"La perfezione suprema per il buddismo è "uccidere il desiderio".

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Caterina63
00lunedì 22 marzo 2010 19:47
Un motore chiamato: DESIDERIO (da Civiltà Cattolica) da meditare!!






Porsi degli obiettivi da soddisfare costituisce uno degli elementi fondamentali della vita spirituale

Un motore chiamato desiderio


 

Pubblichiamo stralci di un articolo appena uscito sull'ultimo numero della rivista dei gesuiti "La Civiltà Cattolica".

di Giovanni Cucci


Parlare di "desiderio" a proposito della vita spirituale potrebbe suscitare disagio, ritenendo che lasciare libero corso a esso condurrebbe a una vita senza freni e schiava degli impulsi, disattendendo i valori scelti. Il desiderio potrebbe anche rievocare le sofferenze più forti ricevute nella vita:  un affetto non corrisposto, un'amicizia tradita, un bel gesto incompreso, una serie di situazioni in cui l'apertura di sé e l'espressione di ciò che si aveva di più caro ha comportato ferite profonde. Da qui la tentazione di concludere che una vita senza desideri sarebbe più tranquilla, ordinata e stabile.

Il desiderio non può essere cancellato così facilmente. Desideri e affetti, nel loro binomio inseparabile, costituiscono l'elemento basilare della vita psichica, intellettuale e spirituale, sono la sorgente di ogni attività; pur apparendo talvolta un insieme caotico e complicato, essi rimandano a realtà fondamentali e necessarie, che danno sapore alla vita, perché la rendono interessante, "gustosa". San Tommaso associa con acume il desiderio allo stesso atto della vista, un'operazione essenzialmente selettiva, che si sofferma su ciò che cattura il cuore.

Il desiderio occupa inoltre un posto fondamentale nella stessa rivelazione biblica, a differenza di altre tradizioni religiose, al punto da costituire un elemento specifico della relazione con Dio:  "La perfezione suprema per il buddismo è "uccidere il desiderio". Gli uomini della Bibbia, anche i più vicini a Dio, quanto appaiono lontani da questo sogno! Al contrario, la Bibbia è piena del tumulto e del conflitto di tutte le forme del desiderio. Certo, è ben lontana dall'approvarle tutte (...), ma in tal modo prendono tutta la loro forza e danno tutto il suo valore all'esistenza dell'uomo".

D'altra parte, tutte queste precauzioni e timori mostrano per contrasto la potenza e il ruolo del desiderio nella vita. Esso è veramente in grado di accendere tutto l'essere, dando gusto, forza, coraggio e speranza di fronte a decisioni e difficoltà.

Come osserva R. May:  "Il desiderio porta calore, contenuto, immaginazione, gioco infantile, freschezza e ricchezza alla volontà. La volontà dà l'auto-direzione, la maturità del desiderio. La volontà tutela il desiderio permettendogli di continuare senza correre rischi eccessivi. Ma senza desiderio, la volontà perde la sua linfa vitale, la sua vitalità e tende a estinguersi nell'autocontraddizione".

Spesso è proprio la mancanza del desiderio a costituire lo spartiacque tra un progetto riuscito, coerente e duraturo, e le mille velleità e buoni propositi. Il desiderio infatti, parafrasando lo psicologo Kubie, consente di attuare l'unico tipo di trasformazione duraturo, cioè "cambiare nella capacità di cambiare":  ciò consente di riportare ordine nel disordine.

Quando il desiderio è vero, autentico, conduce a operare una radicale ristrutturazione, a "mettere ordine nella propria vita", come direbbe sant'Ignazio, giungendo ad essere un uomo capace di gustare e godere di essa, in altre parole di essere contento.

Ma che cosa si intende con il termine "desiderio"? E come è possibile riconoscerne la possibile autenticità e profondità?

In ambito psicologico si distingue anzitutto "desiderio" da "bisogno".
Il desiderio, a differenza del bisogno, ha una radice più sottile e complessa, legata alla storia, alla memoria, agli affetti dell'individuo:  esso ha anche a che fare con la fantasia e non è facilmente concretizzabile in un oggetto immediato, come avviene invece nel bisogno. Sarebbe dunque riduttivo identificare il desiderio col piacere o con l'appagamento sessuale; esso è piuttosto un elemento che attraversa tutti gli aspetti della vita, intellettuale, spirituale, relazionale, ludico. C'è un elemento di continuità nel desiderio che indica una direzione, un percorso, un senso al vivere, a differenza del bisogno che è puntuale, limitato, circoscritto e di breve durata.

Ma è possibile elaborare una "graduatoria" dei desideri per riconoscerne la validità e la verità? La gravità di questi interrogativi, irrinunciabili, mostra, oltre all'importanza di conoscere i propri desideri, anche l'aiuto efficace che può giungere da un percorso di vita spirituale. È infatti nella lettura e interpretazione del desiderio che il discorso psicologico incontra alcuni elementi fondamentali della vita spirituale, come l'ascesi e la rinuncia:  esse non sono da intendersi come nemiche del desiderio, ma come un percorso di verifica e maturazione di ciò che veramente vale, tralasciando quanto, pur attraente, toglie gusto alla vita, lasciando la persona in balìa del capriccio.

