2012 Cinquantesimo del Concilio Vaticano II: a che punto siamo?

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Caterina63
00mercoledì 5 ottobre 2011 10:08

Don Cantoni muove guerra agli 'anticonciliaristi'

Don Piero Cantoni, timido propugnatore della Messa antica, ora assai più impegnato in una guerra di retroguardia in difesa delle meraviglie della neomessa, ha scritto un libro che, temiamo, non rappresenterà il livre de chevet dei tradizionalisti. Ma nondimeno gli facciamo oggi un po' di pubblicità, dato che l'argomento che tratta ci interessa. Si tratta di una risposta a Gherardini e agli 'anticonciliaristi' (il termine è suo, riportato nel sottotitolo); un libro a tesi, dove il messaggio in essenza è questo: il Concilio Vaticano II non ha cambiato il tradizionale insegnamento della Chiesa, e chi dice il contrario o è un ladro o è una spia. 
E sia. Non avendo letto il testo, non ci dilunghiamo. Lasciamo però la parola, dopo le osservazioni graffianti di Marco Bongi, ad una recensione di segno contrario di Introvigne, apparsa su La Bussola Quotidiana. Il libro è di don Cantoni, ma gli argomenti che Introvigne riporta nella sua recensione a quel libro sono tutti... di Introvigne, quelli consueti che ci ha già ammannito nei mesi scorsi. Anything new?

Enrico


di Massimo Introvigne

 
L'anno prossimo, 2012, si celebrerà il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Si annunciano, in tutto il mondo, decine di convegni e di pubblicazioni, dei più diversi orientamenti. Don Pietro Cantoni, teologo ben noto ai lettori del mensile di apologetica cattolica Il Timone e che da anni riflette sul Concilio, anticipa l'anniversario e arriva tra i primi in libreria con Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e sull'anti-conciliarismo (Sugarco, Milano 2011).
 
Si tratta di un libro molto importante che, già nel titolo, fa riferimento a due interventi di Benedetto XVI riportati in appendice. Il primo è il discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, in cui il Papa distingue a proposito del Vaticano II una «ermeneutica della discontinuità e della rottura», che legge il Concilio non alla luce del Magistero precedente ma in contrapposizione a esso, e una corretta «ermeneutica della riforma nella continuità», che non nega gli elementi di novità del Concilio - diversamente, non ci sarebbe riforma - ma legge ogni novità in continuità, e non in contraddizione, con gli insegnamenti precedenti della Chiesa. A sua volta, come Benedetto XVI ebbe a spiegare nell'incontro ad Auronzo di Cadore con i sacerdoti delle diocesi di Belluno-Feltre e Treviso  del 24 luglio 2007, l'ermeneutica della discontinuità e della rottura oggi è proposta nella Chiesa da due versanti diversi: da un «progressismo sbagliato», che considera la presunta rottura con il passato una benedizione per la Chiesa, e da un «anti-conciliarismo» per cui la stessa rottura è stata al contrario catastrofica. Le due correnti convergono nell'analisi, anche se divergono nelle opposte valutazioni.
 
Ma le due correnti, come spiega con dovizia di argomenti don Cantoni, sbagliano. La condanna del «progressismo sbagliato» non è, come molti pensano, una novità «restauratrice» di Benedetto XVI. Si ritrova già nel magistero del servo di Dio Paolo VI (1897-1978), il Papa che concluse il Vaticano II, di cui l'autore ricorda alcuni interventi sorprendentemente simili a quello del 2005 di Benedetto XVI. Appena a un anno dalla chiusura del Concilio, nel 1966, il servo di Dio Paolo VI mette in guardia contro l’errore «di supporre che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch’esso sia tale novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseudo-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato, e perciò consenta di proporre al dogma cattolico nuove e arbitrarie interpretazioni, spesso mutuate fuori dell’ortodossia irrinunciabile, e di offrire al costume cattolico nuove ed intemperanti espressioni, spesso mutuate dallo spirito del mondo; ciò non sarebbe conforme alla definizione storica e allo spirito autentico del Concilio, quale lo presagì Papa Giovanni XXIII [1881-1963]. Il Concilio tanto vale quanto continua la vita della Chiesa».  E nel discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del 23 giugno 1972 lo stesso Pontefice denuncia «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa "nuova", quasi "reinventata" dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto».
 
La parte più corposa del volume di don Cantoni è consacrata alla critica dell'anti-conciliarismo, «fuoco amico» - come lo definisce - nei confronti del Magistero, che rischia di comprometterne l'autorità anche presso persone devote e fedeli al Papa. L'autore che don Cantoni assume come più rappresentativo di questa corrente - peraltro, piuttosto un network dove convivono opinioni parzialmente diverse - è il teologo romano mons. Brunero Gherardini che in una sorta di crescendo, passando dai primi agli ultimi dei diversi volumi che ha dedicato negli ultimi anni al Vaticano II, ha finito per sostenere che l'ermeneutica della riforma nella continuità proposta da Benedetto XVI è, almeno con riferimento a diversi documenti conciliari, impossibile. In questi documenti non ci sarebbe continuità, ma rottura con il Magistero precedente della Chiesa. Il Vaticano II andrebbe dunque  sì considerato un autentico e legittimo Concilio cattolico, ma i suoi insegnamenti sarebbero vincolanti per i fedeli solo quando riaffermano il Magistero precedente della Chiesa, mentre potrebbero e dovrebbero essere messi in discussione, e anche francamente rifiutati, se contraddicono la Tradizione: il che, secondo Gherardini, accade certamente per diversi testi cruciali prodotti dall'assise ecumenica.
 
Non è possibile riassumere qui la critica dettagliata di don Cantoni alla posizione anti-conciliarista su singoli documenti del Concilio - in particolare le costituzioni Gaudium et Spes, Lumen Gentium e Dei Verbum e la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae -, ma è importante fare emergere il tema metodologico di fondo. Nella posizione anti-conciliarista la nozione di Tradizione è ipostatizzata in modo essenzialista e diventa un codice o un libro immaginario sulla cui base giudicare gli atti del Papa e del Concilio, decidendo quali vanno accolti e quali no. Come nota don Cantoni, così l'autorità della Chiesa si sposta dal Papa a chi si auto-nomina custode e interprete della Tradizione, con un processo simile a quello messo in atto dai protestanti con riferimento alla Scrittura. Non si tratta, nota l'autore, di sostenere che il Papa è al di sopra della Tradizione, così come nella controversia con i protestanti non si trattava di sostenere che il Papa fosse al di sopra della Scrittura.
 
L'autore cita Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704), il quale rispondeva ai protestanti che «noi non diciamo che la Chiesa sia giudice della Parola di Dio, ma assicuriamo che è giudice delle interpretazioni che gli uomini danno della santa Parola di Dio».  Analogamente - tanto più che, a differenza della Scrittura, neppure esiste un libro o manuale chiamato "La Tradizione" con cui confrontare le diverse posizioni - don Cantoni afferma che l'alternativa oggi non è se credere a Benedetto XVI o credere alla Tradizione, ma se farsi spiegare che cos'è la Tradizione da Benedetto XVI o da mons. Gherardini, o magari dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), sulle  cui posizioni in tema di Vaticano II  il monsignore romano nelle sue opere più recenti sembra andare sempre più convergendo.
 
E don Cantoni fa notare che la divergenza fra i seguaci di mons. Lefebvre e l'insegnamento di Benedetto XVI non sta nella tesi secondo cui dopo il Concilio c'è stata una drammatica crisi nella Chiesa. Che questa crisi ci sia stata è evidente, e lo afferma anche il Pontefice. Ma, a differenza dei "lefebvriani" - e degli anti-conciliaristi - Benedetto XVI attribuisce la crisi al prevalere di una errata ermeneutica dei documenti del Concilio, non ai documenti medesimi nella loro essenza e nel loro insieme, senza escludere che essi contengano qua e là qualche formulazione meno felice o bisognosa di chiarimenti da parte dello stesso Magistero. Che nei documenti del Vaticano II ci siano espressioni da chiarire e su cui si può legittimamente discutere - ma questo, nota don Cantoni, vale anche per tante espressioni di Concili precedenti - non significa che tali testi si possano rifiutare in blocco o nel loro messaggio essenziale, che si tratti di struttura della Chiesa, ecumenismo, esegesi biblica o libertà religiosa.
 
Come ha spiegato Andrea Tornielli su La Bussola Quotidiana, si situa qui l'essenziale del Preambolo dottrinale - il cui testo rimane riservato - proposto dalla Santa Sede alla Fraternità Sacerdotale San Pio X come condizione per un'auspicata riconciliazione.
 
Molto utile - anche per comprendere la posta in gioco proprio del dialogo in corso fra Santa Sede e Fraternità Sacerdotale San Pio X - è un'appendice dove don Cantoni traccia una breve storia della nozione di Magistero ordinario. Gli anti-conciliaristi spesso rappresentano in modo caricaturale la posizione dei loro critici, attribuendo loro la tesi certamente infondata secondo cui tutti gli insegnamenti del Vaticano II sarebbero infallibili o di natura dogmatica. Non è affatto così. I critici dell'anti-conciliarismo - e, cosa assai più importante, Benedetto XVI - sostengono una cosa diversa, e cioè che il buon fedele deve prestare il suo assenso non solo formale ma sostanziale anche al Magistero ordinario, non dogmatico e non infallibile, pure nella sue dimensioni pastorali, che può certo avere espressioni più o meno felici e su cui i teologi possono condurre discussioni, ma che resta la guida normale della Chiesa cui i cattolici possono e devono affidarsi con fiducia. Non è un buon cattolico chi segue il Magistero solo nei suoi rari pronunciamenti infallibili, ignorando invece la sua guida continua e quotidiana che ha spesso appunto natura non dogmatica ma pastorale.
 
Grande merito del libro di don Cantoni è ricordarci che questa posizione non è nuova. Nasce quando - dopo la Rivoluzione Francese - il Magistero inizia a esprimersi in modo molto più frequente, tra l'altro attraverso la moltiplicazione delle encicliche. L'espressione «Magistero ordinario» si deve al teologo gesuita tedesco Joseph Kleutgen (1811-1883), ma passa nel Magistero pontificio con la lettera Tuas libenter, indirizzata dal beato Pio IX (1792-1878) all'arcivescovo di Monaco di Baviera il 21 dicembre 1863. Questo testo, dove si afferma che la «sottomissione» dei buoni cattolici non ha come oggetto solo il Magistero infallibile ma anche  il Magistero ordinario è la premessa della condanna nel Sillabo del 1864 - ironicamente, un testo spesso invocato dagli anti-conciliaristi - della seguente proposizione, denunciata come erronea: «L'obbligazione che vincola i maestri e gli scrittori cattolici, si riduce a quelle cose solamente, che dall’infallibile giudizio della Chiesa sono proposte a credersi da tutti come dommi di fede». «Né si deve ritenere - aggiunge il venerabile Pio XII (1876-1958) nell'enciclica Humani generis del 1950 - che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, per cui valgono pure le parole: "Chi ascolta voi, ascolta me" (Luc. X, 16)». Né, evidentemente, possiamo considerare i testi di un Concilio Ecumenico meno autorevoli delle encicliche.
 
Un'altra utile appendice del libro di don Cantoni riguarda il beato John Henry Newman (1801-1890), citato da alcuni anti-conciliaristi a sostegno delle loro tesi, in quanto avrebbe affermato che durante la crisi ariana diversi concili e l'intero corpo episcopale avrebbero insegnato l'eresia. Queste però, precisa don Cantoni, erano affermazioni attribuite al beato Newman dai suoi critici, che lo denunciarono a Roma come eretico. Rispondendo a tali critici, il beato affermò che se in effetti egli avesse attribuito l'eresia ariana a «concili ecumenici» e al corpo episcopale nel suo insieme - inseparabile dal Papa - allora certamente le sue affermazioni sarebbero state eretiche. Ma in realtà egli aveva parlato di «concili generali» - che sono cosa diversa dai concili ecumenici, e «non ci fu nessun concilio ecumenico tra il 325 e il 381» - e della maggioranza dei vescovi, non del loro corpus o collegio in senso giuridico e teologico. Di fatto nella crisi ariana buona parte dei vescovi non fu fedele alla sua missione. Ma questo, spiegava Newman, non significa che di diritto anche in quella crisi non restasse presente almeno in modo «virtuale» l'insegnamento di verità del Magistero vivente, che rimaneva per così dire presente sullo sfondo anche se di fatto pochi vescovi lo diffondevano.
 
Non si tratta di una sottigliezza storica. Se un concilio ecumenico e l'intero corpo episcopale unito al Papa potessero insegnare l'eresia - che è cosa diversa dall'esprimere la verità in formulazioni che talora possono essere poco felici o poco precise, e richiedere una interpretazione autentica da parte del Magistero successivo - allora le porte dell'inferno avrebbero prevalso sulla Chiesa. Sappiamo per divina rivelazione che questo non può accadere. E di fatto le «portae inferi» non hanno prevalso. La Chiesa, nonostante le tante crisi che la tormentano, c'è ancora, e per sapere dov'è e che cosa insegna, anche a proposito del Vaticano II, non dobbiamo metterci alla ricerca di un immaginario libro che conterrebbe la Tradizione nella sua forma «pura» e neppure rivolgerci ai teologi - o agli storici, o ai giornalisti - che ci sembrano più simpatici o persuasivi. Dobbiamo guardare al Magistero e al Papa. «Ubi Petrus, ibi Ecclesia, ubi Ecclesia, ibi Christus». «Dov'è Pietro, lì è la Chiesa, dov'è la Chiesa, lì è Cristo». Il volume di don Cantoni costituisce un argomentato, puntuale, severo e prezioso richiamo a questo punto cardine della nostra fede.

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[SM=g1740733] due brevi commenti dal blog di messainlatina:

 
Dice Introvigne citando le parole di Paolo VI: 

E nel discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del 23 giugno 1972 lo stesso Pontefice denuncia «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa "nuova", quasi "reinventata" dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto».  
 
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perfetto! siamo tutti d'accordo ma...ci è lecita una domanda: a chi si riferiva  Benedetto XVI da cardinale-Ratzinger quando diceva che ELIMINARE LA MESSA DI SEMPRE PER SOSTITUIRLA CON QUELLA NUOVA FU UN ABUSO?  
le parole di Ratzinger sono chiare:  
"rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia".  
a qualcuno doveva pur riferirsi, qualcuno, MATERIALMENTE ha compiuto questo abuso altrimenti perchè fare un Motu Proprio per ridare la legittimità di quella Messa VIETATA?  
Poteva un laico VIETARLA? ovvio che no!  
è stato un cardinale?, un prete? NO! fu Paolo VI! è inutile nascondersi dietro un dito rischiando di far passare quel divieto alla Messa nella forma antica come una CONTINUITA'... 

Senza dubbio l'idea di Paolo VI era quella di SOSTITUIRE LA SUA RIFORMA LITURGICA CON LA MESSA DI SEMPRE... ma da subito l'allora Ratzinger riconobbe quel DIVIETO  come un abuso...perchè il Concilio Vaticano II con la Sacrosanctum Concilium non voleva affatto questo, ma, senza dubbio voleva riformare la Liturgia, la Messa...Ratzinger parla di un abuso al DIVIETO E NON ALLA SOSTITUZIONE..... e allora, siamo onesti e sinceri, non si voleva MODIFICARE proprio quella Messa antica, rinnovandola e modificandola nell'aspetto? Embarassed  
 
Lo spiega molto bene anche il card. Ratzinger nella sua autobiografia:  
"rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Pio V e non diversamente da lui, anche molti dei suoi successor avevano rielaborato questo messale, in un processo continuativo di crescita storica e di purificazione, in cui, pero', la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C'è stata la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica".  
 
Il danno fu il divieto di quella Messa.... per tanto resta legittimo domandarsi: se invece di vietarla fosse stata MODIFICATA e NON SOSTITUITA con la forma voluta da Paolo VI, sarebbe andato bene? Embarassed  
sarebbe stato legittimo? legittimo sembra proprio di si....  
 
ma a questo punto non dobbiamo forse ringraziare la Provvidenza che permettendone il divieto non fece altro che PRESERVARE la Forma antica facendo in modo che ritornasse INTEGRA  a noi per mezzo di una presa di coscienza maturata dalla Chiesa nel constatare i propri errori?   [SM=g1740721]
 
Fino a che si continuerà a fare del Concilio il "super-dogma" continueremo a restare in un vicolo cieco, continueremo ad alimentare i pro e i contro... Benedetto XVI che è consapevole degli errori che sono stati fatti, non si è fermato su questi, ma sta andando avanti cercando di correggerli e cerca un sostegno da parte di chi, non rinnegando il valore  del Concilio in quanto tale, con esso trascina nell'oggi la gloriosa Tradizione della Chiesa viva nei Santi, nel Catechismo, nella Liturgia, nella Carità....  



[SM=g1740738]


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Amministratore Apostolico

Difatti la Messa con l'antico rito rimase in piedi.  
La proposta di abrograzione dell'allora Mons. Bugnini NON passò per merito dei Magistrati supremi della Chiesa !  
Ci fu, però, una specie di abrograzione di immagini e tutto quanto potesse ricordare l'antico rito.  
Abbiamo visto, non senza gridare al "pagliaccio", film di registi famosi che accostavano  scene dei secoli scorsi con le liturgie bugniniane ...  
Solo con la diffusione di Internet la Messa antica ha potuto riavere la giusta rivalutazione.




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LDCaterina63
Smile  e si! "amministratore..." infatti... per chi volesse approfondire l'argomento suggerisco questa lettura....  
 
la Riforma Liturgica fu "contraddittoria" e questo termine risuona nella maggioranza dei critici onesti e sinceri a partire dallo stesso giovane, allora, Ratzinger... e splendidamente descritta, tale contraddizione, con il capolavoro di Tito Casini sulla sua LA TUNICA STRACCIATA...  
 
Tito DIFENDE PAOLO VI dalle accuse dirette, ma non toglie lo sguardo su una devastazione che avviene sotto gli occhi di tutti e negli anni '70, quasi scrivendo un DIARIO IN DIRETTA, egli è "sublime" per le parole usate, ma drammatico al tempo stesso in questo racconto della "prima messa riformata di Paolo VI" intilolato: IL GRANDE SACRIFICIO che vi invito  a meditare:  
 
" Non questo, non così egli, Paolo VI, aveva creduto o mostrato di credere - allorché, parlando dalla finestra quel non limpido mezzogiorno del 7 marzo 1965, aveva detto: «Questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico, come avete già visto questa mattina. La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento... Il bene del popolo esige questa premura».  
E quasi dolendosi, quasi rimpiangendo, al contempo, ciò che si è obbligato a immolare (come Iefte l'amata figlia che ignara del voto paterno gli è venuta incontro festosa con cembali e danze e saputolo gli chiede di poter prima andare con le compagne sui monti a piangere la sua giovinezza): «È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino: lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante».  
E ancora, ancora e più conscio della gravità di ciò che diceva: «Ha sacrificato, la Chiesa, tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l'unità di linguaggio nei vari popoli...»  
Così aveva parlato e scritto il devoto suo antecessore Giovanni, dimenticando la sua nota mitezza per percuotere con le più dure parole e minacce chi avesse parlato o scritto, o lasciato, da Superiore o da Vescovo, che si dicesse o scrivesse in contrario, «contra linguam Latinam in sacris habendis ritibus»; così il suo ascetico predecessore, Pio XII; così il forte Pio XI; così tutti i sommi Pontefici - nel loro cognome di «romani» - con ragioni e sanzioni come quelle che la Veterum Sapientia confermava poc'anzi nel nome stesso della civiltà universale...  
Tutti, fino a lui, e d'essere stato lui a spezzar la catena, a chiuder la tradizione, a privar la Chiesa di quella sua «propria lingua», pareva non essere interamente tranquillo, come di un cambiamento che i fatti avrebbero potuto giustificare o condannare: «Questo per voi, fedeli... e se saprete davvero...»



[SM=g1740758]

conciliovaticanosecondo.it. Finalmente un bel sito.

Un nuovo Sito Internet
Diamo notizia dell'ingresso in Internet, nel giorno 8 settembre 2012, Natività della Beata Maria Vergine, di un nuovo sito cattolico www.conciliovaticanosecondo.it.
Sito non fazioso ma obiettivo, sull'analisi e sullo studio del Concilio Vaticano II, su sui trovano spazio libri di de Mattei e di p. Serafino Lanzetta F.I., articoli su padre Tyn e convegni su Pio XII.
Di seguito riportiamo le ragioni di questa realtà informativa e di approfondimento, ragioni esposte nello stesso sito.
(C.S.)
 

Dal sito:
Il sito www.conciliovaticanosecondo.it vede la luce in occasione del cinquantenario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962 – 8 dicembre 1965) e si propone l’approfondimento di quell’evento storico, attraverso
a) lo studio delle fasi e dei protagonisti;
b) l’esame dei diversi testi, secondo la loro portata e le loro caratteristiche ;
c) l’analisi delle conseguenze nel campo religioso, morale, del linguaggio e dei comportamenti.
I promotori di questo sito si professano cattolici, apostolici romani e rispettano l’autorità del Papa e dei Pastori, il Magistero perenne e immutabile della Chiesa e le norme del Diritto canonico, che stabiliscono i diritti e i doveri dei battezzati. L’intenzione è quella di offrire un contributo alla discussione storica e teologica sul Vaticano II oggi in corso in tutto il mondo, in spirito di amore alla Chiesa e alla Verità.

Alcuni dei bei ed interessanti post recenti:

- Il Vaticano II, un Concilio pastorale. Prof. Roberto de Mattei
- Amiamo la Chiesa
- Mercoledi 10 ottobre – Trento – Dibattito sul Concilio Vaticano II
- Padre Lanzetta: Vaticano II, un Concilio pastorale
- La Chiesa e i nuovi totem del neomodernismo
- Padre Tyn e il Vaticano II
- La pastorale nel Vaticano II
- Il libro di Padre Serafino Lanzetta – L’ultimo Concilio riletto alla luce della Tradizione
- Padre Roger Thomas Calmel O.P.
- La Tradizione è la risposta, da sempre, ai problemi della Chiesa (de Mattei)

[SM=g1740738]



Caterina63
00giovedì 6 ottobre 2011 19:56
[SM=g1740722] [SM=g1740722] [SM=g1740722] [SM=g1740722] [SM=g1740722] [SM=g1740722] [SM=g1740722] [SM=g1740722]

FINALMENTE SIAMO AD UNA SVOLTA EPOCALE.... [SM=g1740717] . GRAZIE MONS. PIACENZA


LOS ANGELES, martedì, 4 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questo martedì a Los Angeles dal Cardinale Mauro Piacenza, Perfetto della Congregazione per il Clero, nell'incontrarsi con i seminaristi .

Voi siete nati nel Post-Concilio (credo quasi tutti) e, forse, siete per ciò stesso sia figli del Concilio, sia più immuni dalle polarizzazioni, talvolta ideologiche, che l'interpretazione di quell'Eventoprovvidenziale ha suscitato.  
Sarete voi, probabilmente, la prima generazione che interpreterà correttamente il Concilio Vaticano II, non secondo lo "spirito" del Concilio, che tanto disorientamento ha portato nella Chiesa, ma secondo quanto realmente l'Evento Conciliare ha detto, nei suoi testi alla Chiesa ed al mondo.   [SM=g1740722]
Non esiste un Concilio Vaticano II diverso da quelloche ha prodotto i testi oggi in nostro possesso! è in quei testi che noi troviamo la volontà di Dio per la sua Chiesa e con essi è necessario misurarsi, accompagnati da duemila anni di Tradizione e di vita cristiana.  
Il rinnovamento è sempre necessario alla Chiesa, perché sempre necessaria è la conversione dei suoi membri, poveri peccatori! Ma non esiste, né potrebbe esistere, una Chiesa pre-Conciliare ed una post-Conciliare! Se così fosse, la seconda -la nostra- sarebbe storicamente e teologicamente illegittima! [SM=g1740721] [SM=g1740721] [SM=g1740721]

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GRAZIE!!! [SM=g1740738]



Caterina63
00lunedì 17 ottobre 2011 14:18

Magister fa il punto sulla querelle del Concilio


di Sandro Magister


ROMA, 17 ottobre 2011 – La controversia sull'interpretazione del Concilio Vaticano II e sui cambiamenti nel magistero della Chiesa ha registrato in queste settimane nuovi sviluppi, anche ad alto livello.

