"Imago Veritatis" «Vedete in me quello che voi siete»

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Caterina63
00giovedì 4 febbraio 2010 19:28
Il corpo e il volto di Gesù nell'arte

«Vedete in me
quello che voi siete»


Nel pomeriggio di giovedì 4 febbraio nell'Ambasciata Italiana presso la Santa Sede sono state presentate le iniziative culturali di "Imago Veritatis" per la prossima ostensione della Sindone. In particolare la mostra "Gesù. Il volto, il corpo nell'arte" organizzata con la Reggia della Venaria Reale - dal 1 ° aprile al 1 ° agosto - e il concorso per le scuole piemontesi "L'uomo della Sindone". Sono intervenuti l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Giuseppe Ghiberti, presidente della Commissione Sindone della diocesi di Torino, Andrea Gianni, presidente dell'Associazione Sant'Anselmo, Lucetta Scaraffia, dell'università di Roma La Sapienza, Alberto Vanelli, direttore della Venaria Reale e il curatore della mostra. Di quest'ultimo pubblichiamo l'intervento.

di Timothy Verdon

Nell'occasione dell'ostensione particolare della sacra Sindone a Torino nella primavera del 2010, verrà allestita presso il Palazzo di Venaria Reale una mostra focalizzata sull'interesse che la persona fisica di Cristo ha suscitato nell'arte occidentale. Composta di opere di pittura e scultura dal paleocristiano al barocco - di cui alcune tra le più importanti dai Musei Vaticani - la mostra si pone in parallelo all'evento religioso, mettendo in luce l'ampia prospettiva culturale di cui esso fa parte. Così i pellegrini che a Torino pregheranno davanti al telo che, secondo la tradizione, avvolse le spoglie di Gesù conservandone l'impronta, alla Venaria Reale potranno riscoprire la centralità del corpo nel pensiero europeo nonché interrogarsi sul legame tra corpo umano e identità divina implicito nei culti della Sindone, del Mandylion e della Veronica.

Pellegrini e semplici visitatori alla mostra potranno infine riflettere sul pathos che la morale giudeo-cristiana da sempre associa all'immolazione corporea a servizio di altri; la parte centrale della mostra, una "foresta" di celebri crocifissi monumentali, inviterà a meditare l'attuale e vessata questione dell'importanza di questa immagine nella storia culturale d'Europa
.
Le opere esposte - di Giovanni Bellini, Donatello, Luca della Robbia, Antonio Pollaiolo, Filippino Lippi, Rogier Van der Weyden, Memling, Giorgione, Savoldo, Lorenzo Lotto, Tintoretto, Veronese, Federico Barocci, Guercino, Bernardo Strozzi, Rubens e altri - verranno organizzate in un percorso inteso a suggerire sia l'ampiezza del concetto cristiano "Corpo di Cristo", sia gli esiti funzionali di questo concetto nei riti della Chiesa. Le singole tappe del percorso, corrispondenti alle interconnesse sezioni della mostra, sono:  i. "Il corpo e la persona"; ii. "Dio prende un corpo"; iii. "L'uomo Gesù"; iv. "Il corpo dato per amore"; v. "Il corpo risorto"; vi. "Il corpo mistico"; vii. "Il corpo sacramentale".

Il tema formale della mostra - la corporeità di Cristo - viene cioè proposto in forma di domanda aperta intorno al rapporto tra corpo e spirito nella tradizione culturale occidentale. Oggi, in una cultura che sempre più pensa al corpo in chiave "tecnica", preoccupandosi di modificarne l'aspetto e potenziarne la performance, esercitano singolare fascino infatti immagini allusive al corpo come espressione di impegno interiore, veicolo di gesti significativi, strumento di amore spirituale:  la corporeità attribuita a Cristo nel pensiero e nell'arte dei cristiani.

La volontà di organizzare una mostra con questa valenza al contempo religiosa e antropologica nasce nell'ambito dei preparativi per l'ostensione particolare della Sindone voluta dall'arcivescovo di Torino, cardinale Severino Poletto, e concretamente dall'energico interesse del direttore del Consorzio culturale della Venaria Reale, Alberto Vanelli. L'ideazione e la curatela dell'evento sono state affidate a chi ora scrive, nel contesto dell'attività di "Imago Veritatis", il progetto culturale dell'Associazione Sant'Anselmo di Milano, di cui faccio parte insieme a Lucetta Scaraffia e Andrea Gianni. Il catalogo della mostra (Silvana editoriale) è concepito come un vero libro a più mani, includerà diciotto saggi di storici, teologi ed artisti europei e statunitensi, tra cui la stessa Scaraffia, Giovanni Maria Vian e Antonio Paolucci.

A prescindere dalle molte questioni che la Sindone solleva, la sola possibilità dell'esistenza di una reliquia che preserva impresse le forme del corpo, e leggibili i tratti del volto di Cristo è carica di significato, attestando la dimensione storica della fede cristiana e implicandone l'orizzonte mistico. Il telo, noto come la Sindone, sottolinea cioè il convincimento che Gesù sia realmente vissuto, morto e risorto; sarebbe in effetti il segno del suo passaggio alla vita nuova, il telo abbandonato al momento di risorgere.

La possibilità dell'esistenza di una simile reliquia è specialmente significativa per l'arte, perché conferma la "visibilità" e quindi la "rappresentabilità" dell'uomo che si diceva Figlio dell'invisibile Dio d'Israele. "Un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico", ricordava san Giovanni Damasceno, evocando il divieto biblico ad ogni raffigurazione della Divinità. "Ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini - continuava - così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio", cioè a dire dell'uomo Gesù. Scrivendo nel contesto dell'interdizione delle immagini da parte dell'imperatore di Bisanzio, l'iconoclasta Leone iii nell'anno 730, questo autore - nato cristiano in una Damasco allora sotto controllo musulmano - vedeva un nesso tra il dogma teologico dell'incarnazione e l'uso ecclesiastico di immagini, soprattutto quelle raffiguranti Gesù stesso.

