, alla preghiera. Un’ultima osservazione. Carlo Goldoni, grande esponente del teatro veneziano, nel suo primo incontro con Vivaldi notava: "Lo trovai circondato di musica e con il Breviario in mano". Vivaldi era sacerdote e la sua musica nasce dalla sua fede.

Il secondo capolavoro di questa sera, lo "Stabat Mater" di Gioacchino Rossini, è una grande meditazione sul mistero della morte di Gesù e sul dolore profondo di Maria. Rossini aveva concluso la fase operistica della sua carriera a soli 37 anni, nel 1829, con il Guillaume Tell. Da questo momento non scrisse più pezzi di vaste proporzioni, con due sole eccezioni, entrambe di musica sacra: lo "Stabat Mater" e la "Petite Messe Solennelle". Quella di Rossini è una religiosità che esprime una ricca gamma di sentimenti di fronte ai misteri di Cristo, con una forte tensione emotiva. Dal grande affresco iniziale dello "Stabat Mater" dolente e affettuoso, ai brani in cui emerge la cantabilità rossiniana e italiana, ma sempre carica di tensione drammatica, fino alla doppia fuga finale con il poderoso Amen, che esprime la fermezza della fede, e l’In sempiterna saecula, che sembra voler dare il senso dell’eternità. Ma penso che due vere perle di quest’opera siano i due brani "a cappella", l’Eja mater fons amoris e il Quando corpus morietur. Qui il Maestro torna alla lezione della grande polifonia, con un’intensità emotiva che diventa preghiera accorata: "Quando il mio corpo morirà, fa’ che all’anima sia data la gloria del Paradiso". Rossini a 71 anni, dopo aver composto la "Petite Messe Solennelle" scrive: "Buon Dio, eccola terminata questa povera Messa… Sai bene che sono nato per l’opera buffa! Poca scienza, un po’ di cuore, tutto qui. Sii dunque benedetto e concedimi il paradiso". Una fede semplice e genuina.

Cari amici, spero che i brani di questa sera abbiano nutrito anche la nostra fede. Al Signor Presidente della Repubblica Italiana, ai solisti, ai complessi del teatro dell’Opera di Roma, agli organizzatori e a tutti i presenti rinnovo la mia gratitudine e chiedo un ricordo nella preghiera per il mio ministero nella vigna del Signore. Egli continui a benedire voi e i vostri cari.

Grazie.


                                     Pope Benedict XVI (R) poses with orchestra members at the end of a concert offered by Italian President Giorgio Napolitano to celebrate the sixth anniversary of his pontificate in Paul VI hall at the Vatican May 5, 2011.


[Modificato da Caterina63 06/05/2011 15:48]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Nel sessantesimo dell'ordinazione

L'esempio sacerdotale del Pontefice

 

Sul quotidiano spagnolo "La Razón" di mercoledì 29 giugno è uscito l'articolo che pubblichiamo di seguito in una nostra traduzione italiana.

di JOSÉ MARÍA GIL TAMAYO

Il 29 giugno di quest'anno è la "Giornata del Papa" non solo perché si celebra la festività di san Pietro, il primo Papa di Roma, ma anche perché il suo attuale successore, Benedetto XVI, festeggia in questo giorno sessant'anni da quando, insieme a suo fratello Georg Ratzinger e altri quaranta compagni, è stato ordinato sacerdote nella città tedesca di Frisinga dal cardinale Michael Faulhaber .

In occasione di questo anniversario riceve l'omaggio di tutta la Chiesa con iniziative che vanno da una grande mostra in Vaticano, che riunirà opere di artisti attuali di fama mondiale, a tutta una catena di preghiere di sessanta ore dinanzi al Santissimo Sacramento in tutte le diocesi del mondo.

Queste manifestazioni di affetto filiale dei cattolici al Papa sono anche un'occasione per esprimere la grandezza e il significato del ministero sacerdotale e rivestono grande importanza in un momento come quello attuale in cui, a causa delle infedeltà innegabili e dolorose di una minoranza di sacerdoti, gli sguardi, anche di ecclesiastici, e dell'opinione pubblica si volgono al clero e lo interrogano sulla sua coerenza con l'alta missione evangelica che è chiamato a svolgere, una missione eroicamente testimoniata da una moltitudine immensa di pastori della Chiesa nel corso della storia e anche ai giorni nostri. Sebbene si tratti di realtà spirituali non comprovabili con un semplice sguardo, queste iniziative contribuiscono non solo a far sì che i cristiani contemplino grati il dono benefico del sacerdozio cattolico e che lo stesso clero prenda maggiormente coscienza della santità di vita a cui è chiamato, ma contribuiscono anche a far percepire con chiarezza nel comportamento semplice e discreto dello stesso Benedetto XVI la sua vita esemplare di sacerdote e la ricchezza straordinaria del suo magistero sul ministero ordinato.

Con il suo esempio e attraverso le sue parole e i suoi gesti, Benedetto XVI non ha smesso di dimostrare, in numerose occasioni, il suo amore personale per il sacerdozio, che considera l'evento più importante accaduto nella sua vita, rimasta "posseduta" da questo sacramento, da Cristo in definitiva, il quale, nel giorno della sua ordinazione, gli ha affidato il difficile e meraviglioso compito di renderlo presente fra gli uomini.

Così lo notò proprio Joseph Ratzinger quando - come egli stesso riferisce nella sua autobiografia Aus meinen Leben Enrinnerungen 1927-1977 - dice che le persone lo trattavano in modo diverso, con sacra venerazione, dopo che aveva ricevuto prima l'ordinazione sacerdotale e poi, negli anni, quella episcopale. Si doveva al Sacramento, aggiunge. Ed è proprio la chiave sacramentale e misterica, di trasformazione - di consacrazione - per la missione, a definire e a determinare l'essere e la vita del sacerdote, e anche il suo compito nella Chiesa e nel mondo, come spiega sempre Papa Ratzinger. È questa visione del sacerdote, d'identificazione sacramentale con Cristo che lo isola e lo destina a ricettore personale del dono di Dio e allo stesso tempo di amministratore - e non di padrone - nella Chiesa, che Benedetto XVI plasmerà nella sua visione teologica e nel suo magistero, approfittando di ogni atto papale per trarre conseguenze spirituali e pratiche sull'essere e sulla missione del sacerdote: pastore, apostolo, maestro e liturgista.

Le parole e i gesti di Benedetto XVI, anche di governo fermo nel suo pontificato verso coloro che tradiscono il ministero che hanno ricevuto, sono una chiamata permanente alla meravigliosa, grave e alta responsabilità che il sacerdozio comporta e allo stesso tempo un incoraggiamento a viverlo per gli stessi sacerdoti, sostenuti da tutti i fedeli.

