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La Casa di Maria a Nazareth ed altre notizie sulla Devozione mariana attraverso l'archeologia

Ultimo Aggiornamento: 19/07/2010 18:56
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26/11/2008 23:22
 
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LA CASA DI MARIA A NAZARETH

Importanti ritrovamenti archeologici in Palestina ci indicano con precisione dove si trovava a Nazareth la casa di Maria. L’esistenza della casa della Madonna è ricordata nel Vangelo di Luca quando, all’inizio, narra il fatto dell’Annunciazione: "Dio mandò l’Angelo Gabriele a Nazareth […], da una fanciulla fidanzata di un uomo chiamato Giuseppe; entrò nella sua casa e le disse: ‘Ti saluto, o Maria…’ " [Lc 2, 26.28].

Gli scavi archeologici, effettuati tra il 1955 e il 1960, hanno confermato in pieno i dati evangelici. Sono stati rinvenuti, infatti, i resti di una "domus-ecclesia" che ornava un’antica casa fatta, secondo gli usi palestinesi del tempo, di grotte, sili, vasche e scale ritrovati nello stato originario e risalenti tutti al I secolo dopo Cristo. Sono stati poi rinvenuti e studiati anche gli abbellimenti dei secoli successivi: pitture, graffiti e mosaici, che testimoniano un ambiente battesimale.

La cosa si spiega in questo modo: nel luogo dove è avvenuta l’Incarnazione del Verbo, nello stesso posto in cui la Vergine Maria si trovò incinta di Gesù per opera dello Spirito Santo, i Catecumeni dei primi secoli si recavano per ricevere il Battesimo e rinascere, a loro volta, alla vita della grazia per l’azione dello Spirito Santo. L’accostamento, altamente simbolico, rendeva il luogo veramente sacro e molto ricercato dai fedeli, che amavano lasciare impressi nelle pareti delle grotte graffiti-ricordo, costituiti da preghiere o semplicemente recanti il loro nome, che veniva così immortalato per sempre nel luogo in cui la Vergine Santa aveva concepito il Verbo divino.

Molto significativo il frammento di commento [‘Targum’] ad Is 55, 1.13, che risale a quel periodo e che parla del "pozzo di Maria" da cui è sgorgato, come rivolo salutare, il Verbo incarnato: Maria è come la sorgente d’acqua da cui è scaturito il Signore della vita, Cristo Gesù.

Si vede chiaro il celebre graffito greco XH MAPIA [Xàire Maria], nel luogo dove gli archeologi ritengono che sia vissuta la Santa Vergine, a Nazareth.


Nel III secolo, su questa "domus-ecclesia" i Cristiani di Nazareth edificarono una Sinagoga giudeo-cristiana, di cui rimangono stipiti e colonne; ma soprattutto ancora graffiti e simboli mariani.

Famose sono diventate alcune iscrizioni, che ora troviamo su tutte le icone mariane, come la seguente: XH MAPIA [= XH Maria, in greco; dove XH è l’abbreviazione di Xàire, rallegrati]. L’espressione ripete il saluto alla Vergine dell’Angelo Gabriele; e afferma in sostanza la fede dei primi Cristiani nella maternità divina di Maria.

Tra le altre, c’è anche l’iscrizione di una pellegrina che afferma di aver scritto il suo nome sotto il "luogo sacro di M[aria]" e di averne qui venerata l’immagine.

Nel 430 la Sinagoga fu rasa al suolo dai soldati bizantini, che sfruttarono i vari elementi per farci la piattaforma del loro edificio sacro, preservando le grotte mariane. Questa Basilica fu sempre riconosciuta come la "casa di Maria", come testimoniano gli scritti di alcuni Autori: uno sconosciuto, chiamato Anonimo Piacentino, che visitò la Terra Santa verso il 570; un Vescovo francese, di nome Arculfo, pellegrino cento anni dopo; San Beda "il Venerabile", vissuto tra il 673 e il 735, circa; e altri.

Questo di Nazareth è ancora oggi il "sito mariano" più celebre di tutta la Terra Santa, anche perché qui sorse poi l’imponente Basilica dell’Annunciazione, meta di Pellegrinaggi da ogni parte del mondo.

