“Gaudente in Domino”: Esortazione alla gioia, quella autentica che parte proprio DALLA CROCE

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Caterina63
00sabato 21 agosto 2010 22:30
Gioia e umorismo per una sana spiritualità [SM=g1740752]

di Padre Jesús Castellano Cervera, OCD, su Santa Teresa e la liturgia.

Alle carmelitane di Haifa, Padre Castellano, scomparso il 15 giugno scorso, lasciò in dono una conferenza sulla gioia. Le carmelitane l’hanno tradotta in francese ed hanno inviato all’Osservatore Romano il testo originale in lingua italiana.

Riportiamo di seguito il testo inedito, tratto dal sito: preticattolici.it

Introduzione

Sono rimasto sorpreso per l’insistenza con cui ricorre nei Vangeli dell’ultima cena l’invito alla gioia (Gv 15, 11; 16, 20-21; 22.24; 17, 13). E’ uno dei temi più presenti nei discorsi di addio dell’ultimo incontro conviviale di Gesù con i discepoli, quasi una preparazione psicologica e una pedagogia amorevole per quanto sta per accadere, e che, tuttavia, non è una fine tragica ma un passaggio doveroso. La tristezza dei discepoli, assicura Gesù, si muterà in gaudio. Nelle sue confidenze intime Gesù ci parla della sua gioia e ci assicura la nostra. E’ promessa ed è dono.
E’ invito ed è superamento. E’ un invito alla pienezza. “La mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (1). Vale la pena riferirsi ad un maestro che parla così di sé, e promette tanto a noi.

A pensarci bene dobbiamo ammettere che la gioia è una parola chiave del lessico cristiano. Dall’Antico Testamento, con la gioia di Dio e dell’uomo nella creazione, all’Apocalisse con la promessa della gioia senza ombre, un fiume pieno di letizia percorre tutta la Bibbia, con momenti di notte e di buio, ma con la vittoria finale che tutto mette a posto e anticipa le ragioni della speranza in ogni momento. Tutto è detto nelle pagine della Bibbia. Gioia di Dio per la sua creazione, fino al punto che vedendo la bellezza del mondo e specialmente della creatura umana la pupilla di Dio, dico i rabbini, si è dilatata, fino a far fluire una lacrima di estrema gioia divina e di piacere divino per la sua creazione. La gioia quindi è insieme realtà interiore e manifestazione esteriore. Con mille ragioni per essere felici. E mille inviti a vivere così, e a manifestare questo modo di essere e di relazionarsi dei credenti dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Tutto il Vangelo di Luca è un inno alla gioia con una intonazione da inno gioioso come accade nel saluto dell’Angelo a Maria (“Rallegrati”) e nel Magnificat, nella buona novella annunziata ai Pastori: “Vi annunzio una grande gioia”, nell’annuncio di Gesù alla Sinagoga di Nazaret, nell’esultanza di Gesù nella sua preghiera, mosso dallo Spirito Santo. Possiamo dire che tutta la vita e la predicazione di Gesù sono un vero e proprio “Evangelion”, una Buona e gioiosa notizia del Regno, dall’inizio fino alla fine (2).

Ragioni non mancano per essere felici. Sono settanta o centomila, quante ne vogliamo. Come tante sorgenti, ma con un’unica acqua. Forse alle volte i cristiani non se ne accorgono e non danno testimonianza di una realtà così semplice. Spesso i non credenti rimproverano ai cristiani il volto triste, come se non fosse vero che hanno una fede che è sorgente di felicità. In realtà, anche le ragioni per essere tristi, ci sono; ma sono sempre relative e non definitive, perché vi è una speranza cristiana che ha già sconfitto in precedenza le ragioni di una tristezza definitiva.

La gioia: un quarto trascendentale per l’uomo di oggi

Oggi si parla della riscoperta della bellezza come espressione di una necessaria integrazione con la verità e la bontà, due trascendentali classici. Io mi batto anche per l’introduzione di un altro trascendentale che è quello della gioia, della felicità, della beatitudine, se al pari della ricerca della verità e della bontà, oggi si afferma che la bellezza salverà il mondo. La gioia è anche desiderio intimo della persona, ricerca costante e mai appagata, promessa di qualcuno che veramente c’invita ad essere sempre nella gioia, anche in mezzo alle persecuzioni. Alla parola più recente della teologia, cioè “Dio è bellezza”, occorre aggiungere: Dio è gioia. Una giovane santa carmelitana, la cilena Teresa de los Andes, ha coniato la frase: “Dio è gioia infinita”.

Occorre quindi mettersi alla riscoperta delle sorgenti e del percorso della gioia di Dio e dell’uomo per un cristianesimo che porti il timbro di questo Dio che è gioia infinita vissuta e comunicata.
Del resto, il grande predicatore Gesù, figlio di Dio, ha iniziato la propaganda del suo messaggio nuovo nel Vangelo di Matteo con un invito alla felicità e una promessa, quella delle beatitudini e della beatitudine.

Beati, cioè, felici, gioiosi…Certo, non a poco prezzo, ma rovesciando i valori della vera gioia secondo il mondo, con un invito a tutti coloro che ad ascoltarlo sembravano piuttosto dei poveri e degli infelici del suo tempo e di tutti i tempi.

Il Regno di Dio che Gesù annunzia con divina pedagogia, porta sempre con sé, come frutto e come lievito, l’esperienza e la promessa di una santa letizia. Gesù ha vissuto una esperienza giubilare, gioiosa, nella libertà e nella condivisione di tutto con gli altri. Ha creato una Chiesa della gioia se dei primi cristiani si metteva in luce specialmente la letizia e la semplicità nel cuore….La gioia ha un’espressione che dal cuore fiorisce nel volto. La luminosità degli occhi, la lievità aperta del volto, la forza dell’amore che si esprime in parole e in sguardi, la dilatazione del sorriso, il battito del cuore che si manifesta nello stupore di un sentimento nuovo e gratificante che fa bene anche alle arterie e porta ad illuminare tutta la persona che a sua volta illumina gli altri, sono componenti della gioia.

Qualche riflessione antropologica

Talvolta il sorriso scoppia nella risata, procurata da un colpo di ingegno da una osservazione acuta, da una uscita imprevedibile, da un rovesciamento della logica, da una presa in giro, nel senso più esatto della parola, da un rigirare le cose e la logica amara, per scoprire un altro lato della realtà, configgere una certa visione pessimista, scoprire, il senso del ridicolo di certi atteggiamenti, contestare un modo tutto razionale e serio di vedere le cose che non è l’unico, ampliare gli orizzonti del pensiero e dell’esistenza. Ed ecco il sorriso e la risata che fanno buon sangue come si dice. Ecco come gioia, sorriso ed umorismo nascono dal cuore buono, mite e profondamente umano. Come una forza creativa che nel nostro cuore non si rassegna alla tristezza e ai limiti, come uno scoppiettio della speranza che cerca altre soluzioni ed altre ragioni, semina allegrezza, perché è della natura umana, ad immagine di Dio, comunicare, donare, condividere…Ma tutto questo nella verità, altrimenti la gioia è vuota ed effimera, ingannevole e pericolosa, lascia una tristezza ancor più grande. Il sorriso e la risata chiedono la verità e la schiettezza, ma anche una certa bontà ed una bellezza un po’ arlecchina, anche quella del clown che, consapevole dei limiti propri ed altrui, strappa sorrisi ai bambini e agli adulti.

Ma attenzione! Il sorriso e la risata non devono diventare una smorfia infelice e vuota, e l’umore non deve caricare ancora le tinte per diventare quello che si chiama “humour nero”, che incenerisce subito al gioia e la seppellisce in una tristezza ancor più profonda; humour superficiale o morboso che scandalizza, seminando nel cuore e nella mente tossine di malizia e di cattiveria che sconvolgono l’equilibrio personale e il rapporto con gli altri.