Il primo è il "Preambolo dottrinale" che la congregazione per la dottrina della fede ha consegnato lo scorso 14 settembre ai lefebvriani della scismatica Fraternità Sacerdotale San Pio X, come base per una rappacificazione.

Il testo del "Preambolo" è segreto. Ma è stato descritto così nel comunicato ufficiale che ha accompagnato la sua consegna:

"Tale Preambolo enuncia alcuni principi dottrinali e criteri di interpretazione della dottrina cattolica, necessari per garantire la fedeltà al magistero della Chiesa e il 'sentire cum Ecclesia', lasciando nel medesimo tempo alla legittima discussione lo studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e del magistero successivo".


Un secondo sviluppo è l'intervento del cardinale Georges Cottier nella discussione in corso da alcuni mesi su www.chiesa e su "Settimo cielo".

Cottier, 89 anni, svizzero, appartenente all'ordine dei domenicani, è teologo emerito della casa pontificia. Ha pubblicato il suo intervento sull'ultimo numero della rivista internazionale "30 Giorni".

In esso, egli replica alla tesi sostenuta in www.chiesa dallo storico Enrico Morini, secondo cui con il Concilio Vaticano II la Chiesa ha voluto riallacciarsi alla tradizione del primo millennio.

Il cardinale Cottier mette in guardia dal pensare che il secondo millennio sia stato per la Chiesa un periodo di decadenza e di allontanamento dal Vangelo.

Nello stesso tempo, però, riconosce che il Vaticano II ha fatto bene a ridare forza alla visione di Chiesa che fu particolarmente viva nel primo millennio: non come soggetto a sé stante, ma come riflesso della luce di Cristo. E tratteggia le conseguenze concrete che derivano da tale corretta visione.


Un terzo sviluppo della discussione riguarda una tesi del Vaticano II particolarmente contestata dai tradizionalisti: quella della libertà religiosa.

In effetti, c'è un'indubbia rottura tra le affermazioni in proposito del Vaticano II e le precedenti condanne del liberalismo fatte dai papi dell'Ottocento.

Ma "dietro quelle condanne c'era in realtà uno specifico liberalismo, quello statalista continentale, con le sue pretese di sovranità monista e assoluta che veniva avvertito come limitativo dell'indipendenza necessaria alla missione della Chiesa".

Mentre invece "la riconciliazione pratica, portata a compimento dal Vaticano II, avviene attraverso il pluralismo di un altro modello liberale, quello anglosassone, che relativizza radicalmente le pretese dello Stato fino a farne non il monopolista del bene comune, ma una limitata realtà di pubblici uffici al servizio della comunità. Allo scontro tra due esclusivismi seguiva l'incontro nel segno del pluralismo".

Le citazioni ora riportate sono tratte da un saggio che il professor Stefano Ceccanti, docente di diritto pubblico all'Università di Roma "La Sapienza" e senatore del Partito democratico, si appresta a pubblicare sulla rivista "Quaderni Costituzionali".

Nel saggio, Ceccanti analizza i due importanti discorsi pronunciati da Benedetto XVI lo scorso 22 settembre al Bundestag di Berlino e il 17 settembre del 2010 a Westminster Hall, per mostrare come entrambi i discorsi "sono in stretta continuità con quella riconciliazione operata dal Concilio".

Appena il saggio di Ceccanti uscirà su "Quaderni Costituzionali", www.chiesa non mancherà di sottoporlo all'attenzione dei lettori.

Un quarto sviluppo è l'uscita in Italia di questo libro: Pietro Cantoni, "Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e l'anticonciliarismo", Sugarco Edizioni, Milano, 2011.

Il libro passa in rassegna i testi più controversi del Concilio Vaticano II, per mostrare che anche in essi tutto è leggibile e spiegabile alla luce della tradizione e della grande teologia della Chiesa, san Tommaso incluso.

L'autore, il sacerdote Pietro Cantoni – dopo aver passato alcuni anni giovanili in Svizzera nella comunità lefebvriana di Ecône ed esserne uscito – si formò a Roma alla scuola di uno dei maggiori maestri della teologia tomista, monsignor Brunero Gherardini.

Ma proprio contro il suo maestro si appuntano le critiche di questo suo libro. È Gherardini uno degli "anticonciliari" più presi di mira.

In effetti, monsignor Gherardini, nei suoi ultimi volumi, ha avanzato serie riserve sulla fedeltà alla Tradizione di alcune affermazioni del Concilio Vaticano II: nella costituzione dogmatica "Dei Verbum" circa le fonti della fede, nel decreto "Unitatis redintegratio" circa l'ecumenismo, nella dichiarazione "Dignitatis humanae" circa la libertà religiosa.

"La Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo della segreteria di Stato vaticana, nel recensire in settembre un suo libro ha riconosciuto all'anziano e autorevole teologo un "sincero attaccamento alla Chiesa".

Ma questo non impedisce a Gherardini di appuntare le sue critiche graffianti sullo stesso Benedetto XVI, colpevole, a suo dire, di una esaltazione del Concilio che "tarpa le ali dell'analisi critica" e "impedisce di guardare al Vaticano II con occhio più penetrante e meno abbacinato".

Da due anni Gherardini aspetta invano dal papa ciò che gli ha chiesto in una "supplica" pubblica: sottoporre a riesame i documenti del Concilio e chiarire in forma definitoria e definitiva "se, in che senso e fino a che punto" il Vaticano II fosse o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.

Nel marzo del 2012 ha annunciato l'uscita di un suo nuovo libro sul Concilio Vaticano II, che si prevede ancor più critico dei precedenti.

Quanto al libro di Pietro Cantoni, un suo commento ad opera di Francesco Arzillo è più sotto in questa pagina, dopo l'articolo del cardinale Cottier.


Un'altra novità è il premio Acqui Storia che sarà assegnato il prossimo 22 ottobre a Roberto de Mattei per il volume "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta", edito da Lindau e di cui www.chiesa ha riferito a suo tempo.

Il premio Acqui è uno dei più prestigiosi, nel campo degli studi storici. La giuria che ha deciso di conferirlo a de Mattei è composta da studiosi di vario orientamento, cattolici e non cattolici.

Il loro presidente, però, il professor Guido Pescosolido dell'Università di Roma "La Sapienza", si è dimesso dalla carica proprio per dissociarsi da questa decisione.

A giudizio del professor Pescosolido, il libro di de Mattei sarebbe viziato da uno spirito militante anticonciliare, incompatibile con i canoni della storiografia scientifica.

A sostegno del professor Pescosolido si è schierata con un comunicato la SISSCO, Società per lo Studio della Storia Contemporanea, presieduta dal professor Agostino Giovagnoli, esponente di spicco della comunità di Sant'Egidio, e con nel direttivo un altro esponente della stessa comunità, il professor Adriano Roccucci.

E sul "Corriere della Sera" il professor Alberto Melloni – coautore di un'altra famosa storia del Vaticano II anch'essa sicuramente "militante" ma su sponda progressista, quella prodotta dalla "scuola di Bologna" di don Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo e tradotta in più lingue – ha addirittura svilanneggiato de Mattei. Pur riconoscendogli di aver arricchito la ricostruzione della storia del Concilio con documenti inediti, ha equiparato il suo libro a "tanto opuscolame anticonciliare" immeritevole di considerazione.

Al confronto, la pacatezza con cui il professor de Mattei ha sopportato simili affronti è stata per tutti una lezione di stile.


Infine, sempre nella linea interpretativa di monsignor Gherardini e del professor de Mattei, è uscito il 7 ottobre in Italia un altro libro che individua già nel Concilio Vaticano II i guasti venuti alla luce nel dopoconcilio:

Alessandro Gnocchi, Mario Palmaro, "La Bella addormentata. Perché col Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà", Vallecchi, Firenze, 2011.

I due autori non sono né storici né teologi, ma sostengono la loro tesi con competenza e con efficacia comunicativa, per una platea di lettori più vasta di quella raggiunta dagli specialisti.

Su sponda opposta rispetto a quella tradizionalista, anche il teologo Carlo Molari ha ampliato l'attenzione alla disputa, in una serie di articoli sulla rivista "La Rocca" della Pro Civitate Christiana di Assisi, nei quali ha ripreso e discusso gli interventi apparsi su www.chiesa e su "Settimo cielo".

Anche grazie a loro, è quindi prevedibile che la controversia sul Vaticano II si allarghi a un maggior pubblico. Proprio alla vigilia dei cinquant'anni dall'apertura della grande assise, nel 2012.

Per l'occasione, dal 3 al 6 ottobre dell'anno prossimo il Pontificio Comitato di Scienze Storiche ha in cantiere un convegno di studio su come i vescovi che parteciparono al Concilio lo descrissero nel loro diari e archivi personali.

E l'11 ottobre 2012, giorno anniversario dell'apertura del Concilio, inizierà uno speciale "anno della fede", che terminerà il 24 novembre dell'anno successivo, solennità di Cristo Re dell'Universo. Benedetto XVI ne ha dato l'annuncio il 16 ottobre, nell'omelia della messa da lui celebrata nella basilica di San Pietro con migliaia di annunciatori pronti ad operare per la "nuova evangelizzazione".

Fonte: Chiesa.Espresso, ove si possono leggere gli interventi del card. Cottier e di F. Arzillo.


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[SM=g1740733] breve riflessione

Embarassed appare evidente che la battaglia che si sta combattendo è tra i modernisti MASCHERATI DI PROGRESSO DELLA CHIESA e dunque diventati "progressisti"... con i Tradizionalisti, più fermi e ferrei, intrasigenti, cira il riesame di quel FRASARIO AMBIGUO che ha prodotto l'apostasia, la deriva stessa del Concilio e delle sue intenzioni, nonchè il concetto di certe aperture che però invece di divulgare la sana dottrina, non fece altro che far entrare l'apostasia.....  
 
Raggionevolmente con le ricche e chiare analisi dalla Bella Addormentata di Gnocchi e Palmaro, il Papa (io stessa) saremmo dei "neocentristi" Laughing  e per quanto ciò sarebbe una colpa e non un complimento, purtroppo è vero, è così... ma non vedo al momento altra via d'uscita....  
Il Papa cerca di dare ragione un pò alle due ali meno estremiste, ma che  sempre estreme, alla luce del Concilio, alla fine lo sono... e forse per questo sta cercando di far accogliere la sua visione dei fatti.... forse un pò troppo accomodanti, ma che tuttavia hanno avuto il pregio, almeno fino ad oggi, di risvegliare il senso della Tradizione nei giovani cattolici, ed anche meno giovani, e di mettere inquietudine negli animi dei progressisti, leggasi Enzo Bianchi e le sue "paure"....  
 
come a dire, semprerebbe dire il Papa, io vi sto dando gli strumenti (Motu Proprio), a voi l'onere di applicarli, di renderli fruttuosi.... e un pò come dice Cristo: DOCILI, MA ASTUTI... e in tal modo METTERE A TACERE LE DISCUSSIONI SUL CONCILIO....  
 
Io penso che Ratzinger sappia benissimo dei danni generati da ciò che solo dopo 40 anni si è cominciato a condannare: LO SPIRITO DEL CONCILIO che solo fino a cinque annifa, sulla bocca di tutti i Pastori, era ancora la cartina tornasole del Concilio....  
Il Papa NON vuole discussioni sul Concilio, ma vuole rimuovere gli errori prodotti.... per questo non credo che darà spazio a mons. Gherardini, nè alla recente Lettera aperta....  
...di fatto il Papa, dando spazio alla FSSPX con le discussioni dottrinali, ha tuttavia soddisfatto in parte queste richieste... Wink  spetterà alla FSSPX far buon uso del materiale raccolto e a suo tempo sbriciolarlo a mo di pastura, al gregge affamato.... per questo non si può che augurare e sollecitare un loro ritorno REGOLARE, proprio per aiutare il Papa e la Chiesa stessa a diffondere le buone Catechesi e a non perdere altro tempo su discussioni che NON ci porteranno indietro e che non risolveranno i problemi che si sono generati....  
 
L'Indizione dell'ANNO DELLA FEDE annunciato ieri dal Papa prevede una Lettera che uscirà a giorni e sulla quale sarà utile riflettere.... ma alcune valutazioni possiamo già farle:  
- il Papa unisce la data di apertura di questo Anno non alla chiusura del Concilio, MA ALL'APERTURA del Concilio.... chi ben conosce il ragionare di Ratzinger  questo non è un caso, ma è un particolare di grande rilevanza, egli sta INCLUDENDO il Concilio intero ad un supporto che lega tutto e tutti: LA FEDE, LA DIFESA DELLA FEDE... ergo la priorità di importanza non ricade più sul Concilio come è accaduto fino ad oggi, MA SULLA FEDE DELLA CHIESA.... il Concilio vi sta dentro e NON fuori come è accaduto nelle pastorali di questo triste e drammatico mezzo secolo!  
- la chiusura dell'Anno della Fede non è fissata alla chiusura del Concilio, ma alla Festa DI CRISTO RE.... un richiamo “Instaurare omnia in Christo”.... di san Pio X memoria....  
- l'annuncio del Papa si conclude con queste parole: Imparate dalla Madre del Signore e Madre nostra ad essere umili e al tempo stesso coraggiosi; semplici e prudenti; miti e forti, non con la forza del mondo, ma con quella della verità.  
 
Appare evidente che a Ratzinger non interessano le discussioni, vuole i fatti, vuole gente che si mette in gioco non a parole, ma CREANDO QUALCOSA, AGENDO, METTENDO A DISPOSIZIONE DELLA CHIESA LE PROPRIE RISORSE.... giusto o sbagliato che sia questo metodo, al momento è quello che sta mettendo in difficoltà i lati estremisti della Chiesa, e che sta portando questi estremi a prendere delle decisioni... Wink

[SM=g1740757]



Caterina63
00venerdì 2 dicembre 2011 15:04
Nel cinquantesimo anniversario dell'indizione

Sull'adesione
al concilio Vaticano II

 

Oltre che in italiano, il testo di questo articolo è disponibile sul sito del nostro giornale (www.osservatoreromano.va) in francese, inglese, portoghese, spagnolo e tedesco.

FERNANDO OCÁREZ

Il cinquantesimo anniversario, ormai prossimo, della convocazione del concilio Vaticano II (25 dicembre 1961) è motivo di celebrazione ma anche di rinnovata riflessione sulla ricezione e applicazione dei documenti conciliari. Oltre agli aspetti più direttamente pratici di questa ricezione e applicazione, con le loro luci ed ombre, sembra opportuno ricordare anche la natura dell'adesione intellettuale dovuta agli insegnamenti del Concilio. Pur trattandosi di dottrina ben nota e sulla quale si dispone di abbondante bibliografia, non è superfluo ricordarla nei suoi tratti essenziali, tenuto conto della persistenza di perplessità manifestatesi, anche nell'opinione pubblica, riguardo alla continuità di alcuni insegnamenti conciliari rispetto ai precedenti insegnamenti del magistero della Chiesa. Innanzitutto non sembra inutile ricordare che l'intenzione pastorale del Concilio non significa che esso non sia dottrinale. Le prospettive pastorali si basano infatti, e non potrebbe essere diversamente, sulla dottrina. Ma occorre, soprattutto, ribadire che la dottrina è indirizzata alla salvezza, il suo insegnamento è parte integrante della pastorale. Inoltre, nei documenti conciliari è ovvio che ci sono molti insegnamenti di natura prettamente dottrinale: sulla divina Rivelazione, sulla Chiesa, ecc. Come scrisse il beato Giovanni Paolo II, "con l'aiuto di Dio i Padri conciliari hanno potuto elaborare, in quattro anni di lavoro, un considerevole complesso di esposizioni dottrinali e di direttive pastorali offerte a tutta la Chiesa" (costituzione apostolica Fidei depositum, 11 ottobre 1992, introduzione).

L'adesione dovuta al magistero

Il concilio Vaticano II non definì alcun dogma, nel senso che non propose mediante atto definitivo alcuna dottrina. Tuttavia il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia esercitato mediante il carisma dell'infallibilità non significa che esso possa essere considerato "fallibile" nel senso che trasmetta una "dottrina provvisoria" oppure "autorevoli opinioni". Ogni espressione di magistero autentico va recepita come è veramente: un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il "carisma della verità" (Dei verbum, n. 8), "rivestiti dell'autorità di Cristo" (Lumen gentium, n. 25), "alla luce dello Spirito Santo" (Ibidem).

Questo carisma, questa autorità e questa luce furono certamente presenti nel concilio Vaticano II; negare ciò all'intero episcopato cum Petro e sub Petro, radunato per insegnare alla Chiesa universale, sarebbe negare qualcosa dell'essenza stessa della Chiesa (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, dichiarazione Mysterium Ecclesiae, 24 giugno 1973, nn. 2-5).

Naturalmente non tutte le affermazioni contenute nei documenti conciliari hanno lo stesso valore dottrinale e quindi non tutte richiedono lo stesso grado di adesione. I diversi gradi di adesione alle dottrine proposte dal magistero sono stati ricordati dal Vaticano II, nel n. 25 della costituzione Lumen gentium, e poi sintetizzati nei tre commi aggiunti al simbolo niceno-costantinopolitano nella formula della Professio fidei, pubblicata nel 1989 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con l'approvazione di Giovanni Paolo II.

Le affermazioni del concilio Vaticano II che ricordano verità di fede richiedono ovviamente l'adesione di fede teologale, non perché siano state insegnate da questo Concilio, ma perché già erano state insegnate infallibilmente come tali dalla Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale. Così come richiedono un pieno e definitivo assenso le altre dottrine ricordate dal Vaticano II che erano già state proposte con atto definitivo da precedenti interventi magisteriali.
Gli altri insegnamenti dottrinali del Concilio richiedono dai fedeli il grado di adesione denominato "ossequio religioso della volontà e dell'intelletto". Un assenso "religioso", quindi non fondato su motivazioni puramente razionali. Tale adesione non si configura come un atto di fede, quanto piuttosto di obbedienza, non semplicemente disciplinare, bensì radicata nella fiducia nell'assistenza divina al magistero, e perciò "nella logica e sotto la spinta dell'obbedienza della fede" (Congregazione per la Dottrina della Fede, istruzione Donum veritatis, 24 maggio 1990, n. 23).

Questa obbedienza al magistero della Chiesa non costituisce un limite posto alla libertà, ma al contrario, è fonte di libertà. Le parole di Cristo "chi ascolta voi ascolta me" (Luca, 10, 16) sono indirizzate anche ai successori degli apostoli; e ascoltare Cristo significa ricevere in sé la verità che rende liberi (cfr. Giovanni, 8, 32).
Nei documenti magisteriali possono esserci - come di fatto si trovano nel concilio Vaticano II - anche elementi non propriamente dottrinali, di natura più o meno circostanziale (descrizioni dello stato delle società, suggerimenti, esortazioni, ecc.). Tali elementi vanno accolti con rispetto e gratitudine, ma non richiedono un'adesione intellettuale in senso proprio (cfr. istruzione Donum veritatis, nn. 24-31). [SM=g1740733]

L'interpretazione degli insegnamenti

L'unità della Chiesa e l'unità nella fede sono inseparabili, e questo comporta anche l'unità del magistero della Chiesa in ogni tempo in quanto interprete autentico della Rivelazione divina trasmessa dalla sacra Scrittura e dalla tradizione. Ciò significa, tra l'altro, che una caratteristica essenziale del magistero è la sua continuità e omogeneità nel tempo. La continuità non significa assenza di sviluppo; la Chiesa lungo i secoli progredisce nella conoscenza, nell'approfondimento e nel conseguente insegnamento magisteriale della fede e della morale cattolica.


Nel concilio Vaticano II ci sono state diverse novità di ordine dottrinale: sulla sacramentalità dell'episcopato, sulla collegialità episcopale, sulla libertà religiosa, ecc. Sebbene di fronte alle novità in materie relative alla fede o alla morale non proposte con atto definitivo sia dovuto l'ossequio religioso della volontà e dell'intelletto, alcune di esse sono state e sono ancora oggetto di controversie circa la loro continuità con il magistero precedente, ovvero sulla loro compatibilità con la tradizione. Di fronte alle difficoltà che possono trovarsi per capire la continuità di alcuni insegnamenti conciliari con la tradizione, l'atteggiamento cattolico, tenuto conto dell'unità del magistero, è quello di cercare un'interpretazione unitaria, nella quale i testi del concilio Vaticano II e i documenti magisteriali precedenti s'illuminino a vicenda. [SM=g1740733] 

Non soltanto il Vaticano II va interpretato alla luce di precedenti documenti magisteriali, ma anche alcuni di questi vengono meglio capiti alla luce del Vaticano II. Ciò non è niente di nuovo nella storia della Chiesa. Si ricordi, a esempio, che nozioni importanti nella formulazione della fede trinitaria e cristologica (hypóstasis, ousía) adoperate nel concilio I di Nicea furono molto precisate nel loro significato dai concili posteriori.
L'interpretazione delle novità insegnate dal Vaticano II deve perciò respingere, come disse Benedetto XVI, l'ermeneutica della discontinuità rispetto alla tradizione, mentre deve affermare l'ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità (discorso, 22 dicembre 2005).

Si tratta di novità nel senso che esplicitano aspetti nuovi, fino a quel momento non ancora formulati dal magistero, ma che non contraddicono a livello dottrinale i documenti magisteriali precedenti, sebbene in alcuni casi - a esempio, sulla libertà religiosa - comportino anche conseguenze molto diverse al livello delle decisioni storiche sulle applicazioni giuridico-politiche, viste le mutate condizioni storiche e sociali. [SM=g1740733] Un'interpretazione autentica dei testi conciliari può essere fatta soltanto dallo stesso magistero della Chiesa. Perciò nel lavoro teologico d'interpretazione dei passi che nei testi conciliari suscitino interrogativi o sembrino presentare difficoltà, è innanzitutto doveroso tener conto del senso in cui i successivi interventi magisteriali hanno inteso tali passi. Comunque, rimangono legittimi spazi di libertà teologica per spiegare in un modo o in un altro la non contraddizione con la tradizione di alcune formulazioni presenti nei testi conciliari e, perciò, di spiegare il significato stesso di alcune espressioni contenute in quei passi.
Al riguardo, non sembra infine superfluo tener presente che è passato quasi mezzo secolo dalla conclusione del concilio Vaticano II, e che in questi decenni si sono susseguiti quattro Romani Pontefici sulla cattedra di Pietro. Esaminando il magistero di questi Papi e la corrispondente adesione a esso dell'episcopato, un'eventuale situazione di difficoltà dovrebbe trasformarsi in serena e gioiosa adesione al magistero, interprete autentico della dottrina della fede. Questo dovrebbe essere possibile e auspicabile anche se rimanessero aspetti razionalmente non pienamente compresi, lasciando comunque aperti i legittimi spazi di libertà teologica per un sempre opportuno lavoro di approfondimento. Come ha scritto recentemente Benedetto XVI, "i contenuti essenziali che da secoli costituiscono il patrimonio di tutti i credenti hanno bisogno di essere confermati, compresi e approfonditi in maniera sempre nuova al fine di dare testimonianza coerente in condizioni storiche diverse dal passato" (motu proprio Porta fidei, n. 4).



