16 giugno 1980 e nasce la "leggenda" dei Blues Brothers....

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Caterina63
00martedì 15 giugno 2010 19:32
Il 16 giugno 1980 usciva negli Stati Uniti "The Blues Brothers" e fu quasi subito leggenda

In missione per conto di Dio (e del cinema)


di Emilio Ranzato


Non si entra nel mito per caso. Se ancora oggi un abito e un paio di occhiali neri fanno pensare alla coppia John Belushi - Dan Aykroyd prima che alle Iene di Quentin Tarantino o ai cacciatori di alieni di Men in black, è perché sotto la sua patina scanzonata The Blues Brothers si rivela un'opera incredibilmente accorta e ricca di spunti. Come capita spesso ai capolavori, si tratta di un crocevia di varie influenze, e intercetta tutta una serie di elementi che si sarebbero imposti negli anni a seguire.

Innanzi tutto, ci sono loro:  Jake ed Elwood. Fratelli senza una famiglia e senza veri legami. E senza nemmeno un vero lavoro. Una cellula impazzita e perfettamente autonoma che si aggira per l'America come una mina vagante. Vestiti sempre uguali, quasi sempre inespressivi, la loro è una maschera che si inserisce perfettamente nel trend del cinema dei primi anni Ottanta. La rinata industria hollywoodiana da una parte, e la volontà reaganiana di ricompattare il fronte ideologico nazionale dall'altra, scoraggiando a tal fine voci dissonanti o troppo politicamente orientate, sanciscono in quegli anni il successo clamoroso di un cinema disimpegnato, incentrato su personaggi fortemente caratterizzati e iconografici come i supereroi dei fumetti, da cui mutuano anche poteri e abilità fuori dal comune.
 
È la stagione della saga di Guerre stellari e di E.T., di Indiana Jones e dei viaggi nel tempo di Ritorno al futuro, degli acchiappa fantasmi di Ghostbusters e dei terribili Gremlins, dei sequel interminabili di Rocky e delle guerre in solitaria di Rambo, unica concessione, quest'ultimo, ad argomenti sulla carta più impegnativi, ma in pratica dai risvolti quasi caricaturali e comunque fortemente patriottici.

Che il film di John Landis faccia parte della stessa infornata lo si capisce già dalla presenza della principessa Leila-Carrie Fisher nel ruolo della belligerante ex fidanzata di Jake, nonché da un cammeo di Steven Spielberg nel finale. Ma se i fratelli Blues si servono di questa tendenza al kolossal un po' infantile, insieme la dissacrano. Anche perché vi innestano un altro ingrediente che avrà successo nel cinema dell'epoca:  quella comicità surreale che in versione più grossolana farà la fortuna del sottogenere demenziale e di film come L'aereo più pazzo del mondo, ma che qui si ricollega ancora a una tradizione nobile del cinema comico, come quella dei fratelli Marx e persino del vecchio slapstick - ovvero la comicità fisica dei tempi del muto - da cui i protagonisti assimilano in particolare l'anarchica capacità di distruggere tutto quello che incontrano. "Che fine ha fatto la Cadillac?" chiede Jake a Elwood nelle prime righe di dialogo di tutto il film. "L'ho cambiata" risponde il fratello. "Hai cambiato la bluesmobile con questa?" fa Jake riferendosi all'auto della polizia con cui il fratello, con molto tatto, l'ha appena prelevato dalla prigione. "No, con un microfono" spiega  Elwood. "Hai cambiato la Caddy  per  un  microfono?!" insiste Jake, sempre più sconvolto. Salvo poi chiosare:  "Va bene, hai fatto bene". Uno scambio di battute che stabilisce da subito quale sarà il tono del film. Più avanti allora non ci sarà da stupirsi quando i due si rialzeranno dalle macerie di un edificio, e dopo essersi ripuliti in fretta i vestiti sentenzieranno laconici:  "Sono quasi le nove. Dobbiamo andare al lavoro". Oppure quando imbastiranno una fuga dalle auto della polizia all'interno di un centro commerciale, soffermandosi nel frattempo sui prezzi della merce in saldo.