[Sull’argomento, si veda E. Testa, Maria di Nazareth, in "Nuovo Dizionario di Mariologia", a cura di Stefano De Fiores-Salvatore Meo, Ed. San Paolo, 1985, 865-891].
[Modificato da Caterina63 17/07/2010 18:22]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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17/07/2010 18:23
 
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Riemerso un affresco nella basilica romana di Santa Sabina

Dietro l'intonaco
una Madonna del VII secolo


Roma, 17. Nel marzo scorso, un saggio stratigrafico di una parete dell'atrio della basilica romana di Santa Sabina all'Aventino rivelava un'antica immagine devozionale di una Madonna con Bambino, attorniata da sette altre figure e preziosamente racchiusa dal blu di lapislazzuli delle campiture celesti; più che un affresco, un vero e proprio palinsesto pittorico che nasconde le tracce di una decorazione ancora più antica, raffigurante specchiature marmoree dipinte risalenti al v secolo, momento della fondazione della chiesa.

Il grande dipinto murale raffigura la Madonna col Bambino Gesù affiancata dai santi Pietro e Paolo e, alle estremità, dalle sante Sabina e Serafia che introducono a sinistra i due committenti e a destra il Papa regnante. Proprio le figure dei donatori, indicati dall'iscrizione come l'arcipresbitero Teodoro e il presbitero Giorgio e identificati con i due legati papali al concilio di Costantinopoli del 680 hanno permesso di datare l'opera tra la fine del VII e l'inizio dell'VIIi secolo.

Si tratta quindi di un ritrovamento eccezionale non solo per la rara sopravvivenza di mosaici e pitture di quest'epoca, ma ancor più per la certezza della datazione che consente agli storici dell'arte di avere un punto fermo nella ricostruzione dell'evoluzione iconografica.

Altrettanto straordinario è il linguaggio stilistico del dipinto, naturalistico e monumentale, che rende probabile una sua realizzazione da parte di un artista bizantino ancora fortemente legato alla classicità. Il restauro dell'opera è stato finanziato dalla Soprintendenza speciale per il patrimonio storico artistico e per il polo museale di Roma e diretto da Claudia Tempesta.

Tutti i dettagli della scoperta di cui diamo notizia in anteprima, le caratteristiche dell'affresco e il progetto del restauro verranno comunicati lunedì 19 luglio in una conferenza stampa - presso la stessa basilica di Santa Sabina - che si svolgerà alla presenza del soprintendente Rossella Vodret e del rettore della basilica padre Francesco Maria Ricci. Alla tenacia e al paziente lavoro di ricerca di finanziamenti pubblici e privati di quest'ultimo, si deve il completamento dei restauri del chiostro duecentesco, il consolidamento di parte della struttura cinquecentesca, il restauro dell'antico portale ligneo del v secolo e dell'architrave marmoreo con pezzi di epoca romana, e dell'esonartece della basilica in cui è stato ritrovato l'affresco altomedievale.

In occasione della conferenza stampa sarà diffuso anche un volume, a cura di Claudia Tempesta (editore Gangemi), in cui si racconta la storia del ritrovamento e si illustrano le tecniche e le metodologie di restauro applicate per il recupero dell'affresco.

"La basilica e il convento, da quando furono donati da Onorio III a san Domenico nel 1221, sono luoghi cari alla memoria domenicana perché legati alle origini dell'ordine - spiega padre Ricci - questa importante scoperta si aggiunge all'antico progetto di riqualificazione e valorizzazione del vecchio museo domenicano, attualmente in fase di ristrutturazione, allestito nell'antico dormitorio dei frati, del sito archeologico sotto la basilica, di quello scavato negli anni Cinquanta dell'Ottocento nel giardino posteriore della basilica e del recupero degli antichi luoghi di servizio per trasformarli in aula multimediale e di conferenze, allo scopo di istituire un itinerario spirituale, storico e artistico destinato ai membri della famiglia domenicana e al pubblico. Idea e progetti che finalmente, dopo quindici anni, i frati domenicani di Santa Sabina sono fieri di vedere in gran parte realizzati entro l'estate del 2010".