Basterebbe questa serie di osservazioni per capire quanto importante sia la gioia, il sorriso e l’umorismo, quanto si addicano alla vocazione umana e cristiana, quanto siano un dono di Dio ed una invidiabile qualità, quanto possano contribuire a cambiare il mondo, incominciando a cambiare il volto e il cuore delle persone, i rapporti, gli incontri. E tuttavia quanto fragile è l’equilibrio e sottile la demarcazione fra la vera gioia, piena di bontà e di bellezza, che si colora di umorismo e trasfigura i volti nel sorriso, e la falsa gioia che produce smorfie e non sorrisi. “Humour nero” e non bianco, che distilla amarezza e pessimismo e non bontà ed ottimismo cristiano.

Se poi si guarda questo mondo dove c’è tanta tristezza e tanta gioia superficiale, viene da pensare che i cristiani, uomini della gioia, del sorriso e del buon umore, devono diventare apostoli di un nuovo apostolato umanistico, quello del buon umore e dell’ottimismo cristiano. La Chiesa ha bisogno di diventare insieme una casa ed una scuola di comunione nella gioia vera, tanto più umana quanto divina.

Dalla teologia all’esperienza

Ma quale posto occupa la gioia e l’umorismo in una sana spiritualità? A dir vero non è difficile trovare a livello teorico in libri e Dizionari di vita spirituale, anche recenti pagine belle e suggestive sulla gioia. Certo non è facile parlare della gioia nell’ambito della spiritualità. La parola risuona centinaia di volte con una sinfonia di parole, come è stato ricordato, nelle pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento. Si può quindi proporre un vero e proprio trattato di teologia biblica della gioia, come è stato fatto di recente in due libri monografici del Dizionario di spiritualità biblica e patristica, uno dedicato alla Bibbia, AT e NT, un altro dedicato ai Padri della Chiesa di Oriente e di Occidente (3). Ma non vogliamo tediare con una serie infinita di citazioni bibliche sulla gioia, le sue cause, le sue fonti. Basta fare memoria, per il momento e sapere che esistono queste trattazioni sistematiche. Cerchiamo piuttosto di offrire alcuni spunti che ci permettono attraverso l’esperienza spirituale di entrare nel mondo della gioia di Dio e della gioia umana, come autentica esperienza di spiritualità.


continua......

Caterina63
00sabato 21 agosto 2010 22:40

La gioia: una esperienza liturgica

Di gioia parlano tanti testi liturgici, oltre a quelli dei salmi e dei cantici, che mettono sulle labbra dei fedeli, più che parole, sentimenti che fanno commuovere il cuore nella esperienza ineffabile del canto, spesso accompagnato da felici melodie che sono chiamate “jubilus”, come l’alleluia del gregoriano, un modo di gioire e far gioire con il canto che si eleva e cade, si rialza e si slancia, quasi con un desiderio di non finire mai.

“Luce gioiosa”, “Phos ilaron” cioè “Ilare luce”, luce che procuri la gioia, il gaudio che generi il sorriso del cuore e della labbra, è l’inizio di uno degli inni più antichi della Chiesa, rivolto a Cristo, cantato ancora oggi tutti i giorni nel vespro nella liturgia bizantina, quando scende la sera. Bisogna ascoltare quell’antica melodia cantata dai nostri fratelli ortodossi della Grecia per sperimentare la vera gioia spirituale dell’invocazione a Cristo mentre il sole tramonta e il giorno volge al termine. Canti della Chiesa antica e moderna che hanno prodotto tanta gioia nei cuori nella celebrazione della santa liturgia, come quelli che ricorda Agostino nel momento della sua conversione o Paul Claudel, più vicino a noi, nel giorno del suo battesimo a Notre Dame de Paris.

La gioia vissuta nella liturgia si porta in terra con la carità vissuta, affinché secondo la bella espressione del Crisostomo, facendo a Cristo quello che è fatto al più piccolo “la terra diventi cielo”. Un messaggio sempre attuale: portare la gioia, dono di Dio, dove c’è la tristezza per essere veicoli della gioia di Cristo nel mondo…
Per questo la liturgia, specialmente la liturgia pasquale, che prende spunto dalla notte santa di Pasqua, è piena di inviti alla gioia, ad incominciare dal grane preconio pasquale, che dà il “la” di una tonalità gioiosa e pasquale alla vita cristiana: “Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste, sia in festa tutta la Chiesa…”. Un canto nel quale la gioia profonda e travolgente non manca dell’umorismo della sfida teologica di Agone, quando si arriva a riconoscere come “felice” la colpa di Adamo che ci ha procurato un tale Redentore. Il testo attuale dell’Exultet, canto e sfida del gaudio della Chiesa nella proclamazione della risurrezione del Signore, conserva ancora gli echi del cantico antico iniziale dell’Anonimo quartodecimano in una delle prime omelie pasquali.

Una ondata di letizia percorre i canti liturgici pasquali di Oriente e di Occidente, il saluto pasquale che si rivolgono i cristiani durante il tempo di Pasqua e con motivo della morte di un cristiano come sfida alle ragioni della tristezza e della morte: “Cristo è risorto”; “Sì è veramente risorto”. Gioia che si rinnova e si prolunga in ogni domenica.
E’ nota la famosa frase della Didascalia degli apostoli: “Chi è triste nella domenica commette peccato”. Perché se l’enigma che fa piangere, ci fa essere tristi e talvolta porta a stravolgere la gioia in lutto, è paura della morte, la vittoria di Cristo rimane la ragione definitiva della gioia cristiana. Per i cristiani è emblematico il canto dell’Alleluia, che è sinonimo di gioia cantata al Signore; alleluia è il canto nuovo della Pasqua, il canto del cammino verso la patria, con quel “canta e cammina” dei pellegrini verso la patria, secondo la bella espressione di Agostino; pellegrini che condividono la stessa letizia traboccante della speranza e che si fanno coraggio nella stanchezza guardando in avanti prendendosi per mano, cantando camminando e camminando cantando (4).

Davvero un cammino gioioso è quello del cristiano. Un autore cristiano dei primi secoli, Eusebio di Seleucia, ha potuto scrivere una frase ad effetto che rivela un valore perenne della spiritualità cristiana, attinta alla gioia della pasqua: “La risurrezione di Gesù ha fatto della vita dei cristiani una festa senza fine” (5). Questa frase, letta da un monaco di Taizé afflitto da cancro e comunicata a Roger Schutz, ha dato origine a un libro che ha avuto molta risonanza presso i giovani pellegrini della comunità di Taizé: La tua festa non abbia fine (6). “Festa senza fine”, una “sacra celebrazione”, un giorno senza tramonto è stata definita la vita dei cristiani che credono nella Pasqua. Non è motivo di gioia e di realismo sentirsi dire dal serio “didascalo” di Alessandria, Origene, che il cristiano è il luogo della celebrazione e della festa con tutte le opere della sua vita quotidiana e che si deve ritenere sempre un tempio, abitato da Dio, anche se ti trovi nel teatro, perché sei il santuario di Dio? (7).

Forse dobbiamo ritornare alla Pasqua come ad un punto di riferimento essenziale per la gioia cristiana. La certezza della Risurrezione di Gesù è anche certezza della vittoria del bene sul male, dell’amore sulla morte, la vittoria del Padre del nostro Signore Gesù Cristo, cioè del Padre che ha risuscitato Gesù e lo ha costituito Signore. Egli è la garanzia della vittoria finale ma anche della presenza con noi e in noi di una sorgente di gioia infinita. Un autore spagnolo, J. Martin Descalzo, ha scritto un succoso libretto dal titolo Le ragioni della gioia. 70 motivi per trovare la serenità (8). Alla fine del libro sintetizza tutto il suo insegnamento con una considerazione sul tempo di Pasqua ed una serie di ragioni fondamentali che partono dalla risurrezione di Cristo come motivi essenziali e definitivi di letizia. La Pasqua è stata considerata un “laetissimum spatium”, uno spazio traboccante di gioia, come afferma Tertulliano da celebrare durante cinquanta giorni, e poi ogni settimana. Non dimentichiamo la profonda affermazione di Paolo VI: “Per essenza la gioia cristiana è partecipazione alla gioia insondabile, insieme divina ed umana, che è nel cuore di Gesù Cristo glorificato”. E’ Cristo che vive in noi e gioisce in noi con la stessa esaltazione dello Spirito.

