"restart" ripartire dal Concilio.....

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Caterina63
00domenica 26 luglio 2009 16:23

sabato 25 luglio 2009

Restart. Ripartire dal Concilio.

"Riprendiamo da dove eravamo rimasti": così si chiude una lettera scritta a padre Scalese sul suo blog Querculanus. Una frase che ci sembra abbia colto bene la sfumatura benedettiana del Summorum Pontificum e che potrebbe fare da slogan ad un nuovo movimento per la liturgia. Ci scusiamo con il Padre, ma letta questa non abbiamo resistito a riportare tutta quanta l'interessante discussione che in questi giorni si è mossa sulle sue pagine. Grazie.


La scelta.


di Giovanni Scalese*

If only... #3
Lunedì 20 luglio 2009


Don Gianluigi mi ha mandato il seguente messaggio dopo aver letto il mio post di sabato scorso:
«P. Giovanni, ti scrivo circa l'ultimo tuo post "If only... #2". Secondo me sei stato un po' troppo duro e sbrigativo col tuo lettore.

1. Perché criticare il NO [= Novus Ordo] non significa necessariamente ritenerlo invalido (io lo celebro quotidianamente eppure mi sento in dovere di muovere rilievi critici). Se teologi e liturgisti scrivono che c'è bisogno di una riforma della riforma (vedi don N. Bux con il libro "La riforma di Benedetto XVI") una qualche ragione ci sarà. Se il card. Ratzinger poteva scrivere alcuni anni fa che la riforma la quale avrebbe dovuto essere una rivitalizzazione della liturgia, in realtà si è rivelata una "devastazione" (cfr. "La reforme liturgique en question") significa che ci sono ragioni più che fondate per dubitare della reale bontà della liturgia riformata.

2. Tu citi Paolo VI, per indicare la sua volontà di imporre il NO come alternativo al vecchio. E qui si rivela in tutta la sua tragica debolezza l'affare del Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia che ha elaborato la nuova messa. Il papa disse: "Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico, dopo matura deliberazione, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II". Il papa non si avvide nemmeno che quello che egli aveva approvato smentiva le richieste del Concilio stesso (latino, intangibilità dei testi, gregoriano, polifonia). Quando il Papa se ne avvide, non fece nulla per riportare la riforma ai dettami della Sacrosanctum Concilium.

Egli non seguì e non chiese conto del lavoro del Consilium ad exequendam, tant'è vero che autorevoli membri si lamentarono del modo di procedere precipitoso di Bugnini (cfr. card. Antonelli). Non poteva nemmeno chiedere conto, perché non è stato tenuto un regolare verbale degli incontri e quindi non sappiamo, e manco il papa sapeva, le ragioni che portarono a togliere parti della messa tradizionale e a produrne delle altre. (Perché, per esempio, è stato tolto ogni riferimento esplicito alla Trinità a cui va il sacrificio di lode, sia nell'offertorio sia alla fine? Chi lo propose? con quali motivazioni?).

Ci fu una così "matura deliberazione" che il papa approvò — spero senza accorgersene — una definizione della messa quantomeno ambigua. La messa è un'azione sacrificale, mentre il n. 7 dell'Institutio la definì "riunione del popolo di Dio, che si raduna insieme... per celebrare il memoriale del Signore". Una formula che poteva accontentare anche i sei esperti protestanti che ebbero un ruolo attivo in questa fase, ma che certo limitava il concetto cattolico di messa. Dopo pochi mesi il papa approvò una nuova Institutio modificata. Ma quei concetti così nuovi rispetto alla teologia liturgica cattolica rimasero nei nuovi riti che da essi erano stati ispirati.
Questa nuova messa ancora sperimentale fu celebrata nell’ottobre del 1967; al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione della cosiddetta "messa normativa", ideata dal Consilium. Tale messa suscitò non poche perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet), moltissime e sostanziali riserve (62 iuxta modum) e 4 astensioni su 187 votanti. Nonostante ciò fu imposta a tutta la chiesa senza sostanziali modifiche.

3. Tu dici: "Che abbiamo impedito ai fedeli di fare esperienza diretta dell'autentica liturgia". Insomma la colpa sarebbe dei vescovi e dei preti che non valorizzano appieno il NO e si lanciano in arbitrarie sperimentazioni. Ma a me sembra che le improvvisazioni e gli arbitrii scaturiscano dalla riforma stessa che lascia aperte troppe porte: quanti vel... pro opportunitate e simili circa i riti da compiere, che hanno finito per confondere le idee, tanto che in ogni paese si celebra un rito diverso.

4. Ciò che Pio XII condannò nella Mediator Dei si è ripresentato nel NO, come l'archeologismo. Si è idealizzato il primo millennio (vedi comunione in mano e in piedi, scambio di pace), tranne il digiuno eucaristico e la preghiera rivolta a Oriente e si è bandito tutto ciò che era scaturito nel secondo millennio.

5. Infine quello che mi sembra più grave, non è stata rispettata l'essenza del rito romano. La messa tipica iniziava con il canto dell'introito, mentre le preghiere ai piedi dell'altare erano private del celebrante. L'offertorio esprimeva in modo inequivocabile il fine per cui si offre il sacrificio: cancellato completamente con preghiere prese non dalla tradizione, ma addirittura dall'ebraismo. Il canone che era un tutt'uno con le altre parti è stato reso intercambiabile con anafore realizzate a tavolino che non hanno un'origine comune con il rito stesso. La preghiera sotto voce che era una caratteristica codificata dal concilio di Trento e che favorisce la partecipazione intima e spirituale dei fedeli, disprezzata completamente, tanto che oggi si canta anche il canone.

Detto questo, penso che il tuo lettore avesse qualche ragione nell'affermare che non è abbastanza celebrare in latino e bene il NO per riportare un vero spirito liturgico. È insita nel NO la svolta antropologica di Rahner, che porta inevitabilmente il celebrante a sentirsi protagonista della liturgia, non foss'altro perché guarda in faccia i fedeli e parla continuamente per farsi sentire da loro e non da Dio. I fedeli sono condizionati dal suo sguardo, dalla sua espressione, dal tono di voce, dagli interventi ad libitum che possono essere in ogni momento. Rivolgersi a Dio diventa effettivamente un'impresa non facile.
Ma a Dio tutto è possibile».

Accolgo di buon grado l'avviso fraterno di don Gianluigi: se sono stato troppo duro e sbrigativo, chiedo scusa. Coloro che mi leggono da qualche tempo dovrebbero ormai sapere che talvolta mi lascio prendere la mano, specialmente quando si tratta di questioni che mi stanno molto a cuore, come in questo caso.

Per me la riforma liturgica, come tutte le cose umane, non è perfetta: ha molti limiti e potrebbe (dovrebbe?) essere migliorata (e per questo condivido non poche delle osservazioni di don Gianluigi); ma questo non significa che essa debba essere gettata a mare e si debba tornare, semplicemente, alla liturgia pre-conciliare.

Quando si sente parlare della liturgia prima del Concilio, sembra che questa fosse perfetta e che a un certo punto siano arrivati degli iconoclasti che abbiano voluto distruggere tutto, non si capisce bene perché. Se si è sentito il bisogno di una riforma liturgica, qualche motivo ci sarà pur stato. Io ho fatto in tempo a conoscere la liturgia tridentina, perché sono diventato chierichetto prima della riforma liturgica. E ricordo il mio parroco che celebrava la Messa in un quarto d'ora: non era uno spettacolo cosí edificante... Le chiese erano certamente piú piene di ora, ma non c'era tutta quella devozione e raccoglimento che oggi si immagina: in prima fila i bambini (il viceparroco doveva inventarsi tutti gli stratagemmi per tenerli un po' attenti); poi le donne che recitavano il rosario; poi gli uomini (quei pochi che c'erano...) che si facevano i fatti loro; e in fondo alla chiesa i giovani che... guardavano le ragazze. Per questo si è sentito il bisogno di una partecipazione piú attiva. Che poi, con la riforma liturgica, non si sia ottenuto il risultato (probabilmente perché si sono sbagliati i mezzi per raggiungerlo), è un'altra questione; ma perlomeno si dovrebbe riconoscere la buona intenzione e apprezzare lo sforzo per raggiungerlo.

Quando leggo le critiche di parte tradizionalista al Novus Ordo (che per lo piú hanno un'unica origine: il Breve esame critico del "Novus Ordo Missae", a quanto pare promosso dalla compianta Cristina Campo e presentato a Papa Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci), ho l'impressione che esse partano da un presupposto sbagliato. Tali critiche fondamentalmente consistono in un confronto tra il vecchio e il nuovo rito; e in genere sottolineano gli elementi del vecchio rito assenti nel nuovo. Presupponendo che il vecchio rito fosse perfetto, è ovvio che il nuovo risulti piuttosto carente. Ma probabilmente non è questo l'atteggiamento giusto: il Novus Ordo va considerato in sé stesso, non confrontato col Vetus (e in tale prospettiva penso che Paolo VI lo esaminò). Poi bisogna chiedersi: questo o quell'elemento è valido, è portatore di un significato teologico ortodosso o veicola una qualche tesi piú o meno ereticheggiante? Sinceramente, non mi sembra che nella nuova Messa ci siano eresie. È vero che l'offertorio (o "presentazione dei doni", come oggi viene chiamato) è radicalmente cambiato; è vero che esso non insiste piú cosí tanto sull'aspetto sacrificale; ma forse per questo la Messa ha perso il suo carattere sacrificale? Ci sono altri elementi che lo sottolineano (nello stesso offertorio, Paolo VI in persona volle conservare l'Orate fratres a rammentare tale verità). D'altra parte il Novus Ordo ha messo in luce tanti altri aspetti che nel Vetus Ordo, pur non venendo negati, erano forse un tantino trascurati. La Messa va vista nel suo insieme; non si possono isolare e assolutizzare i diversi elementi. Nell'insieme, mi pare che il nuovo rito della Messa sia equilibrato e piú ricco dell'antico. Ciò non toglie che ci siano alcuni aspetti che possano o addirittura debbano essere rivisti (p. es., il modo in cui sono stati reintrodotti l'oratio fidelium e il rito della pace o il modo di ricevere la comunione).

Che la riforma liturgica sia stata fatta un po' affrettatamente e che essa non sia l'attuazione fedele di quanto previsto dal Concilio, è un dato di fatto. Per questo vado ripetendo che, nonostante le legittime critiche che si possono rivolgere al Concilio, esso costituisce quel punto di equilibrio in cui tutti ci possiamo ritrovare (non solo in campo liturgico). Il Concilio aveva dato delle indicazioni sobrie, ma molto precise, su come si sarebbe dovuta realizzare la riforma liturgica. Il Consilium andò oltre il mandato conciliare (e in questo ha ragione don Gianluigi, con l'avallo di Paolo VI), e ora ne raccogliamo i frutti. Ci si fosse limitati a fare quanto il Concilio aveva prescritto, forse a quest'ora non staremmo qui a discutere.

È proprio in questo contesto di "ritorno al Concilio" che io mi faccio sostenitore di una liturgia rinnovata in latino: non è una mia idea balzana; è semplicemente ciò che aveva previsto il Concilio (Sacrosanctum Concilium, n. 36). Che il gregoriano debba essere il "canto proprio della liturgia romana" (non solo di quella tridentina, ma anche di quella rinnovata), non sono io a dirlo, ma il Concilio (ib., n.116). A proposito, don Gianluigi, hai mai provato a cantare in gregoriano la preghiera eucaristica? Per favore, fallo almeno una volta, poi sappimi dire quel che tu hai provato e la reazione dei fedeli che vi hanno assistito. Tu hai ragione a dire che nelle liturgie postconciliari, il protagonista è diventato il celebrante e i fedeli sono condizionati dalla sua presenza invadente. Ti assicuro, non c'è bisogno di voltare le spalle ai fedeli per scomparire. Basta spersonalizzare il piú possibile la propria performance; basta applicare alla lettera le rubriche del messale: tutti capiranno, senza fatica, che non stai recitando una parte, ma stai semplicemente eseguendo un rito che non ti appartiene, di cui tu sei soltanto un ministro. Il modo di celebrare la Messa, pur non toccando l'essenza del rito, ha la sua importanza, nel Vetus come nel Novus Ordo: tanto la Messa tridentina quanto quella postconciliare possono essere celebrate bene o male; e questo ha la sua incidenza sulla effettiva partecipazione dei fedeli. Forse uno dei limti della riforma liturgica è stato proprio questo: pensare che bastasse modificare qualche rito per ottenere la actuosa participatio. I liturgisti del Consilium forse non si avvidero che ciò che innanzi tutto si doveva fare era cambiare l'atteggiamento con cui ci si accosta ai santi misteri. Pertanto, ben venga una "riforma della riforma", ma con l'accortezza che a nulla varranno le migliori riforme esteriori se, cambiando i riti, non cambieremo anche i cuori.

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Mons. Bugnini e la riforma liturgica
martedì 21 luglio 2009

Ieri, proprio mentre stavo pubblicando il mio post If only... #3, ho ricevuto la Newsflash del Dr. Robert Moynihan, Direttore di Inside the Vatican (chi legge l'inglese può trovarla sul sito della rivista: la parte che mi interessa inizia col titoletto "The Briefcase Left Behind"). Si tratta di una inquietante intervista a un non meglio precisato Monsignore, indicato al Dr. Moynihan dal Card. Gagnon un mese prima di morire. L'intervista riguarda il caso di Mons. Annibale Bugnini, accusato di essere iscritto alla massoneria, un'accusa arcinota, ma che era rimasta finora sempre circondata da un'alone di dubbio, che poteva far sperare in una calunnia, piuttosto che in una realtà. Invece, a stare a ciò che dice il Monsignore intervistato (e che deve essere molto bene informato sui fatti), "It is certain". Il Monsignore spiega anche come si sia arrivati a tale conclusione, appunto grazie a una valigetta dimenticata.

Giustamente, il Dr. Moynihan pone l'obiezione che chiunque di noi porrebbe: "Ma se è davvero cosí, allora Paolo VI, nell'approvare la nuova Messa, potrebbe essere stato vittima di un inganno. Un fatto del genere non potrebbe mettere in discussione tutta la riforma liturgica? Ma allora, perché Paolo VI non ripartí da zero, se era convinto che ciò fosse vero?". L'obiezione è molto seria; se non si trova una risposta ad essa, saremo destinati a vivere nel dubbio che non solo Paolo VI, ma tutti noi siamo vittime di una grande impostura.

La limitata, ma sufficiente esperienza che ho in materia mi ha fatto giungere alla conclusione che, nella maggior parte dei casi, non si diventa massoni per motivi ideologici, ma semplicemente per interesse (anche se poi, una volta dentro, si è costretti a diventare strumenti per la diffusione dell'ideologia massonica). Mi pare che Mons. Bugnini non faccia eccezione a questa regola. Consideriamo le date. Nella sua Newsflash il Dr. Moynihan riporta anche un interessantissimo articolo di Michael Davies, dal quale si apprende che Mons. Bugnini, che era segretario della Commissione liturgica preparatoria del Concilio Vaticano II, era stato già sospeso dal suo incarico nel 1962 (non si sono mai conosciuti i motivi di tale allontanamento; Bugnini accusò del fatto il Card. Larraona, ma certamente ci doveva essere l'approvazione di Giovanni XXIII). Ora, l'iscrizione alla massoneria avvenne il 23 marzo 1963. Ebbene, che cosa avvenne nel 1964? Bugnini fu nominato da Paolo VI segretario del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia. L'iscrizione alla massoneria aveva avuto effetto immediato...

Ma allora, come mai Paolo VI non rimise in discussione l'intero impianto della riforma liturgica, che era stato ideato e realizzato da un massone? Evidentemente non rinvenne un legame cosí stretto tra i due fatti. Papa Montini, non appena ebbe la certezza della colpevolezza di Mons. Bugnini, lo rimosse dal suo incarico di Segretario della Congregazione per il culto divino e lo inviò Nunzio apostolico in Iran, non perché aveva fatto la riforma liturgica, ma semplicemente perché iscritto alla massoneria. Quanto alla riforma liturgica, evidentemente Paolo VI era convinto della sua bontà: anche se fra i suoi ispiratori c'era un massone, essa non poteva essere considerata una sua creatura né, tanto meno, una riforma "massonica". Lo stesso Pontefice molto probabilmente si considerava il garante di quella riforma: essa era stata fatta sotto il suo personale controllo e portava il sigillo della sua autorità.

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"Sensus fidelium"
Mercoledì 22 Luglio 2009


Dopo aver letto il mio post di ieri su Mons. Bugnini e la riforma liturgica, Giovanni mi ha mandato il seguente messaggio, di cui lo ringrazio vivamente:

«Fa un po' di senso apprendere che chi ha pensato la Messa, che oggi abbiamo e che per mezzo di voi sacerdoti celebriamo, sia stato un massone. Ma non sembra l'unico caso di commistione tra Chiesa e massoneria.

Qualche tempo fa analizzammo con il mio sacerdote, formatosi in San Giovanni Rotondo, l'architettura della nuova chiesa di San Pio, per intenderci quella di Renzo Piano, perché avevamo capito che il suo architetto era un massone e che la chiesa da uno studio accuratissimo di alcune persone ... era piena zeppa di simboli massonici. Stavamo per partire con una petizione per chiedere alla Santa Sede di proibire il Santo Sacrificio all'interno di quel luogo. Ma poi ci siamo fermati. Perché ci siamo resi conto, forse sbagliando, che in ogni caso dentro quella chiesa c'era e c'è Gesù in anima, corpo e divinità e, ammesso che il diavolo si possa essere impadronito delle progettazione, ormai in quel tabernacolo c'è Gesù il Signore dell'universo che vince sempre su tutto, fosse anche Satana.

La stessa cosa in fondo credo valga per la Santa Messa: l'ha composta un massone? Va bene, ma al centro c'è sempre il grande mistero del Sacrificio di Cristo e le mani di voi sacerdoti che fate diventare il pane e il vino Corpo e Sangue di Gesù. E questo è ciò che conta».

Mi sembra una testimonianza molto bella di quel sensus fidelium, che permette alla Chiesa di ritrovare l'orientamento nel bel mezzo della tempesta. Che nella Chiesa ci possano essere delle contaminazioni, non è la prima volta che avviene: è sempre avvenuto, fin dagli inizi della sua storia. Che si debba stare in guardia e mettere in guardia dai pericoli, lo richiedono le virtú della prudenza e della carità. Ma poi, alla fine, dobbiamo starcene tranquilli, sapendo che Cristo ha vinto il mondo (Gv 16:33) e che "le porte degli inferi non prevarranno" (Mt 16:18).

A questo proposito forse può essere utile rammentare quanto affermava il Beato Antonio Rosmini nelle sue preziosissime Massime di perfezione cristiana (che non mi stancherò mai di raccomandare come libro di meditazione):

«TERZA MASSIMA: rimanere in perfetta tranquillità circa tutto ciò che avviene per disposizione di Dio riguardo alla Chiesa di Gesú Cristo, lavorando per essa secondo la chiamata di Dio.

1. Gesú Cristo ha la potestà su tutte le cose, in cielo come in terra, e si è meritato di diventare Signore unico di tutti gli uomini. Per questo egli è anche l’unico che regola tutti gli avvenimenti con sapienza, potenza e bontà inenarrabile, secondo il suo beneplacito divino, per il maggior bene dei suoi eletti che formano la sua diletta sposa, la Chiesa.

2. Perciò il cristiano, per quanto gli avvenimenti possano sembrare contrari al bene della stessa Chiesa, deve godere una perfetta tranquillità e conservare una gioia piena, riposando interamente nel suo Signore. Tuttavia non deve smettere di gemere e di supplicare che avvenga la volontà del Signore come in cielo cosí in terra: cioè che gli uomini pratichino sulla terra la sua santa legge di carità come i santi la vivono in cielo.

3. Il cristiano, dunque, deve bandire dal proprio cuore l'inquietudine e ogni specie di ansietà e di preoccupazione: anche quella che sembra talvolta avere per scopo il solo bene della Chiesa di Gesú Cristo. Molto meno ancora egli deve temerariamente lusingarsi di poter mettere riparo a questi mali prima di vedere chiara la volontà del Signore a loro riguardo. Deve aver presente che solo Gesú Cristo governa la sua Chiesa, e che la cosa che piú gli dispiace ed è piú indegna del suo discepolo, è la temerità di quanti, dominati da cecità di mente e da nascosto orgoglio, senza essere chiamati e mossi da lui, presumono di fare di propria iniziativa qualche bene, anche minimo, nella Chiesa. Come se il divin Redentore avesse bisogno della loro miserabile cooperazione o di quella di chiunque altro. Nessuno è necessario al divin Redentore per la glorificazione della sua Chiesa. Essa consiste nella redenzione dalla schiavitú del peccato, in cui tutti gli uomini si trovano. Solamente per la sua gratuita misericordia egli assume fra i redenti quelli che gli piace elevare a tale onore. Di solito, poi, per le opere piú grandi, egli si serve di ciò che è piú infermo e piú spregevole agli occhi del mondo».

L'atteggiamento giusto del cristiano nei confronti della Chiesa è, sí, quello di lavorare e soffrire con essa e per essa, ma rimanendo sempre nella piú assoluta pace interiore, perché egli sa che, al di là dei Papi, Vescovi e sacerdoti che si succedono (e che possono sbagliare), è Cristo stesso, attraverso il suo Spirito, a guidare la Chiesa.

***

Ripartire dal Concilio.
Venerdì 24 Luglio 2009.

Don Gianluigi (che ha la mia stessa età), nel rispondere al mio post If only... #3, dice di condividere sostanzialmente la mia descrizione della liturgia preconciliare. Riconosce che i tradizionalisti, allora, non usavano argomenti convincenti per difendere le loro posizioni; al contrario dei giovani, che erano piú battaglieri nel sostenere le loro idee (è anche vero che questa è solo l'impressione che avevamo noi, che all'epoca eravamo giovani, e forse non capivamo abbastanza le istanze di chi era piú vecchio di noi, mentre eravamo molto sensibili a tutto ciò che sapeva di nuovo...). Ad ogni modo, don Gianluigi conclude cosí il suo messaggio:

«Caro Giovanni, ci voleva sí una riforma; era già iniziata quando siamo nati noi; poi è arrivato il tempo dell'assurdo e del brutto: brutte chiese, brutta arte, brutta musica. Riprendiamo da dove eravamo rimasti negli anni 1955-1965».

Concordo pienamente con quest'ultima affermazione. In fondo, è il senso di quanto cercavo di esprimere nell'articolo Concilio e "spirito del Concilio", pubblicato nel primo post di questo blog. In quell'articolo muovevo varie critiche al Concilio (critiche che piacquero molto agli ambienti tradizionalisti, a cominciare dai lefebvriani); fra queste c'era l'obiezione che il Vaticano II non segnava affatto un "nuovo inizio" nella storia della Chiesa, ma costituiva semplicemente una tappa di un movimento di riforma già in corso da svariati decenni, con questa differenza: che fino ad allora le riforme erano state promosse dalla Sede Apostolica ed erano state condivise piú o meno da tutti; il Concilio invece (che si supporrebbe rappresentare l'intera Chiesa) provocò una lacerazione all'interno della Chiesa. Come mai? Che cosa era successo?

In fondo, se consideriamo i documenti conciliari, li troviamo perfettamente in linea con la tradizione immediatamente precedente (anche se poi esso incoraggia un ritorno alla "grande tradizione" della Chiesa). Da questo punto di vista, il Concilio rappresenta il frutto piú maturo di quel movimento di riforma già in corso nella Chiesa. Il problema nacque nel momento dell'interpretazione e dell'applicazione del Concilio: tali operazioni furono praticamente monopolizzate dall'ala progressista, che era già presente nel Concilio, ma che in quella sede aveva dovuto necessariamente scendere a compromesso con l'ala conservatrice per l'approvazione dei documenti conciliari. Dopo il Concilio, sfruttando le ambiguità insite nei testi conciliari e appellandosi a un presunto "spirito del Concilio", la lobby progressista impose la propria interpretazione del Concilio, che sembrava l'unica autorizzata. Anche la riforma liturgica risentí di tale interpretazione unilaterale, che perciò provocò la reazione lefebvriana, polarizzando cosí le posizioni su due atteggiamenti contrapposti e difficilmente conciliabili.

Come uscire da questo vicolo cieco in cui si trova attualmente la Chiesa? Personalmente non vedo altra via di uscita che il ritorno di tutti al punto di partenza, che non è — sia bene inteso — la Chiesa preconciliare, ma il Concilio stesso. Per quanto si possa discutere, legittimamente, sul Vaticano II (dal momento che non si tratta di un concilio dogmatico, ma "pastorale"), bisogna pur riconoscere che esso è l'unico punto di equilibrio, nel quale tutti — tradizionalisti e progressisti — possiamo ritrovarci. Se vogliamo ristabilire la comunione all'interno della Chiesa, penso che dovremmo fare tutti un passo indietro e tornare al Vaticano II e ripartire di lí, senza pregiudizi ideologici, ma lasciandoci condurre esclusivamente dallo Spirito di Dio verso le mete che egli stesso ci indicherà.