"La bellissima rappresentazione della Madre con il Figlio esposto nell'ovale - scrive Claudia Tempesta descrivendo l'affresco - sembra nata per dare forma visibile alle disposizioni del concilio del 680, convocato dall'imperatore Costantino iv. L'artista ha ricercato la bellezza nelle immagini femminili, fluide e monumentali, che esprimono in modo armonico la vita dello spirito nella loro corporeità. L'eleganza aristocratica di Sabina ci riporta ai primi momenti della diffusione del cristianesimo nelle nobili famiglie che abitavano l'Aventino. Sul colle romano soprattutto la determinazione femminile rese possibile la fioritura di conversioni e il moltiplicarsi di insediamenti cristiani".


(©L'Osservatore Romano - 18 luglio 2010)
Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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19/07/2010 18:56
 
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(segue dalla notizia precedente)

L'affresco riemerso nella basilica romana e le controversie cristologiche del vii secolo

Foto d'epoca a Santa Sabina


Nella mattinata di lunedì 19 luglio si è tenuta la conferenza stampa di presentazione della scoperta di un affresco del vii secolo nell'atrio della basilica romana di Santa Sabina all'Aventino. La notizia era stata anticipata ieri dal nostro giornale. Oggi pubblichiamo un approfondimento sulle caratteristiche dell'opera e su come questa s'inserisca nella storia della bellissima basilica paleocristiana.

di Fabrizio Bisconti

Chi voglia avere un'idea dei volumi, della struttura, delle luci, dell'atmosfera di una basilica paleocristiana deve salire sull'Aventino ed entrare nella basilica di Santa Sabina. Voluta dal presbitero Pietro d'Illiria al tempo di Celestino i (422-432), la basilica domina in un'area interessata dalle più sontuose domus dell'aristocrazia romana, come ricorda san Girolamo, quando indirizza le sue lettere a quelle matrone romane, che avevano scelto di vivere in maniera monacale nei loro splendidi palazzi situati sul colle residenziale dell'Urbe, nell'ultimo scorcio del iv secolo.

Ebbene, una delle più preziose e celebri iscrizioni di apparato, allestita in mosaico nella controfacciata della basilica, con sfavillanti tessere auree su un fondo in pasta vitrea di colore azzurro oltremarino, tra le personificazioni severe delle ecclesiae, ci suggerisce che il committente dalmata riuscì a chiudere l'impegnativo cantiere solo al tempo di Sisto iii (432-440), il quale - secondo il Liber Pontificalis (i, 235) - dotò la chiesa anche di un battistero che gli archeologi, nonostante le innumerevoli ricerche, non hanno ancora intercettato.

Il titulus Sabinae viene menzionato già nel 499, quando due presbiteri si firmano al concilio romano, denunciando questa provenienza, mentre in un concilio del 595 appare come unica denominazione quella del titulus sanctae Sabinae. Se consideriamo che il Martirologio Geronimiano non ricorda una santa Sabina e che essa risulta tale solo in una fantasiosa passio del vi secolo, si deve desumere che nell'antroponimo femminile dobbiamo riconoscere una matrona, che collabora con il presbitero Pietro nell'erezione della chiesa, magari donando i suoi possedimenti per istallare il cantiere.

La basilica, situata tra due vie parallele, sulla sommità del colle, si impianta su edifici precedenti, che possono essere identificati con domus più o meno pretenziose, anche se nessuna di queste - alla luce delle ricerche archeologiche - può ancora essere riconosciuta con sicurezza come una domus ecclesiae, magari riferibile a una personalità abbiente e potente, che risiedeva sull'Aventino e legata, in qualche modo, all'entourage geronimiano o a una comunità dalmata.

La chiesa, lunga cinquantatrè metri, è organizzata in tre navate ed è fornita di esonartece, anche se è molto probabile che fosse preceduta da un atrio. L'interno appare oggi spoglio e vuole emulare - come si diceva in apertura - l'essenzialità della fabbrica paleocristiana, dopo che un restauro radicale del Novecento ha eliminato le superfetazioni barocche del tardo XVI secolo. Le navate sono scandite da due colonnati costituiti da ventiquattro splendidi elementi in marmo proconnesio, che sostengono altrettanti capitelli corinzi, gli uni e gli altri di pregevole fattura e provenienti da un deposito, dove giacevano arredi del ii secolo dell'era cristiana, dimostrando l'alto potenziale economico della committenza, che non cede a quella "economia del reimpiego" che caratterizzava le costruzioni del tempo.
 