La mostra mette in evidenza la continuità di queste idee nell'era moderna. Allestita nell'occasione di un'ostensione pubblica della Sindone, porta l'attenzione sull'uomo il cui corpo e volto sarebbero tracciati sul venerabile telo suggerendo come pittori e scultori di vari periodi l'abbiano visualizzato. Oltre a evocare l'aspetto di questo personaggio più raffigurato della storia, e a ripercorrere le tappe della sua vita, la mostra suggerisce il legame che l'arte ha visto in lui tra corpo, volto e personalità; la scelta di caratterizzare l'evento con il nome personale "Gesù" piuttosto che col titolo messianico "Cristo" nasce infatti dal forte senso di persona riscontrabile in raffigurazioni del suo corpo sofferente e volto patiens. Non è esagerato affermare che l'idea stessa di persona elaborata dall'Occidente negli ultimi due millenni sia debitrice di questa tradizione iconografica, in cui libertà e dignità umana scaturiscono dal dono del corpo e si comunicano nel pathos dello sguardo. Lo scopo della mostra, come già accennato, infatti è di favorire una riflessione storico-antropologica, utile in un periodo di vertiginose trasformazioni sociali quale il nostro.

I coefficienti corpo-volto-persona, variamente interpretate nell'arte di civiltà diverse, esprimono diverse visioni dell'uomo. Il mondo greco-romano su cui il cristianesimo s'innestò ne conosceva almeno tre:  quella arcaica, quella classica e quella ellenistica. Nella prima, la rigidità del corpo e la fissità dello sguardo parlavano della ricerca umana di ordine di contro al caos dell'universo; nella seconda rilassatezza corporea insieme a interiorità nell'espressione facciale comunicavano un controllo sereno, semi-divino, della propria sorte; nella terza, che è quella culturalmente più vicina all'arte cristiana, spontaneità nelle pose e nei movimenti associata all'indagine psicologica e all'interesse per l'irrazionale sottolineavano il dramma dell'esistenza umana.

Comune denominatore dell'equazione variabile antica era però un pessimismo derivante dalla concezione labile del corpo-persona al di là della morte:  suggestivo in questo senso il racconto riportato da Erodoto, di due giovani dell'Argo, Cleobis e Bitone, i quali, in mancanza di buoi per il carro della madre che voleva recarsi al santuario della dea Hera, s'erano infilati il giogo, trascinando il rozzo veicolo per chilometri su strade scoscese sotto un sole cocente. Arrivata al tempio, la madre, fiera della forza morale e fisica dei suoi figli, pregò Hera di concedere loro il beneficio maggiore che le divinità possano dare a esseri umani, e così fu:  quella stessa notte, coricatisi nel santuario, Cleobis e Bitone morirono (Historia, 1, 31). Ecco, la morte all'apice delle forze morali e fisiche, prima dei compromessi e del disfacimento della vecchiaia, era il dono degli déi antichi agli uomini.

Questo sottofondo fatalista colora l'esperienza del corpo nel mondo greco-romano e spiega sia l'estetismo sia l'edonismo riflessi nell'arte del periodo confinante con il diffondersi del cristianesimo. Il corpo bello dei personaggi divini e umani di Teocrito e d'Ovidio, il corpo strumento di arbitri sensuali e oggetto di desideri lussuriosi, costituisce infatti lo sfondo su cui dobbiamo leggere la reazione cristiana, come dichiara apertamente Paolo di Tarso quando condanna i suoi contemporanei pagani perché "hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un'immagine e una figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili" (Romani, 1, 23).
 
Paolo collega a tale perverso scambio quella che egli considera l'immoralità sessuale dei pagani (Romani, 1, 26-28), e elenca i mali morali, etici e spirituali che secondo lui ne conseguono:  ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, invidia, odio omicida, litigiosità, fraudolenza, malignità, diffamazione, maldicenza, ostilità verso Dio, arroganza, superbia, presunzione, ingegnosità nel male, ribellione contro i genitori (Romani, 1, 29-30); conclude questo fosco ritratto affermando che i pagani sono "insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia" (Romani, 1, 31).

Paolo era cristiano e prima ancora era ebreo, erede di un'immagine dell'uomo non dipinta o scolpita, ma articolata nelle scritture e nelle tradizioni del suo popolo. A differenza dei miti pagani, che presentavano gli dèi con tutti i difetti degli uomini, la cultura biblica di Paolo e dei primi cristiani riteneva che l'uomo dovesse aspirare alla perfezione di Dio, e soprattutto alla sua misericordia. "Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso", Gesù aveva detto infatti (Luca, 6, 36), e questa misericordia caratteristica dell'essere umano aveva una singolare componente "corporea". Già nell'Antico Testamento molte parole del Dio incorporeo lasciano intravedere l'importanza del corpo per comprendere le sue leggi:  "Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole", l'Altissimo comanda a Israele, motivando questa norma divina con una ragione molto umana.

Secondo il Dio della Bibbia, un creditore deve rendere il pegno al povero prima di notte "perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?" (Esodo, 22, 25-26) - un Dio incorporeo cioè sensibile al tremore della pelle del povero! Nello stesso spirito ma fuori da ogni logica legale, Gesù descrive come, nel Giudizio ultimo, il Figlio dell'uomo premierà quanti avranno avuto cura corporale del prossimo; parlando in prima persona dice:  "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere,ero forestiero e mi avete ospitato, nudo mi avete vestito" (Matteo, 25, 35-36).