*Padre Giovanni Scalese (Roma, 1955) appartiene all'Ordine dei Chierici Regolari di San Paolo (Barnabiti). È sacerdote dal 1981. Ha conseguito il baccalaureato in filosofia e in teologia alla Pontificia Università San Tommaso (Angelicum) e la licenza in teologia (specializzazione in teologia biblica) alla Pontificia Università Gregoriana. Si è laureato in filosofia all'Università di Bologna con una tesi su "Il Rosminianesimo nell'Ordine dei Barnabiti". Ha insegnato religione, storia e filosofia al Collegio alla Querce di Firenze e al Collegio San Luigi di Bologna. Dal 1994 al 1999 è stato rettore della Querce; dal 2000 al 2006, assistente generale dell'Ordine. Al presente è missionario in Asia. Insieme con Padre Antonio Gentili ha pubblicato "Prontuario dello spirito. Insegnamenti ascetico-mistici di sant'Antonio Maria Zaccaria" (Milano, 1994).


Fonte Querculanus

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Caterina63
00sabato 7 novembre 2009 12:18

"Vaticano II – Che cosa è andato storto?" di Ralph McInerny finalmente in italiano


Pubblichiamo la presentazione di Massimo Introvigne (che potrete trovare qui) dell’analisi del filosofo statunitense sul Concilio e sul Posconcilio. “La tesi di McInerny, secondo cui i documenti del Concilio sono di per sé suscettibili di un’interpretazione secondo e non contro la Tradizione della Chiesa, mentre sono stati la presentazione del Vaticano II da parte dei “teologi dissidenti” e il loro capzioso appello allo “spirito del Concilio” contro la sua lettera a causare la crisi è presentata in questo testo in un modo semplice e autorevole.” […] "McInerny mostra come a partire dal 1985, con l’intervista Rapporto sulla fede rilasciata dall’allora cardinale Ratzinger al giornalista Vittorio Messori e con il Sinodo Straordinario a vent’anni dal Concilio, il Magistero inizia a prendere in mano la questione dell’interpretazione del Vaticano II e, con voce sempre più ferma, prende posizione contro il “magistero parallelo” dei teologi del dissenso.”


di Massimo Introvigne

La pubblicazione dell’edizione italiana di Vaticano II – Che cosa è andato storto? (Fede & Cultura, Verona 2009) colma una duplice lacuna. Da una parte, mette a disposizione anche dei lettori di lingua italiana uno dei testi fondamentali del dibattito statunitense sul Concilio Ecumenico Vaticano II: un dibattito cui ha partecipato lo stesso cardinale Joseph Ratzinger, e di cui si ritrova l’eco nel magistero di Benedetto XVI. Dall’altra, permette al pubblico italiano di conoscere meglio la figura e l’opera di Ralph McInerny, da molti considerato il maggiore filosofo cattolico vivente, stimato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI ma ancora poco conosciuto nel nostro Paese nonostante gli sforzi del suo amico e collaboratore Fulvio Di Blasi e dell’associazione Thomas International, che ha fatto pubblicare L’analogia in Tommaso d’Aquino (Armando, Roma 1999) e Conoscenza morale implicita (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2006). Il fatto che un autore così conosciuto negli Stati Uniti sia poco tradotto in Italia fa venire qualche cattivo pensiero: che si sia voluta censurare una voce cruciale ma scomoda?

McInerny, in effetti, è uno dei pochi intellettuali cattolici degli Stati Uniti la cui notorietà supera la cerchia degli accademici e si estende, ormai da anni, al grande pubblico. Nato a Minneapolis il 24 febbraio 1929, dopo studi al St. Paul Seminary, McInerny consegue la laurea in filosofia all’Università del Minnesota e il dottorato presso la Pontificia Facoltà di Filosofia dell’Università Laval, a Québec. Dal 1955 ha insegnato filosofia per oltre cinquant’anni all’Università Notre Dame presso South Bend, nell’Indiana, dove tuttora dirige il Centro Jacques Maritain. Il rapporto con quella che rimane la più grande università cattolica del mondo per numero d’iscritti è cruciale per intendere l’attività e la carriera di McInerny, che a Notre Dame – senza nascondere i problemi che la crisi teologica ha portato anche in questo prestigioso ateneo – ha dedicato parecchi dei suoi scritti. Membro della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino e della Commissione del Presidente degli Stati Uniti per le Arti e le Lettere, McInerny è legato all’Italia e a Roma – dove ha soggiornato ripetutamente – da un rapporto che è insieme culturale e affettivo. Da molti anni è considerato il maggiore specialista vivente di San Tommaso. Le sue opere filosofiche sono in parte destinate agli specialisti, in parte agli studenti e al mondo cattolico per cui ha scritto alcune delle più brillanti e vivaci introduzioni alla filosofia in genere e al tomismo in particolare. Il suo itinerario di filosofo culmina, in un certo senso, con l’opera del 2006 Preambula Fidei. Thomism and the God of the Philosophers (Catholic University of America Press, Washington), da un lato un testo molto tecnico, dall’altro – come ha notato in un articolo sull’Osservatore Romano l’attuale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale William Levada (“La società secolarizzata ha bisogno di un’apologetica rinnovata”, 22 giugno 2008) – uno strumento in grado di fondare una “nuova apologetica” in grado di resistere alle rinnovate sfide del secolarismo e del relativismo.

McInerny preferisce certamente essere noto come filosofo. Ma gli è toccato in sorte di diventare uno dei nomi più conosciuti dagli appassionati di gialli e dal pubblico che segue i telefilm polizieschi alla televisione. Il filosofo, in effetti, è anche romanziere e autore di diverse serie di grande successo, tra cui emerge quella – che conta a oggi ventinove volumi – dedicata al sacerdote detective padre Dowling, da cui è stata tratta una fortunata serie televisiva trasmessa anche in Italia. Mentre i telefilm riducono le storie al mero elemento poliziesco, i romanzi della serie di padre Dowling offrono l’occasione a McInerny per riflettere – al di là della trama – sulla crisi della Chiesa Cattolica negli Stati Uniti dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II. Anche l’ultima fatica letteraria del filosofo di Notre Dame, The Wisdom of Father Dowling (Gale Five Star, Waterville [Maine] 2009) – una raccolta di racconti brevi –, mostra come l’intrigo poliziesco sia spesso un pretesto per affrontare temi che vanno dall’eutanasia alla crisi della liturgia.

McInerny non si è mai concepito come un filosofo chiuso nella sua torre d’avorio, che interagisce unicamente con i suoi pari e con qualche fortunato studente. Da molti anni si è posto il problema dell’apologetica, collaborando a riviste come First Things del compianto don Richard John Neuhaus (1936-2009) e lanciando anche una serie di pubblicazioni che ha egli stesso animato, come Catholic Dossier e Crisis. Un vasto pubblico, che magari lo conosce anzitutto per i suoi romanzi, ha così trovato in McInerny un solido punto di riferimento apologetico e un difensore della Chiesa e del Magistero.

La crisi della Chiesa Cattolica statunitense e la ribellione di molti teologi contro il Magistero è emersa come la preoccupazione cruciale dell’attività apologetica di McInerny. Questi teologi si sono fatti scudo e bandiera del Concilio Ecumenico Vaticano II, dopo il quale nella Chiesa degli Stati Uniti si è verificata la crisi più grave della sua storia. Ma questa crisi, si chiede McInerny, è post Concilium o propter Concilium? Che cosa è andato storto?

La riflessione di McInerny, come sarà chiaro al lettore, parte dalla Chiesa americana, epicentro di quel “Sessantotto nella Chiesa” che è la contestazione pubblica dell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI nel 1968. Il filosofo statunitense mostra che questa contestazione – non il Concilio – è la vera data di partenza della crisi post-conciliare, non solo negli Stati Uniti. La questione non riguarda solo, e neppure soprattutto, gli anticoncezionali ma i problemi dell’autorità nella Chiesa e dell’interpretazione del Vaticano II. La tesi di McInerny, secondo cui i documenti del Concilio sono di per sé suscettibili di un’interpretazione secondo e non contro la Tradizione della Chiesa, mentre sono stati la presentazione del Vaticano II da parte dei “teologi dissidenti” e il loro capzioso appello allo “spirito del Concilio” contro la sua lettera a causare la crisi, è presentata in questo testo in un modo semplice e autorevole. Si tratta di una tesi che ha avuto vasta eco nella discussione che si è svolta negli Stati Uniti negli anni 1990 sul Vaticano II e di cui non hanno mancato di tenere conto anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, due Papi che hanno interagito in modo continuo con l’ambiente teologico americano fedele al Magistero (l’ala cattolica dei cosiddetti teocon) e ne hanno seguito con partecipe interesse i dibattiti.

McInerny mostra come a partire dal 1985, con l’intervista Rapporto sulla fede rilasciata dall’allora cardinale Ratzinger al giornalista Vittorio Messori e con il Sinodo Straordinario a vent’anni dal Concilio, il Magistero inizia a prendere in mano la questione dell’interpretazione del Vaticano II e, con voce sempre più ferma, prende posizione contro il “magistero parallelo” dei teologi del dissenso. I primi risultati di quest’azione, negli Stati Uniti (e forse anche altrove), non sono soddisfacenti: i vescovi non possono o non vogliono imporre la loro autorità ai teologi. Ma la battaglia continuava nel 1998, quando McInerny pubblicò la prima edizione americana di questo testo, e continua ancora oggi. Capire che cosa è successo durante i pontificati di Paolo VI e Giovanni Paolo II è essenziale per tentare di capire che cosa sta avvenendo e potrà avvenire nell’epoca di Benedetto XVI.

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Caterina63
00venerdì 15 gennaio 2010 19:38

Il Concilio dell'ottimismo

(ootima riflessione che riporto da Messainlatino)


Ringraziamo Francesco Agnoli che ci invia queste meditate riflessioni.



Il Concilio Vaticano II rimane, quarant’anni dopo, un evento che entusiasma e che divide. Se ne fa continuamente un gran parlare: i progressisti come il cardinal Martini, Mancuso, Melloni ecc. sembrano far risalire ad esso la nascita della Chiesa, ne invocano una più ampia e corretta attuazione e chiedono addirittura il Vaticano III, per aprirsi ancora di più al mondo e al pensiero moderno; il papa ribadisce che il Concilio Vaticano II non va separato da ciò che lo precede; mons. Fellay, superiore della Fraternità san Pio X, afferma di voler interpretare tale concilio alla luce della Tradizione, riservandosi anche di poter criticare alcuni passaggi ritenuti ambigui e alcuni documenti che considera almeno parzialmente in contrasto col magistero precedente (posizione questa già accettata dal papa per quanto riguarda gli statuti della comunità tradizionalista del “Buon pastore”, a cui è stato dato il permesso di criticare, con spirito costruttivo, alcuni passi conciliari controversi).

Personalmente non ho grande competenza per esprimermi, ma due concetti vorrei qui esporli, sperando siano utili al dibattito, e augurandomi di non dire sciocchezze troppo grosse (se lo farò, ci sarà certo qualcuno pronto, fraternamente, a correggermi).

Ebbene, leggendo alcuni documenti del Concilio intravedo talora qualcosa che mi stupisce per eccesso di ottimismo. Il Concilio si aprì con le famose dichiarazioni di Giovanni XXIII, contro i “profeti di sventura”: Giovanni XXIII credeva fermamente che i nostri tempi fossero particolarmente favorevoli ad una nuova “primavera della Chiesa”, ad un “balzo innanzi”, ad una rinascita senza precedenti.

Parlava apertamente di un “giorno foriero di luce splendidissima” di cui il Concilio rappresentava l’ “aurora”. Si distaccava, in questo, dalla visione che avevano avuto Pio X e Pio XII, più inclini a scorgere nella contemporaneità un’epoca di progressivo e terribile allontanamento da Dio.

Scriveva Giovanni XXII l’8 dicembre 1962, a chiusura della prima sessione del Concilio: “sarà veramente la nuova Pentecoste che farà fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza…sarà un nuovo balzo in avanti del Regno di Cristo nel mondo, un riaffermare in modo sempre più alto e suadente la lieta novella della Redenzione, l’annuncio luminoso della sovranità di Dio, della fratellanza umana nella carità…”.

Purtroppo non è andata così, come ha notato anche il cardinal Biffi nelle sue recenti memorie, e se l’albero si vede dai frutti, oggi si può dire che molti segni dei tempi furono male interpretati. Dopo il Concilio migliaia e migliaia di sacerdoti lasciarono la veste, per sposarsi, o addirittura in seguito a crisi di fede. E il tempo non avrebbe mutato le cose.

Il pontificato di Paolo VI è stato su questo punto assai indicativo: il Montini fu infatti sovente portato a condividere l’ottimismo quasi utopico di Giovanni XXIII e a cercare nel rinnovamento pastorale, in una maggiore apertura al mondo, la via maestra per una nuova evangelizzazione; ma fu anche consapevole, in molte occasioni, e lo disse a gran voce, che invece della primavera, nella Chiesa, era arrivato l’inverno; che il fumo di Satana era entrato nel tempio di Dio. In lui convissero l’idea che il Concilio significasse un “primaverile risveglio d’immense energie spirituali e morali, quasi latenti nel seno della Chiesa”, insieme con profonde crisi interiori, di cui rendeva partecipe, tra gli altri, il cardinal Siri in lunghi colloqui privati e drammatici.

E’ così che alcuni documenti del Concilio portano qua e là il segno di un certo ingenuo ottimismo, che, secondo padre Stanley Jaki, amico stimato di Benedetto XVI, secondo don Divo Barsotti e il riscoperto Romano Amerio, deriva da una sottovalutazione del peccato originale e della perfidia dello spirito del mondo, evangelicamente inteso.

Questo ottimismo utopico, dicevo, lo si trova ad esempio all’inizio della Dichiarazione sulla libertà religiosa: “Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive”. Nella “Gaudium e spes” invece si leggono frasi di tal genere: “Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà…numerosi sono perciò coloro che giungono a un più acuto senso di Dio…L’uomo d’oggi procede sulla strada di un più pieno sviluppo della sua personalità e di una progressiva scoperta e affermazione dei propri diritti”. Dichiarazioni analoghe, magari spesso limate e meglio specificate nei passaggi successivi, si trovano abbondantemente anche in altre encicliche pressoché contemporanee, prima tra tutte la Pacem in terris.

Che male c’è, dirà qualcuno, ad essere ottimisti, a voler andare incontro al mondo in modo suadente e senza condanne altisonanti? Che male c’è a preferire “la medicina della misericordia piuttosto che della severità”, come disse sempre Giovanni XXIII, a puntare sull’ “aggiornamento”, piuttosto che sulla Tradizione?

In effetti a chi non piacerebbe, almeno apparentemente, un Cristo meno esigente, che fosse venuto a patti col mondo, che avesse dialogato con i suoi carnefici sino a convincerli, e che non chiedesse, anche ai suoi discepoli, di lottare contro il peccato, sino, se necessario, al sangue e al martirio? Che non ci avesse ricordato che “siete nel mondo, ma non del mondo”?

Personalmente penso che la mancanza di realismo, di un sapiente equilibrio tra “severità” e “misericordia”, abbia sovente conseguenze negative, perché la diagnosi è sempre necessaria alla cura, e per questo deve essere implacabile e vera. “Il suo atteggiamento", scriveva Paolo VI il 7 dicembre 1965 parlando del Concilio, "è stato molto e volutamente ottimista. Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno”, preferendo a “deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi”. Ma quali sono state le conseguenze di tutto ciò, di questo atteggiamento così dichiaratamente nuovo nella storia della Chiesa?

Quanto è mancata, al nostro mondo contemporaneo, una cruda diagnosi della sua malattia, accompagnata, certo, anche dalla misericordia della cura?

Le conseguenze di un ottimismo estremo le stiamo pagando tuttora: si è ingenerata piano piano nei cattolici una mentalità eccessivamente acquiescente e irenista. L’idea che non si debba “condannare”, che si debba sempre dialogare ad oltranza, che occorra far viaggiare la Chiesa col mondo, ha fatto tanta strada, portando ai “cattolici per il marxismo”, ai “cattolici per il divorzio”, ai “cattolici per l’aborto”, ai cattolici relativisti (“io no, ma gli altri…”), ai “cattolici adulti” e via discorrendo. Non cioè alla pace della Chiesa col mondo, come oggi è sempre più chiaro, ma alla discordia tra gli stessi credenti.

Un esempio su tutti: la mancata scomunica del comunismo da parte dei padri conciliari, nonostante la petizione di 450 di essi, proprio allorché le persecuzioni erano immense e quella ideologia di morte devastava interi popoli, risponde proprio ad un ottimismo irrealistico, e ad una mentalità che volendo distanziarsi dalla consuetudine degli anatemi del passato, crede, mi sembra ingenuamente, che il dialogo col mondo sia la soluzione possibile, indolore ed efficace, per la redenzione dell’umanità. Di qui anche quella visione del dialogo che diventa non un mezzo ma il fine; un dialogo che ha come scopo null’altro che il dialogo stesso, invece della conversione: come se Cristo stesso non avesse scelto, in ultima analisi, di testimoniare la sua divinità col suo sangue, e non avesse annunciato ai suoi discepoli persecuzioni e martirio.

Riusciamo ad immaginare un Concilio, oggigiorno, in cui Benedetto XVI, per non litigare col mondo, rifiutasse di condannare clonazione, aborto e manipolazione genetica? E oggi, che il papa lotta come un leone a difesa dell’uomo, dal concepimento sino alla morte naturale, possiamo ancora sottoscrivere la celebre frase di Paolo VI secondo la quale “la religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata [al Concilio ndr] con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio”, senza che ciò generasse un “scontro, una lotta, un anatema”, ma al contrario una “simpatia immensa”? O non è piuttosto sempre più chiaro che l’uomo che si fa Dio è la perfetta antitesi del Dio che si fa uomo, e che lungi dal rappresentare un vero umanesimo, l’umanesimo ateo contemporaneo finisce per disprezzare l’uomo, riducendolo ad una scimmia, ad un “numero uscito alla roulette”, ad un oggetto manipolabile?

Messa in luce questa mentalità di fondo presente in alcuni passaggi del Concilio, proporrei un’altra considerazione. Forse proprio la volontà di non urtare, di essere più “pastorali”, di non utilizzare la chiarezza lapidaria e sintetica del concilio di Trento, ha determinato la presenza in alcuni documenti conciliari di concetti non sempre chiari, ambigui, che lasciano spazio a interpretazioni divergenti. Prendiamo ad esempio il documento sull’ecumenismo, l’Unitatis Redintegratio. In esso si ripete più volte il dogma cattolico per il quale solo la Chiesa cattolica è la vera Chiesa di Cristo; si insiste sovente sulle divergenze dottrinali tra cattolici, ad esempio, e protestanti; si condanna come “alieno dall’ecumenismo” il “falso irenismo”, in linea dunque con il magistero precedente. Ma poi, nell’illustrare i metodi del dialogo, si lascia spazio, ad esempio, alla preghiera comune, tra cattolici e membri di altre confessioni: “nei congressi ecumenici è lecito, anzi desiderabile, che i cattolici si associno nella preghiera coi fratelli separati”.

Ma questo non genera confusione, indifferentismo, mentalità sincretista? Non porta i fedeli a dimenticare la realtà, e cioè l’importanza, nella Chiesa, della comunione con Roma e del primato petrino? I padri conciliari continuavano: “Tuttavia la comunicazione nelle cose sacre non la si deve considerare come un mezzo da usarsi indiscriminatamente per il ristabilimento dell’unità dei cristiani… La significazione dell’unità per lo più vieta la comunicazione. La necessità di partecipare la grazia talvolta la raccomanda. Circa il modo di agire…decida prudentemente l’autorità del luogo…”. Ma allora pregare insieme a persone di fede diversa è un atto doveroso, o qualcosa di equivoco?

Posizioni di questo genere, così poco chiare, hanno generato, nel post Concilio, una grande confusione, culminata, a mio modo di vedere, nei famosi incontri di Assisi del 1986. Allora si arrivò a porre sugli altari delle chiese cattoliche statue di altre divinità o simulacri del Budda; sacerdoti cattolici si fecero pubblicamente iniziare a religioni animiste e i fedeli videro mescolarsi indifferentemente il nome di Cristo, “via, verità e vita”, con quello delle molteplici divinità fasulle, nella città di un grande santo, all’interno di chiese consacrate. L’effetto concreto fu il dilagare dell’indifferentismo, sintetizzabile in quell’espressione che divenne di moda sulla bocca di molti cattolici: “siamo tutti figli dello stesso Dio”. Espressione vera, per carità, in ultima analisi, ma estremamente pericolosa se utilizzata per far credere che Cristo, Budda e Maometto siano la stessa identica cosa. Espressione che racchiude in sé un altro dramma del post Concilio: il progressivo venir meno nei cattolici della consapevolezza del dovere di annunciare Cristo a tutte le genti e delle responsabilità che il dono della fede comporta.

Ad Assisi nel 1986 due cardinali preferirono non partecipare, intravedendo in quell’evento un grosso pericolo per la fede: il cardinal Giacomo Biffi e il cardinal Joseph Ratzinger, che in una recente prefazione ad un libro di Marcello Pera ha sottolineato come il dialogo sia possibile e doveroso tra persone, tra culture e popoli diversi, ma non tra diverse concezioni religiose e dottrinali. Erano, i due cardinali, sulla stessa linea di papa Pio XI, che nella “Mortalium animos” aveva deprecato “congressi, riunioni, conferenze, con largo intervento di pubblico, ai quali sono invitati promiscuamente tutti a discutere”, cattolici, eretici e rappresentanti di altre religioni, in nome di “una falsa teoria che suppone buone e lodevoli tutte le religioni”. Pregare insieme, pensava Pio XI, serve solo a creare confusione, a spingere al naturalismo e in ultima analisi all’ateismo pratico, delegittimando la Rivelazione e la Chiesa stessa.

Un’ultima considerazione. La lettura del documento conciliare sulla liturgia permette qui di intravedere quello che a mio avviso fu un altro degli errori di quegli anni, cui il papa attuale sta piano piano ponendo rimedio, prima col motu proprio e poi restaurando la croce al centro dell’altare, la comunione in ginocchio e altro ancora.

Da una parte si predicò il rinnovamento, insistendo fortemente su di esso, e generando la nascita di una serie incredibile di messe sperimentali in cui accadeva di tutto e durante le quali il celebrante diventava l’inventore sempre più fantasioso di nuove ritualità, sino alla nascita delle messe beat, o delle messe con le ballerine sull’altare; dall’altra si invitava a mantenere il latino, accanto ad un maggiore uso del volgare, e nel contempo si chiedeva di non introdurre “innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle esistenti”. Per quanto riguarda il canto, il concilio affermava che “la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana”, a cui riservare “il posto principale”; invitava contestualmente a tenere “in grande onore l’organo a canne…il cui suono è in grado di aggiungere notevole splendore alle cerimonie della Chiesa”. Contemporaneamente, però, nella prassi, si lasciò che il latino scomparisse, e che del gregoriano e dell’organo non rimanesse traccia. In perfetta coerenza gli altari di un tempo vennero abbattuti, insieme alle balaustre e a tutto ciò che nella messa tradizionale serviva a sottolineare la sacralità della cerimonia e il suo carattere di rinnovazione del Sacrificio della Croce. Con esiti per nulla positivi.

Rendersi conto di certi errori del passato, che esimi cardinali e papi riconobbero con grande umiltà di fronte all’esplosione del protestantesimo, permise alla Chiesa del Concilio di Trento di rinascere, dopo tempi onestamente bui.

Non è giunto il momento, anche oggi, di qualche piccolo mea culpa, di una revisione, almeno, di questo ottimismo troppo mondano ed utopico? In verità l’ottimismo che, come cristiani, possiamo professare, è veramente immenso, ma ci viene dalla Resurrezione di Cristo, come fatto storico, non da altro. Dalla Sua morte, invece, dovremmo apprendere il realismo, cioè la consapevolezza dei nostri peccati e della necessità di convertirci e di convertirlo, non di vezzeggiarlo, il mondo.