Anche l'infilata delle tredici luminose finestre attribuiscono nobiltà, armonia ed equilibrate proporzioni alla maestosa costruzione, ulteriormente impreziosita da tre finestre nell'abside e da un'altra in facciata, scandita da cinque archi. Un mare di luce inondava la navata centrale e rimbalzava sulle incrostazioni marmoree, al di sopra del colonnato, che imitavano la suppellettile liturgica e che sono ancora miracolosamente intatte, mentre le crustae dell'alto zoccolo dell'abside sono frutto di un restauro. La calotta absidale, un tempo mosaicata, accoglie ora un affresco cinquecentesco di Taddeo Zuccari, che dovette rispettare il programma decorativo paleocristiano, con una scena teofanica, che vede il Cristo tra apostoli e santi, assiso su un monte, da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci, presso i quali era l'agnello mistico, verso cui si muovevano le teorie degli agnelli-apostoli.

L'arco absidale doveva accogliere le rappresentazioni delle città di Betlemme e Gerusalemme e doveva essere costellato di clipei figurati, secondo una tipologia diffusa nel corso del v secolo. Il progetto decorativo della basilica doveva sicuramente continuare lungo le navate e trovava il suo nucleo eloquente nella controfacciata, dove ancora si conserva l'iscrizione monumentale con le due ecclesiae di cui si è detto, ma dove erano raffigurati anche Pietro, Paolo e il tetramorfo.

Pure la porta centrale della basilica, ancora conservata nella maggior parte dei suoi pannelli lignei, era stata concepita simultaneamente al grande progetto di Pietro d'Illiria e racconta, in una sequenza infinita, le storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, mirando a mettere in codice quella concordanza delle economie testamentarie, teorizzata da Paolino di Nola per la nuova basilica di Cimitile e realizzata da Sisto iii nel santuario mariano dell'Esquilino.

Proprio muovendosi dal restauro della porta lignea, programmata per i prossimi mesi con il finanziamento del Fondo Edifici di Culto, si sono iniziati alcuni opportuni e mirati saggi nell'esonartece, che hanno evidenziato una decorazione ad affresco, prontamente restaurata dalla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Artistico e per il polo Museale della città di Roma, con la direzione di Claudia Tempesta, che ha coordinato una piccola équipe di tecnici e studiosi, i quali, in pochi mesi, hanno portato a termine l'intervento di recupero degli affreschi e hanno dato alle stampe i risultati del loro lavoro e delle loro riflessioni scientifiche (L'icona murale di Santa Sabina all'Aventino, Roma, Gangemi Editore, 2010, pagine 48, euro 15).

L'intervento è stato sollecitato e supportato dal rettore della basilica di Santa Sabina, padre Francesco Maria Ricci che da anni sta realizzando, con tenacia e in perfetta armonia con gli istituti di tutela, un progetto di valorizzazione e un percorso storico-artistico che aiuti i turisti - che si avvicinano numerosi al monumento - a ripercorrere le "stratigrafie della storia", nel pieno rispetto di un sogno dell'ordine dei predicatori, che ha scelto il complesso monumentale come "luogo della memoria domenicana".

D'altra parte, alla basilica dell'Aventino dedicarono cure e attenzione altri domenicani, tra i quali emerge la personalità dirompente dell'archeologo padre Félix Dominique Darsy. Questi propose all'attenzione degli studiosi, prima la decorazione della porta lignea, poi l'intero complesso monumentale, fornendo le basi, già negli anni centrali del secolo scorso, alle riflessioni di Richard Krautheimer e di Hugo Brandenburg.

Ma torniamo all'affresco appena recuperato. Si tratta di un pannello storico, nel senso che "fotografa" un episodio saliente della storia della chiesa romana, seppure calandolo in un'atmosfera teofanica e, in parte, pure devozionale. Il ganglio vitale di tutta la raffigurazione - purtroppo non più caratterizzata dalla vivacità dei colori originali - è costituito da una Madonna in trono, che sostiene il Bambino in corrispondenza del ventre, avvolto da una mandorla azzurra, come per enunciare, in maniera fortemente dogmatica, il delicato mistero dell'incarnazione. La Vergine è affiancata dai principi degli apostoli che recano, rispettivamente, il libro e, forse, le chiavi, proprio per suggerire i caratteri di Paolo e di Pietro, quando la loro iconografia è, appunto, sovraconnotata dai simboli e dalle qualifiche peculiari delle loro personalità.