La celebrazione dei sessant'anni dell'ordinazione sacerdotale del Papa, che poteva apparire al principio un evento celebrativo fra i tanti nel susseguirsi degli anniversari ecclesiali, si sta di fatto dimostrando una grazia gioiosa e necessaria per l'intera Chiesa. In particolare per i sacerdoti che si prodigano con gioia in tutto il mondo al servizio di Dio e di tutti gli uomini. Sono in migliaia, stanno nelle parrocchie dei piccoli paesi e in quelle delle grandi città, e realizzano un lavoro generoso di aiuto agli altri con la loro opera evangelizzatrice, con l'amministrazione dei sacramenti, con la promozione di tante opere sociali e culturali, con la vicinanza ai malati e ai sofferenti, con il consiglio pronto per chi ne ha bisogno. Altri vivono dedicandosi all'educazione dei più giovani e all'accompagnamento e alla consolazione dei malati negli ospedali; ce ne sono alcuni che danno ogni giorno il meglio di sé per offrire una vita degna ai poveri e agli emarginati, a quanti sono prigionieri delle nuove schiavitù.

Il meritato omaggio a Papa Benedetto XVI si estende anche a tutti costoro.



(©L'Osservatore Romano 2 luglio 2011)

[SM=g1740771]

"Card. Joseph Ratzinger, brani tratti dal volume "La mia vita"; Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita.
Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita "etsi Deus non daretur": come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta...

[SM=g1740733]  Alcune pagine autobiografiche

Il secondo grande evento all'inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale.

Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un'altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, pero, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C'è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il concilio di Trento, fu di altra natura: l'irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di "riforme" liturgiche.

Non c'erano semplicemente una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l'una accanto all'altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire.

In questa situazione di confusione, resa possibile dalla mancanza di una normativa liturgica unitaria e dal pluralismo liturgico ereditato dal medioevo, il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima. Dove questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro. Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati.

Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti.

Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia "fatta", che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di " donato ", ma che dipenda dalle nostre decisioni.

Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna " comunità " voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita. Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita "etsi Deus non daretur": come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta.

Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l'unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov'è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena. E, dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza, ma, in quanto unità, ha origine per la fede dal Signore stesso, diventa inevitabile in queste condizioni che si arrivi alla dissoluzione in partiti di ogni genere, alla contrapposizione partitica in una Chiesa che lacera se stessa. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano II.


Da: JOSEPH RATZINGER, La mia vita: ricordi, 1927-1977, Cinisello Balsamo: San Paolo, 1997,110-113.

 


[SM=g1740771]
[Modificato da Caterina63 26/02/2012 17:49]
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La crisi del dopo-Concilio causata dalla rottura con la Tradizione


Il senso autentico della Liturgia nel Magistero di Benedetto XVI

dell’Em.mo Signor Cardinale
José Saraiva Martins

Se la liturgia è ‘Opus Dei’ - Opera di Dio -, tutto ciò che concorre al Culto deve essere, in un certo modo, abbracciato, pensato, progettato e realizzato, nella luce del Signore Risorto, con profondi e comprensibili intenti, capaci di edificare ogni anima fedele. Mi si permetta di ricordare, anche per l’ufficio di Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi da me ricoperto per molti anni, che la Liturgia, come pure la Chiesa, non è solo quella che noi vediamo con gli occhi fisici, ma, anche, la Liturgia del Cielo, che vede protagonisti gli Angeli e i Santi che da oltre duemila anni alimentano il Culto e la Fede del Popolo di Dio, del quale noi stessi siamo parte, ed intercedono per tutta la Chiesa pellegrina nella storia, perché sia sempre, attraverso i secoli, il riflesso, l’espressione della santità di Dio.

La Sacra Liturgia appartiene al nucleo essenziale della vita della Chiesa, perché essa è strumento di santificazone, celebrazione e mezzo di trasmissione della Fede. La Liturgia mette in comunione i fedeli con Dio, con Cristo, il Dio incarnato, attuando la loro partecipazione a quella vita divina nella quale consiste fondamentalmente la santità cristiana. In varie epoche della storia, ma soprattutto in questo momento, si soffre una profonda ‘crisi del sacro’, non senza punte di secolarizzazione anche all’interno della Chiesa. Questa situazione religiosa e cultura ci domanda un impegno urgente per ravvivare il senso e lo spirito autentico della Liturgia.

E’ urgente che la Liturgia sia riconosciuta come il centro e il cuore della vita della comunità; che tutti, sacerdoti e fedeli laici, la considerino come sostanziale e imprescindibile nella vita di Fede; che vivano la Liturgia in piena verità, nutrendosi di essa; che la medesima sia in tutta la sua ampiezza, come dice il Concilio Vaticano II, ‘fonte e culmine’ della vita cristiana, fonte ed apice della sua santità. Il futuro della Chiesa e dell’umanità intera è riposto in Dio, nel vivere di Dio e di quanto viene da Lui; e questo accade nella Liturgia e attraverso di essa.

Soltanto una Chiesa che viva della verità della Liturgia, sarà in grado di offrire e presentare l’unica realtà che può rinnovare, trasformare e ricreare il mondo: Dio e soltanto Lui e la Sua grazia. La Liturgia, nella Sua più pura indole, è presenza di Dio, opera salvifica e rigenerante di Dio, comunicazione e partecipazione del suo Amore misericordioso, adorazione e riconoscimento del Signore. Il soggetto della Liturgia è Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo; non siamo noi. La Liturgia è, innanzitutto, questo doppio movimento di ascolto di Dio e di tensione verso di Lui nella preghiera: riconoscere che Dio è il centro di tutto, Colui dal quale promana tutto il nostro bene, Colui che attua ed opera la nostra salvezza e ci santifica.

La Costituzione conciliare ‘Sacrosanctum Concilium’ sulla Sacra Liturgia insegna che il fine ultimo della celebrazione è la gloria di Dio e la salvezza degli uomini. Nella Liturgia, ‘Dio è perfettamente glorificato e gli uomini santificati’. Rileggendo la storia, si nota che gli uomini santi, santificati da Dio, veri adoratori di Dio, sono i più profondi riformatori del mondo. Il Santo Padre Benedetto XVI, nella prefazione al primo volume edito della Sua ‘Opera Omnia’, quello sulla Liturgia, mette in risalto il fatto che la Costituzione sulla Sacra Liturgia si colloca all’inizio dell’opera del Concilio. Il Papa vede in questo, non propriamente un caso; rileva, invece, come ci sia una gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa. Cominciando con la Liturgia, si rivela la priorità dello sguardo su Dio che dovrebbe determinare ogni altra cosa.