Ma il film di Landis non si fa vampirizzare da questo tipo di umorismo sopra le righe, che intelligentemente relega ai soli protagonisti. E per il resto si impegna a delineare uno scenario credibile, a partire da un'ambientazione cittadina che non disdegna accenti di realismo quasi documentario. Creando in tal modo un contrasto azzardato ma dal forte impatto. Soprattutto, poi, fornisce a questa coppia stilizzata un soggetto nient'affatto scontato che ha ben poco a che fare con il cinema comico. A un attento esame, si riconoscono nel film temi di un certo spessore, che fra l'altro contribuiscono a dare un senso al côté cattolico costituito dall'orfanotrofio gestito dalle suore e dalla "missione per conto di Dio" in cui è impegnata la coppia. C'è il motivo del ritorno del figliol prodigo, quello della redenzione da ottenere con sacrificio, quello del proselitismo con cui i protagonisti recuperano gli ex membri della banda da situazioni frustranti e imbarazzanti per restituirgli la loro vera vocazione. In particolare quest'ultimo, è un tema che ricalca un modello del cinema d'autore come I sette samurai, ma che riverbera anche un motivo principe della narrativa cinematografica americana, quello del recupero dell'anima perduta, che da Sentieri selvaggi a Taxi driver ha attraversato la storia del grande schermo.

Oltre a tutto questo, poi, The Blues Brothers è ovviamente anche un grande musical, prodotto intrepidamente in pompa magna in tempi in cui solo parlare di questo genere faceva sorridere il grande pubblico. E se i numeri di danza sono pochi e appena accennati, c'è una coreografia che attraversa tutto il film, ed è costituita dal ritmo incessante delle immagini, dalla resa visiva quasi pirotecnica delle demolizioni cui sono avvezzi i protagonisti, dalle entrate e le uscite di scena di una serie impressionante di star della black music perfettamente sincronizzate con gli snodi narrativi della trama.

Come poi tutti questi ingredienti riescano a fondersi in una massa compatta, è il tipico mistero dei capolavori. Ma senz'altro un grosso merito, oltre all'indimenticabile Belushi, va a due talenti sottovalutati come Landis e Aykroyd. Il primo, nonostante abbia firmato solo commedie e abbia imboccato una rapida parabola discendente, è stato un vero autore, allo stesso tempo innovatore e grande esperto del vecchio cinema, come dimostra il suo linguaggio classico ma dal ritmo serrato e già di per sé musicale. Il secondo, anche sceneggiatore del film assieme al regista, è stato un attore completo - ricevendo persino una nomination all'Oscar per A spasso con Daisy (Bruce Beresford, 1989) - dopo aver rivoluzionato la televisione americana come autore del "Saturday Night Live Show".

La parabola dei fratelli Blues, quindi, finirà com'era prevedibile dov'era cominciata:  in galera. Sulle note della quanto mai opportuna Jailhouse Rock di Elvis Presley. Ma solo dopo che la coppia avrà portato a termine con successo le sue due missioni. Salvare l'orfanotrofio ed entrare nella storia del cinema.


(©L'Osservatore Romano - 16 giugno 2010)
Caterina63
00martedì 15 giugno 2010 19:33

Un film cattolico


The Blues Brothers è un film cattolico? Gli indizi non mancano in un'opera dove i dettagli non sono certo casuali. A iniziare dalla foto incorniciata di un giovane e forte Giovanni Paolo ii nella casa dell'affittacamere - dall'accento siciliano e vestita di nero, dunque cattolica - di Lou "Blue" Marini. Senz'altro cattolico, come Alan "Mr. Fabulous" Rubin, di origine polacca, e come soprattutto i fratelli Jake ed Elwood Blues. E a notarlo, con maligna ostilità, sono gli avversari più determinati, cioè gli insopportabili nazisti dell'Illinois.

Jake ed Elwood sono infatti cresciuti nell'orfanotrofio intitolato a sant'Elena e alla santa Sindone, governato dalla terribile ma a suo modo affettuosa Sister Mary Stigmata, detta la Pinguina, e ora a rischio di sopravvivenza per cinquemila dollari di tasse non versate. Ma per i due quella istituzione cattolica è tutta la loro famiglia - solo il vecchio impiegato Curtis suonava per loro l'armonica in cantina, ricordano con nostalgia - e decidono di salvarla a ogni costo con i suoi piccoli ospiti.