Presupposto indispensabile a questo lavoro è la fiducia che i desideri profondi troveranno un loro compimento e una loro realizzazione adeguata. Ciò implica una concezione della vita e del mondo all'insegna dell'ordine e del senso, per cui valga quindi la pena impegnarsi e faticare. Non a caso il desiderio è anche un simbolo potente per riconoscere la presenza di Dio nella propria vita; lo stesso Vangelo può essere presentato come una fondamentale educazione ai desideri.

Si pensi, per esempio, alla domanda iniziale di Gesù nel Vangelo di Giovanni:  "Che cercate?" (1, 38), una domanda che invita a fare chiarezza nel cuore prima della sequela.

Anche nel contesto proprio del miracolo, Gesù rimanda al desiderio; quando si trova di fronte al paralitico della piscina di Betzatà gli chiede anzitutto:  "Vuoi guarire?" (Giovanni, 5, 6).
Non è una domanda scontata, e infatti il malato non vi risponde, ma continua a parlare dei problemi che gli sono familiari, i problemi della giornata tipica del paralitico. "Guarire" significa fare i conti con la paura di perdere una situazione magari disagevole ma nota, per iniziare una vita nuova. Perché ci sia un cambiamento non basta dunque "stare male", essere esasperati:  occorre soprattutto il desiderio convinto di introdurre una novità nella propria vita, essendo disposti ad affrontarne il costo. Ponendo questo interrogativo, Gesù invita a riconoscere che cosa è importante desiderare nella vita, come guida per ogni passo ulteriore, di guarigione e di salvezza. Come conoscere dunque la possibile verità e profondità del proprio desiderio?

Un primo criterio di valutazione è la sua durata nel tempo. Il desiderio profondo non si spegne con il passare del tempo, ma anzi come il granello di senapa della parabola (cfr Marco, 4, 31 s) cresce sempre più. Le difficoltà e gli insuccessi solitamente non spengono il desiderio profondo, ma semmai lo rafforzano; è come quando si ha sete, se non si trova da bere, non per questo si rinuncia, anzi a un certo punto ciò finisce per occupare tutto il corso dei pensieri e dei progetti.

Questa caratteristica era stata ben riconosciuta dai Padri della Chiesa. San Gregorio Magno riscontra nei tentativi di Maria Maddalena di trovare il Signore al sepolcro la dinamica del desiderio spirituale, che cresce e si rafforza nonostante le difficoltà:  "Cercò dunque una prima volta, ma non trovò; perseverò nel cercare, e le fu dato di trovare. Avvenne così che i desideri col protrarsi crescessero, e crescendo raggiungessero l'oggetto delle ricerche. I santi desideri crescono col protrarsi. Se invece nell'attesa si affievoliscono è segno che non erano veri desideri".

Sant'Ignazio di Loyola compie la prima fondamentale esperienza di Dio ascoltando il proprio cuore e notando questa strana alternanza:  i desideri mondani vengono assimilati facilmente, ma non hanno durata e alla fine lasciano vuoti, con l'amaro in bocca. Il desiderio di Dio ("andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi") invece presenta inizialmente una certa resistenza, ma una volta accolto reca pace e serenità profonde, che durano nel tempo. Quando racconta quest'esperienza, erano trascorsi più di 30 anni, eppure il desiderio di Gerusalemme continuava a riempire e a infiammare il cuore di Ignazio.

In secondo luogo è importante notare se da un desiderio ne nascono altri, che diventano di aiuto e stimolo per attuare altre cose, altrettanto buone. È la "circolarità" propria dello spirito:  si nota, ad esempio, che intraprendere un'attività caritativa aiuta a vivere meglio altri momenti della giornata, come la preghiera, lo studio, le relazioni. È un'altra maniera di notare come il desiderio cresce con il tempo, pacificando e rasserenando. Per poter compiere ciò è tuttavia indispensabile fermarsi e mettere una certa distanza rispetto al vissuto interiore.

È come quando si vuole osservare nel suo insieme una città, una regione:  occorre guardarla da lontano. Per sant'Ignazio questo momento di stacco nei confronti del vissuto era dato dall'esame di coscienza, un invito a rivedere la propria giornata da un punto di vista particolare, notando, ad esempio, i desideri che l'hanno accompagnata. La rilettura della propria vita è uno dei gesti più sacri e importanti che si possano compiere, un gesto purtroppo spesso disatteso, o attuato troppo tardi, prima di morire. Poterlo compiere con calma e, come suggerisce Ignazio, in spirito di ringraziamento, aiuta non solo a riconoscere i desideri profondi, ma anche a purificarli, vivendo diversamente i propri fallimenti.

È importante comunque che questo confronto comprenda anche una persona esperta e istruita a proposito delle realtà spirituali. Tale persona dovrebbe essere soprattutto capace di ascolto:  spesso non è necessario dire molte cose, perché chi racconta, nel momento stesso in cui parla, vede dispiegarsi davanti a sé il vissuto, raggiungendo quello che Ricoeur chiama "la propria identità narrativa". Ci si conosce soltanto raccontandosi a un altro, in un contesto di gratuità accogliente, senza l'assillo del dovere o l'angoscia del giudizio. L'accompagnamento spirituale non è finalizzato a ottenere una risposta a buon mercato su di un problema immediato, ma è un lavoro lento, profondo e faticoso, di indubbio aiuto per la conoscenza di sé anche dal punto di vista umano.