"Ho avuto fame". Per i credenti in lui, Gesù, Figlio di Dio, è diventato quel povero a cui bisogna rendere il mantello prima di notte:  l'affamato, l'assetato, l'escluso, il senza tetto, l'ignudo da coprire. "Verbo" divino - perfetta espressione cioè della misericordia del Padre - "si fece carne" (Giovanni, 1, 14), assumendo in sé tutte le sofferenze corporee e morali degli uomini. Soprattutto nella sua volontaria passione e morte divenne "l'icona dell'invisibile Dio" (Colossesi, 1, 15) - la sua stessa immagine - secondo un paradossale principio funzionale:  "il contadino, quando si accinge a lavorare la terra, sceglie gli strumenti più adatti e veste anche l'abito più acconcio al genere di lavoro", dice un teologo greco del iv secolo, il vescovo san Macario:
 
"Così Cristo, re dei cieli e vero agricoltore, prese un corpo umano, e, portando la croce come strumento di lavoro, dissodò l'anima arida e incolta, ne strappò via le spine e i rovi degli spiriti malvagi, divise il loglio del male e gettò al fuoco tutta la paglia dei peccati. La lavorò così col legno della croce e piantò in lei il giardino amenissimo dello Spirito. Esso produce ogni genere di frutti soavi e squisiti per Dio, che ne è il padrone" (Omelia 28; pg, 34, 710-711).
 
Ecco, l'immagine di Dio contemplata nel corpo sofferente di Gesù implica questa dinamica di purificazione e crescita. Implica anche un processo in cui il soggetto umano scopre e comprende se stesso, come suggerisce un padre della Chiesa, Pietro Crisologo, quando immagina Gesù crocifisso che invita i credenti a riconoscere nel "suo" corpo sacrificato il senso morale della "loro" vita. "Vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, il vostro sangue", dice Gesù. "E se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro? Se rifuggite dal padrone, perché non ricorrete al congiunto?".

Commosso da quest'idea, Crisologo esclama:  "O immensa dignità del sacerdozio cristiano! L'uomo è divenuto vittima e sacerdote per se stesso. Non cerca fuori di sé ciò che deve immolare a Dio ma porta con sé e in sé ciò che sacrifica". Invitando poi a imitare Cristo, il santo esorta:  "Sii, o uomo, sacrificio e sacerdote (...), fa del tuo cuore un altare, e così presenta con ferma fiducia il tuo corpo come vittima a Dio. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua preghiera, non del tuo sangue. Viene placato dalla volontà, non dalla morte" (Discorso 108. pl, 52, 499-500).

Sono citazioni, queste, utili per capire la presente mostra, che invita il visitatore a riscoprire la concezione di corporeità e di personalità elaborata nei secoli attraverso immagini di Gesù - l'idea del corpo come luogo di una dignità insita nell'essere umano - di una capacità "sacerdotale" di offrirsi - e del volto come specchio di libertà consapevole. Le opere in mostra infatti mettono lo spettatore nelle condizioni di quelle donne e di quegli uomini descritti nel Nuovo Testamento, per cui il corpo e volto di Gesù erano luoghi di sorprendente, anche scandalosa, scoperta:  quando a esempio egli tornò dal deserto al suo paese, Nazaret, e nella sinagoga lesse ad alta voce i versetti messianici di Isaia 61 - "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione".

Narrando l'evento, l'evangelista Luca nota che "gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui" quando, alle parole d'Isaia, Gesù aggiunse altre parole, inaspettate e per i presenti certamente incomprensibili:  "Oggi - disse - si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi", (Luca, 4, 16-21; cfr. Isaia, 61, 1-2). Gli occhi dei presenti stavano sopra di lui, fissi sul suo corpo e sul volto, perché la sua affermazione "oggi si è adempiuta questa Scrittura" li obbligava ad associare le antiche promesse di una futura era benedetta con questo giovane uomo seduto in mezzo a loro - non con la sua mente o con gli eventuali insegnamenti, ma con lui come presenza fisica:  con il suo corpo, con l'espressione della sua faccia. "Non è costui il figlio di Giuseppe?", chiedono subito, incapaci di vedere in Gesù più di quanto credevano di conoscere, così che egli commenta:  "Nessun profeta è bene accetto nella sua patria" (Luca, 4, 22-24).

Un'occasione analoga, assai più drammatica, è narrata nel quarto vangelo. Due giorni dopo la sua miracolosa moltiplicazione di pochi pani e pesci per sfamare una folla oceanica, Gesù spiega ad alcuni delle stesse persone che l'avevano ricercato di nuovo che il vero pane offerto dal Padre all'umanità - il pane disceso dal cielo - era lui stesso (Giovanni, 6, 32-35). Di nuovo allora i suoi ascoltatori si chiedono:  "Costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come può dire:  "Sono disceso dal cielo"?" (Giovanni, 6, 42).
 
Ma egli insiste, usando linguaggio inequivocabile anche se umanamente incomprensibile:  "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita dell'uomo" (Giovanni, 6, 51); e ancora:  "Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita(...)perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui" (Giovanni, 6, 53-55-56). L'evangelista Giovanni descrive la negativa reazione a queste parole da parte degli ascoltatori, e come "da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui" (Giovanni, 6, 66), e non si fa fatica a capirli, perché Gesù in pratica pretendeva che vedessero il suo corpo come alimento, e così pure il volto:  insieme all'affermazione di essere il vero pane disceso dal cielo, dice:  "Questa infatti è la volontà del Padre:  che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (Giovanni, 6, 40).