Comunque la si pensi, in conclusione, mi sembra che buona parte della polemica sul Concilio e su Benedetto XVI stia qui: nella necessità di definire l’atteggiamento del cristiano dinanzi al mondo. Benedetto XVI ama il mondo, perché Cristo ha dato suo figlio per esso, ma lo richiama, lo incalza, lo sprona e lo infastidisce come si fa con un ronzino vecchio, stanco ed egoista; ama gli uomini di oggi, ma stigmatizza senza falsi scrupoli i mali contemporanei, alla luce della ragione e della fede, per il vero bene dell’umanità. Sa che il sale della fede non è dolce, e talora brucia, sulle nostre ferite, ma dà sapore alla vita. E lo fa tanto più con forza ed urgenza, quanto meno condivide l’idea che il mondo e la Chiesa stiano vivendo una “nuova primavera” e una “nuova Pentecoste”. In questo mi sembra che sia vero un certo suo distacco, una disillusione rispetto a certe illusioni dell’epoca conciliare.


Francesco Agnoli
(da: www.libertaepersona.org/dblog/)
Caterina63
00mercoledì 20 gennaio 2010 15:50
I soliti cattoregressisti contro Benedetto XVI

Antonio Socci
(C) Libero, 8 luglio 2007


È un grande Pontefice, Papa Benedetto, e avrà un'importanza storica
per la Chiesa. E da oggi, col ritorno alla libertà di celebrare
anche la Messa in latino, certi "progressisti" scateneranno una
guerra feroce contro di lui. Magari inventandosi falsamente il
ripristino della controversa preghiera sugli ebrei, che invece non
c'è affatto.

Sono tanti i segni del coraggio di quest'uomo, che è mite e gentile,
ma anche deciso a «non anteporre nulla a Dio» e a «non fuggire
davanti ai lupi». Di recente la lettera ai cattolici cinesi (per
riunire le due chiese e reclamare libertà dal regime) e l'altro ieri
il simbolico riconoscimento del "martirio" degli ottocento abitanti
di Otranto che furono decapitati nel 1480 dai musulmani invasori
perché non vollero rinnegare Gesù Cristo.
Ma soprattutto ha un grande peso questo Motu proprio con cui il Papa
restituisce alla Chiesa, accanto alla messa in italiano, la sua
bimillenaria liturgia latina che con un colpo di mano era stata
spazzata via nel 1969 contravvenendo alle regole della Chiesa
stessa. La liturgia per la Chiesa racchiude tutto il suo tesoro,
cioè «l'integrità della fede, perché la legge della preghiera della
Chiesa corrisponde alla sua legge di fede». E dunque il Messale
latino non poteva essere messo fuorilegge (infatti giuridicamente è
sempre stata valido).

Nel delirio post-conciliare l'intolleranza progressista riuscì a far
credere che fosse stato messo al bando. Fu quello il tempo di una
spaventosa apostasia di fedeli e un'apocalittica crisi del clero:
dal 1965 circa 100 mila sacerdoti abbandonarono l'abito e 107.600
monache e suore lasciarono le loro congregazioni fra 1966 e 1988.
Una tragedia senza eguali nella storia della Chiesa. Segno, per una
mente cristiana, che Dio non aveva benedetto certi "rinnovamenti"
che si dicevano "conciliari", ma anzi ne era disgustato (Benedetto XVI
infatti denuncia «deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile»).


«Una tragica rottura»

Da cardinale, Ratzinger definì il colpo di mano contro la liturgia
tradizionale come «una rottura» dalle conseguenze «tragiche».
Un grande laico come Giuseppe Prezzolini, nel 1969 - l'anno della
riforma liturgica - scrisse un editoriale intitolato: "La
liquidazione della Chiesa". Pur essendo agnostico, constatava
amaramente la febbre rivoluzionaria che aveva fatto irruzione nella
Chiesa riducendola a una caricatura delle «sette protestanti» e
della «civiltà moderna».


Fu soprattutto la grande cultura laica a denunciare l'immensa
perdita rappresentata dalla cancellazione dell'antica liturgia
cattolica che aveva letteralmente dato forma alla cultura europea.
Due appelli pubbici, nel 1966 e nel 1971, uscirono in difesa della
Messa di s. Pio V, come grande patrimonio spirituale e culturale. E
furono firmati dalle più grandi personalità della cultura come
Borges, De Chirico, Elena Croce, W. H. Auden, Bresson, Dreyer, Del
Noce, Julien Green, Maritain, Montale, Cristina Campo, Mauriac,
Quasimodo, Evelyn Waugh, Maria Zambrano, Elémire Zolla, Gabriel
Marcel, Salvador De Madariaga, Contini, Devoto, Macchia, Pallottino,
Paratore, Bassani, Luzi, Piovene, Andrés Segovia, Harold Acton,
Agatha Christie, Graham Greene e il pure direttore del Times,
William Rees-Mogg.
Fu inutile.
Ormai la sbornia progressista (o meglio: "la dittatura del
relativismo") dilagava nella Chiesa e pretendeva di fare a pezzi la
sua tradizione.
Anni dopo fu boicottato perfino Giovanni Paolo II quando varò uno
speciale indulto, addirittura con due documenti, nel 1984 e nel
1988, affermando che la Messa di san Pio V non era mai stata abolita
e la si poteva celebrare col permesso del vescovo. Il Papa aveva
esortato «i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà
in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero», ma parte dei
vescovi fece il contrario e di fatto annullò l'importante atto
pontificio.
Certi vescovi hanno dato locali per pregare ai musulmani, ma li
hanno negati per le messe tradizionali.
Dunque oggi, alla luce di questi abusi d'autorità, Benedetto XVI
vara un Motu proprio dove i diritti del popolo cristiano sono
protetti da Pietro stesso e non rimessi all'arbitrio dell'episcopato.

Alberto Melloni, due giorni fa, sul Corriere della Sera, ha dato
sfogo alla rabbia della fazione progressista, arrivando addirittura
a definire il Motu proprio come «uno sberleffo villano al Vaticano
II».
È buffo.
Uno "storico del Concilio" come Melloni ignora che durante il
Concilio si celebrava proprio la liturgia a cui oggi il Papa ridà
cittadinanza. E ignora che mai il Concilio Vaticano II ha messo
fuorilegge questa liturgia: semmai fu l'atto dispotico del 1969 che
andava contro il Concilio.
Un altro buffo paradosso: questo gruppo di storici "progressisti"
che hanno fatto di Giovanni XXIII il loro simbolo, oggi si oppongono
proprio al Motu proprio che riconosce la validità del "Messale
Romano di Giovanni XXIII" (infatti è l'edizione del 1962 che il Papa
restituisce alla Chiesa). E sembrano ignorare il discorso di Papa
Roncalli del 22 febbraio 1962, alla firma della "Veterum Sapientia",
dove fra l'altro, esaltando la liturgia in latino, spiegò che essa
aveva un legame profondo con "la Cattedra di Pietro".
Il Papa aggiunse che la lingua latina «fu strumento di diffusione
del Vangelo, portata sulle vie consolari quasi a simbolo della più
alta Unità del Corpo Mistico. (...) E anche quando le nuove lingue
delle singole individualità nazionali europee si fecero strada fino
a sostituire l'unica lingua di Roma, questa è rimasta nell'uso della
Chiesa Romana, nelle saporose espressioni della liturgia, nei
documenti solenni della Sede Apostolica, strumento di comunicazione
col centro augusto della cristianità».
Infine riaffermò la sua validità non solo per «motivi storici ed
affettivi» ma anche perché «nel presente momento storico» è segno di
unità fra i popoli e serve «all'opera di pacificazione e di
unificazione». Anche per «i nuovi popoli che si affacciano fiduciosi
alla vita internazionale. Essa infatti non è legata agli interessi
di alcuna nazione, è fonte di chiarezza e sicurezza dottrinale, è
accessibile a quanti abbiano compiuti studi medi superiori; e
soprattutto è veicolo di reciproca comprensione».
Cinque anni dopo la liturgia latina fu in pratica messa al bando.
Melloni accusa oggi Benedetto XVI di aver «spezzato» una continuità
ed aver esautorato i vescovi.
Ma è vero l'esatto contrario: proprio il Novus ordo fu imposto
nonostante la bocciatura della maggioranza dei vescovi. E fu
la "proibizione" del Messale latino a "spezzare" la continuità
millenaria della liturgia.

Oggi questi strani progressisti si oppongono alla libertà che invece
il Papa difende (dà la possibilità di celebrare in «due usi
dell'unico rito romano»). E si oppongono ai diritti del popolo
cristiano (difesi dal Papa). Essi rivendicano l'arbitrio di potere
del ceto clericale. E poi parlano di democrazia nella Chiesa!

Infine sono oscurantisti perché disprezzano un patrimonio che tutta
la migliore cultura esalta. Benedetto XVI ha affidato le nuove norme
alla «potente intercessione di Maria». E le ha pubblicate nel
novantesimo anniversario delle apparizioni di Fatima, in uno dei
primi sabati del mese (giorno della Madonna di Fatima), un 7 luglio,
lo stesso giorno in cui Pio XII, nel 1952, promulgò la "Sacro
vergente anno", dove finalmente consacrò la Russia al Cuore
Immacolato di Maria come richiesto da lei a Fatima.
Infine Benedetto XVI vara il suo Motu proprio dal 14 settembre,
festa dell'Esaltazione della S. Croce, a ricordare la
natura "sacrificale" della Messa che proprio nella riforma del 1969
era stata messa in ombra per avvicinarsi ai protestanti. Col rischio
di perdere l'essenziale.
Questo atto non è una concessione ai "lefebvriani", ma il
ritrovamento di un tesoro da parte di tutta la Chiesa.



[SM=g1740733] e per continuare a riflettere....

La "profezia" dell'agnostico Prezzolini:


All’indomani della chiusura dell’assise conciliare uscì un’edizione speciale dell’Osservatore della Domenica (una sorta di periodico settimanale illustrato de l’Osservatore Romano) ad essa dedicata. A pagina 176 delle 266 pagine della pubblicazione comparve, tra le molte dichiarazioni rilasciate a commento di ciò che con enfasi il periodico chiamava «Il Concilio dell’aggiornamento e dell’ecumenismo», quella appunto del pensatore di Lugano, che, senza scomodare lo Spirito Santo, né alcun carisma profetico, ma semplicemente e freddamente usando la via ordinaria della ragione, così scriveva:


«Mi ha colpito di più la dichiarazione sulla libertà religiosa. Di fronte a questo capovolgimento della dottrina cattolica, il resto mi è parso bazzecola. Credevo ci fosse un numero maggiore di prelati disposti a dare 5 in condotta a tutti i santi, da Agostino, a Domenico, che hanno combattuto, imprigionato, torturato, sterminato eretici. Oggi, con la libertà di coscienza, devono abbracciarli. E poi non era stata, questa libertà di coscienza, esplicitamente condannata dal Papa Gregorio XVI, che citava per l’appunto Sant’Agostino (‘quae peior mors animae, quam libertas erroris?’)… Il Papa la definiva sentenza erronea, anzi, meglio, un delirio.

E se un Papa si sbagliò, parlando ex cathedra, si potranno sbagliare altri Papi. Credo che i reverendi padri abbiano pensato di diventar popolari presso le masse. Ma no: esse vogliono pane e divertimenti, domandano di essere istruite e non di istruirsi, sono disposte ad accettare qualunque dottrina che abbia autorità. La libertà fu il sogno di una classe scelta che sceglieva con quella il tormento della ricerca. Le masse non sanno che cosa sia questo tormento.

Forse la Chiesa sarà salvata da preti ignoranti, ma pieni di Fede, da santi che obbediscono senza discutere, da uomini buoni che fanno la carità senza pubblicare opuscoli. Il Concilio ha corrisposto alle mie aspettative, perché ero pessimista. L’influenza del Concilio è stata grande, grande il suo buon successo. Ma dubito che si possa giudicare dagli effetti prima che sia passato un secolo o due. Può darsi che esso segni la data di un rinnovamento della Chiesa e può darsi che segni il principio della diluizione del Cristianesimo in un sincretismo vago.

In ogni modo la sua sfera d’azione è ristretta all’Occidente; ha segnato la sua preminenza fra le Chiese cristiane di quella di Roma. Ma non c’è nessuna possibilità che sia per modificare le chiese di altri Paesi neri o gialli. Islam, Buddismo, Confucianesimo, andranno avanti per loro conto. Il curioso è che i reverendi padri non si sono accorti che la vittoria del Cattolicesimo sulle altre sette religiose fu dovuta alla preminenza in esso dell’autorità: è questa che ha permesso ai cattolici di progredire e di avere radici più salde.

Le chiese protestanti hanno, prima del Concilio, proclamato la libertà di coscienza; e cos’è avvenuto? Hanno creato l’indifferentismo. Una volta che si fa entrare in casa la ragione, questa divora tutto: dogmi, storia, miti, costumi».




Caterina63
00venerdì 22 gennaio 2010 18:19
L'ottima riflessione di Padre Giovanni Scalese


Ermeneutica della riforma

Nel memorabile discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, commemorando i quarant’anni del Vaticano II, Benedetto XVI sostenne che i problemi di recezione del Concilio dipendono dal fatto che esso è stato interpretato secondo due ermeneutiche contrapposte: «Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura” ... Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa».

Tale distinzione è stata contestata, con un certo fondamento, da Joseph A. Komonchak (“Benedetto XVI e l’interpretazione del Vaticano II”: Chi ha paura del Vaticano II, a cura di A. Melloni e G. Ruggieri, Carocci, Roma, 2009): «Si resta subito colpiti dalla eccentricità dei nomi dati a questi due concorrenti orientamenti. In contrapposizione a quello che insiste sulla discontinuità ci si sarebbe infatti aspettati un’“ermeneutica della continuità o della fedeltà”. Similmente, in contrapposizione ad un’“ermeneutica della riforma”, ci si sarebbe aspettati che l’altra venisse presentata come “un’ermeneutica della rivoluzione”. Invece troviamo messe in tensione “discontinuità” e “riforma”, come se fossero necessariamente contrastanti» (pp. 71-72). In linea di principio, Komonchak ha ragione; ma è ovvio che, dietro le sue disquisizioni logiche, si nasconde un problema ideologico non indifferente, che infatti viene a galla immediatamente: «Che esse non siano necessariamente in contrasto è chiaro d’altra parte dalla semplice osservazione che una genuina riforma implica di per sé alla fine una discontinuità: qualcosa deve cambiare laddove c’è una riforma» (p. 72). Anche qui sembrerebbe che Komonchak affermi una ovvietà; eppure le cose non sono cosí semplici come il professore dell'Università Cattolica di Washington vorrebbe farci credere.

Solitamente, siamo portati a catalogare il termine “riforme” nel vocabolario della “sinistra moderata” (i cosiddetti “riformisti”, in contrapposizione ai “rivoluzionari” della sinistra estrema). A nessuno passerebbe mai per la mente che il concetto di “riforma” possa in qualche modo essere imparentato con la “destra” (dove possono esistere solo “conservatori”, “tradizionalisti” e “reazionari”, i quali per definizione sono per la conservazione dello statu quo e quindi contro qualsiasi riforma). Questo è ciò che gli schemi ideologici correnti ci obbligano a pensare. Allora — direte voi — liberiamoci di tali schemi e sforziamoci di guardare alle cose con oggettività. Sí, sarebbe auspicabile; ma siccome so già che qualcuno potrebbe contestare la possibilità stessa di oggettività e sostenere che è inevitabile essere condizionati da schemi soggettivi, sceglierò un altro schema (visto che tutto è soggettivo, dove sta scritto che quegli schemi sono gli unici possibili?): uno schema seguendo il quale si raggiungeranno conclusioni opposte. Lo schema ideologico che scelgo è quello che divide gli uomini fra “ottimisti” e “pessimisti”.

Gli “ottimisti” sono coloro che considerano la storia come un continuo, irrefrenabile progresso, il piú delle volte indipendente dalla volontà umana (determinismo). All’origine di questa mentalità c’è una filosofia della storia ispirata all’illuminismo, all’idealismo, al positivismo e all’evoluzionismo. I “pessimisti” sono quelli che considerano la storia come una continua decadenza rispetto a una mitica “età dell’oro”, identificata con le origini. Penso che ciascuno di noi possa facilmente identificarsi in uno di questi due gruppi. Sia ben chiaro che tale distinzione non è intercambiabile con quella — meramente politica — di “destra” e “sinistra”.

Ebbene, se adottiamo lo schema “ottimisti”/“pessimisti” o “progresso”/“decadenza”, ci accorgeremo che il concetto di riforma non appartiene agli “ottimisti”, ma ai “pessimisti”. Sempre, nella storia, i “riformatori” si sono presentati come quelli che criticavano il presente, considerato decaduto rispetto al passato, e auspicavano una qualche forma di “ritorno alle origini”. Anzi, approfondendo il discorso, ci accorgeremo che anche un’altra categoria che oggi va per la maggiore — quella di profezia — appartiene esattamente all’ideario dei “pessimisti”: nella storia di Israele, i profeti non sono mai stati dei rivoluzionari, ma semmai dei “nostalgici” dei bei tempi andati, e hanno sempre auspicato un ritorno al passato (si veda in proposito il saggio di Norbert Lohfink, I profeti ieri e oggi, Queriniana, Brescia, 1967).

A questo punto potremmo porci il problema: usando questo schema, da quale parte poniamo il Concilio Vaticano II? Certo, nella visione degli “ottimisti”, esso segna una tappa — non necessariamente in discontinuità col passato — dell’irrefrenabile cammino della Chiesa verso il suo “Punto Omega” (per usare un’espressione cara a Teilhard de Chardin). Può darsi che tale mentalità sia presente, almeno parzialmente, all’interno del Vaticano II, ed è senz’altro presente in molti dei suoi interpreti. Ma — potremmo chiederci — è stata questa l’autocomprensione che il Concilio ha avuto di sé stesso? Avrei qualche perplessità a rispondere affermativamente.

Non voglio escludere che nel Vaticano II sia presente, almeno in qualche passaggio, una mentalità “evoluzionistica”. Sono per altro note le accuse, rivolte al Concilio, di discontinuità e di rottura con la tradizione precedente; accuse che andranno prima o poi vagliate attentamente. Ma nell’insieme, almeno nelle intenzioni, a me pare che il Vaticano II si muova nel campo opposto, quello di chi guarda al presente della Chiesa (il “presente” di cinquanta anni fa) come in qualche modo distante (perché gradualmente allontanatosi) dall’“archetipo” (la Chiesa delle origini) e quindi bisognoso di “riforma”.

Prendiamo l’esempio della liturgia. Noi di solito parliamo, giustamente, di “riforma liturgica”, ma la Costituzione Sacrosanctum Concilium usa un termine ancora piú forte, che non lascia adito a dubbi: instauratio, che in italiano significa letteralmente “restaurazione”. La liturgia, secondo il Concilio, va restaurata, va cioè riportata alla sua bellezza originaria. È evidente il rischio sotteso a tale visione: quello dell’“archeologismo”, l’illusione cioè di tornare a un passato ideale, totalmente astratto, ignorando il cammino compiuto attraverso i secoli. È forse per questo motivo che la Sacrosanctum Concilium, per lo piú, accompagna il verbo instaurare con il verbo fovere, quasi a dire che non si tratta solo di tornare indietro, ma di andare avanti, incrementando, favorendo, migliorando ciò che già esiste. E forse è per questo motivo che il Santo Padre, nel suo discorso alla Curia Romana, usa il termine “riforma” come sinonimo di “rinnovamento nella continuità”.

Credo che l’atteggiamento del Concilio verso la liturgia possa essere considerato in qualche modo paradigmatico: l’attitudine “restauratrice” (so bene le reazioni che l’uso di tale espressione può provocare nell’animo di quanti si lasciano condizionare dagli schemi ideologici correnti, ma spero che si sappia andare oltre le risonanze emotive) è quella che ha ispirato il Concilio; si trattava di riportare la Chiesa al suo primitivo splendore.

È vero che il Vaticano II fa uso anche di altre espressioni. Per esempio, a proposito della vita religiosa parla di renovatio, giustamente tradotto con “rinnovamento”. Solo che renovare, in latino, molto spesso non è altro che un sinonimo di instaurare. Non mi pare un caso che il decreto Perfectae caritatis (n. 2) esorti i religiosi a un «continuo ritorno alle fonti di ogni vita cristiana e allo spirito originario degli istituti» (a voler essere pignoli poi si potrebbe notare che le traduzioni italiane tralasciano sistematicamente l’aggettivo da cui la parola renovatio è sempre accompagnata: “accomodata renovatio vitae religiosae”).

Ha dunque sbagliato Benedetto XVI a parlare di “ermeneutica della riforma” a proposito del Vaticano II? Niente affatto; anzi mi pare che, usando tale espressione, egli abbia colto perfettamente il vero spirito del Concilio: il Vaticano II non ha voluto in alcun modo essere una rottura col passato né, tanto meno, un “nuovo inizio” nella storia della Chiesa; esso, molto piú modestamente, si è prefisso solo di “riformare” la Chiesa, adattandola certo alle mutate condizioni dei tempi, ma sforzandosi soprattutto di riportarla alla sua originaria fisionomia.

Caterina63
00martedì 2 marzo 2010 10:52
Riflessioni sul mistero e la vita della Chiesa

Il Concilio Vaticano II: la Tradizione e le istanze moderne


del cardinale Georges Cottier, op
teologo emerito della Casa Pontificia

A quarantacinque anni dalla sua conclusione, il Concilio ecumenico Vaticano II continua a far discutere. Si susseguono periodicamente riletture e contributi variamente orientati su come interpretare e dove collocare l’ultimo Concilio in relazione al cammino storico della Chiesa, anche dopo che Benedetto XVI, con il suo
famoso discorso alla Curia romana del dicembre 2005, ha fornito autorevolmente criteri preziosi per una ricezione condivisa e non conflittuale di quella assise conciliare.

Ancora oggi, buona parte delle controversie interpretative si concentrano intorno al rapporto tra la Chiesa e l’ordine storico mondano, ossia l’insieme di istituzioni e contingenze politiche, sociali e culturali in cui i cristiani si trovano a vivere.

La storia del mondo di per sé non coincide hegelianamente con l’autorivelazione di Dio, ma non è nemmeno un flusso che scorre insensato e indifferente rispetto alle vicende proprie della storia della salvezza, quella storia di grazia attraverso la quale Dio si rivela e si comunica agli uomini. I cristiani, nelle circostanze e nei contesti storici, possono discernere opportunità e occasioni più o meno favorevoli alla missione loro affidata di annunziare e testimoniare la salvezza operata dal Signore. Si tratta di «cogliere i segni dei tempi»: così lo stesso Concilio Vaticano II ha descritto questa particolare forma di discernimento, che è favorita dal fatto di tener presenti alcune distinzioni importanti.

Una di queste distinzioni è quella che passa tra la Chiesa e le diverse possibili forme di cristianità.
C’è una sola Chiesa di Cristo, durante tutto il corso della storia e fino nell’eternità: quella che è allo stesso tempo la Chiesa di oggi e la Chiesa di sempre. Ma poi ci sono parecchie cristianità. Il concetto di cristianità è un concetto storico.

Quando una società è composta da una maggioranza di cristiani, in un simile frangente, avviene che la fede ispiri anche l’ordine temporale, inteso come l’ambito della cultura e delle forme giuridiche e politiche. In simili circostanze si manifesta anche a livello della convivenza sociale il fatto che la grazia non distrugge la natura, ma la sana in quanto ferita, la conforta e la eleva. Si tratta dell’apporto del Vangelo al mondo temporale riconosciuto nella autonomia e consistenza proprie. E questo può essere un riflesso sociale dell’esistenza di comunità cristiane numerose, come sono state quelle presenti in Europa fino a ora. Ma non è questa l’unica forma di cristianità possibile. Basta pensare alle cristianità che nascono in un contesto sociale, culturale e religioso diverso da quello ispirato per secoli dalla cristianità occidentale.

I papi moderni, ben prima del Concilio, hanno riconosciuto in termini definitivi che l’evangelizzazione non va confusa con la trasposizione delle forme assunte dalla cristianità occidentale in altri posti. E che quindi le culture e i contesti sociali e civili vanno considerati nelle loro peculiarità e diversità positive. Così che si può immaginare una cristianità africana, o indiana, o cinese.

Si può anche immaginare una cristianità che rimane una piccola minoranza. La Sacra Scrittura ripete che il Vangelo deve essere annunciato a tutte le nazioni, ma poi il fiorire della vita cristiana, quando avviene, avviene in maniera misteriosa e imprevedibile, come già si vede negli Atti degli Apostoli. «Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo», ha detto Benedetto XVI parlando ai seminaristi di Roma, lo scorso 12 febbraio.

Tra le ragioni di molte difficoltà nei rapporti tra la Chiesa e l’ordine mondano temporale registrate in epoca moderna e contemporanea c’è anche questa: in alcuni casi, davanti ai rivolgimenti della storia e al consolidarsi di nuovi assetti culturali, sociali e politici, in alcuni ambienti cristiani, l’unico criterio di valutazione è diventato la maggiore o minore conformità di tali assetti ai modelli che avevano dominato nei secoli precedenti, quando l’unanimità di matrice cristiana della società civile finiva per plasmare o almeno influenzare anche gli ordinamenti politici e sociali.