(©L'Osservatore Romano 2 dicembre 2011)


Caterina63
00venerdì 9 dicembre 2011 15:34

Mons. Gherardini sull’importanza e i limiti del Magistero autentico

Il Coetus Internationalis Patrum in piazza S. Pietro


Disputationes Theologicae ha chiesto a Mons. Brunero Gherardini un contributo sulla nozione di Magistero autentico e sui suoi eventuali limiti. L’illustre docente emerito all’Università del Papa, decano della facoltà di teologia, che già è intervenuto su queste colonne qualificando l’insegnamento costituito dal Concilio Vaticano II, apporta ora più ampiamente, in maniera agile e profonda, alcune precisazioni,  richiamando l’attenzione su alcune distinzioni spesso omesse. Tale richiamo è in consonanza con quanto rilevato negli anni ‘70 da S. Ecc. Mons. De Castro Mayer, allora ordinario di Campos, a conclusione dello studio teologico sulla libertà religiosa da lui inviato a S.S. il Papa Paolo VI (che non lo condannò): c’è un caso specifico in cui un insegnamento non è vincolante in coscienza, pur essendo un atto di Magistero autentico, quando vi sia una dissonanza rispetto a quanto già dalla Chiesa lungamente insegnato. 

La Redazione


Chiesa-Tradizione-Magistero

di Mons. Brunero Gherardini
                  

Caterina63
00sabato 10 dicembre 2011 11:42

circa alcune sentenze ed errori insorgenti.....

Con la lettera circolare che pubblichiamo qui sotto si può vedere come le più importanti deviazioni erano state subito individuate e denunciate. Già nel 1966. Impressiona questa data: a tal punto che uno potrebbe chiedersi: “ma era già una questione di interpretazione come dice la lettera o di ermeneutica come si direbbe oggi?”, “a nemmeno un anno dalla fine del Concilio?”. Il card. Ottaviani dimostrò di aver chiaro fin da subito quali sarebbero stati i mali che avrebbero afflitto per anni la Chiesa… Avvenne un po’ come per l’Euro, qualcuno ne denunciò da subito la pericolosità, ma fu inascoltato ed oggi ci troviamo a  dover concordare con chi ha detto che “L’Europa si è incartata”; fin che si tratta dell’Europa …. possiamo anche, per così dire, lasciar correre. Ma quando si tratta della Chiesa… ci preoccupiamo e a leggere interventi come quello di Mons. Ocariz, che è stato commentato nel post precedente, ci viene davvero il sospetto che, se non la Chiesa, gli uomini di Chiesa si siano davvero incartati.

SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE


Giacché il Concilio Ecumenico Vaticano II, da poco felicemente concluso, ha promulgato sapientissimi Documenti, sia in materia dottrinale sia in materia disciplinare, allo scopo di promuovere efficacemente la vita della chiesa, a tutto il popolo di Dio incombe il grave dovere di impegnarsi con ogni sforzò alla attuazione di quanto, sotto l'influsso dello Spirito Santo, è stato solennemente proposto o decretato da quella universale assemblea di vescovi presieduta dal sommo pontefice.

Spetta alla Gerarchia il diritto e il dovere di vigilare, guidare e promuovere il movimento di rinnovamento iniziato dal Concilio, in maniera che i Documenti e i Decreti conciliari siano rettamente interpretati e vengano attuati con la più assoluta fedeltà al loro valore ed al loro spirito. Questa dottrina, infatti, deve essere difesa dai Vescovi, giacché essi, con a Capo Pietro, hanno il mandato di insegnare con autorità. Lodevolmente molti Pastori hanno già cominciato a spiegare come si conviene la dottrina del Concilio.

Tuttavia bisogna confessare con dolore che da varie parti son pervenute notizie infauste circa abusi che vanno prendendo piede nell'interpretare la dottrina conciliare, come pure di alcune opinioni peregrine ed audaci qua e là insorgenti, con non piccolo turbamento di molti fedeli. Sono degni di lode gli studi e gli sforzi per investigare più profondamente la verità, distinguendo onestamente tra ciò che è materia di fede e ciò che è opinabile; ma dai documenti esaminati da questa Sacra Congregazione risulta trattarsi di non poche affermazioni, le quali oltrepassando facilmente i limiti dell’ipotesi o della semplice opinione, sembrano toccare in certa misura lo stesso dogma ed i fondamenti della fede.

Conviene, a titolo di esempio, accennare ad alcune di tali opinioni ed errori, così come risultano dai rapporti di persone competenti e da scritti pubblicati.

1) In primo luogo circa la stessa Sacra Rivelazione: ci sono alcuni, infatti, che ricorrono alla Sacra Scrittura lasciando deliberatamene da parte la Tradizione, ma poi restringono l’ambito e la forza della ispirazione biblica e dell’inerranza, né hanno una giusta nozione del valore dei testi storici.

2) Per quanto riguarda la dottrina della fede, viene affermato che le formule dogmatiche sono soggette all’evoluzione storica al punto che anche lo stesso loro significato oggettivo è suscettibile di mutazione.

3) Il Magistero ordinario della Chiesa, particolarmente quello del Romano Pontefice, è talvolta così negletto e sminuito, fino a venir relegato quasi nella sfera delle libere opinioni.

4) Alcuni quasi non riconoscono una verità oggettiva assoluta, stabile ed immutabile, e tutto sottopongono ad un certo relativismo, col pretesto che ogni verità segue necessariamente il ritmo evolutivo della coscienza e della storia.

5) La stessa Persona adorabile di Nostro Signore Gesù Cristo è chiamata in causa, quando, nell’elaborazione della dottrina cristologia, si adoperano, circa la natura e la persona, concetti difficilmente conciliabili con le definizioni dogmatiche. Serpeggia un certo umanesimo cristologico che riduce Cristo alla condizione di un semplice uomo, il quale un po’ per volta acquistò la consapevolezza della sua filiazione divina. Il suo concepimento verginale, i miracoli, la stessa Risurrezione vengono ammessi solo a parale, ma vengono ridotti al puro ordine naturale.

6) Similmente nella teologia sacramentaria alcuni elementi o vengono ignorati o non sono tenuti nel debito conto, specialmente per quanto riguarda l’Eucaristia. Circa la presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino non mancano alcuni che ne parlano inclinando ad un esagerato simbolismo, quasi che, in forza della transustanziazione, il pane e il vino non si mutassero in Corpo e Sangue di N.S. Gesù Cristo, ma fossero semplicemente trasferiti ad una determinata significazione. Ci sono alcuni che, a proposito della Messa, insistono troppo sul concetto di agape a scapito del concetto di Sacrificio.

7) Alcuni vorrebbero spiegare il Sacramento della Penitenza come un mezzo di riconciliazione con la Chiesa, non esprimendo sufficientemente il concetto di riconciliazione con Dio offeso. Affermano pure che nella celebrazione di questo Sacramento non è necessaria l'accusa personale dei peccati, sforzandosi di esprimere unicamente la funzione sociale della riconciliazione con la Chiesa.

8) Né mancano alcuni che o non tengono in debito conto la dottrina del Concilio Tridentino circa il peccato originale, o la spiegano in modo che la colpa originale di Adamo e la trasmissione del suo peccato ne restano perlomeno offuscate.

9) Né minori sono gli errori che si vanno propagando nel campo della teologia morale. Non pochi, infatti, osano rigettare il criterio oggettivo di moralità; altri non ammettono la legge naturale, affermando invece la legittimità della cosiddetta etica della situazione. Opinioni deleterie vanno propagandosi circa la moralità e la responsabilità in materia sessuale e matrimoniale.

10) A quanto s'è detto bisogna aggiungere alcune parole circa l'ecumenismo. La Sede Apostolica loda, indubbiamente, coloro che nello spirito del Decreto conciliare sull'ecumenismo promuovono iniziative destinate a favorire la carità verso i fratelli separati e ad attirarli all'unità della Chiesa; ma si duole del fatto che non mancano alcuni i quali, interpretando a modo proprio il Decreto conciliare, propugnano un'azione ecumenica tale da offendere la verità circa l'unità della fede e della Chiesa, favorendo un pernicioso irenismo e un indifferentismo del tutto alieno dalla mente del Concilio.

Questi pericolosi errori, diffusi quale in un luogo quale in un altro, sono stati sommariamente raccolti in sintesi in questa Lettera agli Ordinari di luogo, affinché ciascuno, secondo la sua funzione ed il suo ufficio, si sforzi di sradicarli o di prevenirli.

Questo Sacro Dicastero prega vivamente i medesimi Ordinari, riuniti in Conferenze Episcopali, di farne oggetto di trattazione e di riferirne opportunamente alla Santa Sede inviando i propri pareri prima del Natale dell'anno in corso.

Gli Ordinari e quanti altri ai quali per giusta causa essi riterranno opportuno mostrare questa Lettera, la custodiscano sotto stretto segreto, giacché una evidente ragione di prudenza ne sconsiglia la pubblicazione.
Roma, 24 luglio 1966.
A. Card. Ottaviani

Caterina63
00sabato 17 dicembre 2011 23:36

La disputa del Vaticano II


La provocazione di Papa Benedetto, il Concilio Vaticano II, le luci e le ombre tra continuità e discontinuità.

di p. Serafino M. Lanzetta FI (per Corrispondenza Romana)
Il S. Padre ha indetto, con l’anniversario della solenne apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 2012, un Anno della fede , collegandolo idealmente all’ultima assise conciliare. Il discorso ormai famoso di Benedetto XVI alla Curia Romana, del 22 dicembre 2005, segnò, in verità, una vera svolta nell’analisi del Concilio. Avviò una nuova disputa intorno al Concilio; un confronto non più a senso unico col monopolio di una certa ermeneutica, ma un dialogo a più voci, molte delle quali nuove e scevre di risentimenti o rancori di sorta.

L’ermeneutica giusta, al dire di Benedetto XVI in quel discorso, è la «riforma», o «l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Una tale riforma comporta continuità e discontinuità secondo livelli diversi: «È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma», scrive il Pontefice. Continuità nei principi dottrinali e discontinuità delle forme storico-contingenti, che facevano da supporto a tali principi.
Guardando però più da vicino il Vaticano II e in modo globale, si nota una riforma non solo delle forme storiche e sociali, come poteva essere ad esempio la nuova concezione dello Stato moderno, tale da indurre la Chiesa a ripensare la dottrina della libertà religiosa, rinunciando ad una religione di Stato, ma anche una certa riforma della stessa dottrina: la stessa libertà religiosa, ad esempio, da aspetto soggettivo come incoercibilità della coscienza nella sua apertura alla verità, diventa invocazione oggettiva della medesima plausibilità di tutte le religioni all’interno di uno Stato, in ragione del diritto alla libertà religiosa, che deve diventare libertà di culto (cf. DH 1 in relazione a DH 3 e 4): il livello soggettivo della libertà di coscienza diventa anche e soprattutto oggettiva egualità sociale di tutte le religioni.

Libertà religiosa e libertà di culto sono, in verità, due elementi distinti. Se non le si distingue, argomentandone la reciproca fondatezza nella verità, accade facilmente che la prima venga negata e assorbita dalla seconda. La natura è negata a favore del diritto. Si pensi all’Islam. E la risposta cattolica non può essere semplicemente l’assicurazione di entrambe, ma solo la subordinazione della libertà di culto alla libertà religiosa, radicando quest’ultima nella coscienza morale in quanto aperta alla verità.
Una riforma, perciò, ha interessato anche le dottrine e questo principiando non dalle dottrine ma dal modo di insegnarle, dalle forme storiche contingenti, in primis, dalla forma espositiva e linguistica, ovvero da una nuova metodologia, più pastorale ed ecumenica. Di fatto la dottrina – alcune dottrine – è così “nuova”. L’accavallamento di soggettivo e oggettivo nella libertà religiosa è un paradigma. Ma gli esempi riguardano anche altri ambiti come l’ispirazione dei libri sacri, il rapporto Scrittura e Tradizione, la Collegialità episcopale, il concetto di ecumenismo, che fa leva quasi esclusivamente sul sacramento del Battesimo.

Si è indubitabilmente di fronte ad un insegnamento nuovo, che poi possa essere o meno in pieno collegamento con l’insegnamento precedente è un altro problema, un secondo dato da analizzare. Nel Vaticano II ciò che è da appurare anzitutto è che la continuità e la discontinuità, secondo livelli diversi, si collocano sul piano del soggetto docente e della dottrina insegnata, altrimenti si rischia solo di declamare la continuità delle dottrine ma senza mai verificarla. Si rischia di voler conservare col Vaticano II uno status quo nella Chiesa. Se così non fosse, se la difficoltà ermeneutica cioè non ascendesse fino al rango degli asserti magisteriali, del loro essere semplice sviluppo o piuttosto una nuova forma, una ri-forma della dottrina cattolica, sarebbe già risolta tutta la difficoltà ermeneutica, che invece è il vero rompicapo per valutare correttamente il Vaticano II. Se la difficoltà ermeneutica non riguarda la dottrina di prima e quella di dopo, cade la stessa necessità di un’ermeneutica giusta per appurarne la continuità: questa sarebbe semplicemente evidente.

A nostro giudizio, c’è una nuova forma della dottrina cattolica, che nasce da un binomio tipico del Concilio, non sempre così chiaro – di qui la difficoltà – di dottrinarietà e pastoralità: queste due facce a volte si sovrappongono, a volte si interscambiano. Un solo esempio lampante: in nome del dialogo ecumenico si volle una dottrina sulla Divina Rivelazione che lasciasse insoluto il problema dell’insufficienza materiale delle Scritture; al dire di Florit né lo si affermava né lo si negava, anche se il magistero ordinario nei catechismi aveva appurato definitivamente che non tutte le verità, oltre al canone sacro, sono contenute nella Scrittura.

Il problema ermeneutico del Vaticano II implica 3 aspetti distinti:

1)      nel concilio ci sono delle dottrine nuove;
2)      queste sono uno sviluppo e/o ri-forma delle dottrine classiche;
3)      il grado dell’asserto magisteriale delle dottrine conciliari.


A questo punto come coordinare continuità e discontinuità? La domanda, in modo frettoloso, viene anche formulata così: il Vaticano II è o non è in continuità con il magistero precedente? La domanda però va oltre la mera e scontata asserzione dell’autenticità del 21° concilio della Chiesa rispetto ai 20 precedenti. Se ciò non fosse presupposto sarebbe inutile anche la domanda. La si deve perciò collocare in un substrato teologico molto più sottile, lì dove si nasconde il vero problema: in che modo il magistero del Vaticano II si colloca in continuità con quello precedente? Dove si coglie la continuità?

Fino ad oggi, a cinquant’anni dal Vaticano II, una delle soluzioni che trova più favore, perché forse mai preso di vista in modo scientifico il vero problema, se non grazie al grido d’allarme di Gherardini, è quella secondo cui la continuità è garantita dal magistero stesso: per il fatto che siamo dinanzi ad un’asserzione del Vaticano II, dunque del magistero solenne, abbiamo la continuità. Fondamentalmente questa è la posizione di P. Giovanni Cavalcoli e, di recente, di don Pietro Cantoni. Il magistero diventa così ragione di se stesso.
Ma in questo modo non si dà ragione delle effettive “riforme” del Vaticano II, che si leggono per la libertà religiosa, confrontando la visione ecclesiologica di Pio XII e quella del Vaticano II, per la collegialità del Vaticano II quale “perfezionamento” del primato petrino nel Vaticano I. Come intendere questo perfezionamento? Basta esporre una nuova dottrina o invece è necessario radicarla nella Tradizione della Chiesa?

Il problema “cuore”, dunque, è coordinare continuità e discontinuità secondo livelli differenti, in modo da leggere una nuova dottrina insegnata dal medesimo soggetto. È proprio qui il nodo: la continuità è assicurata dall’unico soggetto che insegna, il magistero, che però non si identifica con la Chiesa e con l’infallibilità totale di essa, rimanendo questa più ampia e includendo ad esempio il sensus fidei del Popolo credente, dunque un’infallibilità in credendo che precede e fonda quella in docendo.

È necessario radicare in modo assoluto, oggi più che mai, l’infallibilità del magistero, nelle Verità credute infallibilmente per mezzo della fede, per evitare di scadere in una visione meramente “burocratica”, in cui il soggetto docente diventerebbe l’ultima ragione del porsi della verità stessa. Ci sarà sempre un Küng che potrà inveire contro il monopolio del “potere romano”, dimenticando che la gerarchia è un’origine sacra, scende dall’alto quale munus, ministero, servizio alla Verità.

La discontinuità invece riguarda fondamentalmente due cose:

1)      la nuova forma che assume il magistero nell’ultimo Concilio: un magistero fontalmente pastorale. Infallibile quando? Sempre, o non piuttosto solo quando reitera il dato di fede definitivo? Un magistero solenne/straordinario quanto alla forma ma ordinario autentico quanto all’effettivo esercizio;
2)      i nuovi contenuti, le nuove dottrine. Negare infatti che ci siano delle dottrine nuove e che siano una ri-forma rispetto a quelle di prima, significa non vedere il Vaticano II.

Il magistero può insegnare delle dottrine nuove, ma non per il fatto che le insegna sono (automaticamente) infallibili. Non infallibili poi non significa per sé erronee, ma solo non definitive. La non-infallibilità è un giudizio di valore sul grado magisteriale di cui è rivestita (dal magistero) la dottrina insegnata. L’errore è un giudizio logico che si dà ad una proposizione quanto alla sua conformità o meno al vero. Confondere errore (molto spesso tradotto con fallibilità) con non-infallibilità è un’operazione contraria alla logica e alla teologia.

Il problema c’è, ed è soprattutto di ermeneutica del magistero conciliare in quanto tale, e quindi delle dottrine. Così si presenta, a nostro giudizio, nell’insieme del quadro ermeneutico, un altro aspetto da non trascurare: quale ermeneutica teologica è necessaria per il magistero del Vaticano II? Purtroppo, non abbiamo una categoria per un’ermeneutica dell’aggiornamento magisteriale. Il Concilio volle essere un aggiornamento, ma come capire l’aggiornamento? Basta rispondere: con il magistero?

Alle tesi di Gherardini ha risposto in modo infuocato e con un fare quasi comminatorio di scomunica Don Pietro Cantoni. L’analisi di Cantoni, a nostro giudizio, sorvola il vero problema, e ci lascia amareggiati per il modo in cui tutto il libro viene organizzato: una stroncatura di una persona, mentre avrebbe potuto offrire, mostrando anche le reticenze, un valido contributo alla ricerca ermeneutica sul Vaticano II. Si condanna con la persona non solo una soluzione ma lo stesso problema. Di seguito ci concentreremo sui passaggi salienti di Cantoni in obiezione a Gherardini, onde scorgere i punti più delicati di questo proficuo dibattito.
Tutto l’impianto di Cantoni è fondamentalmente basato su questo concetto: Gherardini scredita il magistero conciliare; invece di mostrarne la continuità con quello precedente, assume un atteggiamento lefebvriano mostrandone la rottura, atteggiamento in antitesi con la Scuola Romana, del resto, sua eredità teologica. Gherardini sarebbe caduto in un sorta di “manualismo”, e il vero argomento per scongiurare ciò è l’accettazione del magistero, visto come soggetto docente più che come dottrina insegnata.

Scrive Cantoni:
«Se il concilio ecumenico Vaticano II appare a qualcuno problematico, erroneo, perlomeno confuso, è proprio perché è letto in un’ottica sbagliata. Si tratta di quella “teologia manualistica” che – a contatto con il concilio – non ha retto, ma è andata in frantumi. Non è il concilio che è poco chiaro, è la teologia con cui è interpretato che è tale».

Ma sarà proprio con i grandi manuali dei teologi romani che Cantoni cerca di far vedere le contraddizioni di Gherardini nella sua critica al magistero del Concilio. E sono gli stessi teologi romani, con i loro manuali, ai quali si appella Gherardini quando spiega il concetto di Tradizione: quel quod ubique quod semper quod ab omnibus creditum est, che, quale regola aurea, è principio di ogni sviluppo omogeneo della dottrina cattolica, quanto alla sua accresciuta comprensione, dove Scrittura e Tradizione sono la norma remota della fede, mentre il Magistero è la norma prossima.
Il problema dei manuali che non reggono al confronto col Vaticano II viene corretto da Cantoni col fare appello all’autorità magisteriale, che a suo modo di vedere, «è di carattere carismatico, non “epistemico”, è la sua stessa proposizione che garantisce della sua continuità con la Tradizione, perché è essa stessa componente e componente costitutiva e formale di questa stessa Tradizione, e costituisce quindi per il teologo un fatto a partire dal quale condurre la sua indagine».
Questa affermazione è del tutto nuova. Significa scindere nell’organo magisteriale il soggetto docente dall’oggetto dell’insegnamento, sia materiale che formale. Se la si esaspera si potrà arrivare a trarre dal magistero ogni possibile conclusione.
Il magistero stesso non sarà più vincolato da res fidei et morum e potrebbe diventare fautore anche di una nuova Rivelazione.
Il che è impossibile. Nel magistero ecclesiastico bisogna considerare unitamente e distintamente: il soggetto attivo che insegna (il Papa e il Collegio dei vescovi), l’oggetto materiale (la verità rivelata) e l’oggetto formale (l’autorità del magistero, che ammette diversi gradi).

 Dei Verbum al n. 9 precisa i confini del magistero, che non sono dati da se stesso, ma dalla Scrittura e dalla Tradizione:
«Il … magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio».

Questa visione “carismatica” del magistero favorisce in Cantoni anche il tentativo di dedurre dal Vaticano II, come teologi privati o come fedeli, delle conclusioni irrinunciabili (infallibili), o almeno una dottrina «davanti alla quale non si può assolutamente escludere a priori che qualcosa sia infallibile». Cosa sia infallibile Cantoni non lo dice. Dice però, col sostegno del p. U. Betti, che,
«mentre a Trento e al Vaticano I i capitoli trovavano per lo più (ma non sempre…) nei canoni la conclusione perentoria del loro discorso, qui questa formulazione – che sarebbe infallibile in se stessa nella sua propria formulazione – manca per dichiarata scelta dell’autorità. Nulla però impedisce che una tale conclusione venga tirata dal teologo e dal fedele».

Tralasciamo l’allusione ai fedeli, sovraccaricati di un lavoro veramente immane. Spetta al teologo trarre le conclusione dogmatiche dai documenti del Vaticano II? E così appurarne l’infallibilità, almeno in qualche sua parte? Qui Cantoni scambia ciò che spetta propriamente al magistero, e cioè dichiarare una dottrina come definitiva, con l’opera della teologia, per quanto riguarda invece le “note teologiche”. Cosa può fare il teologo, o meglio, cosa possono fare i teologi? Non fa testo il singolo, ma è necessaria l’unanimità, analogicamente ai Padri.

È bene rivisitare a questo proposito il Commentarius al cap. VII “De Ecclesiae Magisterio”, dello schema preparatorio De Ecclesia, che a sua volta tiene conto del Votum Universitatis Lateranensis de necessitudine inter Magisterium Ecclesiae et sacram theologiam. Qui si distingueva due classi, ovvero due categorie dottrinali teologiche: la «doctrina certa» e le «sententiae theologicae», dove è richiesta, per entrambe, la partecipazione dei teologi e l’antichità e la reiterazione della dottrina: un «communi costanti consensu» e le «venerandae theologicae traditioni». Tutto questo si riscontra tra i teologi per quanto riguarda le dottrine (nuove) del Vaticano II? A tutt’oggi non sembra.
Cantoni giustifica il lavoro del teologo in ragione dell’infallibilità del magistero ordinario e universale, secondo quanto dice il Vaticano I.

Circa il magistero ordinario universale, sembra che Cantoni alluda ad un’universalità solamente de facto, la quale basterebbe a rendere infallibile l’asserto magisteriale del Vaticano II o almeno intoccabile e da accettare indiscutibilmente. Gherardini violenterebbe questa infallibilità/indiscutibilità di dottrine, a cui Cantoni con Scheeben dà la qualifica di “doctrina catholica”.
Qui rileviamo due elementi. La qualifica di “doctrina catholica”, genericamente intesa, ci sembra alquanto sovrabbondante per il Vaticano II. La si attribuisce al Concilio come unicum magisteriale o alle singole dottrine? A tutti i documenti o solo alle Costituzioni dogmatiche? Cantoni tiene veramente conto dell’intenzione dei Padri nel redigere i documenti, in ragione della quale appurare la qualificazione della dottrina di ogni singolo documento? Se al Concilio come unicum risulta deficitaria perché il Vaticano II insegna in alcuni contesti in modo solenne e definitivo, ad esempio quando il Concilio utilizza l’espressione «docet Sacra Synodus» (LG 20), o «docet autem Sancta Synodus» (LG 21), o in altri insegnamenti introdotti dalla parola «credimus» o anche «creditur» (cf. LG 39; UR 3 e 4).