“Gaudente in Domino”: Esortazione alla gioia

Ma ecco che dobbiamo parlare di Paolo VI, il Papa che ha scritto un bel documento sulla gioia cristiana (9). Sì, abbiamo anche fra i documenti recenti del Magistero un bel trattato sulla gioia cristiana. L’ha scritto un Papa che aveva piuttosto un volo mesto, lo chiamavano alcuni maliziosamente “Paolo mesto”, ma forse non avevano mai fissato gli occhi di quel Papa luminoso e non avevano mai ascoltato certe parole di fuoco dette in determinati momenti. Ecco cosa ha detto parlando dello Spirito Santo in un inno al Consolatore, in una pagina fra le più belle forse scritte sul Paraclito in tutta la storia della Chiesa: Egli è “animatore e santificatore della Chiesa, suo respiro divino, il vento delle sue vele, suo principio unificatore, sua sorgente interiore di luce e di forza, suo sostegno e suo consolatore, sua sorgente di carismi e di canti, sua pace e suo gaudio, suo pegno e preludio di vita beata ed eterna” (10).

Un testo che fa gioire dal più profondo del cuore e dice che non solo la gioia è dono dello Spirito, ma che lo Spirito è la gioia e la sorgente perenne della letizia cristiana.
Ecco quindi che Paolo VI, nel 1975, celebrando l’anno giubilare ha voluto donare alla Chiesa il manifesto della gioia cristiana con l’Esortazione Apostolica “Gaudente in Domino” del 9 maggio 1973. Tutto quanto si può dire a livello biblico e teologico della gioia cristiana si trova scritto lì come in una sintesi della gioia. Gioia come espressione caratteristica della natura umana; è, infatti, una delle “passioni” della persona umana, cioè di quei sentimenti ricchi di risonanza e di bellezza che sono il patrimonio antropologico più bello. Gioia non frenata e non offuscata dalle contraddizioni che la minacciano e la fanno venire meno, per i mille fenomeni che la mettono in difficoltà.

Paolo VI annunzia le grandi verità della Bibbia, l’esempio dei Santi Martiri gioiosi che hanno dato testimonianza della gioia e perfino dell’umore davanti ai carnefici, come si racconta di san Lorenzo sulla graticola. Figure luminose di apologisti, testimoni e dottori della gioia come Agostino, testimoni come Francesco, Bernardo, Domenico, Ignazio, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce e Giovanni Bosco, Teresa de Lisieux e Massimiliano Kolbe. Anche se mancano all’appello Francesco di Sales e Filippo Neri.

Non manca quindi nella Chiesa cattolica una buona teologia della gioia radicata nella stessa psicologia umana, nelle ragioni più profonde della fede, della natura e della grazia, nelle certezze che ci vengono dalla paternità di Dio, della presenza di Cristo, della nostra vita destinata alla gloria, delle mille gioie della vita, seminate lungo le strade della nostro giornata. Gioie che fanno la storia del quotidiano.

Spiritualità della gioia

Esiste una considerazione particolare della gioia nell’ambito della spiritualità? Ad essere sistematici nelle nostre considerazioni dobbiamo dire che non esiste una vita cristiana, cimentata sulle ragioni della fede, che non sia per forza piena della letizia che è uno dei frutti dello Spirito. Anche se spesso gli spirituali scientifici dimenticano di inserirla nelle loro considerazioni sistematiche, i veri spirituali la mettono al centro delle loro testimonianze. Oggi ritorna di moda il tema della gioia e della festa. In realtà è da tempo che è ritornato. Con estrema regolarità, in tempi in cui il rigorismo e la freddezza prevalgono nella vita della Chiesa, lo Spirito Santo suscita una ventata di teologia e spiritualità della gioia, un’ondata carismatica. E’ capitato anche nei decenni passati. Quando il vento di tramontana della secolarizzazione ha spazzato via tante cose nella Chiesa, lo Spirito Santo ha soffiato un po’ di scirocco di fervore e semplicità per ridare equilibrio alla sua Chiesa. Basti pensare a quanto è avvenuto nella Chiesa con le espressioni di gioia del rinnovamento carismatico. Quando, i seri teologi hanno inondato con volumi ponderosi ed interminabili la teologia, è ritornata di moda la saggezza degli apologhi, delle fiabe e dei racconti.

E’ la teologia della gioia che risplende nella spiritualità della liberazione, gioia dei poveri di Yahvè che si “abbeverano nel proprio pozzo”, è la saggezza della vita che porta a festeggiare in letizia la creaturalità, la fede in Dio Padre, la speranza, la dimestichezza tutta familiare con la Vergine Maria ed i Santi, come accade nei popoli del così detto terzo mondo, veri maestri della gioia e della semplicità cristiana. Certo la gioia è un dono ed un cammino, una responsabilità ed un compito. Alcuni potrebbero ricondurre tutto ad una certa superficialità che metterebbe in pericolo la serietà della croce e il superamento ontologico del dolore e della morte con la risurrezione del Signore. Per questo non possiamo dimenticare che la gioia vera, come la Risurrezione del Signore, sorge dall’abisso del suo abbandono sulla Croce, limite di ogni limite. Ancora oggi la gioia più vera ed autentica nasce da questo abbraccio generoso del Dio Crocifisso e Risorto.

Ci sono di esempio i santi, i quali sanno distinguere alcuni processi ed alcuni momenti di questo stato luminoso e radioso della vita e del cristiano autentico. Uomo della gioia vera, provata ma autentica, comunicatore di entusiasmo e di speranza. Uomini e donne delle notti oscure e delle giornate luminose della quotidiana esperienza cristiana. Se è vero come dice il noto documento del Vaticano II dal titolo Gaudium et spes (Le gioie e le speranze) al n. 1 che nulla di quanto è umano è alieno al cuore del discepolo di Cristo, come possiamo togliere la gioia, con i suoi sentimenti più veri e le sue ragioni più umane, dal vocabolario, dalla teologia e dalla spiritualità di Colui che ci ha parlato della gioia ed è lui stesso, come dicono gli antichi inni latini dell’Ascensione è “il nostro gaudio”?

Scorrendo le pagine dei mistici, come Teresa d’Avila, s’impongono alcune considerazioni basilari. Ogni incontro con il Signore lungo il cammino della vita è sorgente di felicità sempre più piena, sempre più vera, travolgente, comunitaria.
E’ frutto delle prove superate, della maturità acquisita, dell’esperienza che si afferma con il procedere nel cammino di Dio.
Ma ci sono due aspetti della gioia che sono quasi al vertice dell’esperienza umana e cristiana dei santi. La prima è la gioia pura che brilla come una luce attorno al buio della sofferenza, delle prove accettate e subite, quelle di Dio e quelle degli uomini. E’ la gioia non facile, contraddittoria, mistica – perché puro dono di Dio –, come quella sperimentata e cantata da Paolo in mezzo alle tribolazioni. Il sovrabbondare della gioia in mezzo al dolore fisico o morale, spirituale, è puro dono di Dio, esperienza forte e chiara della grazia.

Il sorriso di un malato, gli occhi luminosi di un cristiano in mezzo alla sofferenza, l’impasto di lacrime e di sorriso che spesso vediamo in cristiani e cristiane che vivono la croce luminosa e gloriosa, sono segni vivi della presenza di un dono dello Spirito. Queste scintille di gioia che si sprigionano dagli occhi dei nostri fratelli e sorelle nel momento del dolore, sostenuto con eroismo, aiutato dalla carità della presenza e della compagnia, sono manifestazioni di risurrezione, dimostrazioni dell’esistenza di Dio, proprio come l’evidenza dell’esistenza di una logica divina, un modo nuovo di essere, una testimonianza della trascendenza, come un risalire dell’abisso. Sono segni veri e propri della risurrezione, tanto più credibili quanto più contrari alla logica del mondo.