Un frutto prezioso di questa lettura è anche di saper imparare dagli errori commessi, una caratteristica, questa, propria dei santi.
Come la scienza e la civiltà, anche la vita spirituale di ciascuno procede per tentativi ed errori; lo stesso peccato racchiude un insegnamento, e finché esso non viene colto, si rischia di restarne prigionieri. Quando invece si giunge a decifrare il valore simbolico di un desiderio che si presentava come "cattivo", esso stranamente perde il suo potere "magico", compulsivo verso il male, rivelando quel bene di cui si era da sempre alla ricerca, come avevano notato i maestri spirituali:  "Una volta che si è messo a nudo il desiderio fondamentale - che è sempre desiderio di un assoluto d'amore - (...) i mille piccoli desideri apparentemente cattivi che gli servivano da esca perdono il loro potere di fascinazione e non sono più provati come una "vertigine" quasi irresistibile o come "pericolosi", contrariamente a quanto sembravano essere prima".

Lungi dunque dall'essere preda del materialismo più sfrenato, il mondo dei desideri rimanda essenzialmente alla dimensione spirituale, trascendente, perché invita a uscire da se stessi, a elaborare un progetto, a scommettere su di esso, anche con sacrificio, portando a compimento quanto sta realmente a cuore, perché capace di dare senso, cioè significato e direzione, alla propria vita.


(©L'Osservatore Romano - 22-23 marzo 2010)
Caterina63
00domenica 19 agosto 2012 21:55

IL LIBRO "CONTRO IL BUDDISMO" GETTA UNA LUCE INEDITA SU DOTTRINE E PRATICHE DELLA RELIGIONE CHE STA CONQUISTANDO L'OCCIDENTE

Pontifex.RomaRovina, massacro, distruzione, terrorismo, stregonerie, stupri, sacrifici umani. E poi la geopolitica del XXI secolo, i divi di Hollywood, la bomba atomica asiatica. Cosa unisce tra loro questi elementi apparentemente sconnessi?

La risposta che offre Contro il buddismo, appena uscito per i tipi di Fede & Cultura, è inedita e sconcertante: è proprio la religione di Budda, una cultura in larghissima parte sconosciuta agli occidentali nelle sue pieghe e nelle sue diverse scuole, eppure protagonista proprio in Occidente di un’esplosione di popolarità. Ma, è una delle tesi del libro, divenuto popolare in virtù dei suoi aspetti più superficiali ed erroneamente attrattivi, e anche a causa dell’ambiguità dei suoi fondamenti. Questo saggio si propone di raccontare il lato oscuro di questa dottrina, indagarne la radice filosofico-spirituale improntata a un radicale nichilismo e documentarne le innumerevoli zone d’ombra.

Un libro senza precedenti, che mina dal profondo ...

... il mito di una “religione pacifica e innocente”.

Come recita la quarta di copertina di Contro il buddismo, «Vi si narrano fatti oscuri e raccapriccianti, ignoti al grande pubblico sempre più abituato a pensare al buddismo come alla religione della pace e del bene. Testi del buddismo tibetano che teorizzano lo stupro e la pedofilia; la figura controversa del Dalai Lama e i suoi progetti di buddistizzazione del pianeta; i massacri in Sri Lanka ad opera di un esercito buddista; gli attentati al gas nervino ed i piani di annientamento globale del santone giapponese Shoko Asahara; l’interminabile martirio nei secoli dei cattolici in Oriente; i calcoli propagandistici dei bonzi vietnamiti che contribuirono all’escalation della guerra in Vietnam; i corposi scambi tra il buddismo e l’estrema destra europea; le persecuzioni dei cristiani in Tibet; la controversa conversione al buddismo dei divi di Hollywood; la geopolitica mondiale che passa attraverso le decisioni di “oracoli” posseduti dagli spiriti...».

Ma oltre alle cronache, odierne e antiche, è la radice filosofica su cui si basa l’intera dottrina buddista a occupare capitoli di centrale importanza nell’analisi: e in particolare la sua natura radicalmente nichilista, che predica l’estinzione dei sentimenti e conseguentemente dell’umanità della persona, arrivando così a indicare come traguardo la distruzione dello stesso concetto di individuo su cui viceversa si fondano la cultura e la civiltà dell’Occidente.

Puntuale e documentato attraverso un fitto ricorso a fonti internazionali, è un libro che indaga fatti mai presentati in modo sistematico al pubblico italiano: prezioso anche per comprendere l’ora presente, in cui l’Asia proietta la sua ombra sul mondo intero, e nuovi demoni si agitano sulla scena della Storia.

Roberto Dal Bosco (Vicenza 1978) vive e lavora a Milano. Si occupa di audiovisivi. Giornalista pubblicista, ha collaborato con Vogue, L’Uomo Vogue, Anna, Zero. Si interessa da anni ai luoghi e alle culture dell’Asia.