Se invece alle singole nuove dottrine, qui sì che si vede ampiamente la sovrabbondanza: come si può attribuire sic et simpliciter una tale qualifica teologica a delle dottrine, in buona parte, ancora discusse dai teologi (si pensi particolarmente alla collegialità episcopale: il Papa e il Collegio sono due soggetti inadequatae distinctum?), e talvolta richiedenti un ulteriore intervento chiarificatore del Magistero stesso (si pensi alla questione del subsistit in)?; a dottrine cioè insegnate dal magistero ordinario ed universale (impropriamente “ordinario universale” perché qui si tratta di un raduno in un concilio, quindi di un magistero straordinario o solenne), senza che però venga dichiarata la loro definitività? Non è sufficiente, infatti, che ci sia un magistero ordinario ed universale (il collegio dei Vescovi sparso nel mondo che concorda con il suo Capo) perché la dottrina sia doctrina catholica (certa), ovvero definitivamente insegnata dalla Chiesa, muovendo verso il proximae fidei (è in questa direzione che va la qualificazione di Scheeben): è invece indispensabile che sia altresì insegnata tamquam definitive tenendam.

Il testo della Costituzione dogmatica Dei Filius, del Vaticano I, a cui Cantoni si appella, recita così:
«Si devono credere con fede cattolica e divina tutte quelle cose che sono contenute nella Parola di Dio, scritta o trasmessa, e tramite un giudizio solenne, o il suo magistero ordinario universale, vengono proposte alla chiesa come divinamente rivelate e, in quanto tali, da credersi» (cf. DH 3011, a cui faceva già riferimento il b. Pio IX nella Tuas libenter, del 21.12.1863).
Qui è detto che il magistero ordinario universale è infallibile per sé? Certamente non espressamente, ma vien detto che è necessario proporre alla Chiesa le verità come divinamente rivelate.
Per rispondere a questa domanda, comunque, è necessario leggere il testo del Vaticano I alla luce di Lumen gentium 25, che recita:
«Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo».

Quel «si impone in maniera assoluta», che suona teologicamente molto povero nel nostro italiano, in latino invece esprime la giusta qualificazione teologica della dottrina ordinaria universale ed irreformabile: «[…] in unam sententiam tamquam definitive tenendam conveniunt, doctrinam Christi infallibiliter enuntiant».
Una tale spiegazione era già offerta da uno dei manuali più importanti nell’immediata preparazione al Vaticano II, quello del gesuita J. Salaverri, il quale spiegava la definitività del magistero ordinario universale in questo modo:
«I vescovi insegnano una dottrina da ritenersi come definitiva quando, con il sommo grado della loro autorità, obbligano i fedeli a dare ad essa un assenso irrevocabile».

Crediamo che qui il vero problema dell’analisi di Cantoni consista nell’appoggiarsi a Scheeben che, quantunque autore sicurissimo e validissimo, non ha conosciuto il Vaticano II, concilio con una natura e un fine diversi da Trento e dal Vaticano I, e al p. Betti, sostanzialmente isolato nella sua visione massimalista dei documenti (della Costituzione Lumen gentium) del Vaticano II.
La tesi del “magistero carismatico” non risolve il problema di un magistero a più livelli all’interno dello stesso corpo conciliare, di una nuova forma dell’insegnamento conciliare, di nuove dottrine il cui grado di autorità non è una ricetta fissa, ma va scorto in un lavoro di ricerca della mens conciliare nelle intenzioni dei Padri.

Della complessità del problema se ne era accorto anche l’acuto K. Barth, il quale, tra le varie domande poste a Roma, analizzate egregiamente da Gherardini, chiedeva:
«Il Vaticano II è stato un Concilio di riforma (la cosa è discussa!)? Che cosa significa aggiornamento? Aggiornamento in base ed in vista di che? Si è trattato:
a) del rinnovamento, teoretico pratico, dell’autocoscienza della Chiesa alla luce della Rivelazione che ne costituisce il fondamento? oppure b) del rinnovamento del suo pensiero della sua predicazione, del suo operare oggi alla luce del mondo moderno?».

È ancora difficile rispondere a queste domande. Un Anno della fede però potrebbe essere l’occasione propizia.


Caterina63
00venerdì 30 dicembre 2011 22:13
Interessante risposta di padre Giovanni Cavalcoli O.P. su Riscossa Cristiana:
www.riscossacristiana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1240:xxxxx&catid=61:vita-della-chiesa&It...


Cari Amici,

ho letto l’articolo “Punti fermi” del 31 ottobre scorso. La firma “Dominicus” in una trattazione così sensibile al tema della verità in teologia e nella nostra santissima fede cattolica, con citazioni di autori tomisti, come è il vostro solito, mi ha fatto subito pensare alla mia missione di Figlio di San Domenico, che voi già conoscete e che avete citato altre volte nel vostro Periodico, per cui colgo l’occasione per ringraziarvi nuovamente, da Domenicano docente emerito di teologia a Bologna, che vi segue da molti anni, sin da quanto lavorò, negli anni ’80, in Segreteria di Stato, dove pure arrivava il vostro interessante Bollettino.

Da tempo c’è tra noi una franca discussione su temi importantissimi di attualità ecclesiale, in particolare come interpretare e che valore dare ad alcuni insegnamenti dottrinali del Concilio Vaticano II, i quali presentano una novità rispetto dalla Tradizione e al precedente Magistero della Chiesa, novità la quale fa pensare ad una “rottura” o ad una “contraddizione”, come a dire che il Concilio si sia sbagliato o insegni il falso, in riferimento alla verità immutabile ed irreformabile della dottrina precedente, la quale o è di fede definita (dogma) o comunque, anche se non definita come di fede, è comunque materia di fede. La prima, come sapete bene voi che conoscete l’ermeneutica tradizionale, è de fide credenda o fede divino-teologale, la seconda è de fide tenenda o di fede ecclesiastica.

So bene che voi insistete con molti argomenti tratti dalla Tradizione, dalla Scrittura, dal Magistero precedente e dai teologi, in particolare l’Aquinate, e più recentemente citando le opere di Mons.Gherardini, eminente e dottissimo teologo del quale mi onoro di essere amico, insistete, dicevo, nel sostenere la tesi della “rottura” o della “contraddizione”, cioè mi par di capire, anche se noto in voi un certo pudore o ritrosia nel dirlo, che secondo voi il Concilio contiene delle eresie e quindi con esso i Papi e la Chiesa stessa docente hanno abbandonato il sentiero della verità di fede precedentemente definita, ci stanno guidando per sentieri fuorvianti, hanno tradito la Tradizione ingannandoci con vuote e non dimostrate assicurazioni di “continuità” adducendo il pretesto del “progresso” o “sviluppo” dottrinale che fa piacere ai modernisti, e questo si può capire perché il Concilio stesso ha ceduto al modernismo(1).

Nel contempo però voi vi considerate e volete essere cattolici romani, riconoscendo l’autorità del Papa come Successore di Pietro e Vicario di Cristo, interprete infallibile in ultima istanza della dottrina di Cristo, Maestro al quale si deve obbedienza in materia di fede; riconoscete l’autorità dei Concili ecumenici, nonché la divinità della Chiesa “colonna e fondamento della verità” e luce delle genti.

Ora io mi domando come mettete assieme queste due convinzioni: “il Concilio sbaglia però noi crediamo all’indefettibilità della Chiesa e vogliamo essere cattolici”, anzi è nel nome del nostro essere cattolici fedeli alla Tradizione e al Vangelo che noi diciamo che il Concilio sbaglia in fatto di dogma e di dottrina della fede.

Voi sostenete che con la scusa di una malintesa “pastoralità” il Concilio e i Papi susseguenti in realtà hanno manipolato la dottrina, hanno deviato dalla verità, hanno mutato ciò che non bisognava mutare, vogliono propinarci novità dottrinali che smentiscono ciò che la Chiesa ha sempre, dovunque ed universalmente insegnato in materia di fede.

Il Concilio, voi dite, ci propone una falso concetto di Chiesa, che non è più quello vero precedentemente insegnato. Non è più la “Chiesa di sempre”. Ha falsificato il concetto di Rivelazione. La Messa che ci propone è una Messa mezzo protestante, non è più la “Messa di sempre”. Ci propone una collegialità conciliarista, un ecumenismo che sa di indifferentismo, una “libertà religiosa” che sa di relativismo. Il Concilio è inquinato dagli errori dell’illuminismo, della Rivoluzione Francese, dell’antropocentrismo, del naturalismo, del liberalismo, del panteismo, del protestantesimo, insomma da tutti gli errori della modernità. Ma tutte queste dottrine sono o false o eretiche. Dunque il Magistero conciliare ci insegna delle eresie. Allora la Chiesa non è più lumen gentium e non è più colonna e sostegno della verità?

Ma - voi dite - noi crediamo nell’indefettibilità della Chiesa in quanto soggetto docente, ma non in rapporto all’oggetto insegnato ossia la dottrina. Ma questa è la stessa distinzione dell’eretico Küng, con la differenza, che mentre per lui, storicista com’è, il Magistero è fallibile perché non esiste una verità immutabile, per voi che credete ad una verità immutabile, il Magistero è fallibile perché può allontanarsi da questa verità.

Osservo che non ha senso questa distinzione tra soggetto e oggetto quando si tratta di insegnare verità di fede o connesse alla fede o che riprendono o spiegano o sviluppano verità precedentemente definite o insegnate dalla Scrittura o dalla Tradizione. Qui l’oggetto, ossia l’insegnamento dottrinale è regola del soggetto: il soggetto è indefettibile perché insegna infallibilmente la verità. Nell’oggetto la Chiesa non può sbagliare, altrimenti dovremmo dire che Cristo l’ha ingannata quando le ha promesso di assisterla sino alla fine dei secoli e di condurla alla pienezza della verità.

Voi insistete sul fatto che il Concilio non ha voluto definire nuovi dogmi per negare l’infallibilità delle sue dottrine, ossia, come lasciate intendere ma non avete il coraggio di dirlo apertamente, per concludere che le dottrine del Concilio sono false, sbagliate, eretiche. Questa mancanza di coraggio, “coraggio” che in realtà sarebbe uno scandalo degno di protestanti, o modernisti, è quello che in qualche modo vi salva. Ma ciò non impedisce di lasciar intravedere la vostra falsa convinzione. Non vi rendete conto infatti che nel vostro ragionare qualcosa non va? Il Magistero della Chiesa in fatto di fede è infallibile o è fallibile? Dovete scegliere.

E’ qui che si vede se siete veramente cattolici oppure criptoprotestanti o, nonostante la vostra intenzione contraria, criptomodernisti. Ma almeno i modernisti sono coerenti: essi per principio hanno una gnoseologia relativista ed evoluzionista. Ma come fate, voi tomisti che vi dichiarate per l’esistenza di una verità immutabile e certa e tutto sommato vedete la Chiesa come maestra della verità, come fate poi a finire con protestanti e i modernisti col dire che la Chiesa in fatto di dottrina della fede può sbagliare?

Il Magistero non è infallibile soltanto quando proclama o definisce un dogma, ma anche quando semplicemente insegna una verità di fede o prossima alla fede senza dichiarare di voler definire. Basta che si tratti di materia di fede, come è il caso delle nuove dottrine conciliari. E’ questo l’insegnamento che risulta dall’Istruzione Ad tuendam fidem, che voi certamente conoscete. Del resto, quando voi negate l’infallibilità, certo con ciò non identificate sic et simpliciter il fallibile con l’attualmente falso. Eppure non escludete il poter sbagliare, non negate che in futuro ciò cheoggi è insegnato diventi falso o si mostri falso.

Ora ciò contrasta con la missione divina di insegnamento del Vangelo affidata da Cristo alla Chiesa. Dunque negare l’infallibilità del Magistero è contro la fede e quindi è eresia. Nel momento in cui voi accusate, magari velatamente, il Concilio di essere caduto nell’eresia, non vi accorgete di esserci caduti voi stessi.

Se la Chiesa non può che essere infallibile nella dottrina (definita o non definita), può sbagliare nella pastorale. E su questo punto è consentito criticare il Concilio. Per esempio esso ha un atteggiamento troppo ottimista nei confronti del mondo moderno ed è troppo vago ed indulgente nel condannare e confutare gli errori. Il suo linguaggio manca di forma giuridica, è a volte impreciso ed equivoco e si presta ad interpretazioni moderniste. Ma il modernismo è un’eresia e quindi non ha senso accusare il Concilio di eresia. Bisogna interpretarlo in linea con la Tradizione.

Tali errori o imprudenze, poi, invece di esser stato corretti nel postconcilio, sono stati ulteriormente peggiorati, sino a giungere alla situazione attuale nella quale circolano liberamente eresie di ogni genere senza che intervenga nessuno. Io ho bensì scritto un libro per trattare di questo grave problema pastorale, che mi permetto di segnalarvi: La questione dell’eresia oggi, Edizioni Vivere In, Monopoli (BA), 2008.

Voi dite che oggi la situazione è disastrosa, il modernismo è imperante, l’eresia dilaga, gli ortodossi sono emarginati, i pastori non intervengono o addirittura vanno fuori strada e quindi danno scandalo. Tutto ciò è vero, ma voi cosa fate per rimediare questa situazione? Certo la fede nell’indefettibilità della Chiesa va bene, ma la Chiesa è indefettibile innanzitutto nell’insegnare la verità.

La fiducia in Maria Ss.ma va benissimo, ma Maria, Madre della Verità e del Fondatore della Chiesa, desidera da voi che accogliate docilmente e fiduciosamente non solo il Magistero preconciliare ma anche quello postconciliare, sforzandovi di vedere la continuità e vedendo in esso una migliore conoscenza della Parola di Dio.

Per rimediare a questa situazione la strada è precisamente la retta interpretazione e l’applicazione del Concilio, come vanno dicendo i Pontefici da cinquant’anni. Il problema è che Roma stenta ad intervenire per correggere le deviazioni perché non ha l’appoggio dell’episcopato.

Il modernismo è effettivamente diffuso e trova il suo massimo esponente in Karl Rahner(2). Ma il modernismo può essere sconfitto non col tornare indietro, ma con un sano richiamo alla Tradizione e proprio applicando il Concilio che ci insegna una sana modernità. Siamo infatti cristiani del sec.XXI e non del ‘800 o del ‘500 o del medioevo.

Chiediamo semmai al Santo Padre che ci spieghi, ci chiarisca, o ci interpreti in modo definitivo, inequivocabile e preciso i punti controversi, dove hanno buon gioco i modernisti, ma facciamolo con fiducia non partendo dalla falsa convinzione che in realtà la continuità non c’è.

E’ vero che la continuità va dimostrata, ma è assolutamente indimostrabile che la continuità non c’è. Se ci pare che non ci sia la continuità non è perché essa oggettivamente non c’è, ma è perché siamo noi, soggettivamente, che non capiamo. Altrimenti, lo ripeto ancora una volta, dovremmo concludere che Cristo ci ha ingannati. Vogliamo giungere a questa conclusione? Vogliamo noi correggere la Chiesa che è uscita dalla verità? Ma allora chi è infallibile? La Chiesa o lo siamo noi?

Un fraterno saluto

P.Giovanni Cavalcoli,OP




Santo Natale 2011




NOTE

1) Come saprete io, col Papa, sono sostenitore della continuità e credo di poterla dimostrare nel mio recente libro Progresso nella continuità. La questione del Concilio Vaticano II e del postconcilio, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2011.

2) Mi permetto di segnalare la mia critica a rahner contenuta nel libro Karl Rahner. Il Concilio traditio, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009




[SM=g1740771]

Risposta a Padre Cavalcoli, da parte di “Sì si no no”.

Su Riscossa Cristiana è apparsa, nei giorni scorsi, una Lettera Aperta di Padre Giovanni Cavalcoli al periodico antimodernista “Sì sì no no ”. Ricevo da “Sì sì no no”  la risposta a questa lettera e aderisco volentieri alla richiesta di pubblicarla.


Reverendo Padre Giovanni Cavalcoli, rispondiamo volentieri alla sua lettera inviataci per il Santo Natale 2011.

Il Concilio Vaticano II non ha voluto “definire ed obbligare a credere” (cfr. Concilio Vaticano I, DB 1800)[1]  e quindi non ha voluto impegnare l’infallibilità, perciò può essere fallibile. La Chiesa è indefettibile e Dio non permette che nel suo insegnamento dogmatico o infallibilmente assistito vi possano essere errori(2) .

Il soggetto Chiesa è sempre uno, Ella è e sarà sempre “colonna e sostegno di verità”, anche se l’oggetto o dottrina da Lei insegnata può essere molteplice quanto al ‘modo’ e alla ‘materia’. Ora il Concilio Vaticano II è “pastorale” (come hanno detto esplicitamente papa GIOVANNI XXIII e papa PAOLO VI(3), diversamente da certi teologi, i quali non sono la Chiesa docente e che invece lo dogmatizzano). Quindi la dottrina del Vaticano II è diversa quanto al ‘modo’ da quella dei XX Concili precedenti ed in alcuni casi se ne allontana anche quanto alla ‘sostanza’. 

Noi crediamo all’indefettibilità del soggetto Chiesa ed anche all’infallibilità della dottrina insegnata da Essa, ma alle condizioni poste dal Concilio Vaticano I, non a quelle poste dai teologi. Ora la volontà di definire una dottrina come divinamente rivelata e di obbligare i fedeli a crederla di Fede per la salvezza eterna è insegnata infallibilmente dal Concilio Vaticano I (DB, 1800). 

Quando la Chiesa insegna verità di Fede il Soggetto insegnante e l’Oggetto insegnato sono divinamente e infallibilmente assistiti. Su questo non abbiamo mai avuto nessun dubbio. Come lei scrive giustamente nella sua lettera in questione “l’oggetto insegnato di Fede è regola del soggetto Chiesa”. Quindi il Magistero non è un Assoluto e deve trasmettere la dottrina rivelata da Dio, senza cambiarla. La Rivelazione è la regola del Magistero. Mentre lei, Reverendo Padre, tende a fare del Magistero anche non infallibilmente assistito un Assoluto, indipendente dalla Fede. 

Quando, alcune linee dopo, lei scrive che “negare l’infallibilità del Magistero è contro la Fede e quindi eretico”, contraddice quel che ha scritto sopra e che abbiamo appena citato e non completa la definizione del Magistero infallibile. Secondo il Vaticano I la volontà di definire e di obbligare a credere è necessaria per l’assistenza infallibile da parte di Dio al Magistero (DB, 1800). Lei in alcuni casi tende a sostituirsi, in buona fede, al Magistero e scomunica o dichiara eretico a destra e a manca, promulgando nuove definizioni dogmatiche in rottura con quelle della Chiesa. 

Cristo non ha ingannato la Chiesa quando Le ha promesso di assisterla “sino alla fine del mondo”, ma vi sono vari tipi di assistenza e non tutti sono infallibili. 

Alcune dottrine del Concilio Vaticano II ci sembrano erronee, ma la parola ultima autoritativamente spetta alla Chiesa docente, non a noi e nemmeno a lei. 

Infine lei scrive: “è assolutamente indimostrabile che la continuità non c’è”. Per cortesia ci spieghi - senza negare il principio di non contraddizione - dove sta la continuità tra la Fede cattolica e l’insegnamento del Concilio Vaticano II e del post-concilio nei seguenti quattro punti: 
  1. Gaudium et spes n° 12: «tutte le cose che esistono su questa terra sono ordinate e finalizzate all’uomo come al loro centro e fine», si potrebbe intendere questa pericope in maniera ortodossa, qualora tutte le cose inanimate, vegetali ed animali fossero ordinate all’uomo e questi a Dio, ma Gaudium et spes n° 24 specifica che «L’uomo su questa terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa (propter seipsam)». [su questo blog se ne parla qui -ndR]. Questo errore va letto alla luce del pancristismo teilhardiano di Gaudium et spes n° 22  [su questo blog se ne parla qui -ndR] : «per il fatto stesso che il Verbo si è incarnato ha unito a Sé ogni uomo». Si badi bene: ogni uomo non ogni natura umana. 
  2. Durante “l’omelia nella 9a Sessione del Concilio Vaticano II”, il 7 dicembre del 1965, PAPA MONTINI giunse a proclamare: «la religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Tale poteva essere; ma non è avvenuto. […]. Una simpatia immensa verso ogni uomo e non verso la natura umana, ha pervaso tutto il Concilio. Dategli merito almeno in questo, voi umanisti moderni, che rifiutate le verità, le quali trascendono la natura delle cose terrestri, e riconoscete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, più di tutti, abbiamo il culto dell’uomo»(4) . Attenzione! “Tutto il Concilio”, dice Paolo VI, non il solo ‘spirito del Concilio’, non la sola ermeneutica radicale della rottura con la Tradizione cattolica. Ora l’interpretazione ‘autentica’ del Concilio Vaticano II la dà papa Paolo VI e non Tizio, Caio o Sempronio o don Cantone e neppure io. Inoltre Paolo VI chiama a “dar merito” a “tutto il Concilio” di questa “religione dell’uomo che si fa Dio” con le sole sue forze e senza il dono gratuito della grazia santificante gli “umanisti moderni”, cioè gli atei i quali “rifiutano le verità” di Fede soprannaturale, che trascendono l’umana ragione. Ma se “tutto il Concilio”, e non la sua interpretazione azzardata o il suo ‘spirito’, può e deve piacere agli atei o panteisti, non può piacere ai cristiani, che credono alle verità soprannaturali rivelate da Dio e distinguono la creatura dal Creatore. Come si evince da ciò che ha detto Paolo VI è il testo stesso del Concilio che è in rottura con la Fede cattolica e come tale non può essere accettato. Il cuore del “problema dell’ora presente” è propriamente la velleità di conciliare l’inconciliabile: teocentrismo e antropocentrismo, Messa romana e ‘Novus Ordo Missae’, Tradizione divino-apostolica e Vaticano II. 
  3. KAROL WOJTYLA nel 1976 da cardinale, predicando un ritiro spirituale a Paolo VI e ai suoi collaboratori, pubblicato in italiano sotto il titolo Segno di contraddizione. Meditazioni, (Milano, Gribaudi, 1977), inizia la meditazione “Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo” (cap. XII, pp. 114-122) con Gaudium et spes n.° 22 [su questo blog se ne parla qui -ndR] e asserisce: «il testo conciliare, applicando a sua volta la categoria del mistero all’uomo, spiega il carattere antropologico o perfino antropocentrico della Rivelazione offerta agli uomini in Cristo. Questa Rivelazione è concentrata sull’uomo […]. Il Figlio di Dio, attraverso la sua Incarnazione, si è unito ad ogni uomo, è diventato - come Uomo - uno di noi. […]. Ecco i punti centrali ai quali si potrebbe ridurre l’insegnamento conciliare sull’uomo e sul suo mistero» (pp. 115-116). In breve questo è il succo concentrato dei testi del Vaticano II: culto dell’uomo, panteismo e antropocentrismo idolatrico. Non lo dico io, ma Karol Wojtyla, alla luce di Paolo VI e del Concilio pastorale da lui ultimato, ossia gli interpreti ‘autentici’ del Vaticano II. Karol Wojtyla parla di uomo e non di natura umana. 
  4. Giovanni Paolo II afferma nella sua prima enciclica (del 1979) ‘Redemptor hominis’ n° 9: «Dio in Lui [Cristo] si avvicina ad ogni uomo dandogli il tre volte Santo Spirito di Verità» ed ancora ‘Redemptor hominis’ n° 11: «La dignità che ogni uomo ha raggiunto in Cristo: è questa la dignità dell’adozione divina». Sempre in ‘Redemptor hominis’ n° 13: «non si tratta dell’uomo astratto, ma reale concreto storico, si tratta di ciascun uomo, perché […] con ognuno Cristo si è unito per sempre […]. l’uomo – senza eccezione alcuna – è stato redento da Cristo, perché, con l’uomo – ciascun uomo senza eccezione alcuna – Cristo è in qualche modo unito, anche quando l’uomo non è di ciò consapevole […] mistero [della redenzione] del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre». Nella sua seconda enciclica (del 1980) “Dives in misericordia” n.° 1 Giovanni Paolo II afferma: «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e persino a contrapporre il teocentrismo con l’antropocentrismo, la Chiesa [conciliare, ndr] […] cerca di congiungerli […] in maniera organica e profonda. E questo è uno dei punti fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio». Nella sua terza enciclica (del 1986) Giovanni Paolo II in ‘Dominum et vivificantem’ n° 50 scrive: «Et Verbum caro factum est. Il Verbo si è unito ad ogni carne [creatura], specialmente all’uomo, questa è la portata cosmica della redenzione. Dio è immanente al mondo e lo vivifica dal di dentro. […] l’Incarnazione del Figlio di Dio significa l’assunzione all’unità con Dio, non solo della natura umana ma in essa, in un certo senso, di tutto ciò che è carne: di… tutto il mondo visibile e materiale […]. il Generato prima di ogni creatura, incarnandosi… si unisce, in qualche modo con l’intera realtà dell’uomo […] ed in essa con ogni carne, con tutta la creazione».
Con i migliori auguri di un felice anno nuovo ricco di ogni grazia.
sì sì no no 
______________________
NOTE
1) Cfr. Cipriano Vagaggini, voce “Dogma”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1950, vol. IV, col. 1792-1804; Giacinto Ameri, voce “Definizione dogmatica”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1950, vol. IV, coll. 1306-1307.
2) Tutto quanto è scritto in questa risposta era stato spiegato con le precise citazioni del Magistero in “sì sì no no”, per non appesantire la risposta rinviamo il lettore alla rilettura dei nostri articoli.
3) Citati da noi in “sì sì no no”.
4) Enchiridion Vaticanum. Documento del Concilio Vaticano II. Testo ufficiale e traduzione italiana, Bologna, Edizioni Dehoniane Bologna, 9a ed., 1971, Discorsi e messaggi, pp. [282-283].