Ma come farlo senza allontanarsi (troppo) dai valori trasmessi dalle suore e, nonostante qualche trasgressione, sempre ritenuti validi? L'illuminazione arriva nella chiesa battista di Triple Rock dove li ha indirizzati Curtis e dove ascoltano un sermone del reverendo Cleophus James sulla necessità di non sprecare la propria vita. Ed è proprio il religioso protestante ad accorgersi del cambiamento di Jake ("tu hai visto la Luce!") che scatena tra i fedeli un'ondata carismatica, ovviamente rock, ma che soprattutto porterà i fratelli a ricostituire "la banda" per raccogliere i dollari necessari  alla  salvezza  dell'orfanotrofio.

A fianco dei piccoli (e della Pinguina), i fratelli Blues sono capaci di toccanti attenzioni:  così Elwood non si dimentica di una terribile crema al formaggio commissionatagli da un anziano amico. E nulla antepongono - Elwood, il più galante, rinuncia persino all'avventura con una fascinosa signorina - alla "missione per conto di Dio". Che alla fine riuscirà. Consegnando alla storia del cinema e della musica un film memorabile. Stando ai fatti, cattolico.
(g. m. v.)




La più bella
colonna sonora


di Giuseppe Fiorentino e Gaetano Vallini

Contro ogni stereotipo e contro ogni buonismo, anche musicale:  il ghigno dell'indimenticabile John Belushi rimane ancora, oggi a tre decadi dall'uscita del film, un'icona non solo cinematografica. Il suo volto rimanda alla musica; una musica che diviene scelta di campo, radicale nella sua semplicità:  da una parte il rhythm and blues - la musica nera per antonomasia, capace di scandire quella strampalata "missione per conto di Dio" - dall'altra tutto il resto, a cominciare dal detestabile country degli odiati nazisti dell'Illinois.

Per questo la colonna sonora nel film The Blues Brothers è protagonista al pari, se non più, degli attori. Senza quella particolare musica - non un semplice commento in sottofondo ma parte essenziale della storia stessa - il film non avrebbe avuto ragione di essere. Anche per questo rimane unico nel suo genere, tanto da essersi guadagnato il titolo di cult movie.
 
La musica, del resto, era stata all'origine del fenomeno Blues Brothers, nel senso che il gruppo di base era nato un paio di anni prima del film come derivazione della resident band che suonava nello show comico della Nbc "Saturday Night Live Show". Lì, ospite insieme con Dan Aykroyd, John Belushi si produceva nelle sue esilaranti imitazioni di personaggi famosi, tra i quali alcuni cantanti (uno dei più riusciti era Joe Cocker).

I due cominciarono a esibirsi in concerto con il gruppo, che annoverava musicisti del calibro di Steve Cropper - che aveva contribuito alla nascita della Stax, storica etichetta della black music - e Lou Marini, collaboratore di artisti del livello di Frank Zappa, Steely Dan, Tony Bennet, Tina Turner, Tom Jones. E una sera, saltato lo sketch comico, lo spazio venne riempito con un paio di brani dei Blues Brothers. Fu un successo enorme, tanto da diventare un appuntamento fisso. E le serate cominciarono a moltiplicarsi.

John Landis colse le potenzialità del fenomeno e, con la collaborazione di Aykroyd per la sceneggiatura, vi ritagliò sopra il film, realizzando un musicol distante dai canoni classici hollywoodiani. La scrittura fu infatti dettata da brani preesitenti, le cui suggestioni ispirarono più di una situazione. In tal senso il film assecondava una tendenza allora emergente:  l'uso di videoclip a commento della musica.