Scheda del libro

Titolo: Contro il buddismo
Sottotitolo: Il volto oscuro di una dottrina arcana

Autore: Roberto dal Bosco
Editore: Fede & Cultura

Collana: Saggistica 54
Pagine: 160
Dimensioni: 21x15
Tipo di copertina: brossura
ISBN: 978-88-6409-135-8
Prezzo: 15 €




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Caterina63
00lunedì 20 agosto 2012 21:39

Intervista all’autore di “Contro il buddismo”



Roberto Dal Bosco, Lei ha scritto un libro sul buddismo e sull’oriente. Come è nato l’interesse per questi temi?

Sono interessi che coltivo da sempre, perché sono sempre stato affascinato dalle religioni e le credenze. La mia tesi di laurea fu sui rapporti tra la mitologia e la struttura narrativa dei film… Poi, quando cominciai a viaggiare, l’interesse si acuì. Tanti popoli, tanti costumi, tante tradizioni, tante storie, tanti pensieri… impossibile cercare di trovare delle categorie per spiegarsi una terra e il suo popolo senza passare per lo spazio più profondo, quello dove gli uomini si domandano e si rispondono sulle cose più importanti: la religione. Capii presto che è vero quello che scrive Arnold Toynbee in “Civiltà al Paragone”: un uomo del futuro che guardasse alla storia, troverebbe risibili quelle spiegazioni storiografiche – come il materialismo marxista, dico io – che non vedono la religione come chiave principale della Storia. E questo è vero da moltissimi punti di vista. Punto primo, perché i popoli si muovono a seconda del loro cuore profondo, dove c’è, come dicevamo prima, la religione – «Blood is thicker than water» mi hanno ripetuto spesso in India, quando notavo che da qualche moschea locale i musulmani indiani al termine di un derby infernale di cricket tra India e Pakistan (un avvenimento per cui l’intero paese si blocca…) tirano timidamente (capita, non sempre) qualche petardo se a vincere è la squadra di Islamabad: il Pakistan è musulmano interamente, l’India solo al 15%. Qualcuno di questi sente il suo sangue ribollire ad una vittoria dei fratelli sia pur di un paese verso cui sono puntati i propri missili atomici…
Punto secondo, la religione è importante perché, da fedele, ritengo che sia la mano divina a guidare la Storia. E questo è vero soprattutto se si guarda alla storia di Fatima, (una profezia che a suo modo riguardando la Russia riguarda direttamente l’Asia),
al tricolore russo che va a sostituire la bandiera rossa il giorno del nostro Natale… Quella cristiana, è per antonomasia, la religione in cui Dio interviene nella storia, la guida, la corregge.
Sull’interesse per il buddismo in particolare – che non è mai stato il mio interesse principale – posso menzionare un sogno che feci da adolescente: sognai un treno che viaggiava attraverso il deserto diretto verso l’Himalaya, ai bordi della ferrovia vedevo migliaia di cadaveri di soldati cinesi. Il treno aumentava la velocità, sino a fare volare la mia vista sopra le montagne, dove ai bordi di un dirupo un monaco sorrideva guardando il sole. Da allora cominciai a interessarmi della questione del Tibet. Negli anni mi ritrovai a ridefinire la mia posizione sul Tibet in particolare e sul buddismo in generale sino alle prospettive che ho descritto nel libro.

Ci sei stato in oriente?

Sì, molte volte. E non appena ho l’occasione, ci ritorno. Ho studiato un po’ le lingue orientali, ne parlo pure qualcuna, ma tutte male. Ho viaggiato in vari paesi, senza essere uno di quei “turisti professionali” che stanno in viaggio anni e mettono una bandierina su tutti i paesi del globo terracqueo. Sono stato, oramai tanti anni fa, in India a fare il DJ e il VJ. Sono stato in Cina varie volte. Ho passato l’estate più bella della mia vita in Giappone. Sono stato in Xinjiang, la regione cinese turcofona ai confine con il Kazakhstan, nei giorni della più grave rivolta uigura dal dopoguerra. Ho percorso in moto la strada che attraversa l’Himalaya. Ho guidato per le montagne dell’Iran, per i deserti del Turkmenistan, nelle superstrade degli Emirati Arabi. Non dimentico le Russie, che sono tecnicamente parte dell’Asia, e che ritengo fondamentali per l’evoluzione geopolitica e spirituale dell’umanità. Ovunque, a qualsiasi latitudine, l’Asia mi ha dato delle sensazioni forti, stupende – in Asia sento come di avere una enorme libertà, e questa cosa non la so spiegare, è un sentimento che ho cercato di definire varie volte senza mai riuscirci, forse una versione di quello che chiamano “Mal d’Africa”, però per quest’altro continente. Posso dire che amo profondamente l’Asia. E sento, per quanto la cosa possa sembrare paradossale detta da uno che ha scritto un libro che si intitola “Contro il Buddismo”, che ne sono riamato.

Quali sono le differenze principali tra induismo e buddismo?