Benedetto XVI ha ribadito questo medesimo concetto anche nell’omelia della Messa di Mezzanotte del 24 Dicembre 2009: “Una massima della Regola di San Benedetto recita: ‘Non anteporre nulla all’opera di Dio (cioè all’ufficio divino). La Liturgia è per i monaci la priorità fondante. Tutto il resto viene dopo. Nel suo nucleo, però, questa frase vale per ogni uomo. Dio è importante, la realtà più importante in assoluto della nostra vita”. La Chiesa, per la sua stessa natura, nasce dalla chiamata e dalla missione di glorificare Dio e, per questo, è assolutamente legata alla Liturgia, che ha per obiettivo proprio la lode e l’adorazione di Dio, il Dio che è presente e si manifesta nella Chiesa. Come ha scritto l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, “nel rapporto con la Liturgia si decide il destino della Fede e della Chiesa”. Una certa crisi che ha potuto scalfire, in maniera seria, la Liturgia e, con essa, la stessa Chiesa, negli anni immediatamente posteriori al Concilio Vaticano II, ed i cui effetti si prolungano sino ad oggi, può essere attribuita al fatto che, spesso, al suo centro non è stato posto Dio, né l’adorazione di Lui, ma gli uomini e i loro ‘accresciuti protagonismi’.

Alcuni hanno inteso la riforma conciliare come una rottura e non come uno sviluppo organico della Tradizione. Negli anni dell’immediato post-Concilio, ‘cambiamento’ era diventata una parola quasi magica; bisognava modificare a tutti i costi ciò che era stato prima, al punto di cancellarne persino la memoria; bisognava introdurre novità, senza che sempre si verificasse adeguatamente se ‘nuovo’ e ‘vero’ potessero coincidere. Non possiamo dimenticare, inoltre, in tale ambito, che la riforma liturgica e il post-Concilio coincisero con un clima culturale marcato, e perfino dominato, da una concezione dell’uomo ‘creatore’ che si concilia difficilmente con una concezione della Liturgia, la quale è, principalmente, azione di Dio e adorazione di Lui vissuta nella Tradizione di ciò che da sempre è stato creduto, adorato e celebrato. Per questo motivo, diventa fondamentale chiarire che, oggi, quanto mai urgente promuovere e dare spazio ad un nuovo impulso liturgico, che faccia rivivere la vera eredità tramandataci dal Concilio Vaticano II.

C’è bisogno, un grande bisogno, di questo nuovo impulso. In tale direzione deve essere percepita la figura di Benedetto XVI, impegnato, come pochi, a rendere possibile una umanità nuova, una nuova cultura ed un nuovo mono degno dell’uomo. Egli, infatti, sta facendo della Liturgia uno degli elementi più ricchi ed aperti al positivo del Suo pontificato. Prima ancora di essere elevato al Soglio Di Pietro, già come Teologo, Vescovo e Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Benedetto XVI era fortemente impegnato nel tentativo di offrire un nuovo impulso al rinnovamento profondo della Liturgia della Chiesa, così come voluto dal Concilio Vaticano II. Occorre, dunque, prestare ascolto al Suo insegnamento, ovviamente come Pontefice, ma nella luce di quanto da Lui affermato anche come Teologo, Pastore e Prefetto che ha affrontato, a vario titolo, il tema liturgico.

Nei Suoi scritti, Egli tratta approfonditamente della questione liturgica, chiarendo, da una parte, ciò che considera l’essenza della Liturgia, cioè quello che risulta assolutamente centrale nella vita della Chiesa, e, dall’altra, ciò che è irrinunciabile per l’uomo. Questo è fondamentale ai nostri giorni, perché la nostra preoccupazione prioritaria è la trasmissione della Fede, necessaria per offrire al mondo l’opportunità della salvezza e di un futuro. La riflessione del Papa mostra, però, una chiara percezione di situazioni in cui la Liturgia è concretamente svilita e privata della sua veridicità. Egli afferma nella Sua autobiografia: “Avendo imparato a considerare il Nuovo Testamento come l’anima di tutta la Teologia, capii che la Liturgia ne era il fondamento vitale, senza cui quell’anima finisce per inaridirsi.

Per questo, all’inizio del Concilio considerai che lo schema preparatorio della Costituzione sulla Liturgia, che accoglieva tutte le conquiste essenziali del movimento liturgico, dovesse essere, per quella adunanza ecclesiale, il grandioso punto di partenza. Non potevo prevedere che, in seguito, gli aspetti negativi del movimento liturgico si sarebbero ripresentati con maggior forza, con il serio rischio di portare addirittura all’autodistruzione della Liturgia”. L’attuale Pontefice ci riconduce fino alla verità della Liturgia; con una saggia pedagogia, ci reintroduce nel genuino ‘spirito’ della medesima, come recita il titolo di una delle Su opere, pubblicata prima della sua elezione al soglio pontificio. Egli sta seguendo innanzitutto un semplice percorso educativo che chiede di andare verso questo ‘spirito’ o senso genuino della Liturgia, al fine di superare la visione riduttiva, purtroppo molto radicata, sia tra il clero, sia tra i fedeli laici. I Suoi insegnamenti, così ricchi e abbondanti in questo campo, e i gesti evocatori, che stanno accompagnando le celebrazioni che presiede, si muovono in questa direzione.

Essi vanno accolti nel loro significato più profondo, che è quello di portare il popolo di Dio a celebrare la Liturgia nella sua verità, a favorire e promuovere il senso e lo spirito della medesima, a far sì, in tale modo, che i fedeli vivano una vita autenticamente liturgica. E’ veramente importante che le celebrazioni abbiano e propizino il senso del Sacro, del Mistero; che ravvivino la Fede nella presenza reale del Signore e nel dono di Dio che agisce in essa. Il discorso epocale di Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 Dicembre 2005, nel quale si ribadisce la necessità di leggere il Concilio Vaticano II non in ottica di discontinuità con il passato ma di continuità, mostra, fra le altre cose, che non si può portare a termine il rinnovamento della Liturgia e riconoscerla ‘centro’ e ‘fonte’ della vita cristiana, se ci si pone davanti ad essa in chiave di ‘rottura’ con la Tradizione, la quale ci precede e porta con sé questa ‘ricca sorgente di vita’ e di ‘dono divino’ che ha alimentato e sostenuto il popolo cristiano attraverso i secoli. Gli insegnamenti, le indicazioni e i gesti del Papa attuale sono, in tal senso, davvero fondamentali.


Fraternamente CaterinaLD

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26/01/2012 14:38
 
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Considerazioni di Monsignor Brunero Gherardini


LITURGIA, cioè? 

Nella tormentata atmosfera del cinquantennio postconciliare, qualche sprazzo di luce ogni tanto s’è fatto vedere, se pur sempre accompagnato da inevitabili zone d’ombra. Era la luce accesa già dal grande Pontefice Pio XII, quando, per rimetter in sesto lo sbilanciato movimento liturgico che stava uscendo dal suo binario, promulgò l’enciclica “Mediator Dei” (20 nov. 1947)[1]. Lo sbilanciamento principale, accanto ad altri di non secondaria pericolosità, si moveva in direzione del c. d. sacerdozio comune o universale. Guarda caso, ha continuato a muoversi nella medesima direzione in tutto il predetto cinquantennio.