Questo atteggiamento spiega almeno in parte anche le obiezioni che fin dal dibattito conciliare hanno accolto alcuni documenti del Concilio, come la dichiarazione
Dignitatis humanae sulla libertà religiosa e la dichiarazione Nostra aetate sui rapporti con l’ebraismo e le altre religioni. I critici sostenevano che tali documenti rappresentavano uno strappo rispetto ad alcuni pronunciamenti del magistero sociale dei secoli immediatamente precedenti.

In effetti, i papi dopo il Concilio Vaticano II usano con accezione positiva le formule relative alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza che soltanto un secolo prima apparivano condannate in alcuni documenti magisteriali. Più che evidenziare una contraddizione, tale cambiamento è l’effetto di una chiarificazione avvenuta davanti al mutare dei contesti politici e sociali. A partire dal Settecento, tali formule erano usate dalla massoneria per sostenere che la coscienza umana è perfettamente autonoma anche davanti a Dio. Mentre la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae non sancisce questo soggettivismo relativista.

Essa, al contrario, ripete che la verità può essere conosciuta dagli uomini e che davanti a Dio ogni uomo ha l’obbligo di coscienza di ricercare la verità. Piuttosto, il documento valorizza la formula della libertà religiosa come criterio secondo cui nel ricercare e riconoscere la verità nessuno debba essere costretto o impedito dall’esterno. Lo Stato non può porsi come giudice delle coscienze. Non può imporre con coercizione esterna l’atto di fede o di rinnegamento della fede, qualunque essa sia.

Questa distinzione, rivelatasi decisiva per chiarificare l’intera problematica, non è emersa subito. Nel tempo, davanti alle nuove circostanze storiche, c’è stata una sorta di purificazione che ha distinto il dato essenziale da custodire – in questo caso il fatto che la verità può essere conosciuta, e che la coscienza è tenuta ad accoglierla e a seguirla, quando la conosce – da alcuni fattori relativi, contingenti. Ossia quelle concezioni fiorite in epoca di cristianità, per le quali gli Stati e gli ordinamenti che regolano la convivenza civile non possono essere neutrali rispetto alle diverse identità religiose, essendo essi stessi garanti della tenuta del cristianesimo nella società (si pensi al cuius regio, eius religio del Trattato di Westfalia, che significava di fatto una subordinazione della Chiesa allo Stato, e che la dottrina cattolica non ha mai accettato).
 
Nel tempo, le concezioni si sono talvolta irrigidite in una complessiva condanna del moderno, quando a partire dalla Rivoluzione francese l’ordine costituito non si è più concepito né di nome né di fatto come un ordine sociale cristiano. Il perdurare di simili concezioni si può rintracciare anche in alcune obiezioni da sempre rivolte ai documenti conciliari già citati, quando essi vengono liquidati come una rottura della “Tradizione” consumatasi in forma di cedimento alle istanze e alla cultura dei nuovi tempi.

I documenti del Concilio Vaticano II esprimono la semplice apertura nei confronti della pluriforme realtà umana e degli ordinamenti che la configurano nell’attuale fase storica: il contesto di un mondo globale e plurale, che implica la convivenza tra comunità e persone con i più diversi profili culturali e religiosi. Ma proprio tale apertura nei confronti degli ordinamenti mondani è il tratto distintivo che ha segnato in maniera sui generis e fin dall’inizio la presenza dei cristiani nelle diverse società, fin dai tempi apostolici e dei Padri della Chiesa.
 
Fin da quando i primi cristiani si sono trovati davanti un impero che era caratterizzato esso stesso dalla divinizzazione dell’imperatore, dal culto degli idoli, da concezioni filosofiche e culturali strutturate, da pratiche e costumi contrari alla vita e alla dignità della persona. Il rifiuto da parte dei cristiani di tutto quello che non è compatibile con la dottrina degli apostoli non si è mai espresso come antagonismo radicale rispetto all’ordine costituito in quanto tale nei suoi capisaldi giuridici, culturali, politici e sociali.

Se si percepisce la trascendenza della vita di grazia, si coglie anche che la vita di grazia non nega gli ordinamenti culturali, sociali e politici di questo mondo, quando sono compatibili con la legge di Dio, né si pone di per sé in dialettica con essi, e nello stesso tempo non è mai riducibile a essi. Questo è il senso della parola “soprannaturale”, che forse dovremmo rimettere in circolazione.
In definitiva, proprio l’apertura promossa dal Concilio Vaticano II rispetto ad alcune istanze del tempo moderno è un’ulteriore conferma che il Concilio si muove nel solco della Tradizione. Perché proprio la fedeltà alla Tradizione suggerisce di volta in volta la lettura dei segni dei tempi più tempestiva e appropriata alle condizioni date.

Tale apertura non decade mai in modernismo ideologico, non considera mai la modernità come un valore in sé. Come scriveva Paolo VI nel
Credo del popolo di Dio, «Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo (cfr. Gv 18, 36), la cui figura passa (cfr. 1Cor 7, 31); e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini». Ma quello stesso amore – proseguiva Paolo VI – «porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora (cfr. Eb 13, 14), essa li spinge anche a contribuire – ciascuno secondo la propria vocazione e i propri mezzi – al bene della loro città terrena». Sempre aperti a riconoscere che nelle attuali contingenze ci sono cose buone e cose cattive, c’è il male, c’è il peccato, nuove insidie, ma anche nuove occasioni per la salvezza delle anime, come quelle che si aprono per milioni di non battezzati che vengono a vivere in Paesi di antica tradizione cristiana.

Il porsi in maniera aprioristicamente in contrasto rispetto ai contesti politici e culturali dati non appartiene di per sé alla Tradizione della Chiesa. È piuttosto una connotazione ricorrente nelle eresie di radice gnostica, che spingono il cristianesimo in una posizione pregiudizialmente dialettica rispetto agli ordinamenti mondani, e interpretano la Chiesa come un contropotere rispetto ai poteri, alle istituzioni e ai contesti culturali costituiti nel mondo.

È una caratteristica comune a tutte le correnti di radice gnostica quella di considerare il mondo come male, e quindi anche gli Stati e gli ordinamenti mondani come delle strutture da sovvertire.
Nei rapporti tra la Chiesa e il mondo moderno è riaffiorata talvolta questa tentazione: l’impulso a concepire la Chiesa come forza antagonista di quell’ordine politico e culturale che dopo la Rivoluzione francese non si presentava più come un ordine cristiano.

In questo senso, riguardo al rapporto tra i cristiani e l’ordine temporale, si rivela straordinariamente attuale il criterio suggerito da sant’Agostino, così come viene delineato nel volume giovanile di Joseph Ratzinger
L’unità delle nazioni, appena ripubblicato dalla casa editrice Morcelliana. Tra Origene tentato dall’antagonismo gnostico verso gli ordinamenti mondani e Eusebio che li sacralizza, ponendo le premesse di tutti i cesaropapismi, Ratzinger descrive la fecondità della prospettiva di Agostino, che non sacralizza né combatte a priori le istituzioni secolari, ma le rispetta nella loro autonoma consistenza e nel rispettarle le relativizza, ne riconosce l’utilità per la condizione mondana, tenendo sempre distinta questa condizione e questa utilità dalla prospettiva messianico-escatologica.

Secondo Ratzinger, Agostino nel
De civitate Dei «non mira né alla ecclesializzazione dello Stato, né a una statalizzazione della Chiesa, ma in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono rimanere ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel Corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che la storia abbia raggiunto il suo fine».

© Copyright 30 Giorni, gennaio 2010
Caterina63
00venerdì 23 aprile 2010 14:27

"Ermeneutica della riforma" di padre Giovanni Scalese

Articolo da me pubblicato sul n. 1/2010 dell'Eco dei Barnabiti (pp. 12-13). I lettori del blog hanno familiarità con certe problematiche. L'articolo vuole essere un tentativo di rendere partecipi delle medesime tematiche i semplici fedeli.


Iniziamo con questo articolo una nuova rubrica dell’Eco: l’“Osservatorio ecclesiale”. Il Grande Dizionario dell’uso di Tullio de Mauro dà, di “osservatorio”, la seguente definizione: «Luogo o edificio opportunamente collocato e dotato delle necessarie attrezzature per l’osservazione scientifica di eventi naturali»; e, per estensione, «Istituzione che ha il compito di rilevare l’andamento di fenomeni economici e sociali». Dunque, se ho ben compreso le intenzioni della direzione dell’Eco, compito della nuova rubrica dovrebbe essere quello di rilevare l’andamento dei fenomeni ecclesiali.

Ce n’è bisogno? Beh, penso proprio di sì; perché certe volte, pur partecipando attivamente alla vita della Chiesa, non ci accorgiamo appieno di quel che sta accadendo intorno a noi e continuiamo a ragionare e a giudicare la realtà con gli schemi che potevano andar bene venti anni fa, ma che non sono più adatti a comprendere la situazione presente. Ricordo che una trentina di anni or sono — eravamo agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II — io, che ero stato un grande ammiratore di Paolo VI, un giorno espressi qualche perplessità a proposito degli orientamenti del nuovo Papa. Ebbene, Mons. Andrea Erba, che era ancora un semplice sacerdote, mi disse: «Ricorda che la Chiesa va avanti». Lì per lì, quella risposta non mi convinse del tutto; ma ora, a distanza di anni, devo dire che aveva pienamente ragione: la Chiesa, sotto la guida dello Spirito, continua il suo cammino; sarebbe miope non accorgersi dell’evoluzione che avviene in essa, come del resto nella società e in qualsiasi altra realtà.

Ho l’impressione che stia accadendo qualcosa di simile anche ai nostri giorni. Sono ormai cinque anni che è stato eletto Benedetto XVI, ma si direbbe che qualcuno non se ne sia ancora accorto. Ci sono molti che continuano a “pensare” la Chiesa come se ci fosse ancora Papa Wojtyla, e continuano a fare antipatici confronti fra i due Papi e a giudicare l’attuale Pontefice sul modello del suo predecessore. Ma dimenticano una verità molto semplice: che Giovanni Paolo II è morto, e che alla guida della Chiesa c’è oggi Benedetto XVI. Si potrà essere più o meno d’accordo con le decisioni del regnante Pontefice, ma non si può ignorare il segno che i suoi interventi stanno lasciando nella Chiesa. Se è vero che ciascuno (e quindi anche il Papa) è figlio del proprio tempo; è altrettanto vero che ciascuno (e, a maggior ragione, il Papa) dà un contributo all’epoca in cui si trova a vivere e operare.

Compito di questa rubrica non è quello di esprimere giudizi di valore, positivi o negativi che siano; trattandosi di un “osservatorio”, essa dovrà limitarsi a osservare la realtà. Ciascuno poi, per suo conto, potrà, se vorrà, procedere alle proprie personali valutazioni; ma, perché ciò possa avvenire, è necessario prima prendere coscienza di ciò che si sta muovendo intorno a noi.

Fatta questa premessa, potremmo chiederci quali siano le direttrici, gli orientamenti di fondo dell’attuale pontificato: è esattamente la domanda a cui cercheremo di dare una risposta con gli articoli della nuova rubrica durante l’anno. Essendo questo il primo numero dell’Eco del 2010, ci chiederemo se esista una chiave di lettura, un criterio unificante che ci permetta di “leggere” il pontificato di Benedetto XVI.

Non sarà un caso (per un credente nulla può essere considerato fortuito, ma tutto rientra in un preciso disegno divino) che il Card. Joseph Ratzinger sia stato eletto Papa nel 2005, quarantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II. Ebbene, una delle prime problematiche affrontate dal nuovo Pontefice è stata proprio l’interpretazione da dare al Concilio. Lo fece nel memorabile discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 (otto mesi dopo la sua elezione). In quell’occasione Benedetto XVI pose questa domanda: «Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?». Domanda a cui diede la seguente risposta:

«Tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o — come diremmo oggi — dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino».

E proseguiva illustrando i tratti essenziali delle due contrapposte “ermeneutiche” e i diversi frutti della loro applicazione. Non possiamo ora noi ripercorrere tutta l’argomentazione di Papa Ratzinger; ciascuno, per proprio conto, potrà leggersi nella sua interezza il discorso nei tradizionali repertori di documentazione ecclesiale (ce n’è uno ormai alla portata di tutti: il sito web della Santa Sede www.vatican.va). Per il momento ci accontenteremo di rilevare solo alcuni punti:

1. Il discorso del 22 dicembre 2005, pur essendo formalmente un’allocuzione per la presentazione degli auguri natalizi, trattandosi del primo grande discorso del pontificato, assume un valore che potremmo definire “programmatico”.

2. Il problema della corretta interpretazione del Concilio, a quarant’anni dalla sua conclusione, riveste un’importanza fondamentale in questo momento critico nella vita della Chiesa. Non è più possibile continuare a ripetere i soliti stereotipi; occorre assumere un atteggiamento critico, non per mettere in discussione il Concilio, ma per chiedersi che cosa esso ha detto veramente, se il suo messaggio è stato compreso correttamente, se i suoi insegnamenti sono stati realmente attuati e quali ne sono stati i risultati.

3. Benedetto XVI, nel pieno esercizio delle sue funzioni magisteriali, come autentico interprete del Vaticano II, ce ne indica la corretta chiave di lettura: la cosiddetta “ermeneutica della riforma”, da lui spiegata come ermeneutica “del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. D’ora in poi, i testi del Vaticano II non potranno più essere interpretati alla luce di un fantomatico “spirito del Concilio” (di cui non si conoscono con precisione i tratti e non si sa bene chi siano i custodi), ma alla luce della ininterrotta tradizione della Chiesa. Non perché in tale tradizione non sia possibile alcuno sviluppo, ma perché il rinnovamento va effettuato nella continuità della Chiesa, che rimane la stessa prima e dopo il Concilio.

4. Personalmente ritengo di trovare in questa “ermeneutica della continuità” la chiave di lettura non solo del Concilio, ma dello stesso pontificato di Benedetto XVI. Le sue decisioni, i suoi gesti possono essere capiti solo in questa luce. Molti dipingono Papa Ratzinger come un Pontefice tradizionalista, nostalgico e restauratore; questo perché continuano ad applicare a lui gli usurati schemi ideologici che dividono sbrigativamente gli uomini fra progressisti e conservatori. Ma, così facendo, rischiano di non capire nulla della “politica” di Benedetto XVI. Se invece ci sforziamo di leggere i suoi molteplici interventi alla luce del criterio della “ermeneutica della riforma”, ecco che tutto acquisterà un senso. Papa Ratzinger non vuole riportare indietro le lancette della storia; vuole semplicemente che la Chiesa si rinnovi rimanendo sé stessa.
Caterina63
00martedì 18 maggio 2010 19:36
Un convegno su "Il concilio Vaticano II ieri e oggi"

Il principio e la sua applicazione


In occasione dei cento anni dalla fondazione della rivista "Recherches de Science Religieuse", si tiene il 19 maggio all'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede un convegno sul tema "Vaticano II ieri e oggi". Ai lavori prendono parte tra gli altri il padre gesuita direttore e redattore capo della rivista, Christoph Theobald, e il cardinale teologo emerito della Casa Pontificia, che ha sintetizzato  per  noi  gli  argomenti trattati.

di Georges Cottier o.p.  cardinale

"Vaticano II ieri e oggi" è il tema di un dibattito, che si svolge il 19 maggio, nella residenza dell'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. Il punto di partenza è uno studio del padre gesuita Christoph Theobald, che propone una nuova chiave di lettura del concilio.

Come affermare la differenza cristiana di fronte al mondo contemporaneo? Nei testi conciliari, padre Theobald individua due modi giustapposti per rispondere alla domanda, senza che si veda una loro possibile sintesi. Qual è dunque il nostro rapporto rispetto alla società e alla cultura? Questa è la domanda centrale.

In relazione alla fede come accoglienza della Parola divina che è parola di vita, come concepire "l'immagine che ci facciamo di Cristo e la nostra relazione con Dio"? Cristo stesso, immagine del Padre, è assieme rivelatore e oggetto della rivelazione, datoci nella fede. La ricchezza e la trascendenza del suo mistero richiedono una pluralità d'espressioni trasmesse per la maggior parte dalla Scrittura o dal Magistero. Queste espressioni non sono esclusive, ma s'integrano  nel mistero, che il credente  vive quasi spontaneamente partecipando alla vita liturgica della Chiesa.

Giustamente, padre Theobald rileva che l'enciclica di Leone XIII Rerum novarum (1891) ha significato una svolta nell'atteggiamento della Chiesa di fronte al mondo moderno. La prima reazione era stata di timore:  il declino della cristianità era percepito come una minaccia per la Chiesa stessa. Leone XIII apre una via di collaborazione, in contrasto con il rigetto totale anteriore.
Ma il mondo "moderno", ha anch'esso la sua storia e le sue ambiguità. È condizionato dall'esperienza delle guerre di religione. Una delle espressioni più caratteristiche dell'illuminismo è il deismo, nel quale s'iscrive il trattato di Locke sulla tolleranza, che mette in causa l'idea stessa di verità e la natura dei nostri doveri di fronte a essa. Questa teoria ha fornito le premesse alle prime affermazioni sulla libertà religiosa, a tal punto che non si percepiva più la possibilità di scindere le "conclusioni" da queste premesse. Così si spiega la prima reazione, d'indole pastorale, del Magistero. La giustificazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa dovuta alla Dignitatis humanae non è riducibile alle teorie dell'illuminismo. È veramente innovatrice, in consonanza con il Vangelo.

Poco più di vent'anni separano la Rerum novarum dal concilio Vaticano i che ha trattato dei rapporti fra conoscenza di fede e conoscenza naturale, distinte ma chiamate a entrare in simbiosi. Questa considerazione s'iscrive nel prolungamento della dottrina tradizionale della grazia, la quale guarisce la natura ferita dal peccato, la eleva alla partecipazione alla vita divina, la conduce alla sua perfezione.

La formula è trascritta in Lumen gentium (n. 17), che padre Theobald cita. È la chiave d'interpretazione del decreto sulle missioni Ad gentes e della dichiarazione Nostra aetate.
La missione della Chiesa deve essere considerata nella sua totalità. Ma in questa totalità c'è un ordine prioritario dal principio alla conseguenza. La missione principale della Chiesa è l'annuncio della salvezza portata da Gesù Cristo morto per i nostri peccati e risorto nella gloria. Questo messaggio è universale. Ma l'annuncio del Regno al quale tutti sono chiamati non significa indifferenza per la città degli uomini. Al contrario, appartiene al messaggio evangelico di animare e ispirare l'impegno dei cristiani nella città terrestre.

Il merito di padre Theobald è quello di attirare la nostra attenzione sui grandi cambiamenti intervenuti nella città occidentale di fronte al cristianesimo e alla Chiesa. La conseguenza è che un principio, sempre valido, quello dell'ispirazione del temporale dalle energie evangeliche, è suscettibile, secondo le circostanze storiche, di rivestire forme assai differenziate. Una cosa è il principio, un'altra cosa è la sua forma "intransigente, integrale, utopica" caratteristica di alcuni movimenti degli anni Trenta del Novecento.

La distinzione è sempre stata rispettata? Riferendosi a Paolo VI, padre Theobald parla d'identificazione allorché il Papa scrive "alleanza".

Sarebbe necessario d'altronde procedere a un'analisi dei concetti di moderno e di post-moderno, dati come scontati, a partire dalle loro fonti intellettuali.

Inoltre, la rilettura del concilio non può non tener conto del contesto storico stesso dell'avvenimento. Quando i padri parlano d'ateismo, hanno in mente la Chiesa del silenzio e l'ateismo di Stato con il dominio assoluto dell'educazione e dell'informazione e il fatto che molti vescovi dell'est furono impossibilitati ad andare a Roma. Più radicalmente, il numero 21 di Gaudium et spes che tratta del tema, si conclude con l'affermazione di Agostino, nelle Confessioni, Fecisti nos ad te (Domine) et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te. Abbiamo qui una traduzione diretta della visione biblica dell'uomo.

Se questo è vero, come lo è, l'esistenza secolarizzata non può rappresentare una forma compiuta d'umanesimo.
Lo studio di Dignitatis humanae conduce a distinguere nell'insegnamento conciliare un'altra maniera di considerare la relazione con la cultura contemporanea:  la "via evangelica" di Gesù, caratterizzata da un "rispetto assoluto dell'interlocutore". Questo rispetto dell'alterità e dell'unicità della coscienza altrui ha portato il Signore ad accettare la croce piuttosto d'imporre con la forza la verità ai suoi interlocutori.

Padre Theobald ha certamente ragione d'insistere sulle esigenze evangeliche della qualità dei mezzi di trasmissione del messaggio. Ma applicata alle vie pastorali proposte dal concilio, ci si può chiedere se l'alternativa croce e violenza, dell'autore, sia pertinente. Il progetto qualificato di "riconquista" era necessariamente una pressione sulle coscienze, una violenza? L'applicazione non mi pare adeguata quando si tratta di esperienze  come quelle dell'Azione Cattolica. Un'analisi più sottile della storia del movimento, mi sembra necessaria.

Lo studio di padre Theobald merita comunque attenzione per il tema centrale che egli tratta.


(©L'Osservatore Romano - 19 maggio 2010)
Caterina63
00mercoledì 26 maggio 2010 12:57
Preziosa e stupenda analisi di padre Giovanni Cavalcoli o.p. che scrive al blog di messainlatino (raggiungibile dal titolo che è linkato) quanto segue....

Padre Cavalcoli ci scrive...

Il postulatore della causa di beatificazione di Padre Tyn, il domenicano tradizionalista morto in odore di santità, ci esorta, incoraggia e consiglia. Il dibattito è aperto.

Cari amici,

ho letto con interesse quanto riferite del libro di Introvigne sull'attuale crisi della Chiesa. Mi trovo d'accordo con l'analisi dell'illustre sociologo. Vorrei solo aggiungere alcune considerazioni dal mio punto di vista di teologo. Per quanto riguarda il valore degli insegnamenti del Concilio, come cattolico concordo pienamente con voi nel sottolineare il rispetto che dobbiamo al Concilio. Vorrei tuttavia fare una distinzione fra gli insegnamenti dottrinali e quelli pastorali del Concilio.

Circa i primi, come saprete, un Concilio ecumenico, anche se insegna qualcosa di nuovo come è il caso di questo concilio, è infallibile e non è neppur ipotizzabile che esso cambi o smentisca qualche dottrina tradizionale o precedentemente insegnata: si tratta solo di interpretare bene, ascoltando l'interpretazione della Chiesa, nella "continuità e progresso", come ha detto il Papa e non certo di lasciarsi sedurre dall'interpretazione dei modernisti (io li chiamo così, piuttosto che "progressisti"). E' da questi insegnamenti che può scaturire quella "nuova Pentecoste", della quale parlò Giovanni XXIII (proprio oggi è Pentecoste!).

Invece sul piano delle direttive pastorali anche un Concilio non è infallibile, per cui è concesso ad un buon cattolico avanzare eventualmente, con prudenza, qualche critica. E su questo punto penso si possa dire che certi disordini del postconcilio siano da addebitare effettivamente a direttive pastorali sbagliate dello stesso Concilio, come per esempio:
1. l'ambiguità di certe espressioni, che si prestano ad un'intepretazione antitradizionale;
2. la mancanza di una precisa condanna degli errori moderni;
3. un tono troppo ottimistico nei confronti del mondo moderno;
4. la mancanza dei "canoni", che sempre sono esistiti nei concili del passato. Essi sono sempre stati pastorialmente utili, perchè hanno espresso con formule brevi, chiare ed inequivocabili gli errori da evitare.

Secionda considerazione. Come sapete bene, la crisi che tormenta oggi la Chiesa, tanto che il Papa di recente ha parlato di "passione della Chiesa" per suoi figli "ribelli" e "riottosi", è sì una crisi della liturgia, ma più in radice (e qui parlo da teologo) è una crisi di fede, una crisi dottrinale (ribellione al Magistero); in altre parole, circolano molte eresie non corrette e non confutate, che ingannano il popolo di Dio e persino certi pastori che viceversa avrebbe il compito di metterci in guardia. La liturgia modernista è conseguenza di una teologia modernista (per es. Rahner).

Ora questo modernismo ha ssunto oggi molto potere, anche nell'episcopato. Come fare? Il Papa col suo Motu proprio ha fatto una mossa abilissima: a parte il valore di per sè della Messa tridentina, non potendo affrontare di petto i modernisti, ha aggirato l'ostacolo trovando l'espediente migliore: la promozione della liturgia tradizionale! ve lo vedete un sacerdote rahneriano o scillebeeckxiano che celebri la Messa tradizionale? no certamente! Semmai sarà un tomista!