Per come ce l’hanno spiegato gli orientalisti, il buddismo nasce dall’induismo, in quanto il fondatore Gautama non poteva che provenire da una famiglia hindu. Alcuni hanno cercato di creare delle analogie tra Cristo e l’ebraismo e Budda e l’Induismo; altri invece sono tentati dall’idea che Budda sia il Lutero dell’Induismo (che invece in questo caso farebbe le veci della Chiesa Cattolica). L’Induismo ha un pantheon di divinità ben definito; il buddhismo riduce tutto al proprio cosmo interiore, quindi molti buddistiti diranno che nella loro religione non ci sono dei e spiriti, anche se negli scritti buddisti e la vita di Budda è piena di divinità. Entrambe le religioni sono moniste, considerano il bene e il male sullo stesso piano, così come i paganesimi europei prima di Cristo.
La cosa che trovo interessante è come il tra le due religioni vi siano stati nel corso dei millenni vari reciproci travasi. L’India era induista, poi divenne buddista a seguito delle conquiste – cruente – del Re Ashoka il grande, l’imperatore buddista che costruì più di 84.000 stupa (templi buddisti) in tutta l’Asia. Poi l’India, per dei motivi storici non ancora completamente chiariti dalla storiografia, tornò sorprendentemente induista. E ciò avvenne non senza portare in sé delle tracce evidenti della religione del Budda. Un industriale che produce sari (gli eleganti abiti femminili indiani), un uomo di casta bramina a cui però piaceva un po’ il whisky e la carne, mi spiegò un giorno qualcosa che non avevo mai letto in nessun testo di indologia: il principio della “civiltà dharmica” (lui la chiamava così). L’India segue placidamente il suo ciclo storico-cosmico, assorbe qualsiasi cosa e poi la rigetta, trattenendovi però le cose migliori. Dal buddismo, avrebbe trattenuto per esempio (in teoria) la “ahimsa” (non violenza) e il vegetarianesimo. Dalla dominazione musulmana dei moghul, avrebbe trattenuto l’organizzazione statale-territoriale. Dagli inglesi, avrebbe preso il sistema giudiziario, la lingua, l’idea di nazione, e pure qualcuna delle pochissime strutture che gli inglesi lasciano nelle terre colonizzate. In questo senso quindi, in India è ben visibile una impronta buddista, quasi quanto sono visibili le corti di giustizia inglesi in stile coloniale…
In occidente il buddismo pare avere più presa rispetto alle sette induiste, le quali però pure stanno raccogliendo numerosi adepti, specie grazie ai corsi di Yoga.
In India il livello di integrazione tra le due religioni è tale che la cosiddetta destra induista – quella che fomenta i continui pogrom contro cristiani e musulmani – vede il buddismo come un alleato, come una religione sorella: il credo di partiti hindu come il BJP o l’RSS è l’hindutva, “l’induità”. Tutto quello che nasce in India, è passibile di essere unito nella lotta contro le religioni “straniere”. Noto en passant che l’India fu uno dei primi paesi a conoscere il Vangelo, per merito dell’Apostolo Tommaso, martirizzato dai pagani e tuttora sepolto a Madras.

Nel tuo libro parli molto di tantrismo, di Tibet (ingiustamente occupato dai cinesi) e del Dalai Lama …

Il tantrismo rappresenta un punto di contatto, tra induismo e buddismo.
I tantra sono testi che trasmettono tecniche magiche createsi in India in ambienti shivaiti (ossia, gli adoratori del dio Shiva, che è anche dio della distruzione e protettore dei criminali) che agli occhi degli occidentali sanno di magia nera (sacrifici animali, magia sessuale, consumi di sostanze invereconde, sacrifici umani, stupri etc.) in molti casi anche perfettamente aderenti a precetti di sette gnostiche europee, come i frankisti, per esempio. Il tantrismo shivaita ha profondamente influenzato il buddismo tibetano, che è in massima parte tantrico – tanto che alcuni lo chiamano “tantrayana”, veicolo del tantra. Il buddismo del Dalai Lama è un buddismo tantrico. Su questa cosa, un po’ inopportuna diciamo, nessuno aveva mai sollevato un’obiezione, in quanto il Dalai Lama gode di questa aura di purezza assoluta, e mai si penserebbe che la religione che professa nel dettaglio contenga simili ripugnanti pratiche. È un effetto del restyling che gli hanno fatto ad Hollywood: invece che apparire con i classici paramenti del monarca del suo popolo – vestiti variopinti arzigogolati come nemmeno alla sfilate di alta moda di Parigi – ora se ne va in giro per il mondo scalzo, fasciato solo della immancabile tunica colorata. Ci vuole poco a capire come il modello che gli ha consigliato Hollywood sia in verità un modello nostrano: San Francesco. Eppure vi è ancora qualche foto che lo ritrae con i vestiti del superlusso clericale tibetano: in una in particolare, lo si vede mentre sorride a fianco di Mao Tse-tung (Vedi foto).

Il Dalai Lama con Mao Tse-tung.Notare gli abiti poco monastici del capo religioso (sorridentissimo, è  il primo da destra)

 

Ad un certo punto, proprio in seguito a queste esperienze, lei ha riscoperto la fede cattolica. Ci spiega come e quando?