Sorrisi di malati e carcerati, di poveri e di sofferenti, di perseguitati e di condannati ingiustamente, sono luci che accende solo lo Spirito Santo, luce dei cuori…

La letteratura antica cristiana è piena di testimonianze della gioia dei martiri portati al rogo, nella compostezza delle loro risposte, nelle espressioni quasi liturgiche di un Amen o di un Alleluia, nell’umorismo con cui rispondono ai persecutori, quasi sollevando un velo sulle certezze interiori. Ricordiamo il Vescovo Policarpo che al giudice che lo esorta a rinnegare Cristo risponde che è da 85 anni che lo serve e non gli ha fatto alcun male e non può rinnegarlo ora. [SM=g1740722]

I martiri di Abitene ai quali il giudice dice di consegnare le Scritture che hanno letto nell’assemblea rispondono che le scritture le hanno tutte scritte nei loro cuori e affermano, quando sono rimproverati per aver celebrato il loro culto proibito dalle leggi imperiali, che i cristiani non possono vivere senza celebrare l’Eucaristia.

Una gioia contagiosa si sprigiona dai martiri nel giorno della loro passione. Nel martirio di Perpetua e Felicita si afferma: “Splendette infine il giorno della vittoria e passarono dalla prigione all’anfiteatro, come se fosse in cielo, esultando, ma piene di dignità, trepidanti forse ma di gioia, non di paura” (11).

E’ questa la vera letizia pasquale, dono di Dio, frutto dello Spirito, prova dell’esistenza del soprannaturale. Anche se corriamo il pericolo di idealizzare la vita dei primi cristiani essi sono sempre punto di riferimento anche per oggi. Di essi è stato scritto: “La gioia dei primi cristiani come del resto quella dei cristiani di tutti i secoli, là dove il cristianesimo è compreso nella sua essenza e vissuto nella sua radicalità, la gioia dei primi cristiani era una gioia invero nuova, mai conosciuta fino allora. Non aveva niente a che fare con l’ilarità, con il buon umore, con l’allegria…
Né era semplicemente la gioia esaltante dell’esistenza e della vita – come direbbe Paolo VI – né la gioia pacificante della natura e del silenzio; né la gioia o soddisfazione per il lavoro compiuto, né solamente la gioia trasparente della purezza o dell’amore casto. Tutte gioie belle.

Quella dei primi cristiani era diversa: una gioia simile a quella ebbrezza che aveva invaso i discepoli alla discesa dello Spirito Santo. Era la gioia di Gesù…E la gioia dei primi cristiani sgorgava spontanea dal fondo del loro essere, saziava completamente il loro animo. Essi avevano trovato veramente ciò di cui l’uomo di oggi, di sempre va in cerca: Dio che lo soddisfa pienamente. Avevano trovato la comunione con Dio, elemento essenziale alla loro piena realizzazione
Questa era la felicità dei primi cristiani adulti e giovani (l’unità fra l’amore di Dio e l’amore dei fratelli) che si sprigionava in liturgie festose, traboccanti di inni di lode e di ringraziamento…” (12).

Una gioia che conquistava, una evangelizzazione per irradiazione che ha conquistato l’impero romano. Una lezione sempre viva per noi cristiani di oggi, doverosi testimoni della gioia in favore dell’uomo e della donna del “postmoderno”, tutti attirati dalla soggettività e dal desiderio di sentire più che di pensare, che vuole fare esperienza e si convince solo con le ragioni del cuore e la riprova del sentimento, come convinzione totale.

continua..............



Caterina63
00sabato 21 agosto 2010 22:44

Ascesi e mistica della gioia cristiana

Si può affermare che esiste una ascesi ed una mistica della gioia cristiana. Giovanni della Croce, profondo conoscitore delle “pneumopatologie” dell’uomo e quindi delle “pneumoterapie” dello spirito e della psiche, ha osservato per esempio che gli appetiti…o desideri disordinati, fra l’altro, “intristiscono” la persona e la tormentano a lungo andare anche se per un momento sembrano soddisfare i desideri che restando inappagati creano il disagio della non continuità del gaudio. E’ stato notato dagli “etologi” la tristezza che segue negli animali anche alla gioia dell’atto sessuale: “Post coitum omne animal triste”. Quante tristezze nel mondo vengono a rendere tristi le persone dopo le gioie disordinate!

Nella sua logica Giovanni della Croce educa le persone a non porre la gioia in godimenti passeggeri e così conduce a incentrare tutte le energie nell’amore vero, distaccato e puro che diventa sorgente di gioia profonda e sicura.
Dio stesso, afferma ancora Giovanni della Croce, prova le persone quasi per illuminarle dal di dentro come un legno che investito dal fuoco e purificato diventa incandescente. Ogni gioia vera è purificata, libera, pacifica. Oltre a questa gioia provata, la mistica conosce anche una vera e propria esplosione di questa “passione” umana resa divina. Due sono le forme della gioia mistica. La prima è quella tutta carismatica che rende la persona letteralmente pazza di gioia, desiderosa di cantare il suo Dio, tutta desiderosa di comunicarlo agli altri. Ci sono stati momenti di gioia carismatica, come in san Francesco di Assisi e in san Filippo Neri. Ma non solo. L’altra gioia mistica è quella che Giovanni della Croce chiama la festa dello Spirito, una specie di esplosione di carità che nel profondo dell’essere – sensi e sentimenti, psicologia e spirito –trabocca, come un anticipo della gloria celeste.



Un breve decalogo esistenziale della gioia

Io, che mi ritengo una persona felice e realizzata nella mia vocazione, ho pensato di dover testimoniare quello che vivo ed offrire una specie di decalogo della mia felicità, della mia esperienza gioiosa di essere quello che sono. Ed ho compilato un piccolo decalogo della felicità con aspetti positivi e negativi.

1. La gioia della gratuità

Si tratta di vivere sempre con un senso di gratitudine e di gratuità. La prima apre il cuore al ringraziamento verso Dio. La seconda ti aiuta a donarti costantemente agli altri, senza badare troppo all’egoismo. La gratitudine sgorga dalla consapevole esperienza di quanto si deve a Dio, vissuta ogni giorno in lunghi tempi di preghiera ed in piccoli attimi di contemplazione. Essa ti allarga il cuore. La gratuità del servizio nell’amore oltre a dilatare la capacità di amare ti permette di uscire da te e di godere delle mille gioie della comunione, della relazione, della creatività. E’ il dono della vita fatto agli altri che ti fa vivere ancora più in abbondanza e ti gratifica per il dono fatto che, passando in verità dal cuore, non può non renderlo più buono.

2. Davanti a Dio nella preghiera

Alle volte anche senza volerlo sentiamo che il nostro stato d’animo, pur nella felicità sostanziale, ha zone d’ombra. Basta scendere un po’ in profondità nella propria coscienza per ritrovare le piccole radici dei dolori dell’anima, delle nostre pneumapatologie. Piccoli noduli che non lasciano scorrere la gioia. Piccoli buchi dell’anima da dove scorre e si perde la nostra energia spirituale. Il bisogno di un po’ di umiltà che è l’unguento delle nostre ferite, dice Teresa d’Avila, e la mitezza che è saper sopportare gli altri, ma specialmente sapere sopportare se stessi, è una buona pneumoterapia cristiana. Un tuffo nel realismo, nell’accettazione della realtà, nella misericordia di Dio ed ecco, per poi risalire rigenerati.

3. Superare le tentazioni contro la gioia

Ci sono momenti più prolungati in cui siamo tentati contro la gioia, è il tempo dell’accidia spirituale. Un momento di riflessione, una prolungata preghiera, un porre un ordine nella vita, ti dice subito che nell’insieme dei valori e delle funzione della buona armonia spirituale, manca l’equilibri degli aspetti. Qualche zona importante della nostra vita (affettività, preghiera, riposo, riflessione, ricreazione…) non è stata abbastanza curata. Un tocco di equilibrio ridona la gioia. Si tratta insieme di porre rimedio, di riscendere alle sorgenti della gioia vera, di inondare di luce le tenebre dello spirito.

4. La bellezza del quotidiano

La vita è seminata dalla mattina di piccole gioie e sorprese: la liturgia ben vissuta, l’incontro con i fratelli e le sorelle, il saluto gioioso, la telefonata, l’occhiata ai giornali e alla TV, il cibo, l’igiene personale ed il riposo, la riuscita di un lavoro, la certezza di una amicizia…Sana spiritualità è prendere con gratitudine queste gioie che vengono dalla fonte della gioia, con una visione non negativa ma positiva della vita spirituale. Se poi si vivono tutte queste cose in comunione la gioia si moltiplica: si dona e si riceve dagli altri.

