di Antonio Paolucci
Quante volte abbiamo letto e ascoltato l'insopportabile mantra sui depositi dei musei polverosi, negletti, maltenuti, affollati di opere d'arte che nessuno vede, che non servono a nulla. E allora - è il seguito prevedibile e inevitabile di quel tipo di ragionamento - perché non vendere le tante opere ripetitive e di scarsa importanza o, almeno, perché non affidarle ai privati che, loro sì, saprebbero custodirle e valorizzarle come si deve?
Chi, come me, ha lavorato nei musei e nelle soprintendenze d'Italia sa che si tratta di un tormentone ricorrente, caro a giornalisti ingenui e a politici sprovveduti.
No - abbiamo sempre risposto noi - questo non si può fare e non si farà mai. I depositi (all'estero li chiamano "riserve" e il termine è assai più pertinente) sono la parte in ombra del museo, essenziale però alla vita delle collezioni quanto la parte esposta. Il deposito è il luogo della ricerca scientifica. Quante scoperte si sono fatte e si continuano a fare frequentando e studiando la parte in ombra del museo! Il deposito è il luogo del riposo per le opere d'arte stressate dai viaggi o da una esposizione eccessiva. È la riserva che permette di far emergere dipinti, sculture, arredi inediti o poco conosciuti.
I depositi degli Uffizi gremiti di quadri di varia qualità e di diverso autore offrono ogni anno materiali per una mostra che si chiama "I mai visti". Mai visti perché in effetti, non essendo in esposizione, il pubblico non ha mai avuto la possibilità di ammirarli. L'ultima mostra di questo titolo ha percorso varie città della Cina raccogliendo, complessivamente, poco meno di un milione di visitatori. Questo per dire che anche le opere custodite in deposito possono essere valorizzate e, nei modi opportuni, fatte conoscere. Non è affatto vero che giacciono neglette e polverose in cantine inaccessibili.
Il deposito testimonia l'antichità e il prestigio del museo, ne documenta le stratificate complesse vicende storiche. Quando uno di noi visita per la prima volta in Italia o in altri Paesi un museo, quello che immancabilmente chiede al collega direttore è di avere accesso alle riserve. Perché non si capisce veramente una collezione storica se non se ne conosce il deposito.
Per questo la corretta conservazione e gestione del museo che non si vede è straordinariamente importante. La buona salute di una pubblica collezione d'arte si giudica dalla buona salute del suo deposito. Potremmo dire che le opere in esposizione stanno al museo invisibile come la nostra faccia, i nostri occhi, la nostra pelle stanno ai nostri organi interni.
Ho detto questo perché voglio parlare di un deposito meraviglioso. È il più bello, il più affascinante fra quanti ne ho visti nella mia lunga carriera. È il Deposito detto "delle Corazze" nei Musei Vaticani.
Immaginate un edificio di forma circolare, qualcosa che fa pensare a una cripta di chiesa o a un ben munito bunker. Nel silenzio e nella luce grigio argento delle segrete vaticane, vi sembrerà di entrare in un film di Polanski o di Dario Argento.
Il luogo si chiama "delle Corazze" perché in questa parte dei Palazzi Apostolici stazionavano i corazzieri durante il conclave. All'interno, disposti su mensole, ordinati secondo misura, forniti ognuno di numero di inventario così che lo studioso può agevolmente risalire alla fotografia, alla scheda scientifica, al riferimento bibliografico di ciascun pezzo, vediamo allineati e perfettamente visibili circa duemila reperti statuari di età classica. Sono busti di imperatori, di militari, di notabili; sono immagini di donne, di bambini, di adolescenti; sono divinità dell'Olimpo, frammenti di sarcofagi, sono rilievi che raccontano la pace e la guerra, la città e il mare, la vita sociale, il gioco, il rito, la morte.
Una grande lapide in latino, datata al 1957 regnando Pio xii Pacelli, ci spiega come le antiquitatis reliquiae diversis loci sepositae, ora in unum congregari et communi utilitati exhiberi possint. È un latino così facile che non ha bisogno di traduzione.
Pio xii, quel grande e coltissimo Papa, aveva capito tutto. La sua idea di deposito potrebbe essere sottoscritta da qualsiasi direttore di museo nel mondo. Le antiquitatis reliquiae anche quando apparentemente meno importanti, frammentarie, residuali, devono essere custodite con ogni cura in un ambiente unico (in unum congregari) affinché possano essere agevolmente custodite, prima di tutto, e quindi mostrate e messe a disposizione del bene comune (comuni utilitati). Dove il "bene comune" è quello della internazionale repubblica degli studiosi e dei conoscitori. È evidente infatti che il deposito del museo non può e non deve essere aperto a tutti, ma solo a chi ha titoli scientifici o ragioni professionali per frequentarlo.
Oggi il Deposito delle Corazze, affidato alle cure scientifiche di Alessandra Uncini, responsabile dell'Ufficio Inventario dei Musei Vaticani, è il paradiso di archeologi, di conoscitori, di eruditi. È il luogo perfetto per incontrare il frammento che integra la tua ricostruzione di un antico bassorilievo, di una epigrafe, di un sarcofago. Se la fortuna ti assiste, può essere l'occasione della vita, quella che ti fa conoscere l'anello mancante alla tua ricerca. Per noi gente di museo è la riserva che permette al conservatore di trovare la scultura che servirà a integrare il vuoto temporaneo prodotto, nella serie delle opere esposte, da un ricovero per restauro o da un trasferimento per mostra.
A questo serve la parte in ombra delle grandi collezioni. Per questo va custodita, conservata, catalogata, resa disponibile alla ricerca scientifica come aveva perfettamente inteso, più di mezzo secolo fa, Pio XII.
Il Deposito delle Corazze è un esempio perfetto di quella civiltà della tutela che ha avuto nei Palazzi Apostolici la sua storica origine.