Per questo, mentre vi dico la mia ammirazione per il vostro amore per la Messa tridentina, vorrei, come teologo, invitarvi a prendere in maggior considerazione le RAGIONI TEOLOGICHE della vostra bella devozione: ossia la piena ortodossia, che certamente voi amate e già accettate, anche il linea col Concilio (che è eminente testomone della Tradizione!) e la confutazione dell'errore (d'accordo, riconosco che spetta soprattutto a noi teologi). Da questo punto di vista però vorrei presentarvi la figura di un teologo domenicano esemplare, il Servo di Dio Padre Tomas Tyn (1950-1990), il quale seppe saggiamente conciliare tradizione e progresso (celebrava periodicamnte la Messa tradizionale, mentre solitamente clebrava quella di Paolo VI). Potete visitare i suoi siti:
http://www.studiodomenicano.com/ e http://www.arpato.org/. Congratulazioni per il vostro lavoro, auguri e un caro saluto.

P.Giovanni Cavalcoli,OP
Postulatore nella Causa di Beatificazione di P.Tomas Tyn
e docente di Teologia Sistematica nella Facoltà Teologica di Bologna.

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DANTE PASTORELLI

Il p. Cavalcoli, che è ottimo teologo (scrive anche su Divinitas, la più autorevole rivista di teologia italiana, che fu diretta da mons. Piolanti ed ora lo è da mons. Gherardini) mi sembra che confermi quanto qui da diversi fra noi noi han sempre scritto e ribadito prendendosi i rabbuffi e le contumelie degli sprovveduti e dei presuntuosi modernisti e neocat. Non possiamo che esser felici, e non per vanagloria, di questo alto riconoscimento che ci sosterrà nella nostra battaglia.



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la mia riflessione:

ah!!! che bella ventata d'aria fresca...si, lo so, perdonatemi, come domenicana sono di parte e affezionata a padre Giovanni Cavalcoli o.p. che ritengo un padre per me.... Smile  
Quanti ottimi spunti di meditazione che ci ha donato!!!  
Più volte abbiamo sottolineato proprio in questo Blog (e per questo ringrazio sempre la Redazione che gestisce con questo spazio, oserei dire l'unico spazio dedicato ad un confronto veramente edificante delle problematiche che viviamo nella Chiesa di oggi...) l'importanza nel valutare ciò che realmente fu un danno per la Chiesa (pastorali arbitrarie lontano dal Magistero) da ciò che non lo fu (il Concilio in quanto tale!) e come per altro sottolinea a ragione Dante Pastorelli...  
 
Suggerisco alla Redazione, ma anche alla pazienza di Dante... di non far scivolare nell'oblio i punti tracciati da padre Cavalcoli che sono i seguenti:  
 
1. l'ambiguità di certe espressioni, che si prestano ad un'intepretazione antitradizionale; 2. la mancanza di una precisa condanna degli errori moderni; 3. un tono troppo ottimistico nei confronti del mondo moderno; 4. la mancanza dei "canoni", che sempre sono esistiti nei concili del passato. Essi sono sempre stati pastorialmente utili, perchè hanno espresso con formule brevi, chiare ed inequivocabili gli errori da evitare.  
 
 
 
Mi tornano a mente le parole espresse due mesi orsono dal Vescovo di Trieste quando scrisse:  
 
Benedetto XVI ha dato degli insegnamenti sul Vaticano II che moltissimi cattolici apertamente contrastano, promuovendo forme di controformazione e di sistematico magistero parallelo guidati da molti “antipapi”; ha dato degli insegnamenti sui “valori non negoziabili” che moltissimi cattolici minimizzano o reinterpretano e questo avviene anche da parte di teologi e commentatori di fama ospitati sulla stampa cattolica oltre che in quella laica; ha dato degli insegnamenti sul primato della fede apostolica nella lettura sapienziale degli avvenimenti e moltissimi continuano a parlare di primato della situazione, o della prassi o dei dati delle scienze umane; ha dato degli insegnamenti sulla coscienza o sulla dittatura del relativismo ma moltissimi antepongono la democrazia o la Costituzione al Vangelo.
 
Per molti la Dominus Jesus, la Nota sui cattolici in politica del 2002, il discorso di Regensburg del 2006, la Caritas in veritate è come se non fossero mai state scritte.
 
La situazione è grave, perché questa divaricazione tra i fedeli che ascoltano il papa e quelli che non lo ascoltano si diffonde ovunque, fino ai settimanali diocesani e agli Istituti di scienze religiose e anima due pastorali molto diverse tra loro, che non si comprendono ormai quasi più, come se fossero espressione di due Chiese diverse e procurando incertezza e smarrimento in molti fedeli.  
 
 
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Lo stesso Benedetto XVI, seppur in un contesto diverso, a gennaio u.s. ha ribadito la pericolosità ESISTENTE di "pseudo-pastorali" (per la prima volta ha usato questo termine!!) , dice il Papa " "Occorre rifuggire da richiami pseudopastorali che situano le questioni su un piano meramente orizzontale, in cui ciò che conta è soddisfare le richieste soggettive  "  
 
Una cosa è certa non è un "altro" Concilio che occorre fare come taluni dicono, al contrario, occorre CORREGGERE tutto ciò che questo Concilio NON ha mai detto e che è stato fatto passare come magistero...e i punti chiave sono quelli elecanti da padre Giovanni Cavalcoli, almeno in parte...  
Cosa possiamo fare noi "piccolo gregge"? INFORMARE.... e pregare... e mai scoraggiarsi... e cominciare a diffondere le sante testimonianze anche del DOPO-CONCILIO come è appunto la figura venerabile di padre Tomas Tyn o.p. che già durante le sue prediche denunciava le false interpretazioni attribuite al Concilio...  
Smile

Caterina63
00lunedì 31 maggio 2010 19:09
L'ecclesiologia di comunione e il concilio Vaticano II

Un corpo e un popolo



Si è svolta a Venezia la riunione della rivista internazionale di teologia e cultura "Communio" fondata 38 anni fa da Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac e Joseph Ratzinger. L'evento ospitato dal cardinale patriaca di Venezia Angelo Scola si è aperto con un seminario sull'ecclesiologia della comunione. Pubblichiamo stralci di uno degli interventi e un breve resoconto della riunione.

di Erio Castellucci

È diventato comune nell'ecclesiologia adottare la formula "ecclesiologia di comunione" come espressione riassuntiva della visione della Chiesa proposta dall'ultimo concilio. Effettivamente la categoria di "comunione" è centrale nel Vaticano II e sintetizza bene il nucleo della sua visione ecclesiologica. Vanno però avanzate almeno tre precisazioni, che permettono di articolare meglio il contenuto di questa "comunione" e soprattutto di legarlo alla "missione".
 
Disponiamo oggi di due grandi ermeneutiche del Vaticano II, talvolta indicate con l'uso di binomi dialettici, come:  modello evangelizzatore o ritualista, paradigma democratico o autocratico, Chiesa carismatica o istituzionale, linea progressista o conservatrice, e così via. In effetti queste due impostazioni ermeneutiche, imperniate rispettivamente sull'idea della discontinuità e della continuità, presero avvio subito dopo la conclusione dell'assise conciliare, e vantano entrambe nomi  di  rilievo.  Benedetto XVI ha illustrato con chiarezza le due ermeneutiche - da lui definite "della discontinuità e della rottura" e "della riforma, del rinnovamento e della continuità" - nell'importante discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, dove ha preso nettamente posizione in favore della seconda.

La prima ermeneutica "rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi:  solo essi rappresenterebbero il vero spirito del concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. In una parola:  occorrerebbe seguire non i testi del concilio, ma il suo spirito".

L'altra ermeneutica non nega affatto che nei grandi temi trattati dal concilio "poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi. E proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma".

L'ecclesiologia di comunione, dunque, ha soppiantato o integrato quella societaria? L'ha senza dubbio integrata. Per il Vaticano II continua a essere vero che la Chiesa è società, ma questo aspetto viene visto sotto la prospettiva della "comunione" e da essa completato e integrato. Infatti, sia la dimensione societaria che quella comunionale/comunitaria sono bene attestate nei documenti conciliari. Una quindicina sono le ricorrenze significative del linguaggio societario nei testi del Vaticano II. Un centinaio di volte viene utilizzato il linguaggio comunionale/comunitario. Tutti questi aspetti della comunione, se si vuole interpretare fedelmente il Vaticano II, vanno letti assieme:  ne deriva che la dimensione societaria fa parte essenziale e non accessoria della comunione così come il concilio l'ha voluta delineare; una comunione però fondata non solo sull'armonia orizzontale tra le componenti della Chiesa, ma sull'azione trinitaria, cristologica e sacramentale nella vita della Chiesa stessa.

La cosiddetta ecclesiologia societaria era già stata ridimensionata e integrata dalla Mystici corporis nella concezione teologicamente più ricca del "corpo mistico di Cristo", dove ritornava a essere posta in primo piano la presenza attuale e vivificante del Signore nella Chiesa. Il Vaticano II operò, a sua volta, un altro ridimensionamento e un'ulteriore integrazione, estendendo le radici teologiche della Chiesa all'intera storia salvifica. La Chiesa, per l'ultimo concilio, non è solo una società e neppure semplicemente il corpo mistico di Cristo, ma è frutto dell'opera trinitaria dalla creazione all'èschaton; la Chiesa è, come afferma la Lumen gentium citando san Cipriano, "un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (4).

La coestensione della Chiesa alla storia salvifica trinitaria si può esprimere con i concetti di mistero e di sacramento. Il primo concetto (Lumen gentium, 1) fa risaltare le dimensioni inimmaginabili della Chiesa, che non può dunque affatto essere guardata come semplice aggregazione umana o addirittura ridotta ad alcune pagine della sua storia; il secondo concetto mette in rilievo la compresenza e coessenzialità nella Chiesa di umano e divino (cfr. Lumen gentium, 8), trascendente e storico:  per cui la Chiesa conciliare non è uno spirito che sorvola la storia e la guarda dall'alto né, inversamente, una semplice società umana che si distingua dalle altre solo per il fatto che si ispira a Cristo. La sacramentalità della Chiesa, poi è continuamente alimentata e nutrita dall'Eucaristia, che la Lumen gentium al capitolo 11 considera come sacramento che "fa" la Chiesa e non solo come sacramento "celebrato" dalla Chiesa.
 
La comunione ecclesiale, lungi dal ridursi ad armonia plico-affettiva, è il radicamento dei battezzati nell'opera trinitaria di raduno della Chiesa:  popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito. È prima di tutto l'adesione all'unica fede nella proclamazione della parola di Dio a rappresentare la radice della comunione ecclesiale (cfr. Dei verbum). Sono i sacramenti, poi, e in special modo l'Eucaristia a rinnovare, nutrire e ricostituire la comunione nella Chiesa (cfr. Sacrosanctum concilium e Lumen gentium, 11). L'assorbimento della categoria di "comunione" nel semplice "andare d'accordo" - molto utile, intendiamoci - ha ridotto la ricchezza teologica dell'ecclesiologia comunionale e ha favorito una prassi cristiana a volte troppo "intimista", rischiando di mettere in sordina l'altra grande dimensione della Chiesa conciliare:  la missione.

Non v'è dubbio che il Vaticano II abbia impostato un'ecclesiologia missionaria, superando decisamente due grandi riduzioni ereditate nel corso degli ultimi secoli. Una prima riduzione riguardava l'assorbimento della missione nelle "missioni", per cui solo chi partiva verso Paesi lontani veniva chiamato "missionario"; una seconda, consisteva nella convinzione che la missionarietà costituisse solo un momento episodico e passeggero della Chiesa che avrebbe avuto termine una volta cristianizzato tutto il mondo. Il Vaticano II supera entrambe le riduzioni, evidenziando la natura missionaria della Chiesa, fondata sulle stesse missioni trinitarie.

È stato proprio l'ultimo concilio a mettere in evidenza come la missione non sia semplicemente una delle attività della Chiesa, ma appartenga alla sua stessa natura. Se, anzi, dovessimo indicare quale delle due costituisca effettivamente la "novità" del concilio, dovremmo scegliere la missione:  l'idea di comunione infatti, pur con fondamenti diversi, strutturava anche l'ecclesiologia della Mystici corporis; ciò che invece rimaneva in sordina era proprio la coscienza di una Chiesa essenzialmente e interamente missionaria, esistente per gli uomini e non per se stessa.

Senza negare dunque l'importanza della comunione nell'ecclesiologia conciliare, si potrebbe però in modo altrettanto pertinente individuare un asse portante attorno al quale ruota tale ecclesiologia nell'idea di missione. Non che le due dimensioni contrastino:  l'una senza l'altra non avrebbe alcun senso, poiché la comunione senza la missione si ripiegherebbe nell'intimismo e la missione senza la comunione sfumerebbe nell'attivismo. La comunione, quindi, più che il "centro" dell'ecclesiologia è uno dei due fuochi dell'ellisse, poiché condivide con la missione la qualifica di asse portante della Chiesa.


I trentotto anni di "Communio"


 

"Communio" non è un'unica rivista tradotta in varie lingue; si tratta invece di redazioni autonome che pubblicano ciascuna il proprio fascicolo tematico sulla base di una comune programmazione che definisce i temi monografici di ciascun numero e un articolo basilare a disposizione di ciascuna redazione.

Ognuna di queste poi - secondo l'idea di Hans Urs von Balthasar che intendeva un confronto concreto della teologia e della cultura cristiana con la realtà della società e della Chiesa locale - sviluppa i singoli numeri secondo le circostanze culturali e le situazioni del Paese in cui vive. Una particolarità è data dalla composizione delle singole redazioni che vedono una presenza di laici non meno che di sacerdoti; la redazione italiana, per esempio, conta due soli sacerdoti a fronte di sei laici con competenze diverse tra teologia, filosofia, storia, letteratura, arte, politologia e diritto.

L'incontro è iniziato con un seminario, aperto ad alcuni invitati, che, in previsione del cinquantesimo anniversario dell'apertura del concilio Vaticano II, è stato dedicato a una riflessione sull'ecclesiologia conciliare a partire dal recupero delle principali tematiche della tradizione precedente, nella convinzione che non vi sia stata rottura con il passato bensì rinnovamento nella continuità, come è stato osservato a partire dall'introduzione del cardinale Angelo Scola.

Del resto "Communio" nasce proprio a ridosso del concilio per mettere in luce e salvaguardare il principio della comunione come fondamento della Chiesa rispetto a una interpretazione sociologica dell'espressione "popolo di Dio", come ha ricordato l'allora cardinale Joseph Ratzinger in uno scritto sulle origini della rivista; la communio infatti è ciò che permette di dare una risposta all'utopia del mondo consegnata nel detto ubi societas ibi ius, con la speranza cristiana dell'ubi societas ibi caritas.

Con le sue redazioni sparse in mezzo mondo, "Communio" rappresenta una rete internazionale che permette un confronto tra realtà molto diverse e la riunione internazionale è anche un'occasione per uno sguardo sulle condizioni culturali dei singoli Paesi e sul modo di rapportarsi della cultura cristiana. Fedeli all'impostazione dei fondatori i rappresentanti delle diverse redazioni nel mondo hanno ribadito il proposito di svolgere un compito di approfondimento delle ragioni della fede cristiana in confronto con le grandi questioni dell'attualità culturale e sociale, con l'intento di raccogliere l'invito di Benedetto XVI a entrare con argomenti e con il contributo di studiosi di ogni settore del sapere, sul terreno della ragione comunemente ritenuto appannaggio della cultura laica. (andrea gianni)


(©L'Osservatore Romano - 31 maggio 1 giugno 2010)

Caterina63
00venerdì 18 giugno 2010 00:57


Un grazie al Blog Vitae Fratrum
Ermeneutica della continuità: una recensione


Dopo il celebre discorso di papa Benedetto XVI alla Curia romana del 2005 si parla sempre più insistentemente di "ermeneutica della continuità" vs. "ermeneutica della discontinuità e della rottura". Ermeneutica, si sottintende, degli insegnamenti del Concilio Vaticano II. Ora, è evidente che ogni cattolico deve intendere gli insegnamenti conciliari in perfetta coerenza con l'insegnamento della Chiesa di tutti i tempi. In caso contrario si affermerebbe, nemmeno poi così implicitamente, che il Magistero della Chiesa si contraddice. Il che ovviamente è falso. Sostengono la contrapposizione tra una Chiesa post- e una Chiesa pre-conciliare persone imbevute di ideologia, come certi settori lefevriani e certi ambienti progressisti.

Questa, in breve, la situazione.

La tesi per cui il concilio non ha contraddetto o modificato il depositum fidei, se è vera, può anche essere provata sulla base dei documenti storici in nostro possesso: non può rimanere una astratta affermazione di principio; almeno, una simile posizione è del tutto insoddisfacente per chi ha un briciolo di interesse nelle vicende recenti della Chiesa. Ed è a questo lodevole tentativo di suffragare su base storica l'ermeneutica della continuità che padre Congar dedicò molte energie.

Fino a pochi anni fa mancava tuttavia - per quel che mi è dato sapere - una ricostruzione esaustiva dell'intero Concilio letto con la lente ermeneutica invocata dal Santo Padre. A mio parere il volume "Vatican II. Renewal within Tradition", curato da Matthew M. Lamb e Matthew Levering ed edito da OUP nel 2008 soddisfa questa esigenza in modo eccellente. I contributi sono scritti da eminenti personalità: tra loro i cardinali Avery Dulles e Francis George e ben quattro teologi domenicani. Il volume prende in esame tutti i documenti conciliari e per ciascuno cerca di ricostruire le affinità con l'insegnamento di sempre della Chiesa. Un libro che non è azzardato definire eccellente.

Purtroppo nello spazio limitato concesso da un post non è possibile toccare tutti gli argomenti trattati nel libro.

Prendiamo allora in esame uno dei temi più discussi dopo il concilio, che nel volume è affrontato in modo magistrale dal cardinale Avery Dulles: la questione del rapporto fra il primato del Romano Pontefice e la collegialità episcopale. In estrema sintesi, mentre il Concilio Vaticano I aveva definito in modo dogmatico l'infallibilità pontificia, ribadendo perciò l'insegnamento tradizione relativo al primato universale di giurisdizione del Pontefice Romano (si veda in proposito la celebre bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII), la costituzione dogmatica Lumen Gentium del Vaticano II ha introdotto la tesi per cui il collegio dei vescovi (in unione col Papa) gode della suprema autorità nella Chiesa.

Se la vogliamo porre in modo brutale (e con un lessico un po' mondano), la questione riguarda chi comanda: il Papa o la Conferenza episcopale? il Papa o il Concilio? (In realtà sappiamo che l'esercizio dell'autorità è un servizio che i pastori rendono al gregge e a Colui che ha affidato loro questo altissimo ministero: non ha nulla a che vedere col "potere" mondano).

Il cardinale Dulles mostra condovizia di documenti che la dottrina del Vaticano II ribadisce categoricamente il primato universale di giurisdizione del Romano Pontefice, primato e autorità che egli esercita in modo assolutamente libero: non è perciò necessario convocare un concilio per definire una verità di fede o per prendere decisioni che riguardano la Chiesa universale. La dottrina della collegialità episcopale è invece la sottolineatura (Dulles ipotizza che sia una verità insegnata in modo definitivo dalla Chiesa) circa il fatto che i vescovi hanno la pienezza dell'Ordine: verità insegnata dai Padri della Chiesa, ribadita al Concilio di Trento e riscoperta dai teologi del XIX secolo (Dulles riporta un interessante e a me prima ignoto saggio di Mauro Cappellari, poi papa Gregorio XVI, intorno a questo tema).

Questo è solo uno dei temi controversi sui quali questo libro entra nel vivo del dibattito contemporaneo. Altri temi caldi, come l'ecumenismo o la libertà religiosa, o la liturgia, sono trattati con pari perizia e documentazione. In definitiva mi pare perfettamente giusto il giudizio che l'arcivescovo Augustine Di Noia OP ha dato di questo libro: "Nel suo discorso alla Curia Romana del 2005 Papa Benedetto XVI ha invocato una "ermeneutica della continuità" nella interpretazione del Concilio Vaticano II. Se si vuol capire propriamente cosa intendeva, bisogna leggere questo libro [...]: l'ermeneutica della continuità ha trovato finalmente il suo manuale".

Secondo il personalissimo parere del sottoscritto, non sarebbe male tradurre il libro in italiano (sempre che qualche editore non abbia già intrapreso questa iniziativa).

Luca G.

Caterina63
00giovedì 8 luglio 2010 15:58
Ottime riflessioni di Luca G. del Blog Vitae Fratrum (raggiungibile dal titolo del testo a seguire)

Ermeneutica della Riforma (continuità)























Tempo fa avevo segnalato un bel volume sull'ermeneutica della riforma (Vatican II. Renewal within tradition, edd. M. L. Lamb, M. Levering, Oxford University Press, Oxford, 2008). Poi non ero più tornato sull'argomento, preso da un po' di impegni. P. Riccado Barile mi ha appena inviato questa sua divisione in paragrafi del celebre discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, che può facilitare il lettore.



Il discorso divenne una sorta di programma del pontificato di Papa Benedetto, impegnato nella difficile opera di riforma spirituale del clero. In questo obiettivo, una particolare attenzione è stata dedicata alla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II, attorno al quale è nato un così vivace dibattito, che ancora pare piuttosto vivo, sebbene progressivamente molti uomini di Chiesa stiano giustamente recependo la corretta linea indicata dal Santo Padre.

Rileggendo ora il discorso, mi colpisce un particolare: il Papa tenta una sintesi, molto "tedesca", del rapporto tra Chiesa e modernità negli ultimi tre secoli, a partire dal fatidico 1789, che della modernità è considerato in qualche modo il principio. Il Papa, nel breve spazio di un paragrafo, mostra come la modernità abbia in un certo senso mostrato due volti: il primo, intollerante e laicista, che provocò la reazione della Chiesa nel 1800 - che alla modernità, con una lettura storica superficiale, si era "chiusa".

La seconda fase invece appartiene al XIX secolo, quando le tragedie dei totalitarismi hanno valorizzato la tolleranza e la libertà dell'individuo come valori. Queste conquiste dello spirito moderno trovarono una Chiesa accogliente, disposta a valorizzarle. E' molto importante questa distinzione, a mio modo di vedere, anche per instaurare una corretta ermeneutica del Concilio. Mi pare che la cosa sia implicita nel discorso del Santo Padre. Se la modernità è intesa come un monolite - da Cartesio a Kant, da Kant a Hegel, da Hegel a Marx, da Marx a Lenin - con essa è necessario e inevitabilescontrarsi, se si vuole mantenere la identità cattolica, oppure è necessario adeguarsi, se si vuole rimanere al passo coi tempi.

La valorizzazione del soggetto sarà quindi necessariamente anticristiana in questa prospettiva e se si pensa che il Vaticano II abbia celebrato il connubio tra il soggettivismo moderno e il Vangelo, allora o lo si rigetterà in nome della tradizione cattolica (tradizionalismo) o lo si accoglierà, in nome dello Zeitgeist (progressismo). Viceversa, se si distingue tra un soggettivismo razionalista o relativista - nemico della Chiesa e di Cristo - e la doverosa valorizzazione del soggetto, figlia del fallimento tragico dell'utopia totalitaria, allora sarà possibile capire che il Vaticano II tentò il dialogo con la seconda e non con il primo.

E in questo modo, in una mirabile sintesi, sarà possibile fare senso della enigmatica espressione "apertura al mondo", che si suppone essersi veirficata nell'ultimo concilio ecumenico. La Chiesa si aprì sì al mondo, ma per farlo entrare nell'unico ovile del Buon Pastore e per valorizzare quello che il mondo aveva imparato dalla sua folle pretesa di fare a meno di Cristo
.

(Luca G.)


Catechesi di Benedetto XVI

Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi del 22 dicembre 2005

Ermeneutica della Riforma (continuità)

Signori Cardinali,

venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,

cari fratelli e sorelle!

«Expergiscere, homo: quia pro te Deus factus est homo - Svegliati, uomo, poiché per te Dio si è fatto uomo» (S. Agostino, Discorsi, 185). Con quest’invito di Sant’Agostino a cogliere il senso autentico del Natale di Cristo, apro il mio incontro con voi, cari collaboratori della Curia Romana, in prossimità ormai delle festività natalizie.

(...).

I. Quale è stato il risultato del Concilio Vaticano II?

L’ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant’anni fa.

Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare?

Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l’altro: «Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede» (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524).

II. Un problema di ermeneutica / Due ermeneutiche

Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o - come diremmo oggi - dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti.

Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ermeneutica della discontinuità e della rottura; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.

1. L’ermeneutica della discontinuità

L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare.

a. Lo spirito del Concilio oltre i testi del Concilio

Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili.

Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito.

b. Valutazione: domande inevase e che cosa fu il Concilio

In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità.

Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono «amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4,1); come tali devono essere trovati «fedeli e saggi» (cf Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all’amministratore: «Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto» (cf Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.

2. L’ermeneutica della riforma

All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma, come l’hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura del Concilio l’11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965.

a. Il testo originario di Giovanni XXIII

Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio «vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti», e continua: «Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige... È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata» (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).

b. Che cosa presuppone

È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica.

Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.


III. Paolo VI e l’apparente ermeneutica della discontinuità

Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato ancora una specifica motivazione per cui un’ermeneutica della discontinuità potrebbe sembrare convincente.

Nella grande disputa sull’uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell’antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l’uomo ed il mondo di oggi, dall’altra (ibid., pp. 1066 s.).

1. Il rapporto tra Chiesa ed età moderna

La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna.

a. Galileo, Kant, la rivoluzione francese, l’Ottocento

Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo.

Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la «religione entro la sola ragione» e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un’immagine dello Stato e dell’uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio.

Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’“ipotesi Dio”, aveva provocato nell’Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell’età moderna.

Quindi, apparentemente non c’era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell’età moderna.

b. I ripensamenti dell’età moderna e della Chiesa

Nel frattempo, tuttavia, anche l’età moderna aveva conosciuto degli sviluppi.

Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà.

Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all’altra.

Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come tali lavorano con un metodo limitato all’aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare.

Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora, durante il Vaticano II, attendevano una risposta.

- Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l’ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato.

- In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione.

- Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa, una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

2. Discontinuità e continuità nel rapporto tra Chiesa ed età moderna

a. Principio generale: imparare a distinguere il contingente che passa dallo strutturale che resta

Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi, fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione.

È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma.

In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti - per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia - dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare.

b. Applicazione: la problematica della libertà religiosa

Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l’uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento. Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l’insegnamento di Gesù stesso (cf Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cf 1Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede - una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano, una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l’unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.

c. Applicazione: la relazione a certi elementi del pensiero moderno

Accettazione ed equilibrio

Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità.

La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue «il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio», annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cf Lumen gentium, 8).

Mantenimento delle tensioni e segno di contraddizione

Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all’età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell’uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell’uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un «segno di contraddizione» (Lc 2,34) - non senza motivo Papa Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli Esercizi Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana.

Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell’uomo. Era invece senz’altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l’esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza.

Il passo fatto dal Concilio verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme.

Precedenti storici

La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz’altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apologia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cf 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l’interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l’affinità tra loro nell’unica ragione donata da Dio.

Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d’Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.

La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento.

L’orientamento conciliare e postconciliare odierno

Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento.

Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.

(...).

(divisione in paragrafi di P. Riccardo Barile OP)


Caterina63
00martedì 13 luglio 2010 15:20

Chi vive solo per il presente non ha futuro

Le notizie dal Belgio hanno sollecitato il blog De Libero Arbitrio ad alcune riflessioni sul refrain della 'apertura al mondo'. Le condividiamo. E ci ricordano un aforisma del grande cattolico Chesterton: chi sposa la moda, resterà presto vedovo.

Ormai non so se ridere o piangere quando leggo o sento dire che la Chiesa dovrebbe essere più moderna e aprirsi al mondo. Di solito chi dice queste frasi o è in buona fede, nel senso che ci elargisce quelli che lui considera davvero consigli utili alla sopravvivenza dell’istituzione, oppure è un lupo che si traveste da agnello: cioè qualcuno che desidera la fine del cattolicesimo, ma strategicamente non lo dice apertis verbis, e perciò subdolamente elargisce suggerimenti autodistruttivi rivolti a quelli che lo schietto gergo leninista chiama utili idioti.

Orbene, mentre per i secondi non provo alcun rispetto intellettuale – e meno che mai per quelli che operano all’interno dell’edificio cattolico per rovinarlo da dentro, coperti dal fumo che si è intrufolato nel tempio – per i primi sento tuttavia una forma basilare di gratitudine, appunto per la buona fede che intravedo in loro. Essi sono come colui che mi regala un frutto senza sapere che è avvelenato: rifiuto il dono, ma ancora apprezzo il gesto del donatore.

Ma perché il frutto è avvelenato? Perché tutte queste frasi fatte sull’equivocato aggiornamento sono nella migliore delle ipotesi come le buone intenzioni che ti portano all’inferno? Dopotutto il nostro consigliere in buona fede una spiegazione se la merita. E allora gli chiedo e vi chiedo: ma esattamente qual è questo mondo a cui la Chiesa dovrebbe aprirsi? Quello di oggi? Ma perché mai? E perché non invece quello di ieri o l’altro ieri o dopodomani?

La verità è che è troppo facile e troppo ingenuo configurare la dialettica tra la Chiesa e il mondo come se fosse l’equivalente epistemologico di una partita a basket 1 on 1, come il semplice tira e molla tra due interlocutori che dovrebbero trovare un compromesso. Da una parte c’è la Chiesa, cioè un’istituzione che proclama da circa 2000 anni la validità costante della verità unica ed eterna che ha ricevuto in deposito; ma quello che c’è dall’altra parte non è altrettanto univoco. Il mondo è una categoria eterogenea e mutevole, perché in effetti ciò che in questo senso designiamo come “mondo” non è che l’insieme disparato di tutti quei pensieri non cattolici che si avvicendano e si combattono e si rimpiazzano l’un l’altro. Ogni manifestazione transitoria del mondo ha sempre qualcosa da rimproverare alla Chiesa, qualcosa da farle accettare, un qualche strisciante o aperto tradimento dottrinale che vorrebbe chiederle o imporle; ma il fatto è che ogni volta si tratta di una cosa diversa.

Oggi il mondo, ovvero il suo epifenomeno predominante in Occidente, vuole fare accettare alla Chiesa cose come il relativismo e l’individualismo e il libertinismo sessuale. Ma quarant’anni fa il mondo le chiedeva comunismo, o almeno una specie di cristianesimo risciacquato nel socialismo. Ottant’anni fa le chiedeva anticomunismo e razzismo eugenetico e culto della forza in salsa nazifascista. Centocinquant’anni fa, un atteggiamento di non belligeranza verso la massoneria e le sue operazioni d’ingegneria politica. Duecento anni fa, convertirsi alla rivoluzione francese e/o soccombere. Quattrocento anni fa, sostegno incondizionato alle varie monarchie assolute dell’Antico Regime e alle loro ingiustizie sociali. Settecento anni fa … Mille anni fa … Millecinquecento anni fa … Duemila anni fa: adorare l’imperatore. Anche solo per finta, anche solo bruciando un granellino d’incenso, una mera formalità. Eppure la maggior parte dei cristiani di quel tempo rifiutò di scendere a compromessi, e allora il prezzo da pagare era ben peggiore del sarcasmo dei colleghi in ufficio o di una brutta copertina in prima pagina.

E domani? E dopodomani? Io non so cosa vorrà domani il mondo, ma l’unica cosa di cui sono sicuro è che sarà diverso da ciò che vuole oggi, così come questo è a sua volta diverso da quel che voleva ieri. Il mondo cambia spesso idea e ciò che oggi è moderno domani sarà anacronistico.

Ecco dunque perché il consiglio di aprirsi al mondo è così assurdo e così zappa-sui-piedi. Ecco perché “
adulta non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; a
dulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo”. Ecco perché tutti quei cattolici che per ingenuo entusiasmo o calcolo politico o semplice quieto vivere hanno inseguito il mito di una pacificatoria consonanza con il loro hic et nunc sociopolitico– i teologi della liberazione, i preti operai, i cattolici che applaudirono le leggi razziali, i preti francesi rivoluzionari, eccetera eccetera [spesso, le stesse persone: dom Helder Camara fu segretario nazionale di un partito fascista negli anni '30 e apostolo della teologia della liberazione comunista negli anni '60] – sono tutti stati rovinosamente travolti dal mutamento di paradigma quando quel mondo presente ha fatto ciò che, in effetti, fa sempre il presente: diventare passato.

Ebbene: tutto questo oggi riceve dalla vicenda belga l’ennesima conferma spietata e terribile.

Ho già parlato
prima della questione pedofilia e dei molti equivoci che vi gravitano attorno, e progetto di parlarne ancora in futuro con un post che dia prova, con dovizia di citazioni puntigliose e documentate (tanto per dimostrare ancora una volta che i veri *dogmatici* stanno altrove), di ciò che oggi le laiche anime belle scandalizzate dagli orrori in canonica tante volte dimenticano: la Chiesa non ha il copyright sulla corruzione di fanciulli. La tentata legittimazione morale della pedofilia è stata una fase ben precisa della rivoluzione sessuale, storicamente ricostruibile, e operata da una vasta sequela di personaggi (dal pioniere Alfred Kinsey a compatrioti come Mario Mieli e Aldo Busi [non dimentichiamo il regista Roman Polanski, cui i media, e la giustizia, hanno ampiamente perdonato lo stupro di una ragazzina tredicenne]) che sono tuttora icone rispettate e riverite dalle parti di quel mondo progressista che, mentre esalta il coraggio-contro-tutti-i­-tabù di quei bravi apologeti laici del coito con bambini, deplora sdegnato il coito con bambini compiuto dai preti e insabbiato dai vescovi.

Come e quando e per quali cause il sesso pedofilo sia stato abiurato dal mainstream del progressismo pansessualista e violentemente ricacciato nel sottobosco del “non si fa”, quando invece prima pareva fosse il prossimo tabù che le magnifiche sorti e progressive avrebbero ineluttabilmente infranto e sdoganato, è argomento per un’altra volta. Ciò che qui ora preme dire è che c’è stato un cattolicesimo innovatore, moderno e aperto al mondo, che dall’amplesso contronatura e passivo col mondo ha recepito – perché, diabolus simia Dei, il bene è diffusivo, ma l’eresia è osmotica – anche una nuova e moderna e coraggiosa pastorale sulla pedofilia.

Poiché qui siamo cattolici e non *dogmatici*, servono fonti. E il sito messainlatino.it,
qui e qui, le fornisce. La vicenda del testo di catechismo Roeach, il catechismo con il disegno della bambina nuda interessata alle esperienze sessuali, è allucinante. Sempre perché qua la fede la basiamo sull’esperienza e non crediamo a scatola chiusa a nessuno, ho usato meno di un quarto d’ora per cercare altre fonti in internet a ulteriore conferma, fosse mai che questa storia se la sono inventata per screditare il modernista: e oltre alle molte pagine anglofone di glossa a questa, una veloce googlata sulle pagine dal Belgio per “Jef Bulckens Roeach” mi ha dato risultanti difficilmente controvertibili come il cv dell’autore o la pagina dell’Università Cattolica di Leuven in cui si fa pubblicità al catechismo incriminato. Peccato non sapere l’idioma belga. [..]

E allora lo vedete come davvero, alla faccia di ogni vagheggiata palingenesi dei rapporti chiesa-mondo, nihil novi sub sole? Povero clericalprogressista: hai fatto tanta fatica per conformare la pastorale cattolica alla filopederastia dell’intellighenzia moderna, ed ecco che a tradimento la modernità ti cambia disinvoltamente idea e la pedofilia diventa l’orrore di tutti gli orrori, e però nel frattempo tu quelle cose le hai pur dette e scritte e fatte scrivere e peggio ancora hai lasciato che accadessero, e il mondo te ne verrà a chiedere conto – a te, cattolico, un po’ meno ad altri. Davvero ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere, guardando l’ennesimo mutamento di paradigma che travolge gli ennesimi barcaioli ondivaghi e naufraganti. Perché non si possono servire due padroni; perché i cristiani stanno nel mondo, ma non appartengono al mondo; perché noi cattolici dobbiamo sì amare il mondo, perfino amarlo appassionatamente, ma al tempo stesso dobbiamo essere guardinghi verso colui che ne è il Principe e verso coloro che con o senza consapevolezza se ne fanno strumento; perché non per caso ci è stato detto di essere semplici come le colombe ma anche prudenti come serpenti, proprio perché siamo mandati come pecore tra i lupi; perché la Chiesa non ha ragione di farsi venire i complessi d’inferiorità rispetto alle idee del secolo, in quanto essa vive nel tempo, ma viene da – e va verso – l’eternità. [..]

***********************************************************

 Breve riflessione mia:

Farei comunque una doverosa distinzione tra l'apertura al mondo prettamente implicita nel mandato missionario, da quell'aprirsi al mondo per accettarne o accoglierne le depravazioni....  
 
Nel mandato di Cristo "ANDATE" è implicita un APRIRSI al mondo per poter dare quel qualcosa che il mondo non ha e che NON proviene dal mondo....perchè se la Buona Novella provenisse dal Mondo, inutile e assurdo sarebbe stato il comando di Gesù di portare tale Novella nel mondo a costo di rimetterci la propria vita Wink  
 
Se si escludesse questa realtà che è il dinamismo dell'evangelizzazione bimillenaria della Chiesa, si apporterebbe davvero una grave frattura tra ciò che la Chiesa diceva ieri e ciò che la Chiesa direbbe oggi...  
LA CHIESA NON HA MAI CHIUSO LE SUE PORTE, LA CHIESA NON E' MAI STATA CHIUSA!!!  
 
Certamente sono cambiati i MODI attraverso i quali COMUNICARE CON IL MONDO, MA LA CHIESA HA SEMPRE COMUNICATO CON IL MONDO TANTO DA CONSOLIDARE LA CULTURA EUROPEA, costruire Ospedali, Scuole, Istituti per l'infanzia abbandonata prima ancora che si costituissero gli Stati laici... i quali pretenderebbero oggi di sponsorizzare una soggettiva opera di umanizzazione, naturalmente SENZA DIO!  
E' contraddittorio pretendere di difendere le RADICI CRISTIANE DELL'EUROPA e poi avanzare con un concetto di "apertura al mondo" come se prima non ci fosse mai stata... Wink  
 
Tale espressione "apertura al mondo" dal Concilio ha assunto una forma enigmatica, fuorviante e che si suppone dunque si sia verificata solo grazie al Concilio.... allora possiamo oggettivamente dire e provare che tale apertura, CAMBIANDO NEL SUO SIGNIFICATO, è nato dalla falsa interpretazione del Concilio, attribuendogli (impositivamente) una apertura DOTTRINALE-DOGMATICA e che modificasse nella sua missione in quell'ANDATE E PREDICATE IL VANGELO, omettendo ovviamente l'ultima parte "chi non crederà non sarà salvo!" in nome di un nuovo modo di vedere il rispetto dell'Uomo....  
 
Benedetto XVI sta tentando (con enorme fatica, ammettiamolo!) di dimostrare che la Chiesa, con il Concilio, non intese questo genere di apertura, ma bensì intese APRIRE LE SUE PORTE AL MONDO PER FARLO ENTRARE IN QUELL'UNICO OVILE GOVERNATO DA NOSTRO SIGNORE.... e senza temere di poter valorizzare ciò che di buono potesse (e puòWink esserci già nel mondo...come dice l'apostolo infatti di non gettare tutto, ma di prendere ciò che è buono!  
 
La frattura, la rottura è sorta quando si è usato il Concilio per dimostrare che la Chiesa doveva cambiare.... perchè grazie al Concilio Vescovi, preti e teologi, hanno potuto agire con autorità (e in nome del Concilio) per imporre questi errori...  
E' ovvio che neppure Benedetto XVI riuscirà a comporre questa frattura.....  
l'unico modo che abbiamo per risanarla (ma la cicatrice resterà per sempre anche attraverso le molte anime che si sono perdute con tutti questi esperimenti pastorali) è divulgare LA VERITA'.... offrire la Verità con Carità, senza mai temere che la Verità abbia mai potuto offendere l'Uomo come invece è accaduto in molte predicazioni maldestre....  
 
Ma si rammenti sempre: PER APRIRSI AL MONDO NON C'ERA BISOGNO DEL CONCILIO!! PERCHE' LA CHIESA NON E' MAI STATA CHIUSA AL MONDO....SEMMAI HA RIGETTATO LA FAMOSA PRUDENZA, IL SENSO DEL PUDORE....HA AVUTO PAURA STESSA DELLA VERITA'  che ritenne più utile mettere da parte per accattivarsi il bene del mondo!



Caterina63
00martedì 10 agosto 2010 12:09

Ottima riflessione di padre Giovanni Scalese dal suo blog senzapelisullalingua, raggiungibile dal link del titolo dell'articolo:

"Riforma della Riforma"

Riporto il mio secondo articolo pubblicato sull’Eco dei Barnabiti, n. 2/2010 (pp. 12-13), nella rubrica “Osservatorio ecclesiale”. Come nel caso del primo articolo, niente di nuovo per i lettori di questo blog: si tratta semplicemente di un tentativo di divulgazione per il grande pubblico.


Nel precedente numero dell’Eco ci siamo soffermati su quella che può essere considerata la “chiave di lettura” del Concilio Vaticano II e dell’attuale pontificato: la cosiddetta “ermeneutica della riforma”.

Il primo documento approvato dai Padri conciliari fu la Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium (4 dicembre 1963). La riforma liturgica, che ne scaturì, è sempre stata considerata un po’ come il “fiore all’occhiello” del Concilio, e le è stato attribuito un valore emblematico, quale “icona” della più generale riforma della Chiesa avviata dal Vaticano II. La Sacrosanctum Concilium considera la liturgia come «il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua forza» (n. 10). Essa, perciò, occupa un posto centrale nella vita della Chiesa. In particolare, esiste un rapporto strettissimo fra liturgia e fede: la liturgia esprime la fede della Chiesa, costituisce una delle principali testimonianze della tradizione e riveste un carattere normativo per i fedeli (lex orandi, lex credendi).

Non meraviglia quindi che un grande teologo come Joseph Ratzinger, pur non essendo un liturgista di professione, abbia riservato alla liturgia un’attenzione particolare, che è andata man mano aumentando col passare degli anni. Proprio per la centralità che la liturgia occupa nella vita della Chiesa, il Card. Ratzinger giunse alla conclusione che esiste un rapporto di causalità diretta tra il crollo della liturgia, a cui abbiamo assistito dopo il Concilio, e la crisi in cui si dibatte la Chiesa ai nostri giorni:

«Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur: come se in essa non importasse più se Dio c’è, e se ci parla e ci ascolta» (Il Dio vicino, Edizioni San Paolo, 2003, p. 21).

L’opera in cui il Card. Ratzinger raccolse le sue riflessioni in materia liturgica è l’Introduzione allo spirito della liturgia, pubblicato in tedesco (Eindführung in den Geist der Liturgie) nel 1999 e tradotto in italiano dalle Edizioni San Paolo nel 2001. Con quel libro — che anche nel titolo si ricollega all’opera che aveva segnato l’inizio del movimento liturgico in Germania: Lo spirito della liturgia di Romano Guardini (1918) — il Card. Ratzinger si prefiggeva di dar vita a un nuovo “movimento liturgico”, «un movimento verso la liturgia e verso una sua corretta celebrazione, esteriore ed interiore» (p. 6). Tale proposito si spiega con la constatazione che qualcosa nella riforma liturgica promossa dal Vaticano II non ha funzionato. Nella premessa al citato volume, il Card. Ratzinger ricorreva a un paragone efficace per spiegare ciò che è avvenuto nella Chiesa durante e dopo il Concilio:

«Si potrebbe dire che la liturgia era allora — nel 1918 —, per certi aspetti, simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo: nel messale, con cui il sacerdote la celebrava, la sua forma era pienamente presente, così come si era sviluppata dalle origini, ma per i credenti essa era ampiamente nascosta da istruzioni e forme di preghiera di carattere privato. Grazie al movimento liturgico e — in maniera definitiva — grazie al Concilio Vaticano II, l’affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure. Ma nel frattempo, a causa dei diversi errati tentativi di restauro o di ricostruzione, nonché per il disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, questo affresco è stato messo gravemente a rischio e minaccia di andare in rovina, se non si provvede rapidamente a prendere le misure necessarie per porre fine a tali influssi dannosi. Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma è indispensabile una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà, così che l’averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina» (pp. 5-6).

Mi sembra che questa similitudine esprima bene il giudizio del Card. Ratzinger sulla riforma liturgica e la sua convinzione che si renda necessario un ulteriore intervento per impedire che l’“affresco” della liturgia vada definitivamente perduto. In altre dichiarazioni il giudizio del Card. Ratzinger appare ancor più esplicito e drastico:

«Il risultato [della riforma liturgica] non è stato una rianimazione, ma una devastazione [...]. Al posto della liturgia frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e di sviluppo per entrare nella fabbricazione. Non si è più voluto il divenire e la maturazione organica di Dio che vive attraverso i secoli e lo si è sostituito a mo’ di produzione tecnica, con una fabbricazione banale del momento» (“Prefazione” a Klaus Gamber, La réforme liturgique en question, Le Barroux, 1992);

«[Nella riforma liturgica] si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l’edificio antico e utilizzando i progetti precedenti» (La mia vita, Edizioni San Paolo, 1997, p. 114).

In una intervista rilasciata al quotidiano francese La Croix il 28 dicembre 2001, il Card. Ratzinger giunse ad auspicare una “riforma della riforma”:

«Alcuni addetti ai lavori vorrebbero far credere che tutte le idee non perfettamente conformi ai loro schemi sono un ritorno nostalgico al passato [...]. Lo dicono solo per partito preso. Bisogna riflettere seriamente sulle cose e non accusare gli altri di essere partigiani di san Pio V [...]. Ogni generazione ha il compito di migliorare e rendere più conforme allo spirito delle origini la liturgia. E penso che effettivamente oggi c’è motivo di lavorare molto in questo senso, e riformare la riforma. Senza rivoluzioni (sono un riformista, non un rivoluzionario), ma un cambiamento ci deve essere. Dichiarare impossibile a priori ogni miglioramento mi sembra un dogmatismo assurdo».

* * *

Il 19 aprile 2005 il Card. Joseph Ratzinger è diventato Benedetto XVI. Solitamente, quando si assume una qualsiasi carica, si è costretti ad abbandonare, per motivi di opportunità, l’asprezza dei toni nelle dichiarazioni; ma è anche vero che, dall’alto, il più delle volte si vedono le cose in una luce diversa, che permette spesso di ridimensionare i giudizi precedentemente formulati. Ovviamente non possiamo sapere che cosa sia avvenuto nell’animo di Joseph Ratzinger dopo l’elezione al soglio pontificio. Del resto non è neanche tanto importante sapere che cosa l’attuale Pontefice pensi come “dottore privato”; ciò che conta è quanto egli fa come pastore supremo della Chiesa. Ebbene, quali sono stati gli interventi di Benedetto XVI in campo liturgico in questi cinque anni di pontificato?

Forse quanti si attendevano una immediata e profonda revisione della riforma liturgica sono rimasti delusi. L’unica modifica formale operata sul rito della Messa in questi anni è stata l’introduzione, nella “III edizione tipica emendata” del Messale latino, di tre formule alternative di congedo (da affiancarsi al tradizionale “Ite, missa est”), modifica per altro suggerita dal Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia del 2005 e già presente in diverse traduzioni del Messale (compresa quella italiana). Un po’ poco per quanti si aspettavano mutamenti radicali.

Recentemente è stata annunciata l’approvazione definitiva della nuova traduzione in inglese del Missale Romanum: un evento che può certamente definirsi epocale, se si considera l’impatto che avrà su milioni di fedeli in ogni parte del mondo; ma che non modifica in alcun modo il rito della Messa (si tratta semplicemente di una traduzione più fedele, letterale, del Messale latino di Paolo VI, secondo le norme emanate nel 2001 con l’istruzione Liturgiam authenticam).

Che ne è stato allora della “riforma della riforma”? Benedetto XVI non ha mai utilizzato in questi anni tale espressione, anche se continuano a farne largo uso i seguaci di quel “movimento liturgico”, da lui auspicato nell’Introduzione allo spirito della liturgia ed effettivamente sorto in tempi recenti (si pensi, per esempio, al New Liturgical Movement diffuso nei paesi di lingua inglese). Papa Ratzinger ha dunque rinnegato tutti i pronunciamenti fatti da cardinale? Anche se non è mai intervenuto direttamente per modificare la liturgia e non si è mai espresso ufficialmente, Benedetto XVI ha nondimeno adottato una serie di misure, che permettono di intravvedere la sua “politica” in campo liturgico.

Innanzi tutto, le celebrazioni liturgiche da lui presiedute hanno assunto negli ultimi anni uno stile diverso. Gli elementi più appariscenti del nuovo stile sono i candelieri e il crocifisso (perlopiù di foggia tradizionale) rimessi sull’altare e la comunione distribuita sulla lingua ai fedeli inginocchiati, oltre che la frequente riutilizzazione di antichi paramenti liturgici. Naturalmente, non si tratta dell’imposizione di una normativa vincolante per tutti, ma solo di una proposta offerta a quanti vogliono liberamente seguirla.