5. La gioia dell’amicizia

Gioia spirituale è per me l’esperienza di una buona amicizia con i santi del cielo e con quelli della terra. L’amicizia è una fonte di gioia, anche se essa deve passare per doverose purificazioni. Avere amici ed amiche, anche di grande valore nella Chiesa e sentirsi apprezzati e stimati da essi, interpellati anche per lavori di collaborazione è una fonte di gioia che invita a dare un grande rilievo all’amicizia nella vita religiosa e nella Chiesa. Sono piuttosto favorevole ad una Chiesa amica e fraterna e per questo gioiosa e capace di vivere con tutti. Ma mi sento gioioso di avere una buona amicizia con Dio. Certamente con Cristo e con il Padre, ma anche e in modo tutto speciale con lo Spirito Santo, mio consolatore e difensore.

6. Nella saggezza del momento presente

Un grande segreto della gioia è la capacità di vivere il momento presente. In realtà, non possiamo vivere se non il presente, ma se diventa un’illusione che ci fa guardare indietro, corriamo il pericolo di diventare statue di sale come la moglie di Lot; e se scappiamo dal presente verso un futuro ancora inesistente, rischiamo di vivere estrapolati dal realismo del qui ed ora della vita. Vivere il presente è affidarsi a Dio ed è capacità di tenere sempre i piedi per terra, affrontare i problemi ad uno ad uno. E vincere le ansietà, una ad una, per rimanere nella gioia. Gioia è essere se stessi, credere nel Dio del momento presente e sentire che si è nel posto dove Dio vuole che siamo, facendo quello che egli vuole che facciamo. Questa è gioia vera, le altre cose sono vane illusioni, sorgenti di scontentezza.- Essere gioiosi è anche essere contenti di quello che si è e di quello che si ha…

7. La cordialità dei rapporti

E’ per me fonte di gioia la cordialità con la quale cerco di trattare gli altri e la cordialità con cui sono ripagato, perché “amore suscita amore”, dice Teresa d’Avila. E seguo la norma del mio san Giovanni della Croce: “dove non c’è amore, metta amore e ricaverà amore”. Ho letto queste belle parole di Vincenzo de’ Paoli che mi hanno molto gratificato: “Se la carità fosse una mela, la cordialità sarebbe il suo colore. Ci capita di vedere a volte certe persone con un bel viso tutto rosso e colorito, che le fa belle e vive. Ora se la mela è la carità, la cordialità è il suo colore. Capite come la cordialità è una virtù con la quale si testimonia l’amore che abbiamo per il prossimo, amore che è necessario per compiere il bene verso quanti ci avvicinano? Si potrebbe anche dire che se la carità è l’albero, le foglie e i frutti sono la cordialità, e se la carità fosse il fuoco la cordialità ne sarebbe la fiamma”. C’è anche un apostolato ed una testimonianza del sorriso…

8. La felicità di essere in comunione con tutti

Mi sento contento di essere una persona universale. Di poter vivere da un punto molto concreto della terra una esperienza universale di comunione con tutti. L’uso discreto dei mezzi di comunicazione, che allarga il pensiero e ci mette in contatto con tutta l’umanità, ma specialmente la consapevolezza di essere in Dio in comunione con tutti, mi permette di sentirmi colmo del mio desiderio di avere un cuore universale che si esercita nella comunione con tutti attraverso “l’internet” della preghiera. Poi è sempre sorgente di gioia che, alla prova dei fatti, incontri e viaggi, pellegrinaggi e visite all’estero, dialoghi con persone di altre fedi e di altre religioni, siano diventate per me esperienze di grande gioia e di speranza, viste le possibilità con cui uno stile semplice di accostarci gli uni agli altri fa crollare i muri e distrugge le barriere, apre nuove vie al dialogo.

9. Il senso positivo della vita spirituale

E’ motivo di gioia nella vita spirituale costatare, attraverso l’insegnamento di Gesù, l’esempio dei santi e la testimonianza di persone veramente spirituali del nostro tempo, che non dobbiamo rinunciare a nulla di quanto è umano, buono, amabile, giusto, bello, santo purché nulla sia anteposto all’amore di Dio. E’ gioia vera sapere per esperienza che la logica del Vangelo funziona che si ha il centuplo in questa terra e che Dio non costruisce la sua gloria sulle ceneri o le rovine della nostra umanità, ma ci vuole sempre figli umanissimi e gioiosi, splendenti di simpatia per rendere amabile colui che è davvero gioia infinita. Anche questa è perfetta letizia.

10. Con un pizzico di simpatia umana e divina

E’ anche fondamento della gioia qualcosa che mi sento di avere ereditato da mio padre, un uomo che è stato sempre gioioso e ha dato gioia a tutti fino alla sua morte. Lo ha fatto con le sue poesie, le sue canzoni paesane che costituiscono un tesoro di saggezza e di simpatia gioiosa e contagiosa. Mi riferisco anche alla buona lega che nella vita cristiana, fanno la gioia e l’umorismo, quel pizzico di furbizia e di arguzia che ci serve alle volte di difesa, alle volte di pista di lancio, sempre di strumento di comunione per rendere Dio ed il cristianesimo amabili. Probabilmente la gioia si declina perfettamente con l’umorismo, come ci dimostra anche una sana spiritualità storica insieme all’esempio dei santi.


continua.....
Caterina63
00sabato 21 agosto 2010 22:57

Umorismo e spiritualità

Religione e Dio sono spesso oggetto di barzellette a non finire: Una risata ci salverà? Non è quindi solo la gioia, che occupa il posto più serio nell’ambito della spiritualità, ma la risata pura e semplice ad avere una specie di statuto teologico e salvifico: una risata ci salverà. Un invito a coltivare una opera utile e santa (15).



Ricordo a questo proposito quanto bene ha fatto in Spagna un bravissimo disegnatore religioso, un giovane sacerdote (Cortés), che per anni ci ha deliziato nella rivista Vida Nueva con queste scoppiettate di buon umore, un po’ Andaluso, con una vita di Gesù con vignette saporite, con una storia della Chiesa raccontata con buon umore, con una storia del padre, l’abbà in pantofole in cielo, tutto preoccupato per i figliuoli della terra. E poi una rilettura di tante vite dei Santi, raccontate così con il prezzo dell’umorismo e la creatività delle vignette, stile fumetti. Una vera e propria letteratura di grande pregio esegetico, teologico e spirituale. Alcune delle vignette e delle espressioni sono passate ad essere quasi un pensiero comune recepito dalla gente più semplice, un passaparola di buon sapore della spiritualità.

Vi è quindi nella gioia cristiana un invito a coltivare il buon umore. Sono tanti i santi che ridono e hanno fatto ridere spalancando il cuore all’umanità del nostro Dio. Ricordo ancora oggi di aver letto libri come D. Bosco che ride oppure altre raccolte di fioretti dei Santi che hanno reso umanissima e gradevole la santità. C’è una storia di santità del sorriso che ancora oggi invita tutti, in modo speciale i cristiani impegnati ad essere testimoni della gioia (16).

L’umore di Tersa d’Avila

Leggendo ad esempio l’articolo di Piero Pisarra sul modo di scherzare con Dio, mi sono ricordato spontaneamente della mia Madre santa Teresa di Gesù, la quale gaia com’era nel suo modo di parlare con le persone lo era anche nel parlare con Dio. Nel capitolo 37 della Vita ci ha dato un buon esempio di come si può vivere con una santa spiritualità della gioia, quando racconta del contrasto con cui lei si avvicinava ai confessori con una candida e gioiosa libertà di spirito mostrando “grazia”, cioè simpatia, e dall’altro lato del confessionale rispondevano piuttosto seri e seccati i confessori, mostrando, essa dice, “disgrazia”, pensando che la bella monaca cercava di ricattarli con un amore umano; alla sua grazia e simpatia rispondevano con toni piuttosto seri e disgustosi. La santa ci ride sopra, dicendo come lei lo faceva con grande amore e libertà, ma prendendo in giro tanta serietà ricordando come da quando ella aveva visto il volto del Signore, non c’era nessuna persona al mondo capace di accattivarla fuori del suo Signore.