Molte opere in mostra prendono luce da questi asserti, sia perché originalmente intese per altari, dove il corpo e volto di Gesù raffigurati dall'artista erano visti in prossimità al pane e vino dell'Eucaristia, sia perché esplicitano tale allusione, facendo vedere apertamente l'ostia di pane o il calice del vino in rapporto alla persona di Gesù; tra i termini tradizionalmente usati per l'Eucaristia i più comuni sono infatti Corpus Christi e Corpus Domini "Corpo di Cristo" e "Corpo del Signore".


(©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2010)


                                                         
Caterina63
00venerdì 5 febbraio 2010 18:43
Le iniziative di «Imago Veritatis» per l'ostensione della sacra Sindone

Il mistero
ha un volto e un corpo


di Raffaele Alessandrini

Se al mistero volessimo dare un volto e un corpo, come non pensare al sembiante e alla carne dell'Uomo della Sindone? Non è forse individuabile proprio nel mistero del "dolore e della morte la carta d'identità dell'uomo?". Così l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura sottolineando che innumerevoli artisti nel corso dei secoli, richiamandosi alla Sindone di Torino si sono interrogati nei modi e negli idiomi più diversi. Volto umano o volto divino?

Quel volto non rappresentabile dell'Antico Testamento, quella voce senza immagine del roveto ardente, e che pure in modo ineffabile si era rivelato a Mosè parlandogli "bocca a bocca", a un certo punto ha manifestato il suo volto storico. Come ricorda il Vangelo di Giovanni, il Lògos si fa carne; e si introduce nella vicenda dell'uomo condividendone la sorte:  una condivisione che giunge fino "a penetrare nella galleria oscura del dolore e della morte"; fino al "tradimento degli amici"; fino alla sofferenza e al silenzio di Dio; fino alla morte più brutta.

Monsignor Ravasi ha parlato in occasione della presentazione ufficiale delle iniziative culturali che accompagneranno l'ostensione del sacro lino di Torino, il 4 febbraio a Roma, all'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede. Le iniziative realizzate in collaborazione con l'Associazione Sant'Anselmo, secondo il progetto "Imago Veritatis", sono due e consistono nella mostra "Gesù. Il volto, il corpo nell'arte" promossa e organizzata dal Consorzio di Valorizzazione Culturale la Venaria Reale con il patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura e nel concorso per le scuole "L'uomo della Sindone. Il volto e il corpo di Cristo".

Dopo il saluto dall'ambasciatore Antonio Zanardi Landi, e l'introduzione di Ravasi, hanno preso la parola Andrea Gianni del direttivo di "Imago Veritatis" e presidente dell'Associazione Sant'Anselmo e monsignor Giuseppe Ghiberti presidente della Commissione diocesana Sindone di Torino. Gianni ha illustrato la storia dell'Associazione Sant'Anselmo da dieci anni impegnata a "guardare oltre" nel campo dell'editoria e della formazione storica, teologica e religiosa italiana. Ora nell'ambito della Sant'Anselmo è nata "Imago Veritatis", un progetto - sottolinea Gianni - "approvato dall'attuale segretario della Conferenza episcopale italiana monsignor Mariano Crociata, per la comunicazione della cultura cristiana attraverso la bellezza del cristianesimo così abbondantemente consegnata a uno dei migliori testimoni che si possa trovare:  l'arte.

Ma l'arte è esperienza spirituale in sé, cioè, primo testimone di quel senso religioso che è insito in ogni uomo, credente o meno che divenga". E nel caso specifico della Sindone, al richiamo all'immagine del Dio fatto uomo, nonché alla storicità e alla fisicità del Cristo, come non riconoscere in essa - conclude Gianni - l'imago veritatis per eccellenza? Di quel lenzuolo in lino antico, tessuto a spina di pesce, lungo 4 metri e 42 centimetri e largo 1 metro e 12 - come ha ricordato monsignor Ghiberti - al di là degli studi, delle congetture e delle interpretazioni, non va mai trascurata la dimensione primaria che è quella della devozione e nell'essere segno di un fatto:  "la Sindone si presenta anzitutto per ciò che è". Un invito a misurarsi con la persona e con quella persona.

Ma questa persona la conosciamo davvero? E soprattutto la conoscono i giovani di oggi? A tale proposito è intervenuta Lucetta Scaraffia dell'università di Roma La Sapienza che illustrando la seconda iniziativa di "Imago Veritatis" - riguardante il concorso per alunni e studenti delle scuole del Piemonte, "Il volto e il corpo di Cristo" - ha osservato come molti ragazzi oggi non sappiano più chi sia Gesù. Non di rado lo ritengono una figura lontana, astratta e sorpassata come una divinità esotica o del mondo classico. Ma, al di là delle convinzioni religiose, Gesù è una figura storica e dunque - sottolinea Scaraffia - il concorso tende a sollecitare la curiosità e l'interesse dei più giovani, chiamati a confrontarsi con una serie di raffigurazioni del Cristo su cui riflettere per poi esprimersi nei modi a loro più consoni e consueti quali un tema, una riflessione, un disegno e così via.

Da ultimo il direttore della Venaria Reale Alberto Vanelli ha illustrato l'eccezionale complesso architettonico e urbanistico della reggia barocca di Venaria la cui magnificenza fu ispirata a metà del Seicento da Carlo Emanuele ii di Savoia e che ora è divenuta simbolo di modernità e di cultura. Per l'opera di restauro di questa "Versailles piemontese" - nel suo genere l'intervento di recupero più grande tra tutti quelli realizzati fino ad ora in Europa - ci sono voluti duecento milioni di euro.