È stato nel 2005, era uno dei primi giorni di dicembre. Mi trovavo a Calcutta. Ero lì per fare una serata da DJ-VJ. Sapevo che a Calcutta c’era il Kalighat, uno dei pochissimi grandi templi dedicati alla dea Kali. Un altro credo che sia nascosto tra le foreste del Nagaland, una terra turbolenta al confine con la Birmania. Gli indiani non amano dare pubblicità al culto della dea Nera. È la divinità preposta allo sterminio (come visibile dalla collana di teste mozzate di cui si avvinghia) e alla fine del mondo (questa ultima fase del ciclo cosmico è appunto chiamata Kali Yuga, l’era di Kali, l’era della corruzione e della bassezza, dove l’uomo non dice più il vero). È una dea il cui culto compare durante guerre, come ad esempio quella in Sri Lanka: si dice che le Tigri Tamil induiste preghino Kali. Conscio di tutte queste belle cose, volevo vedere il Kalighat, perché a mio modo, narcotizzato dal narcisismo turistico, mi definivo non un semplice turista ma un esploratore, un turista esoterico, “cratolatrico”: quel turismo che va in cerca di emozioni assistendo a culti e possessioni… molti lo fanno a Cuba con la Santeria o in Brasile con il Candomblé… il turismo cratolatrico, è pericoloso e indegno quanto il turismo sessuale.
Così, in un pomeriggio libero in attesa del mio volo che da Calcutta mi avrebbe riportato a Madras, andai al Kalighat. Venni accolto da un sacerdote hindu che mi fece fare il giro completo. Vidi lo sgozzatoio, dove quotidianamente si macellano dei capretti neri – topi e mosche banchettano ininterrottamente con le viscere dei sacrifici continui. Vidi la gente urlare all’ingresso della cripta dove è posta la statua della dea, che è l’effigie più spaventosa che abbia mai visto, anche perché per qualche motivo inspiegabile non assomiglia per nulla alla iconografia classica di Kali, è un monumento nero stilizzato, mai visto da nessun’altra parte. Feci il giro con sacerdote, lo seguii in tutto, mangiai i “biscotti sacri” che mi offrì, bevvi l’acqua “sacra”, mi feci legare un braccialetto al polso, legai io stesso un anello ad uno strano alberello dentro al tempio, recitai dei mantra a Kali in sanscrito, infine mi lasciai convincere persino a dargli dei soldi: ero un pollo, in tutto e per tutto. Uscii frustrato, e mi misi a cercare un taxi per l’aeroporto. Nella piazza principale c’era un capannello di persone che, come spesso accade in India, stava guardando qualcosa a terra, senza intervenire. Mi avvicinai. Era un cucciolo di cane gettato a terra con gli occhi sbarrati e la lingua di fuori. Non era ancora morto. Ogni tanto, il suo corpo era percorso da un tremito.
Fu allora che sentii quel suono.
Era un urlo, un latrato agghiacciante, come mai ne avevo sentiti. Mi voltai, e vidi quattro bambini, che al massimo avevano dieci anni, inseguire un cane randagio e bastonarlo. Ad ogni colpo che assestavano, il cane emetteva quel suono orrendo e indimenticabile.
La piazza cominciava ad interessarsi di questa scena. Molti ragazzi si fermavano e ridevano a crepapelle. Dei poliziotti pure stavano lì a ridere, disinteressati del turbamento dell’ordine pubblico che quella scena rappresentava. Il cane scappava, ma si capiva subito che era nato e cresciuto nel microcosmo di quella piccola, lurida piazza. Non scappava, semplicemente tentava di nascondersi, ma non troppo, quasi volesse chiedere perdono invece che fuggire lontano. Finiva sotto le bancarelle, e i ragazzi continuavano, tra urla e risate del pubblico, a bastonare il cane anche danneggiando le stesse bancarelle, incredibilmente senza che i negozianti avessero da ridire. Vidi persino la bambina di uno di questi negozianti, neanche 5 anni, appoggiata sopra un bancale, che con un ramo tentava di infilzare gli occhi del cane che se ne stava lì sotto in cerca di riparo.
Compresi che mi trovavo finalmente davanti a quello che cercavo: stavo vedendo Kali agire in tutta la sua crudeltà, in tutto il suo potere di contagio. Tutta la piazza era concentrata nell’uccisione di quel cane… a mio modo mi sentivo fortunato, riflettevo sul come in guerra, in Europa sotto la svastica o in Bosnia qualche anno fa, si debba sentire la medesima elettricità.
Comparve quindi una donna, molto elegante nel suo sari colorato, ma al contempo visibilmente “Paria”, appartenente alla casta degli intoccabili, i morti di fame che si assiepano attorno al tempio e che di Calcutta sono il trademark più evidente. La donna arrivò al capannello dove stava il cagnolino semi-vivo, lo prese e lo gettò con un unico gesto in un cumulo di spazzatura lì accanto. Si strofinò le mani, si diresse verso l’altro cane, che era sotto l’ennesimo bancale con i quattro bambini a cercare di colpirlo con il bastone. La donna prese un bastone, allontanò i bambini, e si mise a picchiare il cane con una violenza che mai avevo immaginato in una donna.
Ad ogni colpo, il cane lanciava dei latrati che non ho mai dimenticato. Stavo lì davanti ad osservare la scena, in teoria pago del fatto che avevo visto il mio piccolo evento preternaturale… e ora a giudicare dall’intensità colpi e dalle urla il cane stava per essere finalmente sacrificato.
Successe qualcosa che mi è difficile spiegare, perché il modo in cui mi comportai sorprese anche me. Successe di un tratto, senza che mi potessi rendere conto di cosa stavo facendo.
Partii, mi misi tra il cane e la signora che lo stava uccidendo. Lei fermò il bastone a mezz’aria, imprecando in bengalese.
“If you wanna beat someone, beat me” “Se vuoi picchiare qualcuno, picchia me”, le dissi. Non era una minaccia, lo dicevo veramente, come se sapessi che prendendomi quella bastonata forse avrei posto fine a tutto quel teatro di sofferenza. La piazza si ammutolì. Tutti stavano guardando la scena, il “sacerdote” che mi aveva fatto il tour nel tempio incluso. Un venditore delle bancarelle venne verso di me, ricordo ancora gli occhi lucidi – mi disse “dog will be hurt no more”, “il cane non sarà più ferito”. La gente aveva smesso di ridere. I poliziotti fecero sgombrare tutto, i bambini si dileguarono.
Tutto quella cosa tremenda che era montata, in un secondo era sparita.
Mi girai, vidi il Kalighat, e a fianco, il centro di Madre Teresa. Davanti a me c’erano i palazzi di una dea che sacrifica l’altro (il cane, il nemico, il prossimo tuo, quello che è) è di una santa che sacrificava se stessa per l’altro.
Era come se davanti a me improvvisamente avessi visto che c’erano due squadre. Non ho avuto mai più dubbi sulla squadra nella quale volevo giocare.
Ripeto: non sapevo quello che stavo facendo, è stato un gesto totalmente incosciente, la ragione non c’entrava nulla, non avevo pensato. Un qualcosa mi aveva trascinato lì, a difendere il cane – e bada, io non sono animalista, anzi.
Sono stato fortunato, a poche persone che conosco è stata data una rappresentazione così plastica, così evidente della lotta tra il Bene e il Male.
Io ho scelto, per sempre.