Una decisione che ha fatto molto discutere è stata la liberalizzazione dei libri liturgici preconciliari, avvenuta col motu proprio Summorum Pontificum nel 2007. A molti è parsa una sconfessione della riforma liturgica; ma nel documento — e soprattutto nella lettera accompagnatoria — si spiega che non si vuole in alcun modo mettere in discussione la riforma: si vuole solo dare la possibilità, ai fedeli che lo desiderino, di celebrare la liturgia secondo quella che viene ora chiamata la “forma straordinaria” del rito romano (rimanendo la “forma ordinaria” quella scaturita dalla riforma liturgica promossa dal Vaticano II e approvata da Paolo VI). Nella citata lettera ai Vescovi, però, Benedetto XVI non nasconde un intento che in qualche modo riprende i voti da lui formulati quando era ancora cardinale:

«Le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi [...]. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso».

Da questo passo parrebbe di capire che il Papa abbia, almeno per il momento, rinunciato a qualsiasi tipo di intervento diretto sulla liturgia e abbia optato per un atteggiamento più soft: anziché modificare i riti d’autorità, si direbbe che egli preferisca lasciare che l’antica liturgia, ormai liberalizzata, e le cerimonie pontificie, che hanno riacquistato un’aura di ieraticità, esercitino gradatamente il loro influsso sulle celebrazioni liturgiche ordinarie. Una politica così discreta otterrà il risultato sperato? Staremo a vedere.

In ogni caso, sembrerebbe che la tanto decantata “riforma della riforma” sia stata, almeno temporaneamente, messa da parte. A dire il vero, l’estate scorsa erano apparse sulla stampa alcune indiscrezioni su possibili adattamenti dei riti liturgici, prontamente smentite dalla Santa Sede. In autunno, però, il Prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Card. Antonio Cañizares Llovera, in una intervista a Catalunya Cristiana, ha confermato che il suo Dicastero ha preso in esame la questione:

«Quello che posso dire è che è un periodo molto importante per tutti, si è lavorato intensamente, c’è stata una Plenaria della Congregazione, e si sono stilate delle proposte che il Santo Padre ha approvato e che costituiscono la base del nostro lavoro. Il grande obiettivo è di rivitalizzare lo spirito della liturgia in tutto il mondo [...]. Il tema più urgente, e che si sente con urgenza in tutto il mondo, è che il senso della liturgia deve essere ritrovato. Questo non significa semplicemente cambiare rubriche o introdurre nuove cose, ma si tratta semplicemente che la liturgia deve essere vissuta e che deve essere al centro della vita della Chiesa [...]. Dobbiamo recuperare quello che non avrebbe mai dovuto perdersi. Il più grande male che è stato fatto all’uomo è stato il tentativo di eliminare dalla sua vita la trascendenza e la dimensione del mistero».

Come si può vedere, il Card. Cañizares non scende nei particolari, ma conferma che si sta lavorando a una qualche “riforma della riforma”. Sembrerebbe però di capire che non si tratterà tanto di radicali modifiche agli attuali riti, quanto piuttosto di un riposizionamento della liturgia al centro della vita della Chiesa e di un recupero del senso del mistero, che deve tornare a caratterizzare il culto divino (attraverso quali mezzi, si vedrà). E su questo penso che tutti possano trovarsi d’accordo.
Caterina63
00venerdì 1 ottobre 2010 21:17
La nuova edizione de «La Chiesa visibile» di Dario Composta ripropone il fondamento teologico
e l'analisi delle norme che regolano la vita della comunità cristiana alla luce del vaticano II

A partire dalla fede
e dalla tradizione


È in uscita la seconda edizione del volume di Dario Composta La Chiesa visibile. La realtà teologica del diritto ecclesiale (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 526, euro 26). Pubblichiamo la presentazione che scrisse nel 1985 per la prima edizione il cardinale Joseph Ratzinger, all'epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e l'introduzione del curatore, prelato uditore della Rota Romana.


La riflessione sulla natura e sulla missione della Chiesa, che fu al centro del concilio vaticano II, ha dato una nuova urgenza anche all'antico problema della collocazione teologica del diritto nella Chiesa e della configurazione propria che ne consegue.

Con la fine del Concilio i preparativi per una nuova codificazione del diritto canonico dovevano essere energicamente affrontati. Con questo lavoro il problema era divenuto totalmente pratico:  quali sono gli elementi fondamentali della vita della Chiesa, che esigono un ordinamento giuridico, e come il diritto può dare loro delle norme, così da mettersi al servizio di questa vita? Come deve essere configurato il diritto di una comunità, il cui fondamento è la Grazia? Qual è la caratteristica tipica di questo diritto, la sua struttura, i suoi mezzi, i suoi scopi?

Proprio nella ricerca di una configurazione del codice di diritto canonico, che doveva inserirsi nella visione teologica della Chiesa formulata dal Concilio o meglio doveva da essa lasciarsi guidare, emerse con chiarezza quanto ogni singola affermazione del diritto canonico dipenda da opzioni teologiche. È chiaro ad esempio che il diritto canonico, al contrario della visione moderna del diritto civile non può essere semplicemente una libera disposizione del sovrano (nello Stato:  del popolo ovvero dei suoi rappresentanti), ma un diritto che promana da una lunga e ricca tradizione. Infatti il sovrano della Chiesa è il Signore, che è presente in essa tramite la Parola ed il Sacramento.

Perciò il diritto canonico si è sviluppato a partire dalla tradizione della fede e a partire dalla tradizione sacramentale, sovente in connessione con i concili ecumenici. Una codificazione è pertanto la raccolta e la cernita di ciò che la tradizione ha trasmesso, ma nello stesso tempo un atto del suo ulteriore sviluppo.

Nel contesto di tutto questo travaglio di rielaborazione una teologia del diritto canonico quale parte essenziale dell'ecclesiologia è divenuta un compito urgente. Nell'ambito protestante la discussione sul fondamento teologico e sulla corretta configurazione teologica del diritto canonico è presente da tempo, certamente anche perché la questione del diritto canonico si poneva tanto critica quanto ineludibile, da quando Martin Lutero - il quale del resto aveva dapprincipio studiato diritto - bruciò i libri del diritto (Corpus iuris) insieme con la bolla di scomunica che lo riguardava, per mostrare in modo spettacolare che egli considerava questo diritto canonico in contraddizione con il Vangelo.

Benché la discussione fra teologi e canonisti non sia stata sconosciuta neppure al medioevo, d'altra parte nella Chiesa cattolica vi fu una pacifica accettazione del valore del diritto e dello sviluppo del diritto, così che non vi fu motivo di riflettere sui fondamenti teologici del diritto al di là dei principi fondamentali comuni. Da quando però Rudolph Sohm (1841-1917), fondandosi su di un'impressionante conoscenza della storia del diritto canonico, ebbe avanzato la tesi "La Chiesa di Dio è libera(...) da ogni diritto" e influì in tal modo al di là dei confini della sua confessione, la riflessione su questo problema dovette cominciare anche da parte cattolica.

Al professor Composta dell'università Urbaniana va il merito di avere per primo elaborato una monografia cattolica completa su questo tema, che può ora presentarsi come un corrispondente al monumentale Recht der Gnade recentemente portato a termine dalla penna di Hans Dombois.
Saluto con soddisfazione il fatto che il professore Composta con un lavoro di vent'anni ha elaborato questa grande opera e ha così introdotto questo tema con tutte le sue esigenze nell'ambito della teologia cattolica. Auguro a questo importante libro molti lettori e l'influsso che gli spetta nell'insieme del lavoro teologico.

Roma, Pasqua 1985.



(©L'Osservatore Romano - 2 ottobre 2010)
Caterina63
00mercoledì 10 novembre 2010 12:36
[SM=g1740733] .... stamani il blog Messainlatino ha pubblicato una interessante iniziativa di Radio Vaticana....


"Il Concilio bussola del terzo millennio..."

Per la Radio Vaticana, il concilio Vaticano II è la "bussola del terzo millennio". Solo che, nel frattempo, dev'essersi verificata un'inversione della polarità terrestre... Fuor di facezia, è sconcertante trovare archeo-conciliaristi ancora fermi a idolatrare quell'episodio della vita della Chiesa, che sarebbe invece urgente rinchiudere tra solide parentesi. Quel famigerato concilio, il "superdogma" come lo definì ironicamente il card. Ratzinger, ha avuto quasi mezzo secolo per far le sue prove. Le ha fallite, invariabilmente, tutte. Il terzo millennio non ha dunque bisogno di un piffero di Hamelin.
Radio Vaticana peraltro non manca di prestare omaggio alla nozione di ermeneutica della continuità, propugnata da Benedetto XVI per combattere le storture postconciliari. Ma l'impressione è che alla Radio non si andrà molto oltre un'adesione soltanto labiale a quel concetto; per il resto, "c'è da applicare il concilio": l'incessante cantiere dal progetto indefinito è sempre aperto.
Del concilio Vaticano II si è parlato e si continua a parlare troppo. Non sarebbe meglio, senza encomio né oltraggio, lasciarlo agli anni Sessanta cui interamente appartiene?

Enrico


Sono trascorsi quasi cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, da quella memorabile sessione inaugurale presieduta da Giovanni XXIII nella Basilica di San Pietro l’11 ottobre 1962. Quanto profondamente abbiano modificato la vita della Chiesa nel mondo le decisioni assunte dai Padri conciliari è un’evidenza concreta e, insieme, un continuo oggetto di riflessione. Ma cosa è e dove risiede lo spirito del Concilio? E com’è possibile vivere oggi la continuità e la discontinuità della tradizione alla luce del Concilio? A queste domande, la Radio Vaticana vuole offrire un suo contributo inaugurando da oggi una rubrica intitolata “Il Concilio Vaticano II, bussola del terzo millennio”, secondo una definizione di Benedetto XVI. Si tratta di un ciclo di 25 brevi riflessioni settimanali, in programma ogni martedì, curate dal gesuita padre Dariusz Kowalczyk – docente di Teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana – e incentrate sui documenti fondamentali del Vaticano II. In questa prima puntata, l’autore si sofferma su una delle domande oggi ricorrenti quando di parla del Concilio:

Abbiamo bisogno di un Concilio Vaticano Terzo? Chi può saperlo? Quando Angelo Roncalli fu eletto Successore di Pio XII, molti osservatori ritenevano che quel Pontificato sarebbe stato un Pontificato “di transizione”. Roncalli allora aveva 76 anni. Pochi mesi dopo Giovanni XXIII prese delle iniziative per convocare il Concilio che ha cambiato la Chiesa. Molti fra i curiali ritenevano che l’idea di un nuovo Concilio fosse ben spropositata. Nella Chiesa era diffusa l’opinione che in quanto il Vaticano I, nel 1870, aveva sancito l’infallibilità papale, il Pontefice da solo avrebbe potuto affrontare ogni questione. Giovanni XXIII, che pensava esattamente l’opposto, superò le obbiezioni. Ma da dove gli venne la ferma convinzione di lanciarsi in un’impresa così grande come un Concilio ecumenico? Egli stesso disse: “Su quanto tocca la mia umile persona non amo richiamarmi a particolari ispirazioni. Mi accontento della retta dottrina la quale insegna che tutto viene da Dio. In tal modo ho considerato come ispirazione anche quest’idea del Concilio”. (Si!) E’ proprio Colui che guida la sua Chiesa “alla verità tutta intera”, cioè lo Spirito Santo, che ispirò Papa Roncalli a convocare il Concilio che sarebbe diventato “una pietra miliare nella storia bimillenaria della Chiesa” come ha detto Giovanni Paolo II. Col passare del tempo, i documenti conciliari non hanno perso la loro attualità. Anzi, sono sempre da attuare. Ma soprattutto rimane da riscoprire lo Spirito che ha ispirato e guidato il Concilio. Joseph Ratzinger notò che al Concilio vero “già durante le sedute, e poi, via via sempre di più nel periodo successivo, si contrappose un sedicente «spirito di Concilio» che in realtà ne è un vero «anti-spirito». Uno dei dogmi di quell’“anti-spirito” sarebbe la tesi che tutto ciò che è nuovo (o presunto tale) è sempre migliore di ciò che è stato o che c’è. Durante le nostre riflessioni cercheremo di distinguere nel presente lo spirito vero del Concilio da quell’anti-spirito che si era palesato già allora e anche oggi persiste.

Fonte: Radio Vaticana



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alcune mie riflessioni a seguito del dibattito che potrete seguire cliccando sul titolo dell'argomento:

Alexander Von Trotta
Si evoca il Vaticano III e poi si dice che il II è ancora da attuare? Mah...

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LDCaterina63
Concordo e aggiungo la segnalazione del libro di  Padre Cavalcoli  sugli errori di Karl Rahner "Il Concilio tradito"...  
  padre Cavalcoli è realista e a pag. 19-20 sottolinea:  
 
"Certamente tali inconvenienti non dipendono solo da Rahner e dalla sua scuola, ma anche da molti altri personaggi di minor calibro. Sembrerebbe allora imporsi sempre più la necessità, non sappiamo a quale scadenza, di un nuovo Concilio, nel caso non si riesca a rimediare a quegli inconvenienti in altro modo.  
Questo, come ho detto, è normale nella storia della Chiesa.  
La speranza per adesso, è quella di una correzione o almeno di una attenuazione del movimento modernistico. Ma se ciò non avvenisse, non vedrei altra soluzione che la convocazione di un nuovo Concilio che facesse virare la navicella della Chiesa nuovamente verso quei valori tradizionali che la scomposta euforia postconciliare - da addebitarsi non al Concilio, ma ai modernisti - ha provocato nella Chiesa.  
Comunque il compito per l'oggi sembra essere quello di una chiarificazione definitiva degli errori di Rahner, senza per questo misconoscere i suoi meriti. Le conquiste vanno conservate, ma accorre anche recuperare i valori dimenticati..."  
 
Wink



Purtroppo questo è il tempo degli SLOGAN attraverso i quali si sta facendo la storia, non dimentichiamo che il tutto ha avuto L'APICE E NON L'INIZIO con l'emancipazione FEMMINILE  e più che femminile con il FEMMINISMO.... i veri sostenitori di un Concilio di ROTTURA sono femminsti.... Wink  l'esempio lampante di chi rigettò veramente un Concilio lo abbiamo, sono i Vetero Cattolici che rinnegarono il Vaticano Primo e abbiamo visto come si sono ridotti: si all'aborto, si al divorzio, in Italia abbiamo la prima donna prete... eppure il cardinale di Milano brinda con lei facendosi fotografare, il cardinale di Milano 30 anni fa ha concesso in prestito una parrocchia cattolica.... a Milano, per la Festa di Pentecoste e per il Corpus Domini, i Vetero sono INVITATI e partecipano insieme....(da quest'anno per la verità no, con la donna prete i rapporti si sono complicati )....  
altri esempi li abbiamo dai tanti filmati postati dalla Redazione con tante altre notizie, CHI SFRUTTA IL CONCILIO per avanzare pretese ideologiche, VIVE UNA CHIESA FEMMINISTA... IMPONE UNA CHIESA FEMMINISTA...  
 
Che il Concilio possa essere una BUSSOLA non mi turba affatto se tale Concilio però viene vissuto con lo stesso autentico SPIRITO DEL CONCILIO DI TRENTO, DI EFESO, DI COSTANTINOPOLI, LATERANENSE, ecc.... Wink  
 
Paolo VI, infatti, nell’Udienza Generale del 12 gennaio 1966, ricordava che «bisogna fare attenzione: gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico e completo della dottrina cattolica; questa è assai più ampia, come tutti sanno, e non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata; ché anzi il Concilio la conferma, la illustra, la difende e la sviluppa…».  
 
Se dunque questa iniziativa terrà conto di denunciare chi mise in dubbio e chi modificò LA DOTTRINA CATTOLICA e chi oggi ancora sostiene questa apostasia, ben venga....diversamente sarà l'ennesimo autogol!



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Antonello
il grido di Alaki che non ne può più di sentire la parola "concilio" è sintomatica: in questi ultimi 50 anni il concilio lo si tira in ballo per ogni cosa. Diciamo che ci han fatto fare una lunga serie di indigestioni di "concilio". E alla fine, come dopo ogni indigestione ripetuta in contnuazione si arriva solo ad un punto: il rigetto.  
Più o meno accadrà pure col Vaticano II. Alaki è solo una rondine, che non fa primavera, ma la annuncia vicina. E da un capo all'altro dell'orbe non si sentirà altro che questo grido: basta col concilio, non ne possiamo più.  
 
E si ritornerà ad avere come bussola Cristo, come dice Mic,  e solo lui, non un raduno di vescovi che rinunciarono volutamente all'assistenza dello Spirito Santo perchè volevan dire cose nuove che l'assistenza dello Spirito Santo non avrebbe fatto dir loro; perchè gli uomini, anche se vescovi, possono contraddirsi, Dio no





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LDCaterina63
Smile  è vero!  
tuttavia facciamo attenzione a non cadere nell'errore dei Protestanti con I TRE "sola": il SOLA SCRIPTURA, SOLA GRATIA, SOLO CHRISTO.....non a caso le nostre comunità parrocchiali e diocesani hanno sviluppato ed alimentato all'interno un atteggiamento PROTESTANTE idolatrando IMMAGINI DI CRISTO ED INTERPRETAZIONI DELLA SCRITTURA a seconda delle proprie visioni di Chiesa ed opinioni CARISMATICHE.... Wink  
 
Anch'io personalmente non ne posso più di sentir mettere avanti sempre il CONCILIO per ricordarmi che sono stata battezzata e che ho una missione da compiere all'interno dello stato e situazione in cui Dio mi ha messo, ma senza dubbio se il Concilio viene usato per alimentare una vita COMUNITARIA parrocchiale diversa da quella ecclesiale ed ecclesialmente autentica nella Dottrina BIMILLENARIA della Chiesa, bè.... ben venga il parlare del Concilio per far comprendere GLI ERRORI....  
diversamente, ripeto, sarà l'ennesimo autogol



Faccio osservare che il primo sacerdote che in rete pubblicò un'ampia documentazione denunciando il falso "spirito" del Concilio definendolo ANTI-CONCILIO fu il bravo Don Guglielmo Fichera il quale, non a caso.... appena ricevuto il Summorum Pontificum e prodigandosi per la sua applicazione, è stato magistralmente trasferito dal suo vescovo.....  
 
Scrive Don Fichera:  
 
Bisognerà allora distinguere bene, sempre, tra Concilio autentico e anti-Concilio, tra la sua realizzazione autentica e la sua contraffazione dovuta a letture ideologiche, ad applicazioni settarie, a manomissioni faziose. La caratteristica di fondo dell’anti-Concilio è stata quella di compromettere la fede con le ideologie e gli idoli di moda.  
Della stessa opinione è mons. Gherardini nel suo stupendo libro recente "Concilio Ecumenico Vaticano II - Un discorso da fare -" presentato anche dalla Redazione nella lista a fianco.....  
scrive mons. Gherardini a pag. 33:  
" Sotto molteplici aspetti - lo riconosco io pure, con fermezza e convinzione - il Vaticano II fu davvero un grande Concilio. Non si è lontani dalla realtà se si riconosca in esso il segno, eloquente e paradossale, dello Spirito Creatore che passa, irrorandoli, lungo i solchi della storia e della Chiesa. Non si finalizzò alla condanna di qualche vecchia o nuova eresia, ma si pose dinanzi alla realtà oggettiva della cultura corrente per individuare il punto d'aggancio.... con il messaggio cristiano e con quel patrimonio filosofico-teologico che lungo i secoli ne è scaturito..."  
 
da questa premessa è interessante il passo successivo ben articolato ed argomentato da mons. Gherardini e da dove cominciano i veri errori: il concetto di AGGIORNAMENTO..... Wink




Caterina63
00mercoledì 12 gennaio 2011 15:24
[SM=g1740733] [SM=g1740722] Sul Concilio Vaticano II: continuità nella riforma.
con P.Giovanni Cavalcoli, OP:

saranno 4 incontri brevi:

1. La questione dell'interpretazione del Concilio.
2. Il criterio della valutazione
3. Aspetti pastorali e aspetti dottrinali.
4. Le dottrine nuove del Concilio.

www.gloria.tv/?media=120352

1. La questione dell'interpretazione del Concilio.


[SM=g1740717]



2. Il criterio della valutazione
www.gloria.tv/?media=122138

[SM=g1740717]



3. Aspetti pastorali e aspetti dottrinali.
www.gloria.tv/?media=122724

[SM=g1740717]

4. Le dottrine nuove del Concilio.
www.gloria.tv/?media=122762

[SM=g1740717]


[SM=g1740722] [SM=g1740757]

Caterina63
00mercoledì 9 marzo 2011 11:45
[SM=g1740733]
E’ evidente che noi non abbiamo mai detto che il concilio Vaticano II sia l’unica causa della scristianizzazione contemporanea, la fonte esclusiva di tutti i mali attuali della Chiesa, la chiave di lettura completa della crisi religiosa: sarebbe una concezione ridicola. Al contrario, è certo che la crisi attraversata dalla Chiesa da mezzo secolo possiede spiegazioni molteplici, cause molto varie, di cui è possibile stabilire rapidamente una lista sommaria.

Crisi conciliare e postconciliare

Tutti questi fatti e molti altri che un’analisi sociologica permette di chiarire, costituiscono senza dubbio un terreno propizio ad una rimessa in causa globale della tradizione, dell’autorità, delle norme, della cultura dominante, della religione.
Ne siamo consapevoli e lo ammettiamo volentieri: la crisi di cui subiamo ancora le conseguenze ha senz’altro molte e svariate cause. Il fatto che questa crisi sia esplosa più o meno al momento del concilio Vaticano II non significa quindi che esso ne sia la causa unica e necessaria
.

Tutte queste spiegazioni, tutte queste prospettive, tutte queste sfumature, noi le ammettiamo di buon cuore. Tuttavia, esse non possono né devono cancellare una fatto evidente: una crisi religiosa di estrema violenza è scoppiata durante e dopo il Vaticano II. Ciò non basta affatto e dimostrare che il Concilio ne sia la causa principale. Ma impedisce di affermare senz’altra forma di processo che il Concilio non c’entri per nulla. Come minimo, è necessario esaminare, chiedersi: due fenomeni così visivamente concomitanti (Vaticano II, la crisi religiosa e morale) possono non avere alcun nesso di causalità? Sarebbe difficile dare a bere un tale “ miracolo ” a un qualsiasi storico serio.

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queste parole appena lette provengono da una analisi molto meticolosa, seppur limitata, da parte della Fraternita Sacerdotale san Pio X (FSSPX) per le quali vi suggeriamo la lettura integrale cliccando qui:
Interessante analisi sul Concilio da parte della FSSPX

Buona meditazione........


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Monsignor Brunero Gherardini lamenta la paura dello studio e dell'approfondimento del Concilio Vaticano II da parte dei nemici della Tradizione



Nel marzo del 2009 venne alla luce il bellissimo ed istruttivo volume Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare del teologo Monsignor Brunero Gherardini, pubblicato dalla Casa Mariana Editrice. Il libro ebbe successo: immediata ristampa e, nel giro di pochi mesi, una seconda edizione; poi una traduzione in francese, seguita da quella inglese e tedesca, a breve, anche in spagnolo e portoghese. Di fronte a questi brillanti risultati si levarono alcune voci critiche che, invece di stimolare un sano dibattito, hanno ingiustamente e presuntuosamente biasimato l’egregio lavoro del teologo.

Quel libro è stato realmente una vera e propria pietra lanciata nello stagno (perché di stagno si tratta) delle discussioni sull’Assise pastorale che tanti problemi ha creato durante e dopo la sua realizzazione, dentro e fuori la Chiesa. L’intenzione del saggio era quella di smuovere le paludose e ferme acque nelle quali si è incagliata la crisi, evidente, della Chiesa. «Era in effetti un appello a chi decide gli orientamenti della Chiesa cattolica, oltre che ai non pochi opinion’s makers i quali, per motivi diversi, talvolta anche discutibili, determinano gli orientamenti del variegato mondo culturale» (1): si trattava, quindi, di innescare una saggia discussione critica su una questione irrisolta da quasi cinquant’anni. Il desiderio di Monsignor Gherardini era quello di porre fine ad una sterile e persistente celebrazione conciliare, in un quasi ossessivo collegamento di tutti i temi, sia sacri che profani, al Concilio, seppur pastorale, e finalmente venissero sottoposti i suoi 16 documenti (4 Costituzioni, 9 Decreti, 3 Dichiarazioni) ad un’analisi libera e costruttiva, scevra da pregiudizi. Ebbene, a due anni esatti di distanza (marzo 2011), esce un nuovo e illuminante testo del grande teologo di Santa romana Chiesa, Il Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, edito da LINDAU, dove l’autore esterna tristezza e delusione di fronte a quell’appello non sufficientemente colto.