Pio XII aveva chiaramente indicato i limiti d’un sacerdozio che è, sì, di tutt’i battezzati, non però tale da neutralizzar il sacerdozio ministeriale, come se Cristo nell’ultima Cena avesse concesso a tutt’i suoi seguaci, indistintamente, il proprio “munus” sacerdotale[2]. Poco dopo, lo stesso Vaticano II confermò tanto la dottrina del sacerdozio comune[3], quanto quella del sacerdozio ministeriale[4] e dichiarò d’ambedue l’ordinazione reciproca avendo parte l’uno e l’altro “all’unico sacerdozio di Cristo”. Tuttavia si premurò di stabilir inconfondibilmente che “il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale o gerarchico […] differiscono essenzialmente e non solo di grado”[5].

Non si può dire che una tale disposizione sia stata recepita con grande entusiasmo ed altrettanta fedeltà. Si è arrivati al limite d’un clericalismo paradossale, ribaltato, ovvero laicale, con tutt’i difetti, e talvolta anche più pronunciati, di quello dei preti. Ricordo con quanta convinta fermezza la superiora d’un monastero della Foresta Nera, dov’ero ospite negli anni immediatamente postconciliari, ad una mia osservazione rispose: “Sì, però noi tutte concelebriamo (mitfeiern)”. Lo sbilanciamento non è venuto meno col passare degli anni, anche in conseguenza del rarefarsi delle ordinazioni presbiterali e d’una presa di coscienza, oltre che d’una sempre più massiccia presenza in ambito ecclesiale da parte del mondo laicale.

Ho accennato a zone d’ombra: quella del sacerdozio comune non è l’unica, altre essendosi ad essa congiunte per avvolger la vita e l’attività d’una comunità cristiana nel buio d’una notte fonda, dove il prete spesso non è neanche in grado di star a guardare, come le stelle d’un famoso romanzo.

Eppure, anche nel buio di codesta notte il fulgore della bellezza e dell’armonia, come la misteriosa stella dei Magi, è riuscito, se non ad avvampare, a farsi almeno notare: il fulgore della sacra Liturgia. Fulgore tuttora offuscato da una riforma slegata dalla storia e da esigenze pratiche, della quale nove su dieci invocan oggi la controriforma. Mortificato da una sfrenata creatività e teatralità soggettiva a danno della sacralità dell’azione sacra. Soffocato da una legislazione che parve esaltarsi nel decretar o consentire la distruzione sistematica d’altari, balaustre, pulpiti e di quanto fosse giudicato d’impedimento alla comunicazione della comunità in linea orizzontale[6]. Quel fulgore si sprigionò, sia pur timidamente, nel momento stesso in cui fervevano, avvicendandosi, le iniziative per l’applicazione del Vaticano II e della successiva riforma liturgica: mentre questa concorreva all’autodemolizione della Chiesa, prendeva consistenza un’autoconsapevolezza liturgica che via via lasciava il segno.

Romano Amerio prendeva netta posizione contro “l’opera più imponente, più visibile, più universale e più efficace del Vaticano II”, la riforma liturgica, che definiva contraddittoria perfino rispetto “ai testi della grande assemblea”[7]. Klaus Gamber riportava all’attenzione dei Pastori, dei teologi e dello stesso popolo di Dio l’esigenza ineludibile di rivedere le decisioni ufficiali circa la costruzione dei luoghi di culto, il loro orientamento e quello dell’altare, nonché del celebrante durante il sacro rito[8]. Sull’argomento prendeva posizione anche il grande Joseph A. Jungmann, il noto autore di Missarum Sollemnia[9], mentre Manlio Sodi curava l’edizione dei sei libri della riforma tridentina[10], tra i quali, in collaborazione con A. M. Triacca, il glorioso Missale Romanum[11].
Da parte sua la Fraternità sacerdotale san Pio X, sia pur dalla scomoda posizione di voce “a latere” e priva d’ufficiale riconoscimento, continuava la sua testimonianza a favore della Tradizione con particolare accentuazione di quella liturgica. Altri scritti, non certo a valanga ma nemmeno tanto rari, si rivelavano ineccepibili tanto sul piano del riferimento alle fonti e dell’evoluzione storica, quanto su quello del valore teologico e del rapporto fra Liturgia e Fede.

I guizzi di codesto fulgore, ora più insistenti ora appena percepibili, mai però sotterranei, hanno accompagnato la lunga interminabile insopportabile fase della ricezione ed ermeneutica del Vaticano II. Nel 2007, però, un evento eccezionale: Benedetto XVI, con il motuproprio “Summorum Pontificum”[12], riconobbe come mai abrogato l’antico rito romano della c. d. Messa tridentina, promulgò norme giuridico-liturgiche perché esso potesse liberamente celebrarsi con l’uso del Messale Romano approvato nel 1962 da Giovanni XXIII e dispose l’entrata in vigore di tali disposizioni il 14 settembre di quel medesimo 2007. Nel 1984, con la “Quattuor abhinc annos” di Giovanni Paolo II, eran già state prese alcune decisioni a favore di chi avesse voluto celebrare l’Eucaristia con il rito antico: tali decisioni però vennero da non pochi ignorate e da molti, anche vescovi, osteggiate. Sembrava che la liturgia in vigore da secoli fino al 1970 fosse diventata improvvisamente blasfema; la si boicottava, la si spregiava, la si condannava[13]. Alla testa dell’indecente ed immorale contestazione, una buona parte dell’episcopato. Alcuni ecclesiastici non avevan alcun ritegno nel dire di no alla legittima domanda della Messa tradizionale ed a spalancare le porte delle loro chiese a protestanti e musulmani: “Cosiffatto è il guazzabuglio del cuore umano”!

A chi fosse rimasto sorpreso dal cioè del mio titolo, la scomposta reazione alle disposizioni suddette dovrebbe neutralizzar ogni sorpresa. Ed altrettanto il velleitario presenzialismo di quei tuttologi che si buttan a capofitto dovunque avvertono qualche stormir di fronda, trinciando giudizi a destra ed a sinistra, come se tutto dovesse passar al vaglio del loro si o del loro no. Costoro, non potendo ignorar il dibattito sulla Liturgia, ne trattarono e ne trattano dall’altezza della loro insipienza. Quando leggo che “la celebrazione è presenza e azione di Cristo che si attualizzano nei partecipanti all’azione liturgica”, non posso reagire che con un cioè?, e confessare che non ci capisco un’acca, convinto come sono che Cristo si fa presente sacramentalmente nell’azione liturgica e non nei partecipanti alla medesima. Del pari rispondo con un cioè? a chi mi dice che “riti preghiere musiche e canti debbono iconizzare l’invisibile presenza di Cristo attraverso l’azione dello Spirito Santo”: se l’invisibile diventa icona, cessa d’esser invisibile.