Caterina63
00martedì 3 gennaio 2012 10:23

Tutto il Vaticano II in un bloc-notes. Il diario del gesuita Sebastian Tromp (Agostino Marchetto)

Il diario del gesuita Sebastian Tromp

Tutto il Vaticano II in un bloc-notes

di AGOSTINO MARCHETTO

L'Editrice Bautz ha pubblicato l'ultima parte del diario conciliare del gesuita Sebastian Tromp, segretario della Commissione De fide et moribus del concilio Vaticano II; curato dalla solerte e capace Alexandra von Teuffenbach in due tomi, e con l'aggiunta di interessanti documenti ad esso connessi (Konzilstagebuch mit Erlaeuterungen und Akten aus der Arbeit der theologischen Kommission. II Vatikanischen Konzil Nordhausen, Bautz Verlag, 2011, Band 2/1 e 2/2, 1962-1963, pagine 1279).

La curatrice aggiunge note, commenti e indici molto utili per comprendere che sia successo durante la prima sessione conciliare, con nuovi testi, ma anche in continuità con quelli in precedenza preparati, grazie soprattutto alla Commissione di coordinamento conciliare. Non mancano pure riferimenti ad altri diari di personaggi impegnati in concilio (da monsignor Gérard Philips a Henri de Lubac). Oltre ai testi in latino, il libro, per il primo volume di questo secondo tomo, offre la loro versione in tedesco a opera di Bruno Wegener; vi è inoltre riferimento da parte della von Teuffenbach alle Congregazioni generali del sinodo. L'immagine che si ha dalla attenta lettura dell'opera è impressionante e la mole di lavoro a cui si sottomise il padre Tromp si può ben dire titanica e compiuta con grande precisione, anche tenendo in conto i due volumi precedenti sullo stesso argomento (che chi scrive ha presentato in forma più estesa in "Apollinaris" LXXXI, 2008, n. 3-4, pp. 1043-45).

L'ultimo documento qui riportato è una lettera di monsignor Pericle Felici al cardinale Alfredo Ottaviani (non si danno i riferimenti delle pagine in cui appare il suo nome poiché è presente in quasi tutte), del 16 settembre 1963, nella quale gli si chiede di designare il relatore per la Congregazione del 30 settembre affinché illustri lo schema de Ecclesia e le proposte di modifica al testo già avanzate per iscritto dai padri conciliari. Lo ricordo al lettore poiché ciò indica lo sbocco del lavoro di Tromp, i cui sentimenti e giudizi nel travaglio sinodale ben risultano dal diario prima che altri (monsignor Philips, sostanzialmente) prendano le redini della stesura di testi da sottoporre all'assemblea dei Padri.

Per poter apprezzare l'opera come contributo alla storia del Vaticano II rileviamo alcuni elementi tratti dal primo volume, scritti, giudizi e avvenimenti, a un tempo, iniziando col segnalare il fiorire, insperato per Tromp, di nuovi schemi de Ecclesia e soprattutto il dialogo con Philips.

In contemporanea affiora anche la direttiva di migliorare quanto preparato, che vigerà nonostante tutto. Del resto lo stesso cardinale Leo Joseph Suenens affermò, per informazione di Philips, che il 60 per cento del "nuovo" de Ecclesia, da lui in gran parte approntato, proveniva dal testo iniziale. Spicca comunque a questo riguardo un'espressione di monsignor Gabriel-Marie Garrone, riportata, che attesta il suo non essere "servo dello schema" e il suo agire "affinché esso serva al Concilio".
Il procedere del documento è ben descritto da Tromp, con menzione anche di quelli tedesco e cileno. Sia in relazione al de Ecclesia che per il documento de laicis, Tromp fornisce nel suo diario utili elementi circa la Commissione mista concernente il laicato; vi risulta una buona intesa. Pure per il de Religiosis, sia per l'inserimento di un apposito capitolo nel de Ecclesia che per un documento a sé stante, il diario fornisce notizie e spunti per la comprensione delle difficoltà che sorsero specialmente per una conclusione ex abrupto descritta da Tromp rispetto a quella regolare; in ogni caso è riportato un giudizio di insoddisfazione di Papa Paolo VI sul capitolo de Laicis.
Sempre con legame al de Ecclesia, in prospettiva futura certamente, rilevo l'edizione segnalata dello schema dal titolo in questo caso, de B.M.V. matre Ecclesiae, il 6 maggio 1963.

Il diario è ricco di notizie anche sul formarsi di quella che sarà, alla fine, la costituzione pastorale Gaudium et spes, per la quale opera un'altra commissione mista composta da membri di quelle Dottrinale e dei Laici chiamata de ordine sociali et internationali. Dalla trattazione risulta evidente il crescere del ruolo di monsignor Garrone nel procedere dello schema. In effetti su di lui, in seguito, punterà Paolo VI per la realizzazione del, particolarmente "suo", progetto contro venti e maree. Tromp nel suo diario riassume anche qualche intervento dei padri; cita ad esempio monsignor Guerry: il "modo di parlare pastorale in nessun modo va contro la dottrina. Non vi può essere [infatti] opposizione tra essa e la pastorale. Non si tratta di dottrina, ma del modo di presentarla"; nella stessa linea va anche il desiderio di Papa Giovanni affinché lo schema de Deposito sia accorciato. Largo spazio è dato da Tromp allo schema De fontibus Revelationis, alla relativa votazione e decisione pontificia di istituire una Commissione mista speciale per la sua revisione e all'emergere della questione relativa al rapporto Scrittura-Tradizione.

In ogni caso il Papa indicò alcuni principi per l'opera di emendamento prevista e scelse lui i cardinali membri di tale commissione. Intanto a monsignor Garrone fu affidata la stesura di un proemio; l'opera di "emendamento, abbreviazione e perfezionamento" proseguì tra alterne vicende.

Un altro tema di grande interesse è certamente il procedere del de Oecumenismo. Nel diario di Tromp appare subito evidente la difficoltà della reductio ad unum dei tre schemi iniziali sullo stesso tema, pur con le caratteristiche proprie a ciascuno, su cui "impera" il segretario di Stato, Cicognani, che riesce a mantenere uno schema a parte per le Chiese Orientali e ciò in fatto di ecumenismo (cosa di cui Tromp si meraviglia). In tale contesto possiamo ricordare i riflessi, nel diario, della questione sulla libertà religiosa, con attenzione alla relativa Commissione mista e l'affiorare della tensione a proposito del de Judeis, inserito dal cardinale Augustin Bea nello schema del de Oecumenismo, in consulta Comm. Doctrinali.

Da tutto il diario comunque si può avere conferma del fondamentale ruolo per il destino del Concilio avuto dalla commissione di coordinamento, presieduta dal segretario di Stato, fin dalla sua istituzione. Ruolo di rilievo e positivo hanno avuto anche le Commissioni miste, che certamente rendevano più difficile e lungo il procedere sinodale ma bloccarono l'egemonia iniziale della commissione de Doctrina fidei. Comunque esse hanno obbligato le due anime, diciamo così, del cattolicesimo (di fedeltà alla Tradizione e di rinnovamento) a dialogare, anticipandosi in tali commissioni quanto risulterà infine dai testi conciliari. Per la linea generale di andamento sinodale, Tromp ricorda i nuovi indirizzi di Paolo VI, dopo un cenno di giudizio su Giovanni XXIII. Egli peraltro, a poco a poco, rivela nel suo diario segni di stanchezza, di infermità e di declino. Ma rimane uomo di valore e instancabile; questi suoi scritti lo confermano. A conclusione dell'analisi del primo volume qui recensito, bisogna ricordare un significativo cambio fra i periti impegnati nel de Ecclesia e cioè la sostituzione di Daniélou con il Congar, per volontà del primo, che voleva dedicarsi anima e corpo a quello che finalmente sarà la Gaudium et spes.Il secondo volume ci conferma nel vivo apprezzamento del lavoro di Tromp e anche della curatrice dell'opera, Alexandra von Teuffenbach.

Non vi è qui peraltro traduzione in tedesco dei testi latini che occupano ben 728 pagine; questo fa comprendere, in parte almeno, perché un tale tesoro di fonte non sia stato finora sfruttato a dovere. Tromp conferma il ruolo fondamentale della Commissione di coordinamento, i cui documenti sono stati pubblicati per ultimi da monsignor Vincenzo Carbone (cfr. Agostino Marchetto, Contrappunto, del 2005, p. 339-346, che peraltro presentano gli Acta ufficiali della Segreteria generale del Concilio).
Nel riprodurre i documenti di Tromp la von Teuffenbach rivela l'obiettività dell'autore; più che un diario, è quasi una cronaca ufficiale, fino alla segnalazione di ore e minuti, e testimonia la crescente importanza del ruolo dei periti sinodali.

Vi si trovano comunque, nei limiti di tempo della prima sessione conciliare, tutti i documenti aventi un qualche legame con la commissione teologica (anche per le commissioni miste, dunque). La von Teuffenbach aggiunge poi altri documenti utili per la conoscenza del lavoro della commissione teologica.
Il volume inizia con il quaderno protocollo che elenca tutte le sessioni, di qualsiasi genere, nel caso fosse implicata la commissione in parola, e delle relative sottocommissioni, con notizie storiche. Sono 10 pagine di opera certosina sia per l'autore che per la curatrice, seguite da altre riguardanti le sottocommissioni: 41 pagine impressionanti, a cui seguono 207 di relazioni varie sulle riunioni già citate e molto altro.
Di particolare interesse risultano, con "il senno di poi", le discussioni sul de Ecclesia, circa la sua "qualifica teologica" e l'apparizione di nuovi schemi prima ancora della discussione di quello preparato d'inizio, per il quale si riportano le critiche generali sui vari capitoli, sulla riformulazione del de Fontibus, specialmente circa la relazione Scrittura-Tradizione, sul dialogo per la emendazione del de Ecclesia e molto chiarificatore sul modo di procedere in commissione - e che rivela l'acume della discussione teologica e il suo ottimo livello - sul procedere del lavoro della nuova redazione su quello che sarà il testo della Gaudium et spes, sui "consigli evangelici" sui laici, sull'ecumenismo, sulla situazione generale degli schemi, su quello de Beata Virgine Maria. Dopo le Relazioni sono pubblicati documenti di interesse di vario genere, tra cui scritti di Tromp sul de Revelatione, su diritto e coscienza (un articolo duro, che "L'Osservatore Romano" dell'epoca rifiuta) e sulla Lumen gentium.

Segue una lista delle presenze a varie riunioni, una relazione sul procedere della questione Scrittura-Tradizione, con protesta di Ottaviani per una importante decisione presa in sua assenza, e le lagnanze di Tromp circa il "nuovo" testo de divina Revelatione, nonché le sue preoccupazioni per l'indifferentismo religioso che si sta propagando "orribilmente".

In seguito sono pubblicate alcune carte di Tromp con liste di periti e presenze alle riunioni sull'ecumenismo e un memorandum circa l'elaborazione degli schemi, "fotografati" il 25 giugno 1963, con significativo rimprovero finale a chi ha "semplicemente" ignorato, prima della distribuzione, nel mese di maggio, dello schema de Oecumenismo, la Commissione dottrinale, i cui membri pur facevano parte della relativa Commissione mista (sarebbe mancato, cioè, il controllo dottrinale del tema). Il secondo volume, in cui si pubblica una serie di missive utile a una maggior comprensione delle cose, con la prima in data 18 ottobre 1962 e l'ultima del 16 settembre 1963, si chiude con l'indice dei nomi, brevi biografie dei personaggi citati, i rimandi al primo volume e l'indice generale.

(©L'Osservatore Romano 2-3 gennaio 2012)

[SM=g1740771]

Caterina63
00venerdì 20 gennaio 2012 11:59
[SM=g1740733] invitandovi a leggere questo link: Communionis Notio dell'allora cardinale Ratzinger , aggiorniamoci con quanto segue:

Benedetto XVI, il Riformatore

È la "riforma", dice, la chiave di interpretazione del Concilio Vaticano II e dell'evoluzione del magistero, "nella continuità del soggetto Chiesa". È ciò che Lefebvre e i tradizionalisti non hanno mai voluto accettare. Gilles Routhier ricostruisce il passato e il presente della controversia

di Sandro Magister





ROMA, 19 gennaio 2012 – Nell'indire un Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Concilio Vaticano II, Benedetto XVI è tornato a insistere sulla necessità di una "giusta ermeneutica" di quell'evento.

La corretta comprensione del Concilio – precisano le istruzioni per l'Anno della fede – non è la cosiddetta "ermeneutica della discontinuità e della rottura", ma quella che lo stesso Benedetto XVI ha definito "l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa".

La definizione è ripresa dal memorabile discorso tenuto dal papa alla curia romana il 22 dicembre 2005. Discorso che fu interpretato all'epoca come prevalentemente diretto a confutare la concezione progressista del Vaticano II come rottura col passato e "nuovo inizio" per la Chiesa.

In realtà, quel discorso – specie nel suo sviluppo finale sul tema della libertà religiosa – aveva come sfondo principale un'altra corrente di pensiero e di azione, quella tradizionalista, e in particolare il seguito del vescovo scismatico Marcel Lefebvre (nella foto).

Joseph Ratzinger conosce a fondo i lefebvriani. Da cardinale prefetto della congregazione per la dottrina della fede aveva negoziato e discusso con loro per anni. E da papa ha impegnato molte energie per riconciliarli con la Chiesa.

Un autorevole storico della Chiesa italiano, Giovanni Miccoli, in un recente volume dal titolo "La Chiesa dell'anticoncilio", edito da Laterza, accusa Benedetto XVI di condividere con i lefebvriani una buona parte delle loro tesi di opposizione al Vaticano II.

Ma è così? Un altro storico della Chiesa e teologo, il canadese Gilles Routhier, professore all'Università di Laval, Québec, e autore di un libro sulla recezione e l'ermeneutica del Concilio tradotto in Italia dall'editrice Vita & Pensiero dell'Università Cattolica di Milano, non è d'accordo.

Su "La Rivista del Clero Italiano", edita anch'essa da Vita & Pensiero, Routhier ha ripercorso, in un ampio saggio in due puntate, l'intero tragitto della controversia tra Roma e i lefebvriani. Ne ha analizzato gli avvicinamenti, le rotture, i cambiamenti di linea. Per concludere che sia l'ermeneutica "della discontinuità e della rottura", sia quella "della continuità", propugnate entrambe a fasi alterne dai lefebvriani e da altre correnti tradizionaliste, restano invincibilmente distanti dall'ermeneutica "della riforma" proposta da Benedetto XVI, con la sua concezione dinamica della tradizione.

Ecco qui di seguito un estratto del saggio di Routhier, con sottotitoli redazionali.

Il testo integrale è nel sito de "La Rivista del Clero Italiano", sui numeri 11 e 12 del 2011:

> Sull'interpretazione del Vaticano II - I

> Sull'interpretazione del Vaticano II - II


__________



SULL'INTERPRETAZIONE DEL VATICANO II

L'ERMENEUTICA DELLA RIFORMA, COMPITO PER LA TEOLOGIA

di Gilles Routhier



Per diversi anni, l’ermeneutica del Concilio Vaticano II non sembrava un problema. Erano tutti pienamente d’accordo nel dire che il Vaticano II introduceva una novità nella tradizione cattolica, almeno nella tradizione recente: novità di stile e novità sul piano del contenuto dell’insegnamento della Chiesa. [...]

Il contenzioso riguardava allora solo un punto: si poteva considerare il Concilio il superamento dell’esperienza storica del cattolicesimo della Controriforma che aveva segnato l’Occidente moderno? In altri termini, era permesso e pensabile l’emergere di una nuova figura storica del cattolicesimo?

Su tale questione, le risposte divergevano radicalmente. Per i tradizionalisti, [...] l’insegnamento del Vaticano II rompeva, a parer loro, con la tradizione e perciò bisognava opporre una fedeltà senza falle alle forme che il cattolicesimo aveva conosciuto nei secoli XVII, XVIII e XIX. [...]

È così, per esempio, che si interpreta la riforma liturgica nella lettera che accompagna il "Breve esame critico del Novus Ordo Missae" indirizzato a Paolo VI dai cardinali Ottaviani e Bacci, il 25 settembre 1969. In tale documento si osserva che "il nuovo Ordo Missae, se si considerano gli elementi nuovi, si allontana in modo impressionante, nell’insieme come nei dettagli, dalla teologia della santa messa, quale è stata formulata nella XX sessione del Concilio di Trento". [...]

Il fatto che il Vaticano II appaia come una rottura nella tradizione è un leitmotiv nella letteratura tradizionalista. [...] Lo si trova chiaramente in un testo di mons. Marcel Lefebvre datato 21 novembre 1974, testo di rara violenza, pubblicato solo pochi giorni dopo la visita apostolica ordinata dalla commissione di cardinali istituita da Paolo VI per trattare il problema posto dalla Fraternità San Pio X, testo che prelude alla prima rottura, rappresentata dalla sospensione a divinis che interverrà il 22 luglio 1976. [...]




[SM=g1740771] continua......


Caterina63
00venerdì 20 gennaio 2012 12:01
DALLA ROTTURA ALLA CONTINUITÀ


L’ermeneutica della rottura praticata largamente nel campo tradizionalista, soprattutto a partire dal 1974 e in modo ancor più radicale dopo il 1976, doveva tuttavia essere rivista dallo stesso mons. Lefebvre.

In effetti, poco tempo dopo l’inaugurazione del pontificato di Giovanni Paolo II, sperando nella possibilità di un accordo con il nuovo papa che gli sembrava esprimere un giudizio simile al suo sul comunismo, Lefebvre fece nuovi passi presso il Vaticano.

I contatti iniziarono appena un mese dopo l’elezione del nuovo papa avvenuta il 16 ottobre 1978. Già il 18 novembre egli riceveva mons. Lefebvre. [...] La prima fase del negoziato va dal 30 novembre 1978 al 19 febbraio 1981. [...] Culmina con l’invio di un progetto di accordo proposto da mons. Lefebvre a Giovanni Paolo II, il 16 ottobre 1980, e il rifiuto di tale progetto nella sua forma iniziale. In tale progetto, mons. Lefebvre scriveva di essere disposto ad accettare "il Concilio alla luce della tradizione".

Per quanto ne so, si tratta del primissimo tentativo di compromesso da parte dei tradizionalisti fondato su un approccio ermeneutico radicalmente diverso da quello che avevano praticato fino ad allora in merito al Concilio. [...]

In effetti, dal Vaticano II in poi, mons. Lefebvre si era impegnato a dimostrare che l’insegnamento del Vaticano II era in rottura con la tradizione. Da lì in avanti vorrà invece mostrare che, interpretato "alla luce di tutta la santa tradizione", esso non rappresenta alcuna novità. In questo caso, non è più il Concilio a interpretare i documenti pontifici precedenti, il cui livello di autorità è inferiore, ma sono questi documenti a interpretare il Concilio e a determinar la portata del suo insegnamento. [...]


MA C'È CHI OPTA PER LA "SEDE VACANTE"


L’apertura di mons. Lefebvre a discussioni con il Vaticano produsse turbamento all’interno del gruppo tradizionalista, che fu allora percorso da vivaci tensioni. [...] La strategia di dialogo e di riconciliazione elaborata da mons. Lefebvre e fondata su un nuovo approccio ermeneutico al Concilio, un'ermeneutica della continuità intesa a modo suo, [...] non poteva essere accettata dai più radicali, come il domenicano Michel Louis Guérard des Lauriers, già professore al Laterano e uno dei principali estensori del "Breve esame critico del Novus Ordo Missae" indirizzato a Paolo VI dai cardinali Ottaviani e Bacci, che, fino ad allora, era stato strettamente legato a mons. Lefebvre.

Durante questo periodo di negoziato tra Roma e mons. Lefebvre, des Lauriers formulò per la prima volta la tesi "sedevacantista" che era destinata a un florido avvenire. Consacrato vescovo nel 1981 dall’ex arcivescovo di Hué, in modo da assicurare la continuità della successione apostolica, egli traccia, in una intervista, la linea di demarcazione tra lui e mons. Lefebvre. [...] Per i sedevacantisti, si deve continuare a interpretare il Concilio e le riforme post-conciliari come atti di rottura rispetto alla tradizione, seguendo una stretta ermeneutica della discontinuità. Per loro, in effetti, la rottura è netta in quanto, stando alla loro tesi, a partire dall’elezione di Roncalli i papi sono privi dell’autorità pontificia perché sono papi solo "materialiter" e non "formaliter". Per loro – come per il movimento statunitense "True Catholic Church", che ha promosso un nuovo conclave nel 1998 eleggendo Earl Pulvermacher, ex discepolo di mons. Lefebvre, con il nome di Pio XIII – dal Vaticano II in poi esiste una nuova Chiesa, una Chiesa modernista, che non è più in linea con la tradizione e la successione apostolica.


ENTRA IN CAMPO RATZINGER


Se persone vicine a mons. Lefebvre hanno proseguito il cammino dell’interpretazione del Concilio come momento di rottura, egli invece, come abbiamo visto, ha mantenuto durante questo periodo un’ambivalenza, rifiutando da una parte il Vaticano II, [...] ma d’altra parte sperando in un riavvicinamento la cui condizione era l’accettazione del Concilio alla luce della tradizione, intesa a modo suo.

Una seconda fase di negoziato si ebbe tra il 1981 e il 1987, e di essa si fece carico il nuovo prefetto della congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger. [...]

Nella prima lettera inviata a mons. Lefebvre il 23 dicembre 1982, il cardinale Ratzinger gli annunciava che il papa era pronto a nominare un visitatore apostolico per la Fraternità San Pio X a condizione che egli firmasse una dichiarazione in quattro punti.