La reggia che ha già ospitato attività espositive, convegni, concerti e si prepara ad accogliere la grande esposizione d'arte - curata da monsignor Timothy Verdon, della Stanford University e canonico del Duomo di Firenze - dal 2007 a ora ha già accolto oltre due milioni di visitatori. Verdon, collaboratore del nostro giornale, è tra i massimi conoscitori di arte sacra ed è coadiuvato da un comitato scientifico composto da Lucetta Scaraffia, Michele Bacci (università di Siena), Andrea Longhi (Politecnico di Torino), Andrea Gianni (Associazione Sant'Anselmo). Composta di opere di pittura e di scultura dal paleocristiano al barocco, la mostra "si pone in parallelo all'Ostensione mettendo in luce la prospettiva culturale di cui l'evento religioso fa parte".

Mentre a Torino i pellegrini pregheranno di fronte al sacro lino - ha detto ancora il curatore dell'esposizione - la mostra della reggia di Venaria consentirà ai visitatori di riscoprire e di riflettere sulla centralità del corpo nel pensiero europeo, e d'interrogarsi sulla dimensione corporea e l'identità divina impliciti nella venerazione della Sindone e della Veronica. L'intera mostra è introdotta da un breve percorso storico-artistico, inteso a rammentare alcuni passaggi fondamentali per la rappresentazione del corpo in Occidente, "dall'assimilazione paleocristiana, del naturalismo grecoromano, alla spiritualizzazione bizantina fino alla nuova enfasi del primo francescanesimo per giungere alla riscoperta dell'estetica classica nel "protorinascimento" nel Duecento".


(©L'Osservatore Romano - 6 febbraio 2010)
Caterina63
00sabato 24 aprile 2010 21:44
[SM=g1740722] Nella Chiesa Cattolica facciamo largo uso di immagini religiose. Ma le immagini sono vietate dalla Bibbia o no? I nostri fratelli evangelici e i TdG dicono di si ma Baldassare La Fata, in questa catechesi, ex esponente dei capi dei TdG, ora Diacono permanente della Diocesi di Monreale dimostra con la Bibbia che le immagini sono permesse da Dio.

Una bella catechesi da ascoltare per approfondire la nostra fede nella Madre Chiesa.


[SM=g1740738]


it.gloria.tv/?media=69691 [SM=g1740722]


[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740750] [SM=g1740752]

Caterina63
00lunedì 26 aprile 2010 20:33
Contemplare Cristo

Il vincitore ha il volto del Padre


Pubblichiamo quasi integralmente il testo della conferenza che si tiene, nella serata di lunedì 26 aprile, nel duomo di Torino nell'ambito degli appuntamenti che accompagnano l'ostensione della Sindone.

di Timothy Verdon

"Questa infatti è la volontà del Padre:  che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna" (Giovanni, 6, 40). Ecco, nelle parole dello stesso Gesù, il motivo per cui, questa volta come altre volte, da prima mattina a notte fonda i pellegrini sfilano davanti alla Santa Sindone (...) È infatti la volontà del Padre che chiunque vede il Figlio e crede in lui viva in eterno.

I pellegrini, tra cui anche persone anziane vicine alla morte, desiderando la vita vengono qui, e siamo venuti anche noi, perché nell'uomo torturato e ucciso la cui forma è impressa nel telo è possibile contemplare Cristo, vedere il quale con fede dà la vita eterna. Certezza assoluta che sia proprio lui non c'è, è vero, ma ciò è secondario. Colui che, nell'ultimo giorno - a quanti non l'avranno mai visto ma in qualche circostanza avranno sfamato un povero - dirà:  "Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Matteo, 25, 40), ecco, quello si fa vedere come vuole, anche in altri, anche nell'uomo della Sindone.

Il desiderio di vederlo però - proprio lui - rimane, acutizzato dagli scritti sacri giudeo-cristiani che caratterizzano l'anelito umano verso Dio soprattutto in termini di visio. "Mostrami la tua gloria!", Mosè chiese a Jahvè, rimanendo tuttavia deluso quando Questi gli rispose:  "Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restar vivo" (Esodo, 33, 18-20). La brama dell'uomo di vedere Dio verrà finalmente soddisfatta nella persona di Cristo, e il vangelo di Giovanni, all'affermazione "il Verbo si fece carne e venne a abitare in mezzo a noi", aggiunge subito:  "e noi "vedemmo" la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità" (Giovanni, 1, 14).

A scanso di equivoci, l'evangelista rimanda all'antico divieto, ricordando che mentre "la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo", e insiste:  "Dio nessuno l'ha mai visto:  proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Giovanni, 1, 17-18). Lo stesso quarto vangelo narra l'assicurazione data da Cristo ai suoi discepoli, che "chi vede me vede Colui che mi ha mandato" e "chi ha visto me ha visto il Padre" (Giovanni, 12, 45 e 14, 9), e un altro scritto giovanneo afferma che in lui, Cristo, "la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi" (1 Giovanni, 1, 2) - visibilità, questa, sintetizzata in un testo paolino che asserisce che Cristo "è l'immagine del Dio invisibile" (Colossesi, 1, 15). Nelle ostensioni della Sindone come già in quelle della Veronica i pellegrini non cercano solo l'uomo ma Dio, il cui amore è visibile nelle sofferenze di Gesù Cristo.

Il senso dell'arte nella vita della comunità credente va compreso all'interno di questa ricerca. Un padre della Chiesa, san Giovanni Damasceno, infatti spiega l'uso cristiano delle immagini affermando che "un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico (...) ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio". Scrivendo nel contesto dell'interdizione delle immagini da parte dell'imperatore di Bisanzio, l'iconoclasta Leone iii nell'anno 730, questo autore - nato cristiano in una Damasco già allora sotto controllo musulmano - vedeva un nesso tra il dogma teologico dell'Incarnazione e l'uso ecclesiastico di immagini, soprattutto quelle raffiguranti Gesù stesso.