Chi poi dichiara che “l’attuazione dell’agire di Cristo nella celebrazione è espressione della sua presenza in mezzo a noi” merita lo stesso cioè?, perché mi ricorda l’Odo Casel non della sua “Mysterientheologie” che ha positivamente rivoluzionato lo stesso modo di parlar in termini liturgici, ma d’alcuni suoi aspetti collaterali contestabili e contestati, come la presenza di Cristo che il rito riproporrebbe secondo tutte le sue circostanze di tempo e di luogo: tali circostanze circoscrivon una persona e le sue azioni in un determinato ubi et quando, senza possibilità – se non quella sacramentale, dovuta ad una disposizione dello stesso Cristo e a ciò che san Tommaso intende con l’espressione “virtus fluens Christi”– di ripresentarsi hic et nunc.

Purtroppo il cioè? affiora anche dalle conseguenze del motuproprio “Summorum Pontificum”. Voleva avviare una pace liturgica ed ha – per colpa dei ribelli – incentivato la guerra. I due riti, impropriamente definiti ordinario e straordinario, son di per sé irriducibili: il loro unico punto di convergenza è la transustanziazione, sempre che i moderni teologi ci credan ancora e non le preferiscano la transfinalizzazione o la transignificazione. Per il resto son due ordinamenti l’uno lontano dall’altro. Non c’è corrispondenza nel calendario, non nelle memorie e nelle feste dei Santi; perfino quelle di N.S. Gesù Cristo e della Madonna son, in varie circostanze, diversamente dislocate.

Abissale è la differenza delle antifone alle Lodi ed ai Vespri. La divisione dei tempi liturgici avviene secondo un rito, il nuovo, lungo un intero triennio; secondo l’altro, l’antico, in un unico anno. La stessa denominazione dei tempi è cambiata: un giovane prete oggi non sa neanche che cosa fosse la Settuagesima, o la Sessagesima e la Quinquagesima, combaciando i due ordinamenti nella sola Quaresima. Se poi l’analisi si sposta sul versante linguistico e canoro, si rizzan i capelli anche a chi ne è privo. Le orazioni sono espresse, oggi, o in un latino da quinta ginnasiale o in un volgare che talvolta più volgare non si può. Due Chiese? Certamente no, ma l’impressione è quella. “Anfibologia”, direbbe Amerio.

Per toglier ogni giustificato motivo al cioè? il Santo Padre potrebbe portar a termine l’opera iniziata con il suo “Summorum Pontificum”: coordinando gli attuali due riti, in maniera che l’uno corrisponda pienamente all’altro, rimanendo ovviamente ambedue quel che sono: un rito nuovo ed uno tradizionale.
Brunero Gherardini
___________________________
1) In AAS 39 (1947) 528ss.
2) Ibidem p. 553.
3) AA 3: “I laici vengon consacrati per formar un sacerdozio regale ed una nazione santa (1Ptr 2,4-10), onde offrire sacrifici spirituali mediante ogni attività e render ovunque testimonianza a Cristo”.
4) Si veda LG 20, 26, 41; CD 28; PO 5, 7, 8, 10-11, 16; OT 12.
5) LG 10.
6) E’ da poco apparso, tradotto e pubblicato dalle Suore Francescane dell’Immacolata di Città di Castello, un opuscoletto di M. Davies (1936-2004), L’Altare Cattolico, (pro manuscripto) Città di Castello 2011. L’Autore, un convertito dall’anglicanesimo e con lo stupore un po’ indignato tipico del convertito, documenta e lamenta la detta distruzione.
7) AMERIO R., Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo, a c. di E. M. Radaelli, Lindau, Torino 2009, p. 543-579
8) GAMBER K., Ritus modernus. Gesammelte Aufsätze zur Liturgiereform, (SPLi 4), Regensburg 1972; ID., Liturgie und Kirchenbau. Studien zur Geschichte der Meßfeier und des Gotteshauses in der Frühzeit, (SPLi 6), Regensburg 1976; ID., Zum Herrn hin! Fragen um Kirchenbau und Gebet nach Osten, (BSPLi 18), Regensburg 1987 (19942). Su questi medesimi argomenti e su quello più generico della sacra Liturgia in quanto tale nel postconcilio hanno scritto decine e decine d’Autori, fra i quali importantissimi LANG U. M., Conversi ad Dominum. Zu Geschichte und Theologie der christlichen Gebetsrichtung, Johannes Verlag, Friburgo 2003; RATZINGER J., Das Fest des Glaubens. Versuche zur Theologie des Gottesdienstes, Friburgo 1981 (19933); ID., Der Geist der Liturgie. Eine Einführung, Friburgo 2000; ID., Theologie der Liturgie, in “FKTh“ 18 (2002) 1-13; ID., Der Geist der Liturgie oder die Treue zum Konzil, in LJ 52 (2002) 111-115,
9) JUNGMANN J. A., Der neue Altar, in “Der Seelsorger” 37 (1967) 374-381; ID., Messe im Gottesvolk. Ein nachkonzialiarer Durchblick durch Missarumn Sollemnia, Friburgo 1970.
10) Libreria editrice vaticana, 1997-2005.
11) Ivi, 1998.
12) In AAS 99 82007) 777-781
13) Si vedan al riguardo le lucide parole con cui, nel 2001, il card. J. Ratzinger descriveva una così assurda situazione: Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001, p. 379-381.

Brunero Gherardini

Fonte: http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2012/01/brunero-gherardini-liturgia-cioe.html

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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12/07/2012 23:00
 
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Il Canone e il silenzio: Ratzinger e Guéranger

Credevo che Rinascimento Sacro non ci fosse più. E invece mi sono appena imbattuta in questo testo. Rende magnificamente come nel silenzio c'è il contatto col mistero. Per chi ama la forma extraordinaria del Rito Latino c'è ben di più; ma è già significativo.


Una delle differenze più notevoli tra il nuovo rito della Messa e quello più antico, specialmente per quelli che vengono ad assistere al rito antico per la prima volta, è che molte delle preghiere che siamo abituati a sentir pronunciare ad alta voce si dicono sottovoce, soprattutto il Canone della Messa.