Il risultato fu una pellicola scandita dalle canzoni generosamente disseminate lungo il racconto, in una sintesi espressiva capace di recuperare e rielaborare produzioni del passato, fondendole con le novità. E non si tratta solo dei brani diventati successi senza tempo, come Everybody Need Somebody to Love, cantate da Elwood e Jake durante il concerto, ma persino di quelle che fanno da sfondo - non incluse nel disco - come la melliflua versione di Garota de Ipanema che accompagna i due protagonisti nell'ascensore che li porterà all'ufficio delle imposte e che fa da impareggiabile, ironico contrappunto al putiferio che si scatena dentro e fuori dall'edificio.

Al successo contribuì non poco un cast irripetibile, formato da giganti della musica. Ognuno di loro si ritagliò un cammeo, producendosi in esibizioni indimenticabili, come quella di Aretha Franklin, la "regina del soul", in Think, o di Cab Calloway in Minnie the Moocher. Ma memorabili sono anche James Brown - il quale, nei panni del reverendo Cleophus James, eseguì la tradizionale The Old Landmark, trasformando una normale funzione domenicale in un ballo scatenato che coinvolge tutti i fedeli - e "the genius" Ray Charles, che cantò Shake a Tail Feather.

Anche la band, vero punto di forza, si produsse in piccoli gioielli, a partire dall'aggressiva versione di Gimme Some Lovin', tratta dal repertorio dello Spencer Davis Group, fino al trascinante Peter Gunn Theme, di Henry Mancini, lo stesso del tema de La pantera rosa e della colonna sonora di Colazione da Tiffany. E proprio qui sta il segreto dell'intramontabile successo della colonna sonora:  oltre all'irriverente simpatia dei due protagonisti, è infatti la maestria dei musicisti, tutti grandissimi professionisti, a garantire la tenuta nel tempo del disco e, in fondo, del film stesso. Musicisti che, senza i Blues Brothers, sarebbero stati condannati a un anonimato pressoché totale, come accade a tanti loro colleghi altrettanto bravi ma meno fortunati.

Non a caso ancora oggi due derivazioni dell'originale Blues Brothers Band calcano i palcoscenici di tutto il mondo riproponendo instancabilmente i loro cavalli di battaglia. Il successo è lo stesso di trent'anni fa. La qualità, in fondo, paga sempre. Non a caso nel 2004, dopo un ampio sondaggio, la Bbc ha dichiarato la colonna sonora di questo film la più bella della storia del cinema. E non poteva essere diversamente.


(©L'Osservatore Romano - 16 giugno 2010)

Caterina63
00martedì 15 giugno 2010 19:35

Dettagli e surrealismo



Come ogni grande commedia basata sulla comicità surreale, The Blues Brothers adotta questo registro non soltanto per creare delle gag ex novo, ma anche per portare alla luce il senso dell'assurdo che si annida a volte nella realtà, e che paradossalmente finisce per rendere i due eccentrici protagonisti un modello di normalità.

Un effetto ottenuto attraverso il piglio documentario e calligrafico della regia di Landis, che dissemina praticamente ogni inquadratura di una quantità di dettagli impressionante, spesso apprezzabili solo dopo un attento esame. Il proposito è rivelato già nelle primissime immagini, quando ci viene mostrato l'esterno del carcere della città di Joliet, nell'Illinois, dove è prigioniero Jake.

Qui per pochi secondi appena vediamo campeggiare dei cartelli autentici che accanto a indicazioni ragionevoli come il divieto di parcheggiare sul lato del carcere, ricordano, col medesimo tenore istituzionale, che la squadra di football della città ha vinto il campionato per tre volte di fila. L'effetto è reiterato poco dopo quando Jake, nel firmare la sua libera uscita, è costretto a fare una flessione per non superare la linea gialla che irrazionalmente gli impedisce di raggiungere il bancone dell'ufficio congedi. Pochi minuti più tardi un'altra targa autentica con tanto di firma del sindaco in calce informa orgogliosamente i passanti che il ponte sul quale è posta è stato appena il terzo della città a essere costruito. La targa porta però la data del 1958, sottolineando involontariamente come la civiltà da quelle parti sia arrivata piuttosto in ritardo.