Il primo punto si riferiva all’interpretazione del Vaticano II. La congregazione per la dottrina della fede sottoponeva a mons. Lefebvre un testo preciso che, essendo "stato studiato a lungo da parte della Sede Apostolica", non poteva essere oggetto di modifiche da parte di mons. Lefebvre. [...]

Nella sua parte essenziale il testo riprendeva la "Declaratio" proposta da mons. Lefebvre due anni prima. [...] Ma nella sua risposta, inviata a papa Giovanni Paolo II il 5 aprile 1983, Lefebvre avrebbe rifiutato di firmare la dichiarazione. [...] Oltre a esigere la riforma del nuovo "Ordo Missae", in modo da renderlo conforme alla dottrina cattolica, e a reclamare il permesso di celebrare la messa secondo i libri liturgici promulgati da Giovanni XXIII nel 1962, chiedeva "una riforma delle affermazioni o espressioni del Concilio che sono contrarie al magistero ufficiale della Chiesa, specialmente nella dichiarazione sulla libertà religiosa, nella dichiarazione sulla Chiesa e il mondo, nel decreto sulle religioni non cristiane, ecc.".

Qui si vede in modo ancor più esplicito ciò che mons. Lefebvre intende per interpretazione del Vaticano II alla luce della tradizione: è l’insegnamento pontificio dei secoli passati che deve correggere la dottrina conciliare.

Questa posizione, che egli manterrà fino alla rottura avvenuta nel 1988, non poteva essere recepita da Roma. Nella sua risposta del 20 luglio 1983, il cardinale Ratzinger scriveva: [...]

"A proposito delle questioni liturgiche, bisogna notare che – in funzione dei diversi gradi di autorità dei testi conciliari – la critica di alcune loro espressioni, composte secondo le regole generali dell’adesione al magistero, non è esclusa. Allo stesso modo voi potete esprimere il desiderio di una dichiarazione o di una trattazione esplicativa su questo o quel punto.

"Ma non potete affermare l’incompatibilità dei testi conciliari – che sono testi magisteriali – con il magistero e la tradizione. Vi è possibile dire che personalmente non vedete la compatibilità, e quindi chiedere alla Sede Apostolica spiegazioni. Ma se, al contrario, affermate l’impossibilità di tali spiegazioni, vi opponete profondamente alla struttura fondamentale della fede cattolica, a quell’obbedienza e umiltà della fede ecclesiastica a cui vi richiamate alla fine della vostra lettera quando evocate la fede che vi è stata insegnata durante la vostra infanzia e nella Città eterna.

"Su questo punto, del resto, vale un’osservazione già fatta in precedenza a proposito della liturgia: gli autori privati, anche se furono esperti al Concilio come padre Congar e padre Murray che citate, non sono l’autorità incaricata dell’interpretazione. Autentica e dotata di autorità è solo l’interpretazione data dal magistero, che così è l’interprete dei suoi stessi testi: i testi conciliari non sono infatti gli scritti di un esperto o di un altro o di chiunque abbia potuto contribuire alla loro genesi, sono documenti del magistero".

Come si sarà notato, la risposta del cardinale Ratzinger è fine e carica di sfumature. Apre la porta a una reinterpretazione da parte del magistero dei testi conciliari. [...]

Il 17 aprile 1985, sulla scia del colloquio che il cardinale aveva avuto con mons. Lefebvre il 20 gennaio dello stesso anno, quest’ultimo faceva un nuovo passo presso il primo. In una lettera, adducendo il fatto che il prefetto della congregazione per la dottrina della fede aveva accettato che la proposta di dichiarazione sottopostagli nel 1982 poteva essere modificata, mons. Lefebvre avanzava una nuova formulazione:

"Noi abbiamo sempre accettato e dichiariamo di accettare i testi del Concilio secondo il criterio della tradizione, cioè secondo il magistero tradizionale della Chiesa. [...] Ma ritenendo che la dichiarazione sulla libertà religiosa è contraria al magistero della Chiesa, chiediamo una totale revisione di questo testo. Riteniamo anche indispensabili revisioni rilevanti di documenti  sulla Chiesa nel mondo, le religioni non cristiane, l’ecumenismo, e chiarimenti in molti testi che si prestano a confusione".

Come possiamo intuire, anche questa proposta non poteva essere accettata [da Roma]. Il cardinale Ratzinger rispondeva a Lefebvre il 29 maggio 1985 che [...] "voi potete esprimere il desiderio di una dichiarazione o di una trattazione esplicativa su questo o quel punto, ma non potete affermare l’incompatibilità dei testi conciliari – che sono testi magisteriali – con il magistero e la tradizione". In altre parole, i testi conciliari non potevano essere corretti o rinnegati, ma era legittimo chiedere spiegazioni complementari che potessero esplicitarne il senso o darne una nuova interpretazione.

Si apre allora una nuova fase nelle conversazioni: il 6 novembre 1985, mentre è in corso l’assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi sul Concilio Vaticano II, mons. Lefebvre inoltra 39 "dubia", obiezioni, sulla libertà religiosa alla congregazione per la dottrina della fede. Ciò significava per lui, attraverso una via interpretativa, sperare di ottenere una revisione dell’insegnamento della dichiarazione sulla libertà religiosa del Vaticano II. La risposta ai "dubia", ampia e molto articolata, sarà tuttavia data solo il 9 marzo 1987. Ma nel frattempo l’incontro interreligioso di Assisi del 27 ottobre 1986 aveva provocato un vero e proprio scandalo negli ambienti tradizionalisti. Per mons. Lefebvre, quella risposta non poteva essere soddisfacente.


ED È DI NUOVO ROTTURA


È allora che mons. Lefebvre torna a una posizione più intransigente, dopo un periodo di più di otto anni durante i quali ha giocato la carta dell’ermeneutica della continuità cercando con essa di reinterpretare il Concilio a partire dai precedenti testi pontifici.

Ora si collega di nuovo all’ermeneutica della discontinuità praticata tra il 1974 e il 1978 e simpatizza per la prima volta con la posizione sedevacantista. Dice: "È possibile che siamo nell’obbligo di credere che questo papa non è papa". [...] Annuncia che consacrerà dei vescovi per dare una posterità alla tradizione, dato che Roma è nelle tenebre. [...] Il 14 luglio 1987 viene nuovamente ricevuto dal cardinale Ratzinger. Nel resoconto delle discussioni che ne fornisce, Bernard Tissier de Mallerais attribuisce queste parole a mons. Lefebvre:

"Se scisma vi è, riguarda molto più il Vaticano, con Assisi e la risposta ai nostri 'dubia'. È la rottura della Chiesa con il suo magistero tradizionale. La Chiesa contro il suo passato e la sua tradizione non è la Chiesa cattolica. Ecco perché ci è indifferente essere scomunicati da questa Chiesa liberale, ecumenica, rivoluzionaria".

È a partire da questo momento che mons. Lefebvre intraprende il suo cammino verso la costituzione di una Chiesa scismatica, il che avverrà a partire dal 1988. Non è più tanto lontano dalla tesi sedevacantista che aveva sempre criticato:

"Mi vedo costretto dalla Provvidenza divina a trasmettere la grazia dell’episcopato cattolico che ho ricevuta, affinché la Chiesa e il sacerdozio cattolico continuino a sussistere per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. [...] Confido che senza tardare la Sede di Pietro sarà occupata da un successore di Pietro perfettamente cattolico nelle mani del quale potrete deporre la grazia del vostro episcopato, perché egli la confermi ".

Avrà parole ancor più forti durante la sua allocuzione ai preti della Fraternità San Pio X: "Roma è nella apostasia. Non sono parole, non sono parole al vento quelle che vi dico. È la verità. Roma è nella apostasia". [...]

Proprio prima che accadesse l’irreparabile, in un ultimo tentativo finalizzato ad evitare lo scisma, ebbero luogo negoziati dell’ultima ora con il cardinale Ratzinger. Sul piano dottrinale, il protocollo inizialmente firmato da mons. Lefebvre, prima che ritirasse la propria firma l’indomani, comportava due articoli del seguente tenore:

"2. Noi dichiariamo di accettare la dottrina contenuta nel numero 25 della costituzione dogmatica 'Lumen gentium' del Concilio Vaticano II sul magistero ecclesiastico e l’adesione che a essa è dovuta.

"3. A proposito di taluni punti insegnati dal Concilio Vaticano II o concernenti le successive riforme della liturgia e del diritto, e che ci paiono difficilmente conciliabili con la tradizione, noi ci impegniamo ad avere un atteggiamento positivo di studio e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica".

Ciò spalancava la porta a un’interpretazione del Vaticano II al quale non si chiedeva un’adesione formale e integrale, come era invece avvenuto precedentemente.


IL CONVITATO DI PIETRA


È a margine della controversia fin qui descritta che si sviluppa [dopo il 1985], nella comunità teologica e nei circoli ecclesiali, un dibattito sull’ermeneutica del Vaticano II. [...] Eccettuati gli interventi del cardinale Ratzinger, i riferimenti a mons. Lefebvre sono praticamente assenti. [...] Eppure, mi pare, è nell’orizzonte delle discussioni tra la Santa Sede e la corrente lefebvriana che va letto il dibattito sull’ermeneutica del Vaticano II e vanno interpretate le categorie di ermeneutica della continuità, della discontinuità e della riforma. [...]

Bisognerà aspettare il 2005 perché tale dibattito si infiammi di nuovo. [...]  Questa volta il cardinale Ratzinger è al vertice della Chiesa, in seguito alla sua elezione a papa avvenuta in aprile. [...] Malgrado un giudizio abbastanza critico sul nuovo pontefice, viene organizzato un incontro tra Benedetto XVI e il successore di Lefebvre, mons. Bernard Fellay. Esso avrà luogo il 29 agosto 2005, solo quattro mesi dopo l’elezione del nuovo papa, nella sua residenza estiva di Castel Gandolfo. Nel resoconto che ne fa in un’intervista del 13 settembre seguente, mons. Fellay precisa che la Fraternità San Pio X ha formulato tre richieste: accordare "piena libertà alla messa tridentina, far tacere il rimprovero di scisma sotterrando le pretese scomuniche, e trovare una struttura di Chiesa per la famiglia della tradizione". [...]

È alla fine di questo 2005, primo del suo pontificato e quarantesimo anniversario del Vaticano II, come preciserà Benedetto XVI nell’introduzione della sua allocuzione, che si colloca la sua lezione di ermeneutica conciliare alla presenza dei membri della Curia.

La lezione di ermeneutica giunge prima di due gesti di apertura in direzione della Fraternità: il motu proprio "Summorum pontificum" del 2 luglio 2007 e la revoca delle scomuniche ai vescovi lefebvriani del 21 gennaio 2009. Queste due aperture, come sappiamo, facevano parte delle richieste rivolte al papa durante l’incontro del precedente mese di agosto. La lezione di ermeneutica preparava inoltre, dando a esse i principi e il metodo, le risposte della congregazione per la dottrina della fede a domande concernenti taluni aspetti della dottrina sulla Chiesa, del 29 giugno 2007. [...]

Nel momento in cui pronunciò la sua allocuzione alla curia, Benedetto XVI non fece mai allusione alla Fraternità San Pio X o ai tradizionalisti. Così si è creduto che il discorso di Benedetto XVI avesse di mira "La storia del Vaticano II" prodotta [dalla progressista scuola di Bologna] sotto la direzione di Giuseppe Alberigo. Alcuni passaggi potevano lasciarlo intendere, ma non era verosimilmente quello l’apice del discorso né era quello il destinatario principale. [...]

Inoltre, ciò che si è poi spesso ricordato della trattazione è che il papa opponeva all’ermeneutica della rottura un’ermeneutica della continuità. Ora, l’attenta lettura del testo porta a un’altra conclusione. [...] Ciò che Benedetto XVI ha opposto all’ermeneutica della rottura è "un’ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa". [...]


L'ERMENEUTICA DELLA RIFORMA


È in questa trattazione che Benedetto XVI fa riferimento alla rivoluzione francese e al liberalismo, e giunge alla conclusione che tutto ciò "aveva provocato da parte della Chiesa, nel XIX secolo, sotto Pio IX, condanne severe e radicali di quello spirito dell’epoca moderna". Qui ritroviamo precisamente i riferimenti consueti dei tradizionalisti e Benedetto XVI si pone molto chiaramente sul loro terreno, ricorrendo ai loro riferimenti e affrontando direttamente le loro domande. [...]

Egli poneva di conseguenza al centro della sua proposta i grandi dossier del contenzioso che opponeva i tradizionalisti al Vaticano II. E giungeva alla conclusione:

"È chiaro che in tutti questi settori, il cui insieme forma un’unica questione, poteva emergere una certa forma di discontinuità [...] nella quale comunque [...] appariva che la continuità dei principi non veniva abbandonata. [...] È appunto in quest’insieme di continuità e di discontinuità a diversi livelli che consiste la natura della vera riforma". [...]

Il papa si dedica poi, a partire dall’esempio della questione della libertà religiosa, a mostrare in che cosa consista questa ermeneutica della riforma.


IN CONCLUSIONE


Come abbiamo visto, la presentazione del Concilio come rottura in rapporto alla tradizione, è un motivo ben attestato nell’orbita tradizionalista. [...] A partire da questo "topos" – il Concilio inteso come rottura con la tradizione – si è sviluppata l’idea di presentare il Concilio in continuità con l’insieme della tradizione e si è sviluppata la proposta di un’ermeneutica della continuità.

Il cardinale Ratzinger, quand'era prefetto della congregazione per la dottrina della fede, contribuì a questo sviluppo. Possiamo pensare che si trattasse di uno sforzo che mirava a favorire la riconciliazione tra Roma e Lefebvre. Ma la proposta del cardinale Ratzinger, sorretta da una profonda concezione della tradizione, è stata recepita mediante una piroetta ermeneutica che consisteva nell’interpretare il Concilio a partire dai testi pontifici del XIX secolo e della prima metà del XX, e non il contrario.

Lo sforzo, con l’obiettivo di affermare che, alla fine, il Concilio non ha detto altro che quello che già si sapeva, è stato ripreso in diversi modi: la tesi monumentale di p. Basile Valuet [sulla libertà religiosa] ne offre un esempio, ma non è il solo. [...] Questa maniera di concepire l’ermeneutica della continuità, maniera dolce di sostenere la propria opposizione al Concilio (si veda Brunero Gherardini), tuttavia si accorda male con [...] la proposta di Benedetto XVI di porre in atto un’ermeneutica della riforma.

Di fatto, è tutta una concezione del Concilio e della sua autorità a essere implicata in questa maniera di concepire l’ermeneutica della continuità. [...] La proposta di un’ermeneutica della continuità viene utilizzata come un mezzo per ridimensionare, banalizzare e sminuire, o persino per rinnegare il Concilio e il suo insegnamento, senza dover perdere la faccia. [...]

Ma Giovanni XXIII, Paolo VI e Benedetto XVI hanno una concezione molto più ricca della tradizione, [...] che non può essere concepita come semplice ripetizione. La proposta di Benedetto XVI di un’ermeneutica della riforma – poiché è proprio questa che egli pone in primo piano e non l’ermeneutica della continuità, come spesso si dice – [...] merita di essere presa sul serio.

Oggi essa può rappresentare un vero compito per la teologia, che non può accontentarsi di un’ermeneutica detta della continuità che rimanda a una concezione ripetitiva e indebolita della tradizione, che Benedetto XVI non condivide e che serve solo a un’operazione di smantellamento del Concilio Vaticano II.

__________


Il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 sull'ermeneutica del Concilio Vaticano II:

> "Expergiscere, homo..."

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La lettera di Benedetto XVI del 10 marzo 2009 riguardo al ritiro della scomunica ai quattro vescovi consacrati da Lefebvre, nella quale torna ad esigere "l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero postconciliare dei papi" come condizione per sanare lo scisma:

> "La remissione della scomunica..."


__________


Il comunicato emesso dalla Santa Sede a conclusione dell'ultima tornata di incontri, nel 2011, tra la Fraternità San Pio X e la congregazione per la dottrina della fede:

> "Il 14 settembre 2011..."

Nel comunicato si informa che Roma ha chiesto ai lefebvriani – come condizione "sine qua non" per il loro rientro nella Chiesa – di firmare un “preambolo” con "alcuni principi dottrinali e criteri di interpretazione della dottrina cattolica, necessari per garantire la fedeltà al magistero della Chiesa e il 'sentire cum Ecclesia', lasciando nel medesimo tempo alla legittima discussione lo studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e del magistero successivo".

__________


Una vivace e dotta discussione sull'ermeneutica del Concilio Vaticano II e del magistero della Chiesa è in corso da diversi mesi in www.chiesa e nel blog "Settimo Cielo".

In essa sono intervenuti a più riprese, il più delle volte con contributi originali, Francesco Agnoli, Francesco Arzillo, Inos Biffi, Giovanni Cavalcoli, Stefano Ceccanti, Georges Cottier, Roberto de Mattei, Masssimo Introvigne, Walter Kasper, Agostino Marchetto, Alessandro Martinetti, Enrico Morini, Enrico Maria Radaelli, Fulvio Rampi, Martin Rhonheimer, Gilles Routhier, Basile Valuet, David Werling, Giovanni Onofrio Zagloba.

Altri interventi sono in cantiere, anche a seguito dell'uscita di un nuovo saggio del professor Roberto de Mattei, "Apologia della Tradizione", poscritto al precedente libro dello stesso autore "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta", entrambi editi da Lindau.

In ordine cronologico, ecco tutte le precedenti puntate della discussione:

> I grandi delusi da papa Benedetto (8.4.2011)

> Francesco Agnoli: il funesto ottimismo del Vaticano II (8.4.2011)

> I delusi hanno parlato. Il Vaticano risponde (18.4.2011)

> Chi tradisce la tradizione. La grande disputa (28.4.2011)

> La Chiesa è infallibile, ma il Vaticano II no (5.5.2011)

> Benedetto XVI "riformista". La parola alla difesa
(11.5.2011)

> Libertà religiosa. La Chiesa era nel giusto anche quando la condannava? (26.5.2011)

> La Chiesa può cambiare la sua dottrina? La parola a Ceccanti e a Kasper (29.5.2011)

> Ancora su Stato e Chiesa. Dom Valuet risponde a Ceccanti (30.5.2011)

> Padre Cavalcoli scrive da Bologna. E chiama in causa i "bolognesi" (31.5.2011)

> Può la Chiesa cambiare dottrina? Il professor "Zagloba" risponde (6.6.2011)

> Tra le novità del Concilio ce n'è qualcuna infallibile? San Domenico dice di sì
(8.6.2011)

> Un "grande deluso" rompe il silenzio. Con un appello al papa (16.6.2011)

> Bologna parla: la tradizione è fatta anche di "rotture" (21.6.2011)

> Esami d'infallibilità per il Vaticano II. Il quizzone del professor Martinetti (27.6.2011)

> Il bolognese Morini insiste: la Chiesa ritorni al primo millennio
(15.7.2011)

> La Tradizione abita di più in Occidente. Padre Cavalcoli ribatte a Morini (27.7.2011)

> Rampi: come cantare il gregoriano nel secolo XXI (3.8.2011)

> Concilio, cantiere aperto. Ma c'è chi incrocia le braccia (17.10.2011)

> "Troppi pastori scappano all'arrivo del lupo". Cavalcoli replica a Cottier (24.10.2011)

Caterina63
00mercoledì 1 febbraio 2012 17:16
L’interpretazione teologica del Vaticano II

Autorità e autorevolezza

«Solo il confronto diretto coi documenti può farceli riscoprire» diceva il cardinale Ratzinger nel 1985

Agostino mons. Marchetto

Nell’introduzione al libro — sto parlando di L’Autorité et les Autorités. L’herméneutique théologique de Vatican ii (sous la direction de Gilles Routhier et Guy Jobin), Paris 2010, Cerf — i curatori attestano che Giovanni XXIII e Hans Georg Gadamer hanno qualcosa in comune, e questo loro volume sull’autorità e le autorità nell’ermeneutica postconciliare lo rileva. Si tratta de «l’appartenenza dell’ermeneutica a una tradizione d’interpretazione». Del resto anche Jürgen Habermas è qui chiamato in causa: «L’autorità è dunque un concetto che si declina in varie accezioni. Insomma gli interpreti dei testi conciliari si sono confrontati alle stesse questioni sollevate nel corso delle discussioni nell’aula conciliare e che lasciano tracce nei relativi testi».

Ciò significa «una discussione sull’autorità della Scrittura, della Tradizione, del Magistero, del sensus fidelium, della coscienza, della fede, del Papa, del collegio episcopale, delle conferenze episcopali, dell’esperienza, della pratica, e così via. [E] gli interpreti sono rinviati a una discussione giammai conclusa sui “luoghi teologici” e la loro gerarchizzazione».

Ad ogni modo «è difficile non tener conto del ruolo normativo del Magistero, un attore importante dell’ermeneutica postconciliare». Comunque «il lavoro teologico del nostro gruppo — concludono i curatori — rende manifesto che l’ermeneutica del Vaticano II, come ogni altro dossier ermeneutico, è dell’ordine dell’“entretien infini”». E allora come risolviamo il problema della giusta ricezione che finalmente dev’essere fondata su una corretta ermeneutica? Lo rimandiamo alle calende greche? Nell’impossibilità di rendere qui conto di tutti i contributi dell’opera, ci limiteremo a quelli di Gilles Routhier e di Lieven Boeve, incominciando da quest’ultimo, nella prima parte del volume, «Rivelazione, verità e autorità». All’inizio riporta l’affermazione di Joseph Ratzinger per il quale «la vera ricezione del Vaticano II non è ancora cominciata». Il successivo punto di cristallizzazione è «il teologo Ratzinger e la relazione tra Rivelazione, salute e verità» (che “interferiscono strettamente”). In effetti «la Chiesa veglia affinché la Verità resti e non vada alla deriva nella corrente del tempo». Ratzinger vede anche «un conflitto di principio tra la fede cristiana e i fondamenti del pensiero moderno».
A questo punto l’autore fa un’osservazione che desideriamo riportare, «non esiste alcuna differenza fondamentale tra le opzioni prese da Ratzinger all’inizio delle sue attività teologiche e quelle che ora difende» (p. 28), poi espone brevemente alcuni principi basilari della posizione teologica ratzingeriana, in sette punti, riguardo a Rivelazione e Tradizione, Verità e storia. Ne riporto alcuni: la Chiesa è la garanzia che attraverso i tempi la verità resta verità; La successione apostolica è la forma della Tradizione, la Tradizione è il contenuto della successione; anche se la verità della fede possiede un carattere d’eternità, la sua figura storica, invece, è continuamente condizionata dallo spazio e dal tempo.
È così che questa verità conosce uno sviluppo storico nella Tradizione; il cristianesimo è in realtà la sintesi realizzata in Gesù Cristo della fede d’Israele e dello spirito greco; l’ortodossia resta il quadro indispensabile per una legittima ortoprassi. La teoria senza prassi resta evidentemente vana e dimentica il nucleo della fede cristiana: l’amore che proviene dalla grazia.

Segue, nella trattazione, «un conflitto circa l’interpretazione del concilio», che causa in Ratzinger un malessere crescente per la modernità sempre più radicale, la quale minaccia la stessa essenza della fede cristiana. L’apertura al mondo moderno, movimento caratteristico del Concilio, non può in effetti essere erroneamente compresa.