E se i due apostoli svolgono il ruolo di guardie tutelari e di quella concordia apostolorum che, da secoli, descrive lo spirito tendenzialmente ecumenico della Chiesa di Roma, ai loro fianchi spuntano le eteree ed esili immagini di due sante, forse Sabina e Serafia, come per agganciare l'evento al luogo dove, sicuramente dal vi secolo, le due donne ricevono nella basilica un culto simultaneo, per la redazione della passio leggendaria. I loro volti, come quello di Maria, appaiono esangui e mostrano quel tono verde - in gergo storico-artistico definito "verdaccio" - che pare annunciare soluzioni cromatiche di un medioevo maturo, ma che, forse, sono privati di quelle lumeggiature chiare e carnacine, ora appena giudicabili.

Sulla sinistra, due nobiluomini, connotati dal nimbo quadrato e, dunque, viventi, si avvicinano, l'uno stante, l'altro prostrato, sostenendo pesanti volumi dalle coperture decorate, mentre, sulla destra, un terzo dignitario, ancora con il nimbo quadrato, sostiene pure un volume. Un'iscrizione avvolge il grande pannello e ci svela i nomi dell'arcipresbitero Teodoro e del presbitero Giorgio, inviati da Agatone al concilio costantinopolitano del 680, a cui si deve aggiungere il diacono Giovanni, futuro Giovanni v (685-686).

Il pannello di Santa Sabina, come s'intuisce, rievoca il ritorno a Roma dei tre legati pontifici, che recano gli esiti del concilio non più ad Agatone, che pure aveva fatto precedere i lavori da un concilio romano proprio nel 680, ma che nel 681 muore e lascia il soglio pontificio a Leone ii (682-683), che passò, poi, a Benedetto ii (684-685), a Giovanni v (685-686), a Conone (686-687) e quindi a Sergio i (687-701).

Questa serrata cronotassi pontificia rende difficoltoso il riconoscimento del Papa che recepisce i risultati del vi concilio ecumenico di Costantinopoli, che - come è noto - fu indetto dall'imperatore Costantino iv e che fu denominato "in Trullo", dalla sala a cupola (trullos) del palazzo imperiale, dove si tennero le sedute. Il concilio si inaugurò il 7 novembre del 680, alla presenza di molti vescovi, specialmente orientali, tra i quali il patriarca Giorgio di Costantinopoli e il patriarca Macario di Antiochia L'imperatore fu presente alla prima parte dei lavori, che videro Macario condannato e deposto. Il documento finale si espresse contro il monoenergismo e il monotelismo, ribadendo che il Cristo, come ha due nature, così ha due volontà in perfetta armonia tra loro e due energie inseparabili.

La sottile questione cristologica e la sua soluzione finale furono "fotografate" nel prezioso pannello di Santa Sabina che, in quanto memoria dell'evento, non può allontanarsi dal crinale cronologico che congeda il vii secolo e inaugura il seguente, accompagnandoci forse verso il pontificato di Sergio i. D'altra parte, la "foto d'epoca" immortala i due legati ricordati dall'iscrizione e un terzo che sappiamo essere stato presente ai lavori, mentre non sembra  essere  raffigurato  Papa  Leone ii, che dovette attendere a lungo il permesso dell'imperatore d'Oriente, prima di salire al soglio pontificio, talché i destinatari delle decisioni conciliari diventano Maria, il Cristo bambino, Pietro, Paolo e le sante dell'Aventino, ovvero la Chiesa Romana, che, in quel momento, poteva denunciare una situazione di "sede vacante".

L'affresco, dunque, si propone come una eloquente pagina della storia dell'arte altomedievale, che fa dialogare l'ellenismo e la classicità della tradizione bizantina con i relitti figurativi del repertorio romano, fornendo una nuova testimonianza per ricreare quel preambolo, che per ora fa speciale riferimento ad alcuni brani di Santa Maria Antiqua  e  all'oratorio  di  Giovanni vii, ma anche ad altri documenti iconografici pure determinanti e utili per sfociare nell'estuario ampio ed eclettico della civiltà figurativa del medioevo romano.


(©L'Osservatore Romano - 19-20 luglio 2010)
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