Le due centrali di orientamento


Si sono formate due centrali di orientamento ermeneutico, l’«una, ufficiale costante univoca nella ripetizione martellante del proprio orientamento di fondo, ha enfatizzato dell’evento stesso la grandiosità inaudita, l’importanza eccezionale, la provvidenziale e tempestiva risposta alle attese del mondo contemporaneo, l’allinearsi della Chiesa a servizio dell’uomo e perfino nel culto di esso – sia pure, ovviamente, dell’uomo redento –, il suo aprirsi al dialogo con la cultura imperante come se in esso consistesse la quintessenza della missione ecclesiale, il suo inserirsi da protagonista nel dialogo ecumenico come se esso fosse il toccasana della cristianità divisa e come se il Signore avesse chiesto di dialogare e non di predicar e convertire» (2).

L’altra centrale, priva di ufficialità ecclesiale ma seguita da molti uomini di Chiesa e portabandiera dell’ala progressista della cultura cattolica è la Scuola di Bologna, fondata dal professor Giuseppe Alberigo, che sicuramente è stata la centrale più efficiente di studio, analisi e approfondimento del Concilio, dando una chiave di interpretazione di netta rottura con la Tradizione: dall’Assise sarebbe sorta una nuova Chiesa, libera dai “lacci” del passato. La Tradizione venne polverizzata e da questa scuola di Bologna si dipartirono, sia in Europa che nelle Americhe, i maestri dell’innovazione. Si prese a ridicolizzare non solo riti e devozioni preconciliari, ma anche i contenuti e gli insegnamenti, a partire da san Tommaso e dal suo metodo; il «Magistero – e la vicenda dell’enciclica Humanae vitae ne è la più conturbante conferma – veniva apertamente criticato e, specie quando assumeva il tono e lo stile del passato, s’aveva la sfrontatezza di rinnegarlo. Nella semplicistica e banale contrapposizione di progressista a conservatore-tradizionalista si consumò l’azzeramento di venti secoli di storia e di testimonianza evangelica per dar inizio alla novità della Chiesa conciliare» (3).


Quando avvenne la rottura con la Tradizione?


Fu molto semplice, in tale rivoluzionario contesto, la penetrazione invasiva delle tendenze razionaliste, illusioniste, positiviste, esistenzialiste ed eversive del messaggio evangelico e della Tradizione ecclesiastica; devastante fu poi la creatività liturgica alla quale le Conferenze episcopali, «quando del disordine non fossero esse stesse responsabili» (4), non seppero reagire. Insomma, parve quasi che il 1965, anno di chiusura del Concilio, fosse l’anno zero della Chiesa e poco importò il disorientamento delle coscienze dei semplici fedeli: l’euforia dominò e irresistibile fu il fascino dettato dal nuovo, dal moderno, dall’idea di una Chiesa al passo con i tempi, più attenta all’uomo che a Dio, più attenta ai poveri che ai sacramenti e alla preghiera, più attenta alla pace nel mondo che all’evangelizzazione dei popoli e delle nazioni, più attenta al progresso che agli insegnamenti secolari che sempre aveva pronunciato con forza, determinazione e convinzione.

In questo scenario paradossale, in cui uomini di Chiesa e teologi lottavano contro di essa per una voglia di emancipazione e di riscossa con l’obiettivo terreno e non soprannaturale di avvicinarsi al mondo per essere compresi da esso e sentirsi legittimati ed alla pari nell’essere accettati, grazie all’aggiornamento, in ogni ambiente culturale, politico, associativo. Era, in definitiva, una ribellione euforica alle regole di sempre e la Curia romana fu il bersaglio preferito. Monsignor Gherardini sostiene che la rottura con la Tradizione avvenne già durante il Concilio Vaticano II e fin dalla prima ora. Basti pensare al rifiuto degli schemi preparatori: non ne fu salvato neppure uno, tutti cestinati. «Ricordo», rivela l’autore, «l’indiscussa fedeltà alla Tradizione che caratterizzava gli schemi stessi, senza nulla toglier al loro equilibrio fra contenuti rivelati e dalla Chiesa già definiti, esposizione secondo la metodologia classica, ed attenzione ai nuovi problemi del momento. Alcuni di essi, oltre che per fedeltà e chiarezza dottrinale, s’imponevan pure per la trasparenza formale dell’esposizione. C’era, in essi, la Chiesa di sempre. E con essi la Chiesa di sempre si presentava al confronto con i fermenti culturali del nuovo illuminismo.

Aperto il Concilio, s’aprì pure il confronto. Il nuovo illuminismo ne uscì burbanzosamente vittorioso; e lo si capì subito. La sorte dei detti schemi fu segnata non appena pervennero nelle mani dei Padri conciliari» (5). Il dibattito conciliare fu anche rissoso ed irrispettoso. Un esempio valga su tutti: quando «al venerando cardinal Ottaviani, nel corso della sua appassionata difesa della Messa tradizionale, allo scoccare del regolamentare quindicesimo minuto fu spento il microfono e tolta la parola. A quel punto, il Concilio già procedeva per la sua strada: in dichiarata rottura con il secolare magistero, riassunto ed attualizzato negli schemi contestati […]. Si stava già operando un capovolgimento che, con l’andare del tempo, si sarebbe fatto sempre più netto: la teologia diventava antropologia; l’uomo era elevato, in ossequio – come si diceva – ad un progetto di Dio, a valore primo ed ultimo di tutta la realtà creaturale; la salvezza perdeva progressivamente il contatto con la rivelazione del peccato originale, con l’incarnazione e la redenzione di Cristo, con la speranza cristiana della vita eterna» (6).

Con il trucco degli espliciti riferimenti ai precedenti Concili, il Vaticano II ha disseminato nei suoi documenti, soprattutto là dove maggiori sono le innovazioni introdotte, diverse citazioni «per assicurar una conoscenza fra ieri e oggi, che di fatto non c’è. Son frasi intese a tacitar apprensioni e turbamenti» (7). Con queste lucide spiegazioni l’autore giunge alla convincente conclusione che lo spirito del Concilio non venne fuori dopo il Concilio, ma già durante il suo stesso divenire. Lo spirito del Concilio venne denunciato dall’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Joseph Rantzinger, oggi Benedetto XVI, sostenitore dell’ermeneutica della continuità con il passato «in una sorta di mai interrotta autoriforma» (8), e in esso scorse gli estremi di un «gegen-Geist», ovvero «contro-spirito».


Contro i «profeti di sventura»


Lo spirito del Concilio, d’altra parte, si coglie già dalle parole pronunciate da Giovanni XXIII nell’allocuzione di apertura dell’Assise, dove si evince la volontà di esprimere in forme nuove la dottrina cattolica di sempre. Afferma, infatti, Gherardini: «Sì, con quel suo fare tra l’ingenuo e l’ottimista ad ogni costo, papa Roncalli non si rese conto, anche perché agì senz’alcun previo contatto con l’episcopato mondiale, di come e quanto un Concilio in quella particolare contingenza fosse intempestivo» (9).

L’«enigmatico» papa Roncalli, come lo definisce Gherardini, fu durissimo nei confronti dei «profeti di sventura», i quali offendevano il Papa con i loro presagi negativi: «Ad aumentare la santa letizia che in quest’ora solenne pervade i nostri animi. Ci sia cioè permesso osservare davanti a questa grandiosa assemblea che l’apertura di questo Concilio Ecumenico cade proprio in circostanze favorevoli di tempo. Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo…».

L’autore del libro constata, con approfondito esame, che il «gegen» ha lasciato la sua inconfondibile traccia nei documenti conciliari e in certuni è abbondantemente riscontrabile, come nella Dei Verbum, nella Nostra aetate, nella Lumen gentium, nella Unitatis redintegratio, nella Dignitatis humanae. Sani e salutari dibattiti, studi, libri, articoli, approfondimenti critici Gherardini auspicò con il libro del 2009. Quando, per esempio, ebbe fra le mani il testo di Ralph McInerny, dal titolo promettente e ad effetto Vaticano II. Che cosa è andato storto?, sperò di trovarvi uno studio serio, invece, fu una «delusione assoluta. Sul Vaticano II McInerny ripeteva la volgata» (10) comune, concentrando le critiche sul postconcilio, «speravo di trovar un compagno di viaggio, di fatto ingarbugliava ulteriormente la matassa e non portava nessun contributo di chiarezza» (11).


Il provvidenziale «passa parola»


La speranza di Monsignor Gherardini di discutere sul Vaticano II, non per alimentare sterili polemiche, ma per giungere ad una costruttiva discussione e chiarificazione, è stata soddisfatta dalla Fraternità San Pio X, che «ha capito ed ha risposto […] e dico: grazie!» (12). A questo riguardo desidero ricordare una frase molto impegnativa che un coraggioso, quanto vessato sacerdote diocesano mi ha riferito in questi giorni: «Chi vuol fare la tradizione senza Monsignor Lefebvre perde tempo».

Ebbene, nel mondo della Tradizione gli unici ad aver accolto il richiamo di Monsignor Gherardini sono stati proprio i figli di Monsignor Lefebvre, i quali non solo hanno prestato attenzione al discorso da fare, ma hanno aperto un dibattito con una lunga serie di interventi e con un congresso, organizzato dal Courrier de Rome, che si è tenuto a Parigi dall’8 al 10 gennaio del 2010 con i relativi Atti, già pubblicati (13).

Segnali positivi, comunque, stanno arrivando un po’ dappertutto, manca ancora l’ardire, ma un “passa parola” si sta diffondendo sempre più, a macchia d’olio: molti sacerdoti, seppure ancora nel nascondimento, leggono, s’informano, approfondiscono... Per esempio ci sono preti che, senza identificarsi esplicitamente, telefonano a Radio Maria compiacendosi e sostenendo il movimento culturale e religioso che si è ormai innescato, grazie anche a libri dello spessore di quelli scritti da Monsignor Brunero Gherardini.


La bonifica dello stagno


Interessantissima, poi, la disamina che l’autore compie di alcuni movimenti come i «neopentecostali», detti successivamente «rinnovamento nello Spirito» ed i «neocatecumenali», che Gherardini definisce vere e proprie «chiese parallele». Un Vescovo, al quale il teologo aveva esposto le sue riserve su tali realtà in odore di eresia, gli aveva risposto: «Però pregano molto e quindi lasciamoli in pace […] Si vede che per i vescovi del postconcilio una preghiera […] val bene un’eresia!» (14). Interessantissimo, poi, ma assai doloroso, è quanto rilevato sulle aberrazioni e non soltanto risultanti dalla orrenda ed esecrabile pedofilia. Monsignor Gherardini riporta la pubblicazione ufficiale dei preti sposati: più di 100.000, ossia un quarto dei 408.000 incardinati nelle varie diocesi; ma il loro numero è largamente inferiore rispetto ai preti conviventi more uxorio con una donna. E in mezzo al numero sempre più ridotto, sia di sacerdoti che di religiose, «si respira un’atmosfera inquinata e quasi nessuno se ne rende conto» (15), oppure si fa finta di non accorgersene. Benedetto XVI disse l’11 giugno 2010, alla chiusura dell’Anno sacerdotale: «… la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore, vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore» (16).

I comportamenti indegni della vita sacerdotale Gherardini li classifica come «immondezzaio» (17), nato e cresciuto nel postconcilio perché quel «contro spirito» è andato contro la spiritualità che ha guidato la Chiesa dalle origini fino al 1962; contro i suoi dogmi, reinterpretati non teologicamente, ma storicamente, contro la sua Tradizione, cancellata come fonte di Rivelazione e reinterpretata alla luce dell’esperienza ordinaria. Monsignor Gherardini giunge a queste conclusioni: i sedici documenti del Concilio Vaticano II, autentico Concilio ecumenico della Chiesa cattolica, esprimono tutti un magistero conciliare, non necessariamente coperto dal carisma dell’infallibilità; si tratta di un magistero, proprio perché conciliare, solenne e supremo.

Tuttavia, occorre distinguere la qualità dei suoi documenti, «perché il carattere solenne del loro insegnamento né li mette tutti su un piano di pari importanza, né comporta sempre di per sé la loro validità dogmatica e quindi infallibile» (18). Inoltre lo studioso serio, secondo l’alto esponente della gloriosa Scuola romana, deve tenere presente che il Concilio deve venire distinto in quattro livelli: a) quello, generico, del Concilio ecumenico in quanto Concilio ecumenico; b) quello, specifico, del taglio pastorale; c) quello dell’appello ad altri Concili; d) e quello delle innovazioni (19). Quest’ultimo livello ha separato la Chiesa della Tradizione da quella della cosiddetta «nuova Pentecoste».

I drammi sono arrivati proprio dai novatori e dai venti liberaleggianti intrisi di modernismo. Sono quei venti che hanno condotto anche alla caduta libera verso una morale squallida e putrefatta. Il discorso da fare che Monsignor Gherardini ha sapientemente promosso sulle aperture lassiste e relativiste del Concilio e del postconcilio prosegue nel suo inesorabile cammino, in quanto solo «la verità vi farà liberi» (Gv 8,32) e non certo il nascondimento, la paura, o, peggio, la menzogna, con il pericolo di peggiorare sempre più la già precaria situazione. Luce dovrà, prima o poi, essere fatta, in modo che quello stagno, nel quale è caduta la pietra del teologo di Santa Romana Chiesa, sia bonificato e si trasformi nelle cristalline e bucoliche acque delle incantevoli fonti del Clitumno, dove il Cielo si possa rispecchiare.


Brunero Gherardini, Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, LINDAU, collana: I Pellicani, pp. 112, € 12,00.

Cristina Siccardi

Note

 

(1) B. Gherardini, Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau, Torino 2011, p. 9.

(2) Ibid., p. 10.

(3) Ibid., p. 13.

(4) Ibid., p. 14.

(5) Ibid., pp. 30-31.

(6) Ibid., pp. 31-32.

(7) Ibid., p. 33.

(8) Ibid., p. 25.

(9) Ibid., p. 27.

(10) Ibid., p. 58.

(11) Ibid., p. 59.

(12) Ibid., p. 62.

(13) Courrier de Rome, Vatican II: Un débat à ouvrir, Actes du IX Congrès théologique du Courrier de Rome, BP 10156, Versailles Cedex, 2010.

(14) Ibid., p. 72.

(15) Ibid., p. 75.

(16) Ibid., p. 198.

(17) Ibid., p. 74.

(18) Ibid., p. 82.

(19) Ibid., p. 90.







Caterina63
00domenica 3 luglio 2011 17:49
[SM=g1740733]LA TESTIMONIANZA TANGIBILE DELL'AUTENTICA E VERA TRADIZIONE NEL SOLCO DEL CONCILIO....

Un pellegrinaggio della Tradizione








Dall'11 al 13 giugno 2011 si è svolta la 29ma edizione del Pellegrinaggio di Pentecoste, che come vuole la tradizione ripresa da Charles Péguy (1873-1914) – riattivata, nel 1983, nello spirito dei fratelli Henri (1883-1975) e André Charlier (1895-1971) –, accompagna i pellegrini a piedi, dalla cattedrale Notre-Dame di Parigi alla cattedrale Notre-Dame di Chartres, per un totale di circa cento chilometri. A organizzare questo imponente pellegrinaggio è l'associazione Notre-Dame de Chrétienté, secondo una carta fondativa che vuole questa iniziativa – d'impronta mariana e liturgicamente vincolata alla forma straordinaria del Rito romano – posta sotto l'egida del motto Tradizione - Cristianità - Missione.

Quest'anno il tema del 29mo pellegrinaggio Parigi-Chartres è stato Il Vangelo della Vita, come espressione di adesione integrale alla tutela della vita in tutte le sue fasi – dal primo momento del concepimento fino alla morte naturale –, cioè il primo dei punti non negoziabili sui quali Papa Benedetto XVI, a partire dal discorso del 30 marzo 2006, è tornato a più riprese. In questo senso, le tre giornate del pellegrinaggio sono state poste rispettivamente sotto il patrocinio della beata Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), santa Maria Goretti (1890-1902) e la Vergine di Guadalupe.
Alle tre faticose, ma gioiose e spiritualmente assai ricche giornate di pellegrinaggio, ha partecipato quest'anno una folla di quasi 10.000 persone, prevalentemente di età giovanile, oltre a centinaia di membri d'istituti di vita consacrata, che hanno accompagnato i pellegrini durante il loro percorso. Sul sito Internet dell'associazione Notre-Dame de Chrétienté è accessibile una pagina in cui sono visionabili circa 400 fotografie.
Anche l'Italia ha avuto quest'anno una sua piccola rappresentanza – auspicabilmente da replicare e intensificare negli anni a venire –, composta da una delegazione di giovani dell'associazione Alleanza Cattolica, i quali si sono recati al Pèlerinage de Pentecôte unendosi al Chapitre Sainte Madeleine, movimento cattolico giovanile legato spiritualmente all'abbazia benedettina di Le Barroux, il cui fondatore e primo abate, Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), pronunciò nel 1985, a Chartres, in conclusione di quell'edizione del pellegrinaggio, un'omelia che è considerata uno dei testi fondatori di quest'avventura spirituale e umana, e che Romualdica ha pubblicato in traduzione italiana con il titolo Chartres, 1985: "è un monaco che vi parla".
Conclusivamente, riproduciamo qui di seguito [i link di ] due video: il primo riguardante la partenza del pellegrinaggio, l'11 giugno 2011, dalla cattedrale Notre-Dame di Parigi; il secondo che racoglie estratti dell'arrivo alla cattedrale Notre-Dame di Chartres, il 13 giugno 2011.





Caterina63
00lunedì 5 settembre 2011 23:51

Cardinal Giuseppe SiriPresentiamo alcuni pensieri del cardinal Giuseppe Siri (1906-1989) riguardo al Concilio Vaticano II (grassetto nostro).

“Nel Concilio ho visto agitarsi tutta l’umanità con quanto essa porta con sé; ma ho sentito altrettanto e meglio l’azione dello Spirito Santo, che ha veramente e palesemente deciso.” (1966)

Il Concilio ha rinfrescata la verità che la Chiesa non è solamente occidentale e può marciare attraverso tutti i casi umani e tutte le culture, per una intrinseca immutabile solidità, che consente gli ad adattamenti estrinseci e contingenti. Quanto all’umanità, ritengo che il Concilio abbia compiuto il massimo di quanto avvenuto nella sua storia per la unità del genere umano.” (1966)

La bufera che si scatenò attorno al Concilio non fu voluta da papa Giovanni, che ne soffrì profondamente; ne sono personale testimone.” (Da Renovatio, VI (1970), fasc. 4)

Sempre ho insegnato e predicato che l’edizione tipica, ufficiale di quei decreti va letta in ginocchio. Pochi hanno difeso il Concilio come me. Ciò che ho sempre combattuto sono semmai gli stravolgimenti del Vaticano II. Così, nell’indice ufficiale dei concetti non troverà mai la voce “pluralismo teologico” che pure è uno dei cavalli di battaglia di chi si appella al Concilio” (intervista a Jesus del gennaio 1983)

Il Concilio è stato usato per tanti scopi che erano al di là del suo testo e della sua verità. Rimettere al suo posto il Concilio – che è obbedire al Concilio, e non servirsene per il proprio modo di vedere e di fare – è cosa che deve essere messa nelle mani del Cielo, perché in terra è troppo difficile.” (Intervista a l’Osservatore Romano del 14-15 ottobre 1985, p. 6)

“Quando è iniziato il Concilio ero membro della commissione cardinalizia per gli Affari straordinari, definita da Papa Giovanni “la testa del Concilio”. Durò solo per la prima sessione e fu soppressa da Paolo VI che diede via all’attività di venti cardinali: i dodici componenti il Consiglio di presidenza del Concilio (di cui feci parte anch’io), i quattro moderatori del Concilio stesso e i quattro coordinatori. Questi venti cardinali rappresentavano il nerbo del Concilio, perché le grandi questioni, i grandi dibattiti, le grandi risoluzioni furono prese in questa commissione che si riuniva quasi tutte le settimane. Chi non conosce i verbali di questo Consiglio credo che non possa scrivere la vera storia del Concilio.” (1985)

In occasione di alcune conferenze che tenne a Cannes nel ‘69 lei lanciò una pesantissima accusa: denunciò l’esistenza di una “controimpostazione” del Concilio…
SIRI: Come ha avuto i testi delle due conferenze?
Sono stati pubblicati recentemente nel primo volume delle sue opere.
SIRI: Quelle conferenze non avrebbero dovuto essere divulgate. Erano però tra i miei dattiloscritti. Quando mi chiesero di pubblicare i miei studi sul Concilio, tra gli altri vi erano anche quelli. Io non mi curo delle pubblicazioni, i miei libri neanche li rileggo. Non posso far altro comunque che confermare quanto dissi.
Un gruppo molto potente – lei disse – si era organizzato in…
SIRI: Sì. Si riunì, in un modo non del tutto legittimo, in una certa parte d’Europa. La prova evidente la ebbi quando si dovettero eleggere i due terzi dei membri delle commissioni.
Vuol forse dire che l’elezione dei membri nelle commissioni fu “guidata” da tale gruppo?
SIRI: Sì, ne sono certo. E stata orchestrata da loro, scegliendo in tutto il mondo quelli che più si conformavano ad un certo indirizzo e escludendone gli altri. Io presentai allora una lista alternativa definita “cattolica” perché i membri dovevano essere eletti in numero proporzionale al numero dei cattolici esistenti nei rispettivi paesi. Ma loro la fecero bocciare.
Sono accuse di non poco conto. Ne parlò con Giovanni XXIII?
SIRI: Sì, anche lui si rese conto del pericolo costituito da tale gruppo; in una lunga udienza mi disse chiaramente che non era «affatto contento del Concilio».
Quali erano secondo lei i fini specifici di questo gruppo?
SIRI: Forse avvicinare la Chiesa ai protestanti e rendere in tal modo più facile il loro ritorno. Ma può darsi che li stia giustificando troppo.
Lo definisce un gruppo di “controimpostazione conciliare”. L’aggettivo “contro” che valenza ha? Era “contro” l’impostazione voluta da Giovanni XXIII, “contro” il Magistero tradizionale della Chiesa cattolica o, più semplicemente, “contro” una visione tradizionalista della Chiesa che in Concilio ebbe i suoi leaders oltre che in lei nei cardinali Ruffini e Ottaviani?
SIRI: Contro l’impostazione voluta da Giovanni XXIII. Certo. Contro il Magistero tradizionale della Chiesa. Sicuro. Si formò tra noi un gruppo? Loro erano una corrente, la quale provocò necessariamente una controcorrente.
Il teologo Schillebeeckx ha affermato in un’intervista al settimanale spagnolo Vida Nueva che l’orientamento di cui lei fece parte era minoritario, ma riuscì ad influenzare il Concilio perché molto agguerrito, e soprattutto perché assecondato da Paolo VI.
SIRI: Una minoranza la nostra? Ma il Concilio erano i 2500 Padri che vi hanno partecipato e che votavano. E votavano bene. Di questi, solo 500 presero la parola almeno una volta. Tutti gli altri, ed erano i quattro quinti, erano lì, attenti, e giudicavano. Ed erano loro la maggioranza. La maggioranza silenziosa, ma che faceva il Concilio. E i documenti del Concilio furono tutti approvati quasi all’unanimità. Non si comprende il Concilio se non si comprende questo. Schillebeeckx faceva parte del Concilio come esperto dell’episcopato olandese. Io ero alla tribuna della presidenza e gli esperti erano nella tribuna alla mia destra. Li vedevo bene. Anzi, non li vedevo affatto: non c’erano quasi mai. Erano sempre in giro per Roma a tenere conferenze, dibattiti, assemblee. A parlare di tutto. A tentare di influenzare i Padri conciliari.” (1985)

“[...] quando vidi la ferocia dell’attacco al Primato di Pietro, preparai un intervento. Allora ero ammalato, soffrivo di labirintite, non riuscivo contemporaneamente a leggere e a parlare. Appena cominciavo sopraggiungeva una crisi e mi accasciavo al suolo. Era un lunedì. Il termine del dibattito era previsto per mercoledì mattina. Mi rivolsi ai “quattro cavalieri dell’Apocalisse”, i quattro moderatori che sedevano proprio sotto di noi, e mi feci iscrivere a parlare per ultimo: chi parla per ultimo ha “più ragione”. Preparai un testo di 10-15 righe. Mi rivolsi a Ruffini, che sedeva alla mia sinistra, dicendogli: «Mercoledì prenderò la parola, non riuscirò a terminare perché cadrò prima. Non curarti di me, ho già il mio segretario che mi sorreggerà, ma prendi i fogli e finisci tu il discorso». Il giorno seguente, il martedì mattina, entrò in aula il Segretario generale del Concilio, Pericle Felici: lesse un discorso a nome del Papa. Era l’intervento che avrei voluto fare io. Dissi a Ruffini: «Oggi ho visto l’intervento dello Spirito Santo sul Concilio».” (1985)

 


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