Vi è in essa di fatto uno slancio missionario verso il mondo che pur tuttavia nulla toglie al non conformismo del Vangelo. Ed è proprio dalla discussione circa la futura Gaudium et spes che inizia — per l’autore — la lotta in vista dell’interpretazione del Concilio. Da ciò l’affermazione ratzingeriana che «la ricezione autentica del concilio Vaticano II non è ancora veramente iniziata». Dieci anni dopo il concilio, la fede cristiana si trova nella tensione fra la sua riduzione a un messianismo terrestre e un nuovo integralismo; il giusto mezzo non è stato ancora trovato. Ratzinger conclude: tutti i concili validi non sono stati, per tale solo fatto, «concili fecondi».
Nel 1985 costaterà che «le interpretazioni conciliari, tanto di destra come di sinistra, pongono in evidenza il carattere di rottura del concilio, sia per rigettare che per radicalizzare il rinnovamento». Vi è invece una continuità che non permette né di tornare indietro, né di fuggire in avanti, né nostalgie anacroniche, né impazienze ingiustificate. In questa storia non ci sono salti, né rotture. Il concilio non intendeva certo cambiare la fede ma di nuovo presentarla efficacemente. Il “rigetto” degli schemi preparatori del Vaticano II (la richiesta di ulteriore riflessione, magari) non ha giammai significato, per i Padri conciliari, rigetto della dottrina in sé; era insomma una critica «per le insufficienze della sua presentazione». In breve: nel conflitto sull’eredità del concilio, Ratzinger fa ogni volta una distinzione fra una interpretazione che vede il concilio nella continuità della tradizione nel suo insieme, e un’altra che vi vede anzitutto un punto di partenza per un cambiamento permanente.

A proposito infine della lettera e dello spirito del Vaticano II, Ratzinger dichiarò nel 1985 che solo «la lettura della lettera dei documenti può farci riscoprire il loro vero spirito».
Boeve illustra successivamente la ricezione della Dei verbum, prendendo in esame tre casi. Vi si scoprirono la necessità e i limiti dell’esegesi storico-critica, il giudizio negativo su una teologia postconciliare che corre troppo facilmente dietro alla modernità, dimentica della sua vocazione ecclesiale (diventa cioè un “magistero parallelo”). Il testo scritturistico deve poi essere letto in relazione con tutta la Bibbia. Nella conclusione e nelle prospettive l’autore si rifà al discorso di Benedetto XVI del 2005 sul problema della doppia ermeneutica conciliare, “dimenticando” di aggiungere “continuità” a quella della riforma. Anche la frase successiva, usandosi il verbo “accentua”, è pure significativa, nell’espressione «questa ermeneutica accentua una rottura tra Chiesa preconciliare e postconciliare».
In ogni caso per Boeve il problema attuale non è l’ermeneutica della discontinuità, poiché «numerosi teologi moderni accordano più spazio alla discontinuità, nello sviluppo concreto della tradizione, senza tuttavia rinunciare a una continuità più fondamentale».
Chi scrive non è d’accordo con l’autore anche perché, così facendo, evade la disgiuntiva ermeneutica posta da Benedetto XVI. Del resto riportando a conferma un testo di Edward Schillebeeckx — per il quale «è grazie alla rottura che il dogma resta vero» — rivela dove sta il suo cuore, a conferma di quanto scrive nelle pagine successive, criticando il pensiero ratzingeriano.

Comunque per l’autore — e dimostra così la citata incomprensione circa la disgiuntiva ermeneutica conciliare posta dal Papa — ogni sviluppo, o rinnovamento della Tradizione porta con sé una forma di cambiamento e di discontinuità. E qui egli gioca sull’equivoco. È fuorviante ridurre poi la questione, riconducendola alle due tendenze rivelatesi in concilio in conflitto. Così facendo dimentica che oggi è comune considerarle più vicine di quanto si pensasse, e mi riferisco alla Dei Verbum; ne è un esempio il cardinale Bea. Egli pensa in effetti che la posizione di Benedetto XVI in parola «fa assai troppo rapidamente ritornare la Chiesa nella posizione che voleva superare con il Vaticano II».
Facendo solo menzione dunque al contributo, pur interessante, di Karim Schelkens, «La recezione della Dei Verbum fra teologia e storia» — con presentazione, all’inizio delle opposte scuole nel campo delle letture conciliari — di quello intitolato «L’ermeneutica di un principio ermeneutico» di Catherine Clifford e dello studio di Joseph Famerée su «La collegialità al Sinodo straordinario del 1969», nonché dei contributi di Peter De Mey (una «Rilettura del pensiero conciliare sulla collegialità e la comunione delle Chiese tra il 1972 e il 1983») e di Laurent Villemin («L’autorità delle conferenze episcopali [e dei vescovi] in materia liturgica. Interpretazioni iniziali e reinterpretazioni recenti»), giungiamo al secondo studio, quello di Gilles Routhier che tratta di «Un mandatum docendi negato. Come si interpreta un silenzio», a partire dal Canada, in opposizione all’Apostolos suos, poiché i testi conciliari furono silenziosi al riguardo. Orbene tale silenzio va interpretato, e l’autore lo fa, analizzando i primi atti del dibattito a tale riguardo, anteriori al 1985, con periodizzazione propria. Vi è qui un richiamo consistente alla questione della pace, del disarmo, del rapporto con le autorità pubbliche — a partire da una lettera episcopale statunitense — a cui sono interessate sia le Conferenze episcopali che la Santa Sede.

In effetti non si tratta di un’ermeneutica dell’insegnamento del Vaticano II ma dello sviluppo di un argomentare a difesa di una posizione stabilita nel corso della fase iniziale del dibattito. In ogni caso, peraltro, si rivelano due maniere di concepire l’esercizio del munus docendi, quella, per esempio, del cardinale Joseph Bernardin e l’altra del cardinale Ratzinger (p. 175).
Per l’autore si tratta invece di «un insegnamento nel contesto». È questa una delle caratteristiche del suo pensiero, in linea con una certa teologia e — scrive — con la Octogesima adveniens. In fondo — asserisce — «la questione è in qualche modo quella del rapporto tra il locale e l’universale, o della relazione tra un dato insegnamento e un contesto particolare» (p. 178). Così sembra non rendersi conto della distinzione tra Chiesa locale e particolare, e del fatto che il “contesto particolare” non può porsi in opposizione all’universalità dell’insegnamento (in comunione con la Sede di Pietro e quelle degli altri vescovi) nella Catholica. Successivamente l’autore difende il “processo” di scrittura dell’intervento precedentemente citato della Conferenza episcopale americana «non solamente pubblico e trasparente» ma che «congiunge sinodalità e collegialità» (p. 179: il termine sinodalità introduce la legittimità del contributo degli esperti e dei laici, e così via, anche «oltre le frontiere della Chiesa cattolica»). Con ciò si dimentica che la potestas docendi è propria dei vescovi.

Siamo davanti a «due prospettive ecclesiologiche difficilmente compatibili» (p. 180), per cui per noi è d’uopo suggerire quella magisteriale, anche se l’autore tiene in considerazione i “quadri di pensiero”, di riferimento, o gli “interessi”, la difesa di una causa, piuttosto che i metodi e gli strumenti ermeneutici.
Alla fin fine poi ricorda che molto si deve alla «comprensione della comunione o alla autorità della Chiesa universale sulle Chiese locali» (p. 183). E qui si dovrebbe ricordare ancora una volta come i documenti magisteriali risolvono in conclusione la questione. In ogni caso per Routhier non v’è solo un’ermeneutica dei testi conciliari, ma anche un’ermeneutica della ricezione.

Aggiungerei che quest’ultima, se c’è, non può andare contro quella, corretta, dei testi. Per l’autore invece quest’ultima non esiste mai isolata o staccata da quella della ricezione. È un cane che si morde la coda, se si passa l’immagine. Che poi Routhier chiami in causa la paura, in tutta questa storia, evidentemente ritrovandola in chi non è con lui, richiama la stessa posizione di quanti recentemente hanno scritto il volumetto Chi ha paura del Vaticano II? (Carocci, 2009). Tutti, semmai, dovremmo temere di non esser a esso fedeli.

Per concludere con le menzioni dei vari contributi, ricordiamo, nella terza parte dell’opera («Autorità pratiche») «Quando Gaudium et Spes fa (l’) autorità» di Guy Jobin, «L’autorità delle pratiche cristiane della carità in contesto di pluralismo» di Catherine Fino e, nella quarta parte dell’opera («Dal testo all’istituzione») l’articolo unico, quasi giocoso, di François Nault. Già il titolo intero ne fa prova poiché si chiede «Come parlare dei testi conciliari senza averli letti». L’indice generale chiude il volume, privo purtroppo di indice dei nomi; ed è un peccato oltre che una lacuna scientifica.

(L'Osservatore Romano 2 febbraio 2012)

Caterina63
00giovedì 2 febbraio 2012 22:56

Da Vatican-insider
[SM=g1740733] Fine della ricreazione dottrinale nella Chiesa cattolica?


Il Concilio Vaticano II
L’editorialista del Figaro si interroga sul vero significato della recente Nota sull’Anno della Fede inaugurato proprio nell’anniversario del Vaticano II
Jean-Marie Guénois
Roma

Se non si tratta di una vendetta della storia, poco ci manca. Il cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II che sta per essere celebrato nella Chiesa cattolica nel 2012, potrebbe segnare paradossalmente il tramonto dello..."spirito del Concilio" che ne fu tuttavia la grande promessa.

Lo "spirito del Concilio" rappresentava "l'apertura" della Chiesa cattolica verso il mondo e verso le altre religioni. "Lo spirito del Concilio" costituiva "La" firma del Concilio Vaticano II, il suo carattere distintivo. Era il motore di ciò che è stato definito da circa mezzo secolo il "progressismo" nella Chiesa.

 Un recente dibattito su "l’ultimo dei Mohicani" animato da Mons. Daucourt vescovo di Nanterre ,illustra in modo esatto questo spirito e i suoi limiti.
Tuttavia si profila una sorta di limitazione dell’apertura. Solo frutto di immaginazione? Non proprio. Per rendersene conto è sufficiente studiare la "nota con indicazioni pastorali per l’Anno della fede" che è stato pubblicato a Roma sabato 7 gennaio dalla Congregazione per la Dottrina della fede. Questo testo  segna la direzione dell’"anno della fede", lanciato da papa Benedetto XVI.

 Quest’anno speciale è destinato a rinvigorire la fede dei cattolici nel mondo. Sarà infatti inaugurato l’11 ottobre 2012... giorno dell’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. E non è un dettaglio insignificante.

 Ecco alcune citazioni che permettono di farsi un’idea precisa:

- La nota chiede "un impegno rinnovato per un’adesione convinta e cordiale all’insegnamento del Successore di Pietro".

- Insiste sulla "conoscenza dei contenuti della dottrina cattolica", "l'approfondimento dei principali documenti del Concilio Vaticano II" e "lo studio del Catechismo della Chiesa cattolica".

- Attende la "preparazione di strumenti di lavoro di carattere apologetico" (quindi di difesa della religione cattolica ndr) come risposta "alla sfida delle sette, ai problemi legati alla secolarizzazione e al relativismo".

- Auspica la correzione dei catechismi nazionali che non sarebbero "in pieno accordo con il Catechismo o manifesterebbero delle lacune".

- Fissa come priorità "l'annuncio del Cristo resuscitato, la Chiesa sacramento della salvezza, la missione dell’evangelizzazione nel mondo di oggi".

- Incoraggia il ricorso più frequente al "sacramento della penitenza". Con un’attenzione ai "peccati contro la fede".

- Vuole un’intensificazione della "celebrazione della fede nella liturgia e nell’Eucaristia".

- E spera nelle omelie basate sull’"incontro con il Cristo, i contenuti fondamentali del Credo, la fede e la Chiesa"...

 In breve, l’idea principale, si potrebbe dire l’asse politico di questo documento, è quello di realizzare un "approfondimento della dottrina cattolica" e di impegnarsi nella nuova evangelizzazione tramite un’adesione più convinta al Signore Gesù". Fine della storia.
Certamente, si troveranno qua e là delle raccomandazioni ecumeniche o interreligiose, ma leggendo meglio, manca il cuore. Questi assi non sono, non più, delle priorità.
Si può sempre sottovalutare il valore di questa "nota" che non ha l’autorità di un’enciclica. Ciò è vero sul piano tecnico. Ma questa è tuttavia molto di più di una semplice nota perché non è nient’altro che la realizzazione programmatica di una politica che papa Benedetto XVI aveva già annunciato nel 2005. La politica del suo pontificato.
Nove mesi dopo la sua elezione aveva indicato, come linea d’azione, un’"interpretazione" del Concilio Vaticano II non più secondo "l'ermeneutica della discontinuità e della rottura" ma secondo "l'ermeneutica della riforma", ossia, "in continuità" con la grande tradizione della Chiesa.
Non si tratta più di un voto di fede ma di un programma ormai ben organizzato che ha come obiettivo la realizzazione di una riforma interna della Chiesa, lenta ma certa. Sincronizza gli orologi dottrinali nella Chiesa cattolica. E suggerisce la fine di una certa "ricreazione dottrinale" in cui era possibile tutto e il contrario di tutto nella grande casa cattolica.
Questo programma sarà seguito? Innanzitutto sarà ampiamente criticato: negli ambienti progressisti sarà l’affossatore del "vero concilio"; negli ambienti integralisti sarà il complice di un "falso concilio". E’ difficile il mestiere di Papa!
Al di là di questa dialettica semplicistica, non bisogna perdere di vista l’evoluzione di fondo che sta caratterizzando oggi la Chiesa cattolica. Per questa volta, questa visione si sposa con lo spirito di questa nota e la anima. Alcuni vi vedono un semplice ritorno alla normalità, si tratta piuttosto di un asse strategico: la Chiesa cattolica sta cominciando a reagire al suo declino occidentale. Il nuovo concistoro che vedrà la nomina di 22 nuovi cardinali il 18 febbraio prossimo, conferma questa direzione.
Se "lo spirito del Concilio" muore, sarebbe "lo spirito cattolico" a ritornare?


VERSIONE ORIGINALE DEL BLOG
http://blog.lefigaro.fr/religioblog/2012/01/fin-de-la-recreation-doctrinal.html

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Alla Lateranense aperto il ciclo di conferenze "Rileggere il Concilio"

Intervista con mons. Dal Covolo (RadioVaticana)

Nell’anno del 50.mo anniversario del Vaticano II, si è aperto ieri all’Università Lateranense il ciclo di conferenze "Rileggere il Concilio", in collaborazione con il Centre Saint-Louis de France e l’ambasciata di Francia presso la Santa Sede. In ognuno dei sei incontri previsti, uno storico e un teologo prenderanno in esame importanti documenti conciliari: le quattro Costituzioni, il Decreto sull’ecumenismo, la Dichiarazione sulla libertà religiosa. A spiegare le finalità dell’intera iniziativa, al microfono di Davide Maggiore, è stato mons. Enrico Dal Covolo, rettore della Lateranense, che ha presieduto la prima conferenza, dedicata alla Costituzione Sacrosanctum Concilium:
R. - Di fronte a una situazione nella quale molti interpretano il Concilio in modi differenti, mi pare importante assumere elementi in più per poter dare una valutazione più sicura, più affidabile. E questo deve essere fatto proprio a un livello scientifico, quale quello di una Università pontificia.

D. – Rileggere il Concilio significa anche inquadrarlo all’interno della grande tradizione della Chiesa, mostrando quelli che sono gli elementi di continuità con essa?
R. – Questa è proprio la linea del Magistero del Papa Benedetto XVI che noi intendiamo convalidare attraverso questa ricerca – che si inaugura solo adesso, ma lo faremo nell’arco di questi anni – condotta sulla rivisitazione di archivi che finora non sono stati sufficientemente consultati.

D. – Il Beato Giovanni Paolo II ha scritto: “Per molti il messaggio del Concilio Vaticano II è stato percepito innanzitutto mediante la riforma liturgica”, che è oggetto della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium”…
R. – Ritengo che la Sacrosanctum Concilium vada ristudiata oggi e attentamente: la liturgia è centrale nella tradizione della Chiesa. C’è un’interazione reciproca tra il modo di celebrare e di pregare e i contenuti della nostra fede. (mg)

A inquadrare dal punto di vista storico e spirituale la Sacrosanctum Concilium è stato, al microfono di Davide Maggiore, il prof. Philippe Chenaux, docente di Storia della Chiesa moderna e contemporanea alla Lateranense e direttore del Centro studi e ricerche sul Concilio Vaticano II della stessa Università:
R. – E’ stato il primo documento approvato dal Concilio, all’origine della grande riforma liturgica post-conciliare. Tuttavia, è un documento che è passato un po’ nell’ombra, rispetto ad altri, nei commenti fatti dopo il Concilio. Anche perché è stato superato dalla riforma che esso stesso ha suscitato negli anni che seguirono al Concilio. Dunque, mi sembra giusto iniziare questa rilettura dei grandi documenti del Concilio con questa Costituzione, Sacrosanctum Concilium.

D. – La Sacrosanctum Concilium si inscrive nell’intera storia della Chiesa...
R. – E’ ovviamente un posto particolare: occupa il movimento liturgico, che nacque alla fine del 1800, nelle gradi abbazie benedettine e che, dopo la Prima Guerra Mondiale, si spostò verso gli ambienti della Gioventù cattolica e poi anche verso le parrocchie. Lo stesso Pio XII dedicò una grande Enciclica, Mediator Dei, nel 1947, alla liturgia, che è una forma di riconoscimento di questo movimento liturgico, che troverà poi la sua consacrazione durante il Concilio Vaticano II.

D. – Quali possono essere definiti i frutti più duraturi della Sacrosanctum Concilium?
R. – Essa ha previsto una migliore partecipazione dei fedeli alla liturgia. La liturgia è la preghiera ufficiale della Chiesa, e dunque non riguarda solo il sacerdote ma l’intera comunità dei fedeli. Per questo, era anche importante introdurre, nella liturgia, le lingue volgari. (vv)

Radio Vaticana


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le Cinque Piaghe

 

Le cinque piaghe del Corpo Mistico e Liturgico secondo Mons. Schneider

 
 
Mons. Athanasius Schneider (*) è l'instancabile pellegrino al servizio della liturgia tradizionale che fa il giro del mondo per incoraggiare fedeli e sacerdoti ad avere il vero spirito della Chiesa nella celebrazione della Santa Messa. Secondo lui, la liturgia della Chiesa è ferita da cinque piaghe che sono come le Cinque Piaghe del Corpo di Gesù.

 
Ecco alcuni brani della sua recente conferenza:

La prima piaga, la più evidente, è la celebrazione del sacrificio della messa in cui il prete celebra volto verso i fedeli, specialmente durante la preghiera eucaristica e la consacrazione, il momento più alto e più sacro dell'adorazione dovuta a Dio. Questa forma esteriore corrisponde per sua natura più al modo in cui ci si comporta quando si condivide un pasto. Ci si trova in presenza di un circolo chiuso. E questa forma non è assolutamente conforme al momento della preghiera ed ancor meno a quello dell'adorazione.

La seconda piaga è la comunione sulla mano diffusa dappertutto nel mondo. Non soltanto questa modalità di ricevere la comunione non è stata in alcun modo evocata dai Padri conciliari del Vaticano II, ma apertamente introdotta da un certo numero di vescovi in disobbedienza verso la Santa Sede e nel disprezzo del voto negativo nel 1968 della maggioranza del corpo episcopale.

La terza piaga, sono le nuove preghiere dell'offertorio. Esse sono una creazione interamente nuova e non sono mai state usate nella Chiesa. Esse esprimono meno l'evocazione del mistero del sacrificio della croce che quella di un banchetto, richiamando le preghiere del pasto ebraico del sabato. Nella tradizione più che millenaria della Chiesa d'Occidente e d'Oriente, le preghiere dell'offertorio sono sempre state espressamente incardinate al sacrificio della croce.

La quarta piaga è la sparizione totale del latino
nell'immensa maggioranza delle celebrazioni eucaristiche della forma ordinaria nella totalità dei paesi cattolici.

La quinta piaga è l'esercizio dei sevizi liturgici di lettori e di accoliti donne, così come l'esercizio degli stessi servizi in abito civile penetrando nel coro durante la Santa Messa direttamente oltre lo spazio riservato ai fedeli
. Quest'abitudine non è giammai esistita nella Chiesa, o per lo meno non è mai stata la benvenuta. Essa conferisce alla messa cattolica il carattere esteriore di qualcosa di informale, il carattere e lo stile di un'assemblea piuttosto profana.
 
Conferenza completa di Mons. Schneider su Chiesa e Post Concilio
(*) Mons. Schneider è Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Santa Maria d’Astana, Segretario della Conferenza dei vescovi cattolici del Kazakhstan

Caterina63
00domenica 29 aprile 2012 10:38

Don Bux: Il CVII si può discutere, non è un superdogma. La F.S.S.P.X potrebbe fare il bene della Chiesa. Chi si oppone alla FSSPX si oppone al Papa"

Chi si oppone alla riconciliazione della Fraterntià San Pio X con Roma si oppone al Papa
di Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro


Teologo, liturgista, consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice e delle Congregazioni per la Dottrina della Fedee per le Cause dei Santi, monsignor Nicola Bux, classe 1947, è conosciuto dagliaddetti ai lavori soprattutto come “molto vicino a papa Benedetto XVI”.
E proprio lui, poco più di un mese fa, ha messo a rumore l’ambiente ecclesiale con una lettera aperta al superiore generale e ai sacerdoti della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata ma monsignor Lefebvre invitandoli a stringere lamano che Benedetto XVI sta tendendo loro.

Gli osservatori ne hanno tratto tutti la conclusione più logica: il Papa vuole fortemente la riconciliazione.
Vedete” spiega monsignor Bux al Foglio “questa conclusione è al tempo stesso esatta e imprecisa. E’ esatta perché Benedetto XVI vuole questa riconciliazione e pensa che non possa esserci altra soluzione pensabile per la vicenda della Fraternità fondata da monsignor Lefebvre. E’ imprecisa se le si attribuisce un carattere politico. Non c’è nulla di più lontano dalla mente di questo Papa. Ratzinger è persona che non pensa e non agisce in funzione della politica ecclesiale. Per questo viene spesso frainteso. E tanto più questo vale per la vicenda della Fraternità San Pio X: per lui si tratto solo del definitivo e pieno ritorno a casa di tanti suoi figli che potranno fare il bene della Chiesa”.
Dunque, letture da destra o da sinistra sarebbero monche, ma non sarà facile disinnescarle all’interno della Chiesa stessa.

Come dovrebbe porsi un cattolico davanti a un fatto come la riconciliazione tra Santa Sede e Fraternità San Pio X?
Bisogna rileggere con attenzione quello che Benedetto XVI scriveva il 10 marzo 2009 nella ‘Lettera ai vescovi’ per spiegare le ragioni della remissione della scomunica ai quattro vescovi ordinati da monsignor Lefebvre: ‘Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? (…) Che ne sarà poi?’.
Qui c’è il cuore di Benedetto XVI. Ecco, penso che se anche tanti uomini di Chiesa agissero secondo questo cuore non potrebbero che gioire per la conclusione positiva di questa vicenda
”.


Forse l’opposizione al volere di Benedetto XVI nasce dal fatto che molti compiono l’equivalenza riconciliazione con i lefebvriani uguale sconfessione del Vaticano II.
Guardate, il primo ‘accordo’, se così vogliamo chiamarlo, avvenne nelConcilio di Gerusalemme tra San Pietro e San Paolo. Dunque, il dibattito, purché fatto per il bene della Chiesa, non è così scandaloso.
Un’altra constatazione: quanti hanno isolato dalla storia della Chiesa il ConcilioVaticano II e lo hanno sopravvalutato rispetto ai suoi stessi intendimenti non si peritano di criticare, per esempio il Concilio Vaticano I o il Concilio di Trento. C’è chi sostiene che la Costituzione dogmatica ‘
Dei Filius’ delVaticano I sia stata soppiantata dalla ‘Dei Verbum’ del Vaticano II: questa è fantateologia.
Mi sembra invece buona teologia quella che si pone il problema del valore dei documenti, del loro insegnamento, del loro significato. Nel Concilio Vaticano II esistono documenti dal valore diverso e, dunque, di una forza vincolante diversa che ammettono diversi gradi di discussione. Il Papa, quando era ancora il cardinale Ratzinger, nel 1988, parlò del rischio di trasformare il Vaticano II in un ‘superdogma’, ora, con ‘l’ermeneutica della riforma nella continuità’ ha fornito un criterio per affrontare la questione e non per chiuderla. Non bisogna essere più papisti del Papa. I Concili, tutti i Concili e non solo il Vaticano II, vanno accolti con obbedienza, ma si puòv alutare in maniera intelligente ciò che appartiene alla dottrina e ciò che va criticato. Non a caso, Benedetto XVI ha indetto ‘l’anno della fede’ perché è la fede il criterio per comprendere la vita della Chiesa
”.