Già, il suo Signore! Umano come noi, impastato con la nostra pasta, capace di compatirci perché divino ed umano insieme. Un Dio affidabile e trattabile, amico più di tutti gli amici. Ma scherza con questo Dio amico e lo apostrofa dicendo che qualche volta quando va a fare orazione e diventa difficile per lei trovarlo perché si nasconde, lo ricatta dicendo: “se io potessi nascondermi da voi quando mi cercate con amore, come voi vi nascondete quando io vi cerco, anche voi non sareste in grado di tollerare questo voltafaccia. Allora, Signore, state ai patti e non trattate così chi tanto vi ama”.
Ma, poi, se la prende con i re e le regine che la corte e gli apparati dei signori di questo mondo che non sono come il vero re e signore, ma hanno bisogno d’apparenza e farraginoso cerimoniale per farsi passare, riconoscere e riverire come re. E scherza pure con tutte le regole della buona creanza che obbligano ad usare titoli, cerimonie e salamelecchi, dicendo che è diventato una realtà insopportabile tanta falsità per chi vuole vivere una sana libertà di spirito.

Teresa quindi scherza con Dio. Come quando si lamenta con il Signore che le dice: “così tratto io i miei amici”. E Teresa ribatte: “per questo ne avete così pochi”.
E’ bello parlare con Dio in questo modo, quando ci si accorge, pur nella sublimità della vita mistica, che il nostro Dio è “affabile” e la conseguenza è che occorre imitarlo. Affabilità di un Dio che parla e a cui piace chiacchierare con noi, e che noi chiacchieriamo con lui, questa è l’orazione più semplice: trattare con lui come un padre, come con un amico. Come conseguenza i santi, imitatori di Dio amico, devono essere affabili, anzi affabilissimi. Siate più sante, più affabili con le persone di dentro e di fuori, consiglia Teresa. Con le prime perché ci sia sempre un clima di sana allegria, secondo il detto attribuito alla santa: “tristezza e malinconia fuori di casa mia”.

Con le altre, dice ancora la santa, affinché amino il vostro modo di vivere e non si spaventino della vita cristiana; che è come dire: fate propaganda con la gioia della bellezza della vostra vita, fate ingelosire le persone della buona scelta che avete fatto nel seguire Cristo nella vita contemplativa.

Si racconta di lei che in una occasione stava vicino alla porta del convento e scoppia in un grande risata. Una monaca troppo zelante disse: Madre, le persone che stanno fuori si scandalizzeranno di noi, se ridiamo così forte. Ma Teresa disse: “Meglio che ci sentano ridere che piangere”. E a una donna che si avvicinò tutta compunta a dire chi sa quale penitenze stanno facendo in questo momento le vostre suore, Teresa sbottò con queste parole: In questo momento stanno preparando una commedietta per le feste di Natale. Sono succosi esempi di come anche i santi sanno ridere con Dio e con le idee strane di Dio che vogliono subito sfatare (17).

Gioia e simpatia di Filippo Neri

Di san Filippo Neri, autentico giullare di Dio, si raccontano tante storielle succose. Forse questo santo della gioia, è un modello di come attraverso il buon umore ed un pizzico di argutezza, tutta toscana, ha potuto scherzare di se stesso e della sua santità. Sono celebri e sono passati anche all’onore dell’arte pittorica, gli incontri con san Felice da Cantalice a Campo dei Fiori, quando tutti e due scherzavano e si univano con scandalo di molti e gioia di alcuni al bel fiasco di vino che il fratello della questua portava sempre con sé.
Un esempio di libertà di spirito e di buona armonia fraterna. Filippo ha scherzato perfino con Carlo Borromeo il quale ha voluto sottoporre alla sua santità e alla sua sapienza una Regola per i suoi preti di Milano.
Filippo ha fatto venire fino alla casa del fratello analfabeta sul Palatino il Principe della Chiesa.
Trovandolo nell’orto ha detto a Felice di esaminare attentamente lo scritto del porporato, cosa che ovviamente quel fratello non poteva fare. Il giorno dopo è andato a dire all’Arcivescovo di Milano, che secondo il parere di quel fratello, tutto era a posto nella Regola scritta con tanta fatica.

Ed è nota la risposta data a Clemente VIII a proposito di una santona della Roma del tempo, celebre per le sue visioni. Inviato a visitarla per ordine del Papa ha voluto provare la sua santità chiedendo di mettere a posto le sue scarpe sozze e luride, suscitando il rifiuto e lo scandalo della grande santona. Con poche parole ha saputo dire al suo figlio spirituale il Sommo Pontefice: “Santità, poca santità”. Così, scherzando sulla sua santità, quella che molti riconoscevano e sulla sua fama, nota all’estero, non si vergognava di andare in giro attorno alla Chiesa nuova con un mazzo di ginestre o un gatto tra le braccia, o si faceva tagliare i capelli nel presbiterio, vicino all’altare.
E ha scandalizzato alcuni seri personaggi polacchi venuti da lontano a trovarlo per consultarlo su gravi questioni di coscienza facendoli aspettare mentre si faceva leggere pagine poco edificanti e scherzose di un famoso prete toscano, il Pievano Arlotto. Gesti di libertà di spirito, di una santità che brilla nel saper scherzare anche con se stessi e con gli altri, purché Dio sia sempre Dio. Lezioni importanti ieri ma anche oggi…

Per questo nella tradizione di tutte le religioni vi sono sempre questi uomini della gioia, dello scherzo, della battuta brillante, positiva ed illuminante, talvolta della testimonianza sconvolgente come quella dei “pazzi di Dio” o yurodive della tradizione greca e slava, uomini e donne, veri profeti di Dio, che con i loro scherzi e le loro battute sapevano evangelizzare ed annunziare l’amore di Dio richiamando al pentimento. Santi della gioia di Dio che, nell’estrema risorsa dell’amore pazzo di Dio, sono riusciti ad essere testimoni e predicatori della Buona Novella (18).

Conclusione

Un professore di filosofia spagnolo è stato sorpreso dall’affermazione di una professoressa dell’Università di Gerusalemme che riteneva che a differenza degli ebrei che considerano la gioia come un pilastro del loro atteggiamento di fronte alla vita, i cristiani non la coltivano (19). Anche qualche altro esponente religioso ha detto che i cristiani non dimostrano con la loro vita e il loro comportamento la gioia e la speranza di cui sono portatori per la loro fede nel Risorto. Occorre quindi reagire e testimoniare. Per questo vorrei finire con una serie di consegne semplici che vogliono essere come principi di vita spirituale e di testimonianza.

“Dio ama chi dona con gioia”, (2 Cor 9,7).

E’ Paolo che esorta a donare sempre con un sorriso sulle labbra, anche se nel cuore c’è la sofferenza del dono della vita. E’ la bellezza dell’ilarità e l’apostolato del sorriso. “Rallegratevi nel Signore, sempre, ve lo ripeto ancora, rallegratevi: (Fil 4, 4). E’ l’esortazione paolina, piena di umanesimo cristiano che porta a tutti il senso della presenza del Signore e della sua vittoria, con l’ottimismo ed il realismo umano-cristiano, in ogni circostanza, apprezzando tutti i valori (Cfr. Fil 4, 8-9).

“Il vostro parlare sempre sia con grazia, condito di sapienza (con sale), per saper come rispondere a ciascuno” (Col 4, 6). E’ ancora un invito di Paolo al buon parlare condito di sale, di umorismo. In lingua spagnola il parlare con questo linguaggio si chiama “salero”, cioè con buon umore e arguzia.

Siamo chiamati ad essere seminatori della gioia in questo mondo. Seguendo l’esempio di Gesù, per rendere amabile la via dell’amore e il volto del Signore. Avendo sempre la gioia nel cuore, il sorriso sulle labbra e una buona parola per tutti, piena della gaia simpatia del nostro Dio. In realtà vivere nella gioia è allenarsi per l’eternità come è stato scritto da C. S. Lewis “La gioia è la vera occupazione del cielo”.