Kali, la dea della distruzione

 

La statua di Kali dentro al Kalighat di Calcutta

 

 

 

 

In oriente hai mai assistito a riti magici, possessioni, etc?

Ho visto molti riti, ma è inutile dire che soprattutto da quando sono tornato alla Chiesa ho cercato di tenermene lontano. Ho visto le persone urlare e dimenarsi davanti alla cripta di Kali, come ho raccontato.
Ho la mia buona dose di storie strambe, coincidenze, cose paurose, da raccontare… su alcune non ho ancora in verità davvero riflettuto a fondo. C’è per esempio una volta in cui in India, nell’ora della morte di un personaggio religioso locale cui era legato un amico, caddi senza ragione dalla moto ferma, rischiando di essere trafitto da una cancellata molto bassa… ci sono tanti racconti, ma temo sempre di finire in quel narcisismo spirituale di cui parlavo prima, e del quale gli appassionati di Oriente sono in genere inebriati («Quella volta che ero… capitò incredibilmente che…etc.»).
Posso dire con mio grande rammarico, di non aver mai visto una cerimonia oracolare Tibetana. La politica Tibetana è tuttora decisa dagli oracoli, che sono né più e né meno dei posseduti. Le decisioni del Dalai Lama sono prese solo dopo aver consultato questi indemoniati: e sono decisioni anche importanti, a quanto si dice, come scappare dal Tibet o mettere al bando e perseguitare i seguaci del demone Shugden, che a sua volta era un demonio oracolare di cui prima si fidava. Digitando su Youtube “Tibet” e “Oracle” compaiono video che mostrano quanto dico; anche il “cattolico” Scorsese nell’agiografia del Dalai Lama “Kundun” mostra questo rito orripilante. Laddove i cattolici chiamano gli esorcisti, i buddisti invece fanno festa: parlano con l’Inferno, se ne fanno guidare…
Sono cose che mi è capitato di incrociare anche in Africa, dove vive mia sorella. In Africa è abbastanza comune che a messa una serie di persone diano segni di possessione.
Detto questo, le possessioni più incredibili che ho visto, le ho viste in Italia. Mi è capitato di partecipare alle messe di Milingo quando era in comunione con Roma. Altri casi di possessione li ho visti, come tantissimi credo, agli incontri dei carismatici
Ho vissuto per un periodo in Spagna a casa di un sacerdote esorcista, che mi raccontò di un esorcismo che gli capitò improvvisamente di fare non lontano da Firenze. Una storia che, oltre che raccapricciante nei dettagli, è particolarmente interessante perché mostra che l’Inferno ha una sua lucidissima intelligenza, anzi una “intelligence”. La ragazza indemoniata sarebbe arrivata in qualche modo vicina ad un prelato, in quanto ne avrebbe sposato il segretario… mi disse il sacerdote che il demonio ammise che era stata la madre della ragazza a consacrarla a Satana quando era ancora una bambina. Sette e massoneria in Toscana sono fortissime, lo sapevo, ma una storia del genere mi ha lasciato interdetto – una vera e propria forma di infiltrazione della gerarchia ecclesiastica. Una operazione di intelligence militare, in tutto e per tutto. La storia è scritta anche in un libro edito da Edizioni Ancora. Crederci è difficile, lo so bene, ma tanti testimoni me la hanno confermata.