È per questo motivo che, nell'occasione della presente ostensione della Sindone, è stata allestita una mostra di dipinti, sculture e opere d'oreficeria alla reggia di Venaria Reale:  "Gesù. Il corpo, il volto nell'arte" (...) Al centro della mostra è la grande sezione intitolata "Un corpo dato per amore", che invita a scoprire l'identità di Cristo nel mistero della sua passione, morte e sepoltura. È la sezione più estesa, occupando più di un terzo dello spazio a disposizione 50 metri lineari delle monumentali scuderie juvarriane. È suddivisa in più parti, corrispondenti agli eventi portanti alla crocifissione; alla crocifissione stessa; e alla deposizione dalla croce, al compianto e alla sepoltura.

Corpo e volto insieme ora, drammaticamente eloquenti, rivelano la personalità dell'uomo che si offre:  nell'opera con cui la sezione apre, la Orazione nell'orto di Simone Peterzano, dove Gesù accetta di bere il calice della sofferenza; nel superbo Gesù incoronato di spine di Correggio; nello straordinario volto del Salvatore di Giorgione nel dipinto Gesù e il manigoldo; e nel dolcissimo Gesù portacroce del Garofalo, che sembra chiedere la nostra comprensione, compartecipazione, compassione. È collocata in questa sezione la celebre Narratio passionis di Hans Memling, prestata dalla Sabauda.

Al centro del percorso espositivo una foresta di croci e crocifissi grandi e piccoli invita a capire l'impatto del corpo di Gesù dato per amore sull'idea della persona che l'arte occidentale ha articolata - un'idea non solo di fragilità e vulnerabilità, ma anche di dignità, di libertà, di donatività. Nell'Europa che oggi contesta questo segno, crocifissi romanici e gotici francesi, tedeschi, italiani e catalani; crocifissi rinascimentali di Donatello e di Antonello Gaggini, e la monumentale croce d'argento di Antonio Pollaiuolo del Battistero di Firenze; raffinati corpora Christi manieristici di Guglielmo della Porta e di Giambologna. E all'epicentro assoluto, oltre questa "foresta", il crocifisso che Michelangelo Buonarroti realizzò per la basilica di Santo Spirito a Firenze, allestito com'era in origine su un altare, in una luce che evoca quella diurna della chiesa brunelleschiana. Delle sedute ai piedi di questo altare permettono al visitatore di fermarsi, di raccogliersi, e di contemplare l'opera "di sott'insù" - dall'angolazione cioè che Michelangelo doveva aver in mente quando scolpì questa figura per la comunità agostiniana che si radunava nel coro intorno all'altar maggiore della loro chiesa. Le splendide fotografie realizzate per l'occasione da Aurelio Amendola colgono l'interesse dell'opera, al contempo spirituale e sensuale:  non l'austero Christus patiens del Medioevo, ma un giovane dal corpo efebico in cui albeggia già la Pasqua.

Secondo i vangeli, Gesù non rimase infatti prigioniero della morte ma, liberandosi della sindone, risuscitò il mattino di Pasqua. La mostra prosegue quindi con la sezione "Il corpo risorto", introdotta da una grande tela di Rubens in cui, seduto sulla tomba e ancora avvolto nella sindone, vediamo un Gesù dalla corporatura iperbolica, immaginato come "trionfatore", vincitore di una battaglia epica. Mors et vita duello, conflixere mirando.

Alcuni dipinti in questa sezione esplorano le sue relazioni dopo la risurrezione con i discepoli:  il rapporto particolare con Maria Maddalena, per esempio, che emerge nel lussureggiante Noli me tangere di Federigo Barocci, dove la prossimità dei due corpi allude a una sponsalità trasfigurata in senso pasquale. Altre opere suggeriscono la salita del Risorto al Padre:  raffigurazioni della Santissima Trinità in cui il corpo risorto di Gesù appare sovrapposto all'Eterno, come per illustrare la sua affermazione:  "Chi ha visto me, ha visto il Padre". In un dipinto eseguito da Lorenzo Lotto, Gesù risorto ascende verso un Padre invisibile, la cui sagoma appare larvata dietro a lui; e mentre le mani del Padre sono alzate, come per accogliere il Figlio che sale, quelle di Gesù, con le ferite ben visibili, sono stese verso la terra rinnovata dal suo sangue; e in una piccola tavola del maestro trecentesco Nicoletto Semitecolo, il senso spirituale del sacrificio corporeo di Gesù emerge dal fatto che l'artista lo fa vedere vivo e con gli occhi aperti, crocifisso non al patibolo di egno, ma direttamente alle mani del Padre.

Le ultime due sezioni della mostra, "Il corpo mistico" e "Il corpo sacramentale", offrono le chiavi ermeneutiche di tutto il resto. Illustrano il concetto corporeo che la comunità credente ha di se stessa - la nostra convinzione di essere "corpo" di Gesù; e suggeriscono lo strumento mediante il quale tale collettiva "identità corporea" viene plasmata, nutrita, irrobustita nei secoli:  il sacramento eucaristico per la cui celebrazione la maggior parte delle opere in mostra sono state realizzate. L'asserto di una mistica identità corporea con Gesù viene tradotta in immagine anche in modo piuttosto fisico, come suggerisce l'opera che introduce nella sezione sei, la Mater misericordiae da Gradara, dove la Vergine incinta - con Gesù ben visibile nel suo grembo - accoglie sotto il manto esteso un gruppo di donne e uomini in preghiera. Maria, figura della Chiesa, viene presentata cioè come madre di Gesù e madre di quanti credono in lui:  dal suo corpo nasce sia il corpo fisico del figlio, sia quello mistico comunitario.