Nel suo libro “Lo Spirito della Liturgia” (1999), il Cardinale Ratzinger diceva:
“Non è proprio vero che il recitare tutta la Preghiera eucaristica ad alta voce e senza interruzioni sia un prerequisito per la partecipazione di tutti in questo atto centrale della Messa”.
Aveva già detto, nel 1978, che il Celebrante poteva dire le prime parole di ogni preghiera ad alta voce in modo che ognuno, nella propria preghiera interiore, potesse unire la preghiera personale alla preghiera comunale e la preghiera comunale a quella personale. (Nota poi che questo suggerimento dà fastidio a molti liturgisti.) Poi prosegue,
“Chi ha esperienza di una chiesa piena e unita nella preghiera silenziosa del Canone capisce cosa vuol dire il silenzio carico. È un grido forte e penetrante verso il Signore ed è insieme un atto di preghiera pieno di Spirito Santo. Così tutti pregano insieme il Canone, anche se devono sottostare al ministero sacerdotale”.
Nel suo libro Sulla Santa Messa, il Guéranger racconta un aneddoto che riguarda il Canone pregato in silenzio.

Nel ’600, gli eretici giansenisti cercarono di insinuare l’abuso di recitare il Canone della Messa ad alta voce. Ingannato dai loro imbrogli, il Cardinal de Bissy permise la stampa di una “R” nel Messale che aveva composto per la sua Diocesi, come pensavano di poter fare i vescovi francesi dell’epoca. La “R” rossa doveva dire ai fedeli di rispondere Amen quando era segnato così.
 
Ora, i fedeli possono rispondere solo alle preghiere che si sentono. Ne segue necessariamente, dunque, la recita del Canone ad alta voce, proprio come volevano quei giansenisti. Fortunatamente, si attirò subito l’attenzione del grande pubblico a tale pericolosa innovazione e si levarono alte grida di protesta cosicché il Cardinal de Bissy stesso dovette sopprimere i propri Messali.
 
L’osservazione di Guéranger non riguarda solo l’osservazione della legge liturgica o l’evitare una cosa che si associava ai giansenisti. (Sarebbe molto interessante capire perché i giansenisti insistevano tanto sulla recita ad alta voce del Canone, contrariamente al Concilio lateranense IV.)

Commentando le parole della Messa dopo il Sanctus, scriveva:
“Dopo queste parole, inizia il Canone, la preghiera mistica durante la quale i cieli si chinano alla terra e Dio scende a noi. La voce del Celebrante non s’ode più; financo sull’Altare tutto tace. Fu così, dice il Libro della Sapienza che, mentre la notte era a metà del suo corso, la parola onnipotente scese dal suo trono regale (Sapienza 18, 14, 15). AspettiamoLo con cotanto silenzio e fissiamo il guardo in quello che fa il Celebrante nel luogo sacro”.
Ho già suggerito che la riforma liturgica al giorno d’oggi si può compiere meglio permettendo certe prassi liturgiche tradizionali che non condannando certi abusi. Le condanne sono pur sempre importanti: anche se sono quasi sempre ignorate, i sacerdoti obbedienti hanno almeno un’autorità alla quale fare riferimento. Se invece si desse il permesso di dire Messa con il Canone sottovoce, sarebbe un’occasione d’oro per presentare ai fedeli l’idea della partecipazione vera, come una cosa per la quale non sia necessaria né sufficiente l’attività esterna. © 2006 The hermeneutic of Continuity - trad.di T.M. (il traduttore richiede una preghiera per lui a S. Giuseppe)
Timothy Finigan*

* Don Timothy Finigan è parroco della Madonna del Ss.mo Rosario di Blackfen a Londra. Dice la Messa tridentina già dal 2003 e cura il blog The hermeneutic of Continuity. L’articolo risale al 2006, prima dell’uscita del Summorum Pontificum
Fraternamente CaterinaLD

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«La liturgia è sottratta al compromesso politico»

Liturgia e potere


Partendo dalla concretezza di testi biblici, Ratzinger evidenzia come la forma del culto è sottratta alle regole del compromesso politico. Un criterio valido e interessante per giudicare l’attuazione della riforma liturgica. Brani della conferenza che il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha tenuto il 12 settembre 1998 a Cremona al convegno I cattolici e la politica oggi, nel quadro delle celebrazioni per l’ottavo centenario di sant’Omobono patrono della città lombarda


Brani da una conferenza del cardinale Joseph Ratzinger

Cosa è propriamente la liturgia? Cosa accade in essa? Con quale genere di realtà ci incontriamo qui? Negli anni Venti fu avanzata la proposta di intendere la liturgia come “gioco”; il punto di somiglianza era innanzitutto che la liturgia come il gioco ha le sue regole, organizza il suo proprio mondo, che ha valore, quando in esso si entra, e che poi naturalmente anche nuovamente si dissolve, quando il “gioco” finisce. Un altro punto di somiglianza era che il gioco ha sì un senso, ma nello stesso tempo è senza uno scopo determinato e proprio così possiederebbe in sé qualcosa di risanante, anzi di liberante, perché ci porterebbe fuori dal mondo delle preoccupazioni quotidiane e delle loro costrizioni introducendoci nell’ambito del gratuito e ci libererebbe quindi per qualche istante da tutto il peso del mondo del nostro lavoro.
Il gioco sarebbe per così dire un altro mondo, una oasi della libertà, nella quale noi potremmo per un momento lasciare fluire liberamente l’esistenza; per noi sarebbero necessari tali momenti di libertà dall’oppressione del quotidiano, per poterne portare il peso. In tutto questo vi è qualcosa di vero, ma una tale spiegazione non può essere sufficiente.
Infatti non sarebbe in fondo importante che cosa qui stiamo giocando; tutto ciò che è stato detto si può dire di ogni gioco, ove l’esigenza di regole molto presto acquista un peso rilevante e anche conduce a nuove pretese finalità: se pensiamo all’odierno mondo dello sport, ai campionati di scacchi o a qualsiasi altro gioco, ovunque si vede che il gioco presto passa ad essere dal totalmente altro di un mondo alternativo o di un non mondo un pezzo di mondo con le sue leggi, se non vuole dissolversi in un vuoto, insensato passatempo.


Ancora un aspetto di questa teoria del gioco occorre menzionare, che ci porta già più vicino alla natura particolare della liturgia: il gioco dei bambini appare sotto molti aspetti come una specie di anticipazione della vita, come un’introduzione alla vita successiva, senza portare in sé il suo peso e la sua serietà. Così la liturgia potrebbe richiamare l’attenzione sul fatto che davanti alla vera vita, nella quale vogliamo entrare, in realtà restiamo o in ogni caso dovremmo restare tutti bambini; la liturgia sarebbe quindi una forma totalmente altra di anticipazione, di pre-esercitazione: anticipo della futura vita eterna, della quale sant’Agostino dice che diversamente dalla vita attuale non è più intessuta di bisogni e necessità, ma tutta della libertà del dono.
Quindi la liturgia sarebbe il risveglio della vera condizione di infanzia spirituale in noi, dell’apertura alla grandezza che ancora ci attende e che con la vita da adulti in verità non è ancora compiuta: essa sarebbe una forma strutturata della speranza, che già pregusta ora la vita futura, reale, ci introduce alla vita certa – quella della libertà, della immediatezza di Dio e della totale apertura reciproca. Così essa imprimerebbe anche nella vita apparentemente reale di ogni giorno i segni anticipatori della libertà, infrangerebbe le catene e farebbe brillare il cielo sulla terra.