1) G. Ferraro, La gioia di Cristo, Libreria Editrice Vaticana, 2000.
2) Cfr. il mio breve contributo Jubilate, in “Unità e carismi” n.1, 2000, pp. 2-4.
3) Roma, Editrice Borla, 2000, vol. 26 e 27.
4) Discorso 256 1-3: PL 38, 1191-1193.
5) Omelia Pasquale: PG 28, 1081.
6) Brescia, Morcelliana, 1980.
7) Carlo Lorenzo Rossetti, “Sei diventato il tempio di Dio”. Il mistero del tempio e dell’abitazione divina negli scritti di Origine, Roma, Gregoriana, 1998, pp. 143-173.
8) Gribaudi, Torino, 1992.
9) Cfr. M. Mantovani, Paolo VI, maestro e testimone della gioia, in “Unità e carismi” n.1, gennaio-febbraio 2000, pp. 23-30. Tutto il numero monografico è dedicato alla gioia.
10) Tutto il discorso pronunciato nell’Udienza del mercoledì 29 novembre 1972, in Insegnamenti di Paolo VI, X, Città del Vaticano, 1973, pp. 1210-1211.
11) Sulla gioia dei martiri cfr. i vari contributi del volume citato: Gioia-sofferenza persecuzione nei Padri della Chiesa, Roma, Borla, 2000
12) Chiara Lubich, Il dono della gioia, in “Unità e carismi” n. 1, 2000, pp. 5-8.
13) Milano, Gribaudi, 1999.
14) Brescia, Queriniana, 2000.
15) Una buona antologia di “scintille” di umorismo in P. G. Gianazza, Quando ridono gli angeli. Buon riso fa paradiso, Torino, LDC, 2001.
16) A. Dinis, Il sorriso dei religiosi, in “Unità e carismi”, n. 1, 2000, pp. 9-17.
17) Sulla gioia in Teresa d’Avila cfr. J. Gicquel, I fioretti di Teresa d’Avila, Roma, Città Nuova, 1980; P. L. Canobbio, La gioia cristiana in Teresa d’Avila, Roma, Teresianum, 2002.
18) Per un profilo A. Venturosi, Il profeta della gioia, La mistica di S. Filippo Neri, Milano, Jaca Book, 1999.
19) A. Lopez Quintás, Una gioia che nessuno vi toglierà, in “Unità e carismi” n. 1, 2000, pp. 38-44.



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Caterina63
00mercoledì 9 marzo 2011 15:55

Il mistero della Quaresima
(nessuna gioia vera senza il Calvario, senza la Croce)


ROMA, lunedì, 7 marzo 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una riflessione di don Enrico Finotti - parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN) – tratta dal volume “L'anno liturgico. Mistero Grazia e celebrazione” (Vita Trentina Editrice, 2000).


* * *

La Quaresima è la celebrazione del mistero di quel “viaggio”, che il Signore intraprese “con decisione” verso Gerusalemme, salendo il “santo monte della sua Pasqua”.

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9, 51).

Tale viaggio è sottolineato dalla liturgia nell’antifona al cantico dei Secondi Vespri della prima domenica di Quaresima:

Ora saliamo a Gerusalemme:

si compiranno nel Figlio dell’uomo

le parole dei profeti”.

Questo mistero è contenuto e celebrato nel tempo dei “quaranta giorni”, prefigurati nell’Antico Testamento,[1]  e che già il Signore stesso visse nel deserto all’inizio della sua vita pubblica, dove anticipò quella lotta e quella vittoria, che, nell’“ora” imminente della sua gloriosa passione, saranno piene e definitive. Ecco perché “l’annuale cammino di penitenza della Quaresima è il tempo di grazia, durante il quale si sale al monte santo della Pasqua”.[2]

Tre sono le realtà che dominano lo scenario quaresimale:

il Battesimo, la Croce, la Penitenza.

Il lezionario festivo della Quaresima esprime queste tre tematiche rispettivamente negli anni A. B. C.

1. Il Battesimo

La Quaresima è il tempo privilegiato dell’ascolto “della voce del Padre” mediante “il suo Figlio prediletto” in un annunzio intenso della Parola di Dio, per una rinnovata riscoperta e adesione al Battesimo, ossia al nostro “essere cristiani”.

* Cristo in ascolto del Padre

Il Signore nel deserto si ritira in un prolungato ascolto e in una totale obbedienza alla volontà del Padre, ascolto e obbedienza che ora porta al pieno compimento, in modo determinato, nel cammino verso la sua Pasqua.

* I discepoli in ascolto del Padre

Anche i discepoli, ormai lontani dalle folle osannanti della Galilea, sono condotti dal Maestro a contemplare la volontà del Padre in tutta la sua verità, sia nei tre annunzi della Passione, sia, soprattutto, sul “santo monte” sul quale il Padre proclama con maestà l’invito ad ascoltare il suo “diletto Figlio” e a seguirlo nel suo mistero di morte e di risurrezione, confermato da scelti testimoni “Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria”.

Il Vangelo della “trasfigurazione” è sempre proclamato, secondo l’antica tradizione, nella seconda domenica di Quaresima, illuminando di gloria il mistero della Croce e facendo balenare nell’austerità quaresimale un anticipo della luce pasquale della risurrezione.

* La Chiesa in ascolto di Dio che parla

Nella prospettiva di così grandi eventi la Chiesa, nel tempo sacro della Quaresima, apre ai suoi figli le pagine della Sacra Scrittura con abbondanza e li invita ad ascoltare la Parola di Dio con grande impegno, sia per sostenere i catecumeni nel tempo forte delle ultime importanti catechesi prima dei Sacramenti pasquali, sia per preparare tutto il popolo a rinnovare con viva coscienza le promesse battesimali nella notte di Pasqua, meta del cammino quaresimale.

La Quaresima è quindi il grande tempo della catechesi in un clima liturgico-sacramentale, è la scuola annuale della fede. Infatti, la composizione del lezionario della Messa, festivo e feriale, è quanto mai accurata e ricca per offrire alla comunità cristiana un programma abbondante e mirato di catechesi, che si esplica in primo luogo nell’omelia domenicale e feriale, e che trova ulteriore estensione e complemento nella celebrazione “stazionale” settimanale.

Inoltre è nella Quaresima che il “catecumenato” trova l’espressione più intensa e tipica con i riti dell’“elezione”, con gli “scrutini”, le “consegne” e la proclamazione delle grandi pagine riguardanti l’iniziazione ai Sacramenti.

Tutta l’iniziazione cristiana ha un’indole pasquale, essendo la prima partecipazione sacramentale alla morte e risurrezione di Cristo. Per questo la Quaresima deve raggiungere il suo pieno vigore come tempo di purificazione e di illuminazione, specie attraverso gli ‘scrutini’ e le ‘consegne’...”.[3]

Anche il rito catecumenale dell’“Effatà”cioè: “Apriti” (Mc 7, 34b) invoca per tutta la Chiesa la grazia dell’ascolto che suscita nel cuore dei fedeli l’invocazione biblica del profeta Samuele: “Parla, Signore, perchè il tuo servo ti ascolta” (1Sam, 3, 9) e fonda l’augurio che, come per l’antico profeta, anche per noi la Parola di Dio raggiunga la massima accoglienza e fecondità:

Samuele non lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole” (1Sam 3, 19).

2. La Croce

La Quaresima è il tempo della sequela di Cristo sulla “via crucis”, portando la nostra croce “per Lui, con Lui e in Lui”.

* Cristo si orienta verso il mistero della sua croce

Nel cammino “deciso” di Cristo verso la Città Santa, vi è l’orientamento cosciente e fermo a quella croce, che nel deserto, dopo la dura lotta contro il Maligno, accolse dal cuore del Padre.

Infatti “imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5, 9).

Ancora: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24).

La croce è così forte nell’anima del Signore da suscitare in Lui un desiderio ardente di compierne il mistero: “C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finchè non sia compiuto!” (Lc 12, 50).

* I discepoli sono introdotti al mistero della croce

Anche i discepoli, meno distratti dal fervore dell’attività pubblica del Signore e più intimi a Lui, ricevono ora l’annunzio della Passione: “Ecco, noi andiamo a Gerusalemme, e tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo si compirà. Sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi e, dopo averlo flegellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà”. Ma non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto” (Lc 18, 31-34).