 

Un “oracolo” tibetano posseduto parla con i Lama che registrano attentamente quanto dice.

Nella foto, un “oracolo” posseduto dallo spirito

 

Quale è il rapporto dei tibetani con il regno degli spiriti?

Molti ritengono che il buddismo tibetano abbia solo rivestito il sostrato pagano che vi era prima.
Di fatto, quando colui che convertì il paese al buddismo non scacciò i demoni, al modo in cui fa Gesù e fanno tuttora i nostri esorcisti: li sottomise, li come usano suggerire i libri di magia nera europea.
Srinmo, la grande dea del Tibet, è stata come ingabbiata dai templi – ogni tempio è un chiodo che ne trattiene la forza. Un’immagine certo affascinante, anche quando pensiamo al valore spirituale delle nostre chiese.
Di fatto i demòni hanno una certa libertà di movimento in Tibet, tanto che per i sentieri del Tibet remoto è costume mostrare la lingua quando ci si saluta, perché mostrando che non la si ha verde si prova che si è umani e non spiriti malvagi. Alcuni hanno una valenza prettamente politica essendo degli spiriti protettivi (chiamati dharmapala); c’è poi il demone della protezione nazionale (Mahakala), il demone che protegge la setta dei Gelugpa (Palden Lahmo, una demonessa che cavalca fra le fiamme sopra un mare di sangue che bolle; i Gelugpa sono la setta del Dalai Lama, il quale originariamente si chiama pure Lhamo); c’è lo spirito che protegge il sacro palazzo del Potala a Lhasa, c’è Shugden, detto anche Dolgyal, che è lo spirito di un monaco ucciso dal V Dalai Lama quattrocento anni fa, che adesso è in guerra con gli altri spiriti e con il Dalai Lama, una guerra che produce in Europa picchetti di protesta dei suoi seguaci contro le visite del Dalai Lama mentre in India produce discriminazioni e veri e propri assassinii rituali… Di fatto comunque, in un paese retto dal buddismo lamaista, i demòni sono al potere.

 


Nella foto: Palden Lhamo, demonessa protettrice del Dalai Lama

 

Leggendo la vita di Madre Teresa si scopre che la misericordia buddista è solo un nome. Gli ospedali, in oriente, li hanno portati i missionari cristiani.
Esiste un concetto di carità verso il prossimo in oriente?

Posso dire, dal mio limitato punto di vista, che il concetto di carità e di amore in Asia è totalmente diverso dal nostro. In Asia, per lo meno questo è quello che percepisco io, ognuno è un po’ a sé, anche se ognuno è parte di una immane massa brulicante che si riversa ogni giorno nello spazio e nella vita.
C’è per esempio la storia della parola “amore”, in Giappone. In giapponese si dice “ai”, ma è una acquisizione relativamente recente. Nei film e nelle canzoni ora la parola è sempre presente, ma qualche giapponese mi ha confermato che non è molto in uso dirsi “ti amo” neanche fra innamorati, si preferisce una perifrasi che tradotta in italiano suonerebbe più come “mi piaci tanto”, “mi fai impazzire”. Qualcuno ha anzi azzardato che la fortuna della parola “ai”, amore, è cominciata quando è stata adottata, e ripetuta all’infinito, dai vari missionari cristiani giunti in Giappone tra il sedicesimo e diciasettesimo secolo, molti dei quali finiti martiri. Non c’era infatti una parola che definisse bene l’amore filiale, l’amore materno, l’amore fra prossimi… “ai” fu un ripiegamento.
Con questo non voglio dire in nessun modo che le persone sono senza cuore… ogni essere umano sente in qualche modo il bisogno di aiutare il prossimo, e in Asia tante volte mi hanno offerto gentilezze che in Europa non ho ricevuto mai. Così come la vita interiore dei Giapponesi è in realtà mediamente molto più ricca e profonda di quella degli occidentali. Detto questo, se la tua religione non prevede l’aiuto del prossimo come precetto, be’ la situazione si complica. Quando ci fu lo tsunami, i missionari cristiani erano in prima linea negli aiuti, lo stesso non credo si possa dire dei buddisti.
Possiamo parlare di “legge del non intervento”. Prendo in prestito questa formula da una fonte profana, diciamo così. La scrittrice belga, ma cresciuta in Giappone, Amélie Nothomb. In “Metafisica dei tubi”, una bizzara autobiografia dei suoi primissimi anni di vita a Kobe, racconta di un episodio in cui infante e totalmente incapace di nuotare finì dentro una vasca di pesci in giardino. Una delle domestiche, che era in realtà una donna d’alto lignaggio costretta dalle sfortune familiari del dopoguerra a lavorare come fantesca, guardava la scena senza muovere un dito. È in questa pagina che la scrittrice parla della “regola asiatica del non intervento”. Il tuo male è il tuo karma, te lo sei meritato, lo devi esperire interamente tu, al massimo il budda può darti qualche consiglio… siamo millenni lontani dalla bontà materiale del cristianesimo, dall’atto stesso di Dio che si sacrifica con la carne e il sangue per i suoi figli…

Grazie Roberto, per il tuo libro, coraggioso, frizzante, imperdibile…

http://www.fedecultura.com/dettagli_libro.php?id=310



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