Una tale variante della teoria del gioco distanzia in modo sostanziale la liturgia dal gioco in genere, nel quale per altro sempre vive la nostalgia del vero “gioco”, della totale alterità di un mondo nel quale ordine e libertà si fondano; di fronte a ciò che è appariscente e comunque legato ad uno scopo preciso ovvero al vuoto del gioco normale fa emergere la particolarità e l’alterità del “gioco” della Sapienza, del quale parla la Bibbia e che si può poi mettere in connessione con la liturgia.

Ma manca ancora un elemento di contenuto in questo schema, dal momento che il concetto di vita futura finora è emerso solo come un vago postulato e lo sguardo a Dio, senza il quale la “vita futura” sarebbe solo un deserto, è rimasto ancora del tutto indeterminato. Così vorrei proporre un nuovo approccio, questa volta a partire dalla concretezza dei testi biblici.


Nei racconti sugli antefatti dell’uscita di Israele dall’Egitto, così come sul suo svolgimento stesso, emergono due differenti finalità per l’Esodo. Una, a noi tutti nota, è il raggiungimento della terra promessa, nella quale finalmente Israele potrà vivere su una terra propria, in confini sicuri come popolo con la sua propria libertà e indipendenza. A fianco si colloca però ripetutamente un’altra indicazione di obiettivo. Il comando originario di Dio al Faraone suona: «Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto!» (Es 7, 16). Questa frase «Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi» viene ripetuta con minime varianti altre quattro volte, cioè in tutti gli incontri tra il Faraone e Mosè e Aronne (Es 7, 26; 9, 1; 9, 13; 10, 3). Nel corso delle trattative con il Faraone lo scopo viene ulteriormente concretizzato. Il Faraone si mostra disponibile al compromesso. Nella discussione è in questione per lui la libertà di culto degli israeliti, che egli inizialmente concede nella forma seguente: «Andate a sacrificare al vostro Dio nel Paese» (Es 8, 21). Ma Mosè insiste sul fatto che – secondo il comando di Dio – per il culto è necessario uscire dal Paese. Il suo luogo è il deserto: «Andremo nel deserto, a tre giorni di cammino, e sacrificheremo al Signore, nostro Dio, secondo quanto egli ci ordinerà!» (Es 8, 23).

Dopo le piaghe successive il Faraone allarga la sua proposta di compromesso. Egli permette ora che il culto si compia secondo la volontà della divinità, quindi nel deserto, ma vuole lasciare partire solo gli uomini, mentre le donne e i bambini così come il bestiame dovranno restare a casa in Egitto. Egli presuppone una prassi corrente del culto, secondo la quale solo gli uomini erano soggetti attivi di esso. Mosè però non può trattare sulla forma del culto con il monarca straniero, porre il culto sotto la forma del compromesso politico: la forma del culto non è un problema di ciò che è politicamente possibile; porta in sé la sua criteriologia, cioè può essere strutturata solo a partire dal criterio della rivelazione, a partire da Dio.
Perciò viene respinta anche la terza, molto indulgente proposta di compromesso del sovrano, il quale concede ora che anche donne e bambini possano venire. «Solo rimanga il vostro bestiame minuto e grosso» (
Es 10, 24). Al che Mosè controbatte che tutto il bestiame deve essere portato via, perché «non sapremo come servire il Signore finché non saremo arrivati in quel luogo» (Es10, 26). In tutta questa trattativa non si parla della terra della promessa; come unico scopo dell’Esodo appare il culto, che può compiersi solo secondo la misura di Dio e pertanto è sottratto alle regole del gioco del compromesso politico.

Israele esce dal Paese non per essere un popolo come tutti gli altri; esce per servire Dio. La meta dell’Esodo è la montagna di Dio, ancora sconosciuta, il servizio di Dio. Ora, si potrebbe obiettare che la menzione esclusiva del culto nelle trattative con il Faraone sarebbe stata una scelta di natura tattica. Lo scopo reale e in definitiva unico dell’Esodo non sarebbe stato il culto, ma la terra, che in verità costituiva lo specifico contenuto della promessa ad Abramo. Non credo che si renda così giustizia al vero significato di questi testi. In fondo la contrapposizione di terra e culto non ha senso: la terra viene data perché sia un luogo del culto del vero Dio.
Il semplice possesso della terra, la semplice autonomia nazionale avrebbe declassato Israele al livello degli altri popoli. Questa finalità misconoscerebbe la particolarità dell’elezione: tutta la storia dei libri dei Giudici e dei Re, ripresa e nuovamente interpretata nei libri delle Cronache, mostra proprio che la terra come tale e presa in se stessa resta ancora un bene indeterminato, che diviene il vero bene, il dono reale della promessa compiuta, solo quando vi domina Dio; non quando la terra esiste in qualche modo come uno Stato autonomo, ma solo quando essa è lo spazio dell’obbedienza nel quale si compie la volontà di Dio, e così nasce la forma giusta dell’esistenza umana.

Lo sguardo sul testo biblico ci permette però anche una determinazione più precisa della relazione tra i due scopi dell’Esodo. Israele pellegrino in realtà non scopre ancora dopo tre giorni (come annunciato nel colloquio con il Faraone) quale genere di offerta Dio vuole. Ma piuttosto dopo tre mesi, «dall’uscita degli Israeliti dal Paese d’Egitto, proprio in quel giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai» (
Es 19, 1). Al terzo giorno si verifica poi la discesa di Dio sulla cima della montagna (Es 19, 16. 20). Ora Dio parla al popolo, nelle dieci sante parole (Es 20, 1-17) gli comunica la sua volontà e per mezzo di Mosè conclude l’alleanza (Es 24) che si concretizza in una forma di culto minuziosamente regolata. Così si è adempiuto lo scopo del pellegrinaggio nel deserto comunicato al Faraone: Israele impara ad adorare Dio nel modo da lui stesso voluto.

A questa adorazione appartiene il culto, la liturgia nel suo senso specifico; ad essa appartiene però anche la vita secondo la volontà di Dio, che è un aspetto irrinunciabile della vera adorazione. «La gloria di Dio è l’uomo vivente, la vita dell’uomo però è vedere Dio», dice sant’Ireneo (
Adv. haer. IV 20, 7), ed esprime così esattamente ciò che era in questione nell’incontro davanti alla montagna nel deserto: ultimamente la vera adorazione di Dio è la vita dell’uomo stesso, l’uomo che vive rettamente, ma la vita diventa vera vita solo se riceve la sua forma dallo sguardo che a Dio si orienta. Il culto esiste proprio per questo, per permettere questo sguardo e così rendere possibile una vita che diventa gloria a Dio.