L’incomprensione degli Apostoli e soprattutto la reazione di Pietro (Mc 8, 32-33) rappresenta il rigurgito di quella tentazione che già il Signore subì e vinse nel deserto. La stessa “gloria”, anticipata nella trasfigurazione non è che un viatico “per preparare i suoi discepoli a sostenere lo scandalo della croce”.[4]

* La Chiesa segue Cristo sulla via della croce

Così la Chiesa, in questo tempo sacro, medita le antiche profezie riguardanti la Passione del Signore e in particolare quegli annunzi stessi che il Cristo ci dà nel Vangelo, contemplazione che raggiunge il suo culmine nella proclamazione della “Passione del Signore”.

La Chiesa memore delle parole del Maestro divino:

Chi non porta la propria croce non può essere mio discepolo” (Lc 14, 27) lo segue sulla via dolorosa, perché:

Certa è questa parola:

Se moriamo con lui, vivremo anche con Lui;

se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo” (2Tim 2, 11).

Deposto quindi tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb 12, 1b).

Gesù per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Eb 13, 12-13).

Come nel deserto il popolo eletto, ferito a morte dai serpenti velenosi, guardando il serpente di rame eretto sull’asta in mezzo all’accampamento, otteneva la guarigione in vista di Cristo, “maledetto per noi” (Dt 21, 23; Gal 3, 13), così il popolo cristiano, ferito dal peccato, fissando lo sguardo a Cristo crocifisso “nel deserto quaresimale”, ottiene la vita e la salvezza eterna.

Infatti: “La croce di Cristo è nostra gloria, salvezza e risurrezione”.[5]

e “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3, 14).

La croce quindi domina l’assemblea liturgica nel tempo quaresimale, riceve il quotidiano omaggio della fede, precede il “popolo in cammino” nelle processioni penitenziali e nell’itinerario della “via crucis”. Infine, quale vessillo di vittoria, è presentata nel Venerdì Santo al bacio adorante dei fedeli, che si riconoscono salvati dal sangue di Cristo.

Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia” (1Pt 1, 18-19).

3. La Penitenza

La Quaresima è il tempo della riconciliazione con Dio, mediante la conversione del cuore, la confessione delle proprie colpe e la penitenza.

La liturgia del Mercoledì delle Ceneri richiama alla riconciliazione con le parole dell’Apostolo: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”... “Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso.

Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!” (2Cor 5, 20. 6, 2).

* La penitenza nella testimonianza del Signore

Il Signore “consacrò l’istituzione del tempo penitenziale con il digiuno di quaranta giorni, e vincendo le insidie dell’antico tentatore ci insegnò a dominare le seduzioni del peccato”[6] con le armi della penitenza, della preghiera e del digiuno.

Egli in tutta la sua vita non ebbe dove posare il capo “Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8, 20).

Nel suo viaggio verso Gerusalemme dovette accettare l’abbandono delle folle che protestavano: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?” (Gv 6, 60). L’incomprensione ripetuta dei suoi discepoli giunge al punto che Gesù dovette interpellarli “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6, 60). Per rimanere fedele alla volontà del Padre e per la nostra redenzione Gesù accettò il tradimento, le umiliazioni fino alle sofferenze della Passione e alla Morte di Croce.

Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio; e tu pretendi per te riposo e gaudio?”.[7]

* I discepoli sono invitati alla penitenza

Anche ai discepoli il Signore raccomanda: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione” (Mt 7, 13) e ancora“ se non vi convertite perirete tutti” (Lc 13, 3).

Il ”grido” del Signore alla conversione e alla penitenza assume un carattere drammatico quando, ormai in vista di Gerusalemme, piange su di essa esclamando:

Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco la vostra casa vi viene lasciata deserta! (Lc 13, 34-35).

Infine, dopo aver compiuto tutto quello che era necessario per la nostra salvezza mediante la sua “sofferenza vicaria”, con voce agonizzante sulla croce invoca: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34) offrendo ai penitenti di tutti i secoli l’assoluzione dei loro peccati.

* La Chiesa fa penitenza

Nella luce di così grandi misteri la Chiesa, imponendo l’austero simbolo delle ceneri sul capo dei fedeli, li invita a riconoscersi peccatori e a convertirsi:“Ricordati che sei polvere e - a causa del peccato - in polvere tornerai”; quindi, se vuoi avere la vita, “convertiti e credi al Vangelo”.[8]

Così la madre Chiesa fa eco alle parole del Signore e conduce i suoi figli ad intraprendere un cammino di penitenza, di lotta spirituale, di ascesi per abbandonare il peccato e vivere “nella libertà dei figli di Dio”, perché “Non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole” (2Tm 2, 5).

La Quaresima è, per così dire, il cammino a ritroso del “figliol prodigo” verso la casa paterna, viaggio che esprime tutti gli elementi essenziali per la celebrazione sacramentale della riconciliazione:

- esame di coscienza: “Allora rientrò in se stesso...”

- contrizione: “Mi leverò e andrò da mio padre...”

- penitenza: “Partì e si incamminò verso suo padre...”

- confessione: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te...”

- assoluzione: “Presto portate qui il vestito più bello...”

(Lc 15, 11-32).

Si raccomandi ai fedeli una più intensa e fruttuosa partecipazione alla liturgia quaresimale e alle celebrazioni penitenziali. Si raccomandi loro soprattutto di accostarsi in questo tempo al Sacramento della Penitenza secondo la legge e le tradizioni della Chiesa, per poter partecipare con animo purificato ai misteri pasquali”.[9]

L’impegno penitenziale della Chiesa oltre che essere delineato nel Lezionario festivo dell’anno C e in tanti testi biblici, patristici ed eucologici della Messa e dell’Ufficio divino, si esprime in concrete celebrazioni: nel rito della imposizione delle ceneri, nell’atto penitenziale della Messa che in questo tempo assume una singolare importanza, nelle eventuali processioni penitenziali nei mercoledì di Quaresima. Raggiunge il vertice nella solenne celebrazione penitenziale al termine della Quaresima che, mentre riassume l’itinerario penitenziale, predispone alla celebrazione sacramentale della Riconciliazione.

E’ opportuno che il tempo quaresimale venga concluso, sia per i singoli fedeli che per tutta la comunità cristiana, con una celebrazione penitenziale per prepararsi a una più intensa partecipazione del mistero pasquale”.[10]

La Chiesa ripetutamente grida con forza a se stessa:

Gerusalemme, Gerusalemme, convertiti al Signore tuo Dio”.

Che questa conversione sia effettiva e ponga sulle nostre labbra l’espressione del pentimento che uscì dalla bocca agonizzante del buon ladrone: “Ricordati di me, Signore, quando entrerai nel tuo regno!” (Lc 23, 42) e il nostro cuore si sciolga nella gioia del perdono ritrovato e dica con Pietro “Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti voglio bene” (Gv 21, 17).





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1) I quaranta giorni del diluvio (Gn 7, 12); i quaranta giorni che Mosè trascorse sul monte Sinai (Es 34, 27-28); i quarant’anni del popolo eletto nel deserto (Nm 14, 33); il tempo della prova che Israele deve subire dal gigante Golia fino a che Davide lo vince ( 1. Sam 17, 16); i quaranta giorni del cammino che il profeta Elia dovette compiere per arrivare al monte Horeb e incontrare Dio (1 Re 19, 8); i quaranta giorni della conversione di Ninive (Gio 3, 4) …

2) Paschalis sollemnitatis, n. 6.

3) Paschalis sollemnitatis, n. 7.

4) MRI, Prefazio della festa della Trasfigurazione.

5) COMMISSIONE LITURGICA TRIVENETA, Libro della preghiera per le diocesi della regione triveneta, Torino, ed. LDC, 1977, n. 306.

6) MRI, I domenica di Quaresima., Prefazio.

7) Adorazione eucaristica, preghiere e celebrazioni della Parola per tutto l’anno liturgico, a cura di P. Fausto Casa, Collana “Celebrazione della Parola”, n. 7, Padova, ed. Messaggero, 1978, p. 127.

8) MRI, Mercol. delle ceneri, Rito della imposizione delle ceneri; Anamnesis, vol. VI, p. 160.

9) Paschalis sollemnitatis, n. 15.

10) Paschalis sollemnitatis, n. 37.


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