A questa "comunione" dei santi con Gesù alludono molte formule iconografiche cristiane:  l'assemblea dei beati intorno al trono di Cristo in cielo; il martirio di un santo raffigurato sopra l'altare eucaristico; immagini di santi che, mentre contemplano Gesù crocifisso, fanno penitenza corporea; raffigurazioni di mistica comunione, come la visione in cui san Bernardo di Chiaravalle viene invitato a bere dal costato del Crocifisso; e reliquiari antropomorfi contenenti parti di corpi dei santi, tipicamente collocati in prossimità ad altari eucaristici.

L'ultima sezione della mostra esplicita queste idee con immagini che collegano la fede eucaristica di santi e di credenti comuni al corpo di Gesù. L'opera introduttiva, una pala di Moretto da Brescia in cui i santi Bartolomeo e Rocco, contemplando l'Eucaristia sull'altare, vedono in cielo il corpo fisico di Gesù, illustra la chiarezza ma anche la complessità del tema. Vista dai fedeli durante la messa celebrata davanti a essa, l'immagine invitava ad associarsi all'identificazione dei martiri e santi sofferenti con il Cristo sofferente e risorto, del cui corpo sono "membra" quanti ne mangiano nel pane eucaristico. Tra le altre pale d'altare esposte qui vi è quella di Charles Dauphin prestata da questa vostra cattedrale, La mistica comunione di sant'Ireneo, in cui è lo stesso Salvatore risorto a dare al santo il pane della vita eterna.

L'uso di immagini sacre e di splendide suppellettili nel contesto della liturgia è servito nei secoli a manifestare il particolare rapporto che, grazie all'Incarnazione di Cristo, sussiste tra "segno" e "realtà" all'interno dell'economia sacramentale della Chiesa - un rapporto la cui dinamica è conosciuta non solo dai dotti ma anche dai semplici. Tale rapporto, invero, traspare in tutto che l'uomo associa al culto divino:  dai vasi sacri e tessuti alle più monumentali costruzioni architettoniche. L'uso delle "cose" nella liturgia della Chiesa rivela e attualizza la vocazione del mondo infraumano, chiamato insieme all'uomo e per mezzo dell'uomo a rendere gloria a Dio.

Per un processo misterioso e nel contempo semplice, questa "rivelazione" diventa poi parte della fede vissuta, specialmente nell'ambito del culto eucaristico:  trovando Dio presente nella materia, il credente è portato a cogliere la nuova dignità di ogni cosa materiale, diventata ormai - almeno tendenzialmente - "ostensorio", come ogni "vedere" umano è ormai chiamato a farsi adorante contemplazione del Salvatore crocifisso e risorto.

Tuttavia il soggetto dell'esperienza estetica, come dell'esperienza cultuale, rimane l'uomo:  è a lui e alla sua corporeità che parlano i colori e le forme, il fruscio della seta, lo scintillio dell'oro, lo spazio "mistico" o "razionale" dell'architettura sacra. L'arte che fa vedere Cristo, insieme a veri "specchi del suo Vangelo" quale la Sindone, invitano a contemplare Cristo che prende forma in noi, speranza di gloria, bellezza di vita eterna. "Adesso [lo] vediamo in modo confuso, come [appunto] in uno specchio; allora invece [- nel regno dove ci ha preceduti e dove ci attende - lo] vedremo faccia a faccia" (1 Corinzi, 13, 12).

E in lui visto e conosciuto e amato comprenderemo finalmente che il senso della nostra vita anche corporea, della nostra carne, degli affetti, dei ricordi, e del sangue, suo e nostro, di ogni persona umana tradita, sacrificata, uccisa. Il poco sangue della Sindone (di Gesù? O di un altro crocifisso?) si rivelerà allora un oceano, un "Mare rosso" attraverso cui Cristo ci conduce alla terra promessa, come in uno straordinario dipinto mistico di Guillaume Courtois nell'ultima sezione della mostra. In quest'opera il Salvatore, come un nuovo Mosè stende sul peccato umano non un bastone, ma il legno della croce, che apre nel mare della nostra sofferenza una strada verso il Padre; offrendosi, diventa egli stesso "via", e a raccogliere il suo sangue è la Madre, la Chiesa figurata in Maria, colei da cui Cristo prese il corpo offerto, il sangue versato - la Chiesa che, durante il loro esodo, nutre i figli con il Corpo e il Sangue del Figlio di Dio.



(©L'Osservatore Romano - 26-27 aprile 2010)

Caterina63
00mercoledì 5 giugno 2013 12:59

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LE IMMAGINI SACRE E IL MAGISTERO DELLA CHIESA

 
 
 
 
Un lontano concilio, il Concilio di Nicea II nel 787, ha definito la correttezza dell’uso delle immagini in Chiesa, ponendo autorevolmente fine alle tentazioni iconoclaste.

Eppure nella nostra contemporaneità, dominata dall’uso ossessivo di ciò che si vede, le chiese vengono sovente progettate e realizzate con un atteggiamento che se osservato più da vicino, appare nuovamente iconoclasta: le pareti sono nude, non ci sono immagini, tutt'al più elementi simbolici stilizzati, che applicano linguaggi mutuati da esperienze artistiche lontane dal cristianesimo, se non addirittura avverse ad esso.

Occorre allora ripercorrere l’antica strada della legittimazione delle immagini.