Il testo integrale della conferenza è stato pubblicato su
La vita cattolica, settimanale della diocesi di Cremona,
il 18 settembre 1998

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«Non ci sono più miracoli. Solo istruzioni per l’uso»


L’amara constatazione di Kafka trova una conferma anche nella modalità con cui è stata attuata la riforma liturgica. Un esempio: la preghiera colletta della messa di San Francesco Saverio


di Lorenzo Bianchi dicembre 1988 da 30giorni


...attualmente in preparazione una revisione del testo latino ufficiale del Messale Romano riformato da Paolo VI a seguito delle disposizioni del Concilio ecumenico Vaticano II. All’attuale seconda edizione tipica, che è stata pubblicata nel 1975, seguirà dunque una terza.

Potrebbe essere questa l’occasione per riconsiderare l’opportunità, anzi, la stessa validità dal punto di vista della
lex credendi, di alcuni cambiamenti introdotti nella liturgia dal gruppo di lavoro postconciliare che, alla fine degli anni Sessanta, ha revisionato e in moltissime parti modificato, anche sostanzialmente, la secolare tradizione liturgica codificata nel Messale Romano di San Pio V; e che, a volte, lo ha fatto in direzione diversa da quella indicata proprio dall’ultimo Concilio stesso («Non è stato propriamente il Concilio a riformare i testi liturgici, esso ne ha ordinato la revisione e, a tal fine, ha fissato alcune linee fondamentali. [...] Alcuni liturgisti moderni hanno la tendenza a rifarsi all’impostazione conciliare ma purtroppo ne sviluppano le idee in una sola direzione, ribaltando così le intenzioni stesse del Concilio»: cardinale Joseph Ratzinger, Liturgie diverse. Una ricchezza per l’unica Chiesa, in 30Giorni, n. 11, novembre 1998, pp. 50. 52).


Delle caratteristiche della riforma liturgica postconciliare si è già parlato ampiamente su queste pagine negli ultimi anni, e si è mostrata, in particolare dal punto di vista terminologico, tutta una serie di modifiche ed omissioni introdotte senza ragione apparente. A meno che ci siano state ragioni indicibili per pressioni e ricatti da parte di poteri mondani. In particolare, quelle modifiche che, operate nei testi delle tre orazioni del rito della messa (colletta, sulle offerte, dopo la comunione), più contribuiscono a proporre un nuovo linguaggio e nuovi concetti al semplice fedele. Come si è più volte sottolineato, il problema non si circoscrive ad una semplice questione di lessico, ma investe il contenuto; «perché nella liturgia ogni parola e ogni gesto traducono un’idea che è idea teologica» (parole del cardinale Francesco Antonelli, che partecipò ai lavori per la riforma, in N. Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, Roma 1988, p. 264; citato in 30Giorni, n. 11, novembre 1998, p. 64).

Gli interventi sul Messale di San Pio V sono stati tali e tanti che merita nuovamente richiamare l’attenzione su alcuni di essi. L’impressione è che, nello svolgere un lavoro di revisione, si sia operato, come anche lamentò addolorato Paolo VI, senza la necessaria e indispensabile umiltà. Per usare ancora le parole del cardinale Antonelli, «quello che però è triste [...] è un dato di fondo, un atteggiamento mentale, una posizione prestabilita, e cioè che molti di coloro che hanno influsso nella riforma, [...] ed altri, non hanno alcun amore, alcuna venerazione per ciò che ci è stato tramandato. Hanno in partenza disistima contro tutto ciò che c’è attualmente. Una mentalità negativa ingiusta e dannosa» (ibidem, p. 258; citato ancora in 30Giorni, n. 11, novembre 1998, p. 64).

Un caso significativo di ciò è, per esempio, la orazione colletta per il 3 dicembre, memoria di san Francesco Saverio.

L’orazione colletta nel Messale di San Pio V (vedi la tabella comparativa qui sotto) parla di praedicatione et miraculis (predicazione e miracoli); il Messale riformato, nella corrispondente orazione, ha invece solo la parola praedicatione. L’omissione non si spiega.
Anzi, lo zelo di chi ha riformulato l’orazione appare in contrasto addirittura con il Vangelo. Si legge infatti in Marco (
Mc 16, 15-18. 20): «Et dixit eis: “Euntes in mundum universum praedicate evangelium omni creaturae. Qui crediderit et baptizatus fuerit salvus erit; qui vero non crediderit condemnabitur. Signa autem eos qui crediderint haec sequentur: in nomine meo daemonia eicient: linguis loquentur novis, serpentes tollent, et si mortiferum quid biberint, non eis nocebit, super aegros manus imponent, et bene habebunt”. […] Illi autem profecti praedicaverunt ubique, Domino cooperante et sermonem confirmante sequentibus signis» (testo italiano secondo la traduzione ufficiale della Cei, 1971: «Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno”. […] Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano»).


La predicazione non è dunque iniziativa autonoma degli apostoli, ma è il Signore che manda e coopera; e che conferma le parole con i miracoli, i segni (in greco tà shmeía), cioè cose visibili; cose che si possono vedere e toccare.

Non si può pensare che una riforma liturgica possa abolire qualcosa della Tradizione. Né, tanto meno, la libertà di aderirvi, come ricordava il cardinale Joseph Ratzinger (con le parole del cardinale Newman): «La Chiesa nel corso della sua storia non ha mai abolito o vietato forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa» (Liturgie diverse. Una ricchezza per l’unica Chiesa, in 30Giorni, n. 11, novembre 1998, p. 50).


Tabella comparativa

Messale di San Pio V

Deus, qui Indiarum gentes beati Francisci praedicatione et miraculis Ecclesiae tuae aggregare voluisti: concede propitius; ut, cuius gloriosa merita veneramur, virtutum quoque imitemur exempla.


Messale di Paolo VI
(editio typica secunda, 1975)

Deus, qui beati Francisci praedicatione multos tibi populos acquisisti, da ut fidelium animi eodem fidei zelo ferveant, et uberrima ubique prole Ecclesia sancta laetetur.


Traduzione italiana
(seconda edizione tipica,1983)

O Dio, che hai chiamato molti popoli dell’Oriente alla luce del Vangelo, con la predicazione apostolica di san Francesco Saverio, fa’ che ogni comunità cristiana arda dello stesso fervore missionario, perché su tutta la terra la santa Chiesa si allieti di nuovi figli.

[SM=g1740771]
[Modificato da Caterina63 25/08/2012 14:44]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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