Nella sequenza dell'inseguimento all'interno del centro commerciale, poi, la furia distruttiva dei fratelli Blues arriva non a caso come una sorta di punizione divina al consumismo compulsivo di cui sono preda gli avventori. "Avete anche una Miss Piggy?" fa appena in tempo a chiedere ansiosamente un cliente di un negozio  di  giocattoli prima che l'esercizio venga buttato giù dalla bluesmobile in vena di un traumatico redde rationem. Nel locale dei ruspanti cowboy dove la coppia si ritrova a dover suonare una sera, invece, un cartello mette in guardia i minorenni dal giocare troppi soldi ai flipper, mentre un ragazzino, per imitare le ostentate abitudini degli uomini rudi che lo circondano, beve una birra e fuma una pipa senza che nessuno ci faccia caso.

Ma il procedimento raggiunge ovviamente il suo culmine nel finale. Quando l'esercito e le forze dell'ordine convergono sull'obiettivo del loro interminabile inseguimento. Al di là dell'immane spiegamento di forze, già di per sé demenziale, a far ridere sono le procedure che militari e poliziotti eseguono con dovizia maniacale eppure assolutamente credibile, mentre i protagonisti si avviano a perfezionare il loro piano con tutta calma.
 (emilio ranzato)



Quel genio eternamente bambino


Se con The Blues Brothers aveva spianato la strada a un nuovo decennio cinematografico, con la sua tragica fine in un hotel di Los Angeles per overdose appena due anni più tardi, John Belushi ci ricordò che era ancora un ragazzo degli anni Settanta, un geniale ma anche tipico esponente di quella generazione perduta che sotto la scorza di una grande vitalità nascondeva spesso il dramma di non riconoscersi nel mondo degli adulti, e si illudeva di colmare un vuoto esistenziale con metodi sconsiderati.

E osservando con attenzione i titoli della breve ma folgorante filmografia di questo figlio di un immigrato albanese, con un passato da promessa del football, ci si accorge come delineino proprio la parabola discendente del ribellismo contestatario, ossia quella fase naturale in cui gli ultimi strascichi della controcultura hippie si disperdevano in opere poco ispirate, oppure venivano convogliati dall'industria entro schemi rassicuranti e commerciali.

Animal House (John Landis, 1978), film di culto che inaugura il sottogenere divenuto presto indegno del college-movie, concilia lo spirito anarcoide che aveva pervaso l'ambiente giovanile negli anni precedenti con la tendenza alla caricatura e all'umorismo demenziale. Il compagno di scuola (Joan Tewkesbury, 1978) è un tardo road-movie attraverso un'America segnata da piccoli grandi drammi, firmato non a caso dalla sceneggiatrice di Nashville. Verso il sud (Jack Nicholson, 1978) è un western antieroico come andavano di moda dieci anni prima. Mentre 1941 - Allarme a Hollywood (Steven Spielberg, 1979) può essere considerata la parodia di quel livore iconoclasta che in passato aveva armato il cinema indipendente contro la Fabbrica dei Sogni ancora in piena crisi.

Dopo aver voltato pagina grazie al successo dei fratelli Blues, chiuse senza clamori la carriera con due innocue commedie:  Chiamami aquila (Michael Apted, 1981) e I vicini di casa (John J. Avildsen, 1981).

Come capita spesso nel mondo dello spettacolo, poi, la morte prematura alimentò probabilmente il mito. Ma a far crescere se possibile il rammarico, è la certezza che Belushi nel mito ci sarebbe finito lo stesso. Perché poche volte nella storia del cinema capita di avere a che fare con personaggi che bucano lo schermo con la loro semplice presenza, soprattutto se non si tratta dei soliti belloni hollywoodiani.

Corporeità e interpretazione per Belushi erano un tutt'uno. Eppure del proprio corpo non faceva esattamente uso; la sua era una sorta di immagine totemica, tanto più efficace quanto più si univa all'assoluta impassibilità della maschera, alla comunicazione monosillabica.  Come  sintetizza una delle tante scene memorabili del capolavoro di Landis, quella in cui i due fratelli cantano il tema del serial televisivo Rawhide:  a Belushi, già icona di se stesso, per risultare irresistibile bastava aprire bocca un paio di volte durante tutta la canzone.

(emilio ranzato)


(©L'Osservatore Romano - 16 giugno 2010)

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