Partiamo proprio dal Concilio di Nicea II, analizzandone le precise indicazioni: «noi definiamo con ogni rigore e cura che, a somiglianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie».

Le immagini sacre vengono poste sullo stesso piano della raffigurazione della croce, e a somiglianza della croce devono essere esposte in ogni luogo: nel contesto della liturgia, nei luoghi sacri, ma anche nella vita quotidiana, nei luoghi privati quali le case, e nei luoghi pubblici quali le vie. L’universalità del messaggio cristiano indica la misura dei luoghi in cui esporre le immagini, ovvero tutti i luoghi.

Le immagini sacre devono inoltre essere presenti negli arredi sacri ed anche sui paramenti. Non viene precisata la tecnica, infatti le immagini possono essere dipinte, a mosaico, o in qualsiasi altra tecnica opportuna, ma viene precisato il soggetto: «siano esse l’immagine del signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell’Immacolata Signora nostra, la Santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti». Dunque si tratta chiaramente di immagini che rappresentino prioritariamente Gesù Cristo, la cui incarnazione è il principio fondante dell’arte sacra figurativa, ed anche la Madre del Signore, gli angeli, i santi ed i giusti, ovvero tutta il corpo della Chiesa, il suo mistero e la sua storia.

Il Concilio precisa poi i motivi e le finalità delle immagini sacre: «Infatti, quanto più prudentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei modelli originali e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione». La contemplazione delle immagini induce al ricordo e al desiderio dei soggetti rappresentati; si tratta dunque di una dinamica conoscitiva e affettiva, che parte dall’immagine rappresentata ma termina nel soggetto reale; è analoga, potremmo dire, alla funzione che hanno le fotografie dei nostri cari, che ci ricordano le persone amate. Tenere vivo il ricordo e il desiderio costituisce un importante cura della propria fede, la coltivazione della propria vita spirituale.

Si tratta di un rapporto non idolatrico, perché il termine dell’adorazione non è appunto l’immagine, ma il soggetto rappresentato. Infatti, il Concilio ha cura di prevenire e di arginare gli eccessi che erano stati presenti nell’Oriente cristiano, e che avevano anche indotto, per contrasto, la reazione iconoclasta. «Non si tratta, certo, di una vera adorazione (latria), riservata dalla nostra fede solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli antichi. L’onore reso all’immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto.»

Si tratta dunque di un onore reso alla realtà e non alla rappresentazione, ma tramite il culto reso all’immagine si alimenta e si esprime l’adorazione verso Dio, l’unico degno di essere adorato. Notiamo che il corretto parametro del culto dell’immagine è costituito dal culto della croce, preziosa e vivificante, e posto in analogia al culto che si dà al Vangelo, che ovviamente non significa adorazione del libro ma della Parola di Dio.

Il Concilio sottolinea che il culto delle immagini fa parte della tradizione della Chiesa: «Così si rafforza l’insegnamento dei nostri santi padri, ossia la tradizione della chiesa universale, che ha ricevuto il Vangelo da un confine all’altro della terra. Così diventiamo seguaci di Paolo, che ha parlato in Cristo, del divino collegio apostolico, e dei santi dei padri, tenendo fede alle tradizioni che abbiamo ricevuto. Così possiamo cantare alla chiesa gli inni trionfali alla maniera del profeta: “Rallegrati, figlia di Sion, esulta figlia di Gerusalemme; godi e gioisci, con tutto il cuore; il Signore ha tolto di mezzo a te le iniquità dei tuoi avversari, sei stata liberata dalle mani dei tuoi nemici. Dio, il tuo re, è in mezzo a te; non sarai più oppressa dal male». Il culto delle immagini si legittima nell’insegnamento apostolico, nella tradizione della Chiesa universale. Non solo ma viene poi precisato che «ciò che è stato affidato alla chiesa» è «il vangelo, la raffigurazione della croce, immagini dipinte o le sante reliquie dei martiri»; dunque le immagini dipinte fanno parte del deposito della Fede, di ciò che è stato “affidato” alla Chiesa, sfuggendo dunque all’arbitrio degli uomini: nessuno può decidere che si può fare a meno del culto delle immagini. 

La tradizione del culto delle immagini è ininterrotta nella Chiesa cattolica che anzi trova in questa pratica un segno di distinzione dalle tendenze iconoclaste proprie di molte correnti protestanti. Il Concilio Vaticano II si pone in continuità con la tradizione e nella Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium afferma: «Si mantenga l’uso di esporre nelle chiese alla venerazione dei fedeli le immagini sacre». Analogamente al Concilio di Nicea, precisa che la devozione deve essere corretta, e soprattutto che il sentimento da suscitare non è l’ammirazione verso l’immagine, ma la venerazione dei soggetti rappresentati: «si impongano in numero moderato e nell’ordine dovuto per non destare ammirazione nei fedeli e per non indulgere a una devozione non del tutto corretta».

Forse una delle riflessioni più chiare e profonde sull’uso delle immagini sacre, è fornita dalla introduzione al Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (20 marzo 2005): «Esse [le immagini] provengono dal ricchissimo patrimonio dell'iconografia cristiana. Dalla secolare tradizione conciliare apprendiamo che anche l'immagine è predicazione evangelica. Gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza.
È un indizio questo, di come oggi più che mai, nella civiltà dell'immagine, l'immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico» ( n. 5, corsivi aggiunti).

L’immagine nei secoli è riuscita a trasmettere i fatti salienti del mistero della salvezza, e tanto più oggi, nella civiltà dell’immagine, deve saper recuperare la propria fondamentale importanza, in quanto l’immagine esprime più delle stesse parole, in un dinamismo di comunicazione e trasmissione della Buona Novella.


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