Da cattolici, se lasciamo battere docilmente il nostro cuore con quello di Benedetto XVI, che cosa ci dobbiamo aspettare dalla definitiva riconciliazione tra Roma e Fraternità San Pio X?
Non certo la rivalsa di una fazione sull’altra, ma un progresso nella fede e nell’unità che sono la sola testimonianza perché il mondo creda. La retorica del dialogo con l’ateo,con l’agnostico, con il cosiddetto ‘diversamente credente’ che senso ha se non si gioisce per la riconciliazione con i fratelli nella fede? Ce l’ha insegnato Nostro Signore: non è il dialogo con il mondo che convertirà il mondo, ma lan ostra capacità di essere uniti. In questo periodo torno spesso a una preghiera composta dal cardinale Newman: ‘Signore Gesù Cristo, che quando stavi persoffrire, hai pregato per i tuoi discepoli perché fino alla fine fossero una cosa sola, come sei Tu con il Padre, e il Padre con Te, abbatti le barriere di separazione che dividono tra loro i cristiani di diverse denominazioni. Insegna a tutti che la sede di Pietro, la Santa Chiesa di Roma, è il fondamento, il centro e lo strumento di questa unità. Apri i loro cuori alla Verità, da lungo tempo dimenticata, che il nostro Santo Padre,il Papa, è il Tuo Vicario e Rappresentante. E, come in cielo esiste una sola compagnia santa, così su questa terra vi sia una sola comunione che professa e glorifica il Tuo Santo Nome’”.


Il Foglio, 26 aprile 2012

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"Iuxta Modum - Il Concilio alla luce della Tradizione": presentazione del nuovo libro di p. Serafino Lanzetta, F.I.


Venerdì 18 maggio 2012 - ore 21:00
Seregno - Sala Mons. Gandini, via XXIV Maggio, n. 3

presentazione del libro

IUXTA MODUM - Il Concilio Vaticano II alla luce della Tradizione
di padre Serafino Lanzetta F.I., teologo

Interverranno
padre Serafino Lanzetta F.I., autore,
Alessandro Gnocchi, scrittore
e Andrea Sandri, Presidente del Circolo culturale J. H. Newman


Descrizione
Uno straordinario saggio sul Concilio Vaticano II. Un prezioso tentativo di sanare la profonda frattura postconciliare, Ed. Cantagalli, maggio 2012


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Caterina63
00lunedì 7 maggio 2012 18:36

Le carte perdute del Vaticano II

Mezzo secolo dopo, una grossa parte della documentazione del Concilio è ancora in attesa di essere riordinata e studiata. Alcuni documenti di rilievo sono andati persino smarriti. La denuncia choc di un archivista

di Sandro Magister




ROMA, 7 maggio 2012 – Come si sa, Benedetto XVI ha indetto uno speciale Anno della Fede che avrà inizio il prossimo 11 ottobre in coincidenza con un doppio anniversario: il cinquantesimo dell'apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e il ventesimo della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica.

Né l'uno né l'altro dei due anniversari sono pacifici.

Il Catechismo ha sofferto e soffre di un diffuso rifiuto, anche tra l'episcopato e il clero.

Quanto al Concilio, la diatriba sulla sua interpretazione e recezione è tuttora vivace e ha persino dato origine a uno scisma: quello tra la Chiesa di Roma e i seguaci dell'arcivescovo Marcel Lefebvre.

Nella lettera apostolica in forma di motu proprio "Porta fidei", con la quale ha indetto l'Anno della Fede, Benedetto XVI auspica che diventi "un'occasione propizia" affinché i documenti del Concilio vengano letti e accolti "guidati da una giusta ermeneutica", poiché solo così "esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa":

> "Porta fidei"

All'ermeneutica, cioè all'interpretazione del Vaticano II papa Joseph Ratzinger dedicò il primo dei suoi discorsi prenatalizi alla curia romana:

> "Expergiscere, homo..."

Naturalmente, anche la ricostruzione storica dell'evento conciliare è essenziale alla sua ermeneutica.

E perché questa ricostruzione sia fondata occorre che gli storici lavorino su una documentazione esauriente di quell'evento.

Ebbene, potrà sembrare incredibile, ma "esiste tutta una serie di carte e di documenti ancora inesplorati e che hanno un grandissimo valore per comprendere sia lo spirito del Concilio, sia la corretta ermeneutica dei suoi documenti".

È ciò che scrive un archivista dell'Archivio Segreto Vaticano a conclusione di un suo impressionante resoconto pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 1 maggio 2012.

L'archivista, Piero Doria, ha lavorato e sta lavorando proprio alla raccolta e al riordino – perché diventi accessibile agli studiosi – di una ingente mole di documentazione dei lavori conciliari, che nel tempo era caduta in preda all'incuria o addirittura era andata in parte dispersa.

Ad esempio, è stato scoperto che tra le carte andate perdute c'è "il registro di protocollo della commissione teologica e della commissione 'De doctrina fidei et morum'", cioè di due commissioni conciliari di importanza capitale.

Altri blocchi di documenti sono stati ritrovati e ricuperati fortunosamente, a casa dell'uno o dell'altro dei Padri conciliari o dei periti.

Ma lasciamo a Piero Doria di descrivere lo stato dei fatti e il grado d'avanzamento dei lavori di catalogazione dei documenti.

Ecco qui di seguito un ampio estratto del suo articolo choc su "L'Osservatore Romano".

__________



QUANTO CONCILIO ANCORA DA STUDIARE

di Piero Doria



Il 27 settembre 1967, per volontà di Paolo VI, nasceva l’Archivio del Concilio Vaticano II, [...] "un ufficio [temporaneo] per la stampa degli atti del Concilio, e per la sistemazione scientifica di tutto il materiale d’archivio". [...]

Al nuovo ufficio spettò pure il compito, secondo le intenzioni di Paolo VI, di provvedere a mettere a disposizione degli studiosi, con gradualità, l’ingente massa di documentazione. Papa Montini infatti era consapevole, come la storia dei concili insegna, che era importante fin da subito evitare derive teologiche o interpretazioni soggettive dei documenti che avrebbero potuto falsare sia lo spirito del Concilio, sia una corretta lettura degli stessi documenti conciliari, favorendo lo studio delle carte di archivio. [...]

L’Archivio del Concilio Vaticano II, che ebbe fin dalla sua istituzione come destinazione finale l’Archivio Segreto Vaticano, è la somma di più archivi particolari. [...] Quella di via Pancrazio Pfeiffer 10 fu la prima sistemazione dell’ufficio dell’Archivio. [...] Nel luglio 1975 l’ufficio viene trasferito nel Palazzo delle Congregazioni in piazza Pio XII, [...] dove è rimasto fino al 9 marzo 2000, [...] quando il cardinale Jorge Maria Mejía, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa e padre Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, presente il sottoscritto come incaricato della redazione dell’inventario, presero ufficialmente possesso dell’Archivio del Concilio Vaticano II.

Il versamento della documentazione nei locali dell’Archivio Segreto Vaticano avvenne nei giorni successivi, sotto la supervisione del prefetto, la mia collaborazione e quella di alcuni addetti dell’Archivio Segreto Vaticano. Al momento del versamento l’Archivio del Concilio contava 2.001 buste non numerate.

A conclusione delle operazioni di versamento e della ricostituzione fedele dell’ordinamento dato dall’Ufficio versante, iniziai a consultare per studio la monumentale documentazione per stabilire i criteri e il tipo di inventario da redigere e [...] apparve subito evidente la complessità della sua natura. [...]

Complessità confermata anche da alcuni promemoria di mons. Emilio Governatori, archivista, conservati nell’Archivio del Concilio, nei quali [...] con riferimento alla fase antepreparatoria e preparatoria ha scritto:

"Per ben due anni tutti i documenti concernenti le risposte dei vescovi, che costituivano il nucleo primo e più grosso dell’Archivio, servirono alla redazione dei volumi 'Acta et documenta': furono manipolati per questo gli stessi originali, in quanto che non esisteva una efficiente macchina per fotocopie. Spesso l’ordine dei raccoglitori veniva manomesso e ristabilito più volte, in quanto che gli incaricati della correzione delle bozze prelevavano i documenti necessari, senza avvertire affatto l’archivista".

E ancora:

"Non è mai esistito un unico e proprio incaricato dell’Archivio e del protocollo. Moltissimi documenti, tra i più importanti, venivano custoditi dallo stesso segretario nel suo archivio particolare: soltanto nel 1962, poco prima del Concilio, il segretario poté fare una revisione del suo archivio e molti documenti passarono nell’archivio generale. Molti documenti non furono mai protocollati o molto tardivamente: può darsi quindi che molti documenti non si trovino nell’ordine cronologico dovuto, sia come posto, che come protocollo". [...]

Queste testimonianze, tutte riscontrabili purtroppo, e anche altre (come la presenza eccessiva di fotocopie; l’utilizzo di testi originali o copie originali come bozze per la stampa; i voti dei vescovi sezionati e collocati per argomenti in buste diverse; lettere di accompagno e voti allegati, a volte non firmati, privi di data e di numero di protocollo, conservati in buste diverse; mancanza di alcuni registri di protocollo) indussero il prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano a convenire per la scelta [...] di procedere alla redazione di un inventario analitico, vale a dire documento per documento, di tutta la documentazione dell’Archivio del Concilio, pur consapevole che un inventario di tal genere avrebbe senza dubbio allungato i tempi del lavoro, ma avrebbe offerto, in compenso, sia uno strumento utilissimo di ricerca per gli studiosi, sia [...] un indice completo e totale della importantissima documentazione.

Allo stato attuale del lavoro sono state inventariate 1.465 buste su un totale di 2.153 per un numero complessivo di oltre 7.200 pagine di inventario suddivise in 18 volumi, di cui il XVIII ancora in corso ma che già comprende 408 pagine. [...]

Per quanto riguarda invece l’Archivio, [...] devo dire [...] che da parte dell’ufficio non sia stata prestata particolare attenzione al suo riordinamento e che, invece, il lavoro di pubblicazione dei volumi degli "Acta Synodalia" abbia assorbito per intero o quasi tutte le energie degli addetti dell’ufficio, soprattutto dopo il trasferimento nel dicembre 1968 ad altro incarico di Emilio Governatori che fino a quel momento era stato l’archivista della segreteria generale. [...] Mi sembra di poter dire che con il suo trasferimento [...] il riordinamento si interrompa e non sia stato più proseguito con lo stesso “entusiasmo” dai suoi immediati successori.

Solo tali ragioni possono giustificare un ordinamento così approssimativo della documentazione, soprattutto per ciò che riguarda la segreteria generale [del Concilio]. Per questa sezione, infatti, le buste sono state ordinate esternamente in maniera a volte confusa senza purtroppo fare particolare riferimento [...] né a un ordine cronologico, né a un ordine tematico, e soprattutto senza alcun tipo di numerazione esterna delle buste, che può aver causato, in parte, la collocazione fuori posto delle stesse dopo la loro consultazione. [...]

Bisogna tenere pure conto che non sempre le persone chiamate a ricoprire il ruolo di archivista avevano le competenze necessarie. [...] Valga qui un esempio per tutti: il registro di protocollo. I suoi criteri di redazione generalmente sono stati ben osservati; altre volte invece questi stessi criteri sono stati un po’ troppo personalizzati, con risultati a volte contraddittori come nel caso dei registri di protocollo redatti dal segretariato per l’unità dei cristiani. [...]

Altro aspetto da segnalare è la dispersione della documentazione, verificatasi durante i lavori conciliari, che però non significa necessariamente smarrimento delle carte. Purtroppo è accaduto, soprattutto per i segretari delle commissioni, di portarsi a casa il lavoro e, quindi, le carte d’ufficio. In alcuni casi queste carte sono andate perse, altre volte fortunatamente sono state recuperate.

Mi limito a segnalare due casi. Il primo riguarda il registro di protocollo della commissione teologica e della commissione "De doctrina fidei et morum". Purtroppo in questo caso bisogna parlare, almeno allo stato attuale, di smarrimento di questo prezioso strumento di ricerca. Nel 2006, infatti, segnalai questa mancanza al prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, che scrisse al sottosegretario della congregazione per la dottrina della fede. Purtroppo, la risposta della congregazione fu negativa, così come il sondaggio effettuato presso i padri gesuiti della Pontificia Università Gregoriana, dove risiedeva il padre Sebastiano Tromp [segretario della seconda delle due commissioni], non ha dato gli esiti sperati.

Il secondo esempio, invece, fortunatamente di segno opposto, riguarda l’archivio della commissione preparatoria "De sacra liturgia" che, come scrisse il cardinale Pericle Felici al cardinale Ferdinando Antonelli il 4 marzo 1967, era presso mons. Annibale Bugnini [e lì fu ricuperato].

Alcune recenti ed eccellenti pubblicazioni mi permettono, a questo punto, di introdurre il tema relativo alle nuove prospettive di ricerca.

Bisogna, infatti, chiedersi se per ricostruire le dinamiche conciliari siano ancora sufficienti i documenti editi in "Acta et documenta" e in "Acta Synodalia", pur importantissimi, come spesso accade anche in pubblicazioni recentissime, anche se almeno una di queste purtroppo di dubbio valore scientifico, o se non siano necessarie approfondite ricerche d’archivio come, per esempio, il libro di Mauro Velati e di altri studiosi dimostrano.

È evidente che la risposta, per quanto mi riguarda, risiede tutta nella seconda parte dell’affermazione precedente.

A questo proposito, desidero ricordare che nell’Archivio del Concilio Vaticano II esiste tutta una serie di carte e di documenti ancora inesplorati e che hanno un grandissimo valore per comprendere sia lo spirito del Concilio, sia la corretta ermeneutica dei documenti così come sono stati approvati dall’assemblea dei vescovi riuniti nella basilica vaticana e da Paolo VI.

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Il testo integrale dell'articolo di Piero Doria uscito su "L'Osservatore Romano" del 1 maggio 2012:

> Quanto Concilio ancora da studiare

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Nelle battute finali del suo articolo Doria cita "ad honorem" un libro di uno studioso che appartiene alla "scuola di Bologna" fondata da Giuseppe Dossetti e da Giuseppe Alberigo.

Il libro è una ricca raccolta documentaria relativa al segretariato per l'unità dei cristiani nel triennio antecedente l'inizio del Concilio Vaticano II:

Mauro Velati, "Dialogo e rinnovamento. Verbali e testi del segretariato per l'unità dei cristiani nella preparazione del Concilio (1960-1962)", Pubblicazioni dell'Istituto per le Scienze Religiose, Bologna, il Mulino, 2011.

Invece, poche righe prima, Doria critica come "purtroppo di dubbio valore scientifico" un'altra pubblicazione "recentissima" dedicata a una ricostruzione storica del Concilio. Non fa nomi, ma l'allusione sembra essere al seguente volume:

Roberto de Mattei, "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta", Lindau, Torino, 2011.


A proposito di questo libro, vedi in www.chiesa:

> La Chiesa è infallibile, ma il Vaticano II no (5.5.2011)

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Tra le carte riguardanti il Concilio Vaticano II tuttora inedite, eppure di grandissima rilevanza, vi sono i diari di colui che ne fu il segretario generale, Pericle Felici.

In un convegno nel ventennale della sua scomparsa, tenuto nel 2002 a Segni, sua città natale, monsignor Vincenzo Carbone, già archivista e curatore negli anni Novanta della pubblicazione degli "Acta Synodalia", attinse ai diari di Felici per tratteggiarne il ruolo in Concilio.

A margine del convegno, Carbone disse che stava lavorando per la pubblicazione di quei diari, con tanto di apparato critico, "tempo due anni".

Ma di anni ne sono passati dieci. E dei diari di Felici ancora non c'è traccia.

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Gli ultimi tre precedenti servizi di www.chiesa:

3.5.2012
> Diario Vaticano / "Per molti" o "per tutti"? La risposta giusta è la prima
Lo scrive Benedetto XVI ai vescovi tedeschi. E vuole che in tutta la Chiesa si rispettino le parole di Gesù nell'ultima cena, senza inventarne altre come nei messali postconciliari. Il testo integrale della lettera del papa

30.4.2012
> Diario Vaticano / Il Sant'Uffizio mette in castigo le suore americane
La laedership "liberal" delle religiose degli Stati Uniti è stata di fatto esautorata. Per ordine del papa. Ecco il documento della congregazione per la dottrina della fede che spiega come e perché

27.4.2012
> Dopo sette anni. Il segreto di papa Ratzinger
Benedetto XVI sarà ricordato più per le omelie che per le encicliche. E per i suoi gesti audaci, controcorrente. Come quando a Madrid, di fronte a un milione di giovani e nel bel mezzo di un violento temporale...

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Per altre notizie e commenti vedi il blog che Sandro Magister cura per i lettori di lingua italiana:

> SETTIMO CIELO

Ultimi tre titoli:

Crociata pro intercettazioni. Ma il Vaticano non ci sta

Allarme Cina. L'antidoto allo scisma è "made in Roma"

Allarme Cina. Il pericolo dello scisma

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7.5.2012
Caterina63
00giovedì 10 maggio 2012 11:23

Il Vaticano II alle radici d’un equivoco: la Siccardi presenta l'ultima fatica di Mons. Gherardini



«Il Vaticano II insegna veramente e soltanto ciò che fu rivelato e trasmesso?» E «il senso oggettivo delle parole usate dal Vaticano II corrisponde a quello del precedente Magistero ed in ultima analisi a quello della divina Rivelazione?» Due domande, “a bruciapelo”, che vengono rivolte da Monsignor Brunero Gherardini a tutti coloro che avranno la fortuna di leggere il suo ultimo libro, che brilla per chiarezza linguistica e teologica, dal titolo Il Vaticano II alle radici d’un equivoco (Lindau, pp. 410, € 26.00).

Sono trascorsi cinquant’anni (1962-2012) dall’apertura di un Concilio che sempre più diventa protagonista di un vero e proprio processo. Finalmente il tribunale si è aperto, grazie, in particolare, allo stesso teologo Gherardini (con il suo ormai celebre Concilio Vaticano II un discorso da fare) e allo storico Roberto de Mattei (con il suo Concilio Vaticano II, una storia mai scritta) per far entrare l’imputato, il Concilio Vaticano II.

Pur essendo i contenuti di questo scrupoloso volume assai profondi e complessi, il suo autore, com’è nel suo “gherardiniano” stile, rende la disamina fresca, vivace e vincente. Quest’opera nasce da un’ispirazione polemica, ovvero per rispondere alla malafede di alcuni studiosi e giornalisti nei confronti degli approfondimenti che il teologo da alcuni anni realizza con rigore. Alcune pennellate qua e là ironiche ricordano l’humor graffiante utilizzato dal beato John Henri Newman nel suo capolavoro Apologia pro vita sua, dove, anch’egli, come Gherardini, rispondeva a coloro che lo accusavano, con il coraggio proprio di chi sa, come direbbe san Tommaso d’Aquino, di essere posseduto dalla verità.

Gherardini non si è accodato alla vulgata, ovvero a tutti coloro che continuano ad osannare il Vaticano II in senso aprioristico e senza accettare un’analisi nel merito, ma è andato a fondo del problema, osservando da vicino il radicale cambiamento di rotta della Chiesa postconciliare ed individuando la causa di quel cambiamento negli atti dell’Assise. Ed ecco il grande “equivoco”, «dai più quasi mai preso in esame», matrice dei tanti equivoci e dei tanti errori che sono emersi a cascata: l’antropocentrismo. «L’uomo moderno, verso il quale si protende l’antropocentrismo conciliare, ne assorbe le idee che sovvertono i rapporti naturali e rivelati fra la creatura e il Creatore, diventa di codest’idee il portabandiera e l’araldo, e dalle medesime vien per così dir inchiodato in uno stato d’inconciliabilità con le verità della dottrina e della Tradizione». Ed ecco le derive della Nouvelle Théologie e della Teologia della liberazione.

L’equivoco antropocentrico trova per Gherardini le sue radici nella dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae), nella dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra aetate) e nel decreto sul dialogo ecumenico (Unitatis redintegratio). L’antropocentrismo ha contaminato tutta la cultura moderna e il pensiero maggioritario conciliare, e nulla «nel modernismo e nella sua assatanata reviviscenza neomodernista è risparmiato del tesoro di verità ricevute e trasmesse», ovvero la Sacra Scrittura, i dogmi, la Liturgia, la morale. Oggi quel tarlo modernista che erodeva dal di dentro è emerso con spavalderia, ma l’aula conciliare ne fu già testimone quando si trattarono tematiche nodali, che si distanziavano, nella loro elaborazione, dalla Tradizione.

Gherardini, dato il suo porsi in maniera critica di fronte al Concilio, è stato accusato di essere un “lefebvriano”, dando al termine, come sempre, un’accezione meramente negativa. Egli, a questo riguardo, afferma che pur non appartenendo alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, ne condivide le linee di costruttiva critica al Vaticano II.

L’autore, inoltre, punta la sua attenzione sul linguaggio conciliare e postconciliare, del tutto diverso dalla patristica e dalla Tradizione in genere; fa, inoltre, nome e cognome dei protagonisti delle moderne filosofie e teologie e non li interpreta, ma ne fa la radiografia delle idee; idee che hanno avvelenato lo spirito dell’Assise e «se la sacra gerarchia non blocca questa deriva antropocentrica, il domani della Chiesa non sarà più quello della Chiesa una santa cattolica apostolica nella sua gloriosa ed universalistica configurazione romana».
Cristina Siccardi
Caterina63
00martedì 15 maggio 2012 18:35

La « tesi Ocariz » contraddetta anche dalla « tesi Ratzinger »

 
 cardinale Ratzinger
 
 

          Cardinal Ratzinger : “[l’Istruzione “Donum Veritatis”] afferma - forse per la prima volta con questa chiarezza - che ci sono delle decisioni del magistero che non possono essere un’ultima parola sulla materia in quanto tale, ma sono in un ancoraggio sostanziale nel problema,innanzitutto anche un’espressione di prudenza pastorale, una specie di disposizione provvisoria.
Il loro nocciolo resta valido, ma i singoli particolari sui quali hanno influito le circostanze dei tempi, possono aver bisogno di ulteriori rettifiche. Al riguardo si può pensare sia alle dichiarazioni dei Papi del secolo scorso sulla libertà religiosa, come anche alle decisioni antimodernistiche dell’inizio del secolo
”. (Osservatore Romano, 27 giugno 1990, p. 6 ).
Monsignor Ocáriz : “il concilio Vaticano II non definì alcun dogma, nel senso che non propose mediante atto definitivo alcuna dottrina. Tuttavia il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia esercitato mediante il carisma dell’infallibilità non significa che esso possa essere considerato «fallibile» nel senso che trasmetta una «dottrina provvisoria» oppure «autorevoli opinioni». Ogni espressione di magistero autentico va recepita come è veramente: un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il «carisma della verità» (Dei Verbum, n. 8), «rivestiti dell’autorità di Cristo» (Lumen gentium, n. 25), «alla luce dello Spirito Santo» (Ibidem)”. (Osservatore Romano, 2 dicembre 2011, p. 6)


Il Cardinal Ratzinger afferma chiaramente che esiste un Magistero che è provvisorio e dà un esempio.Questo Magistero, secondo il Cardinale, non è l’ultima parola su una materia, ossia non si tratta evidentemente d’un Magistero infallibile, ma d’un Magistero puramente autentico, che potrebbe essere soggetto a rettifiche su alcuni aspetti.
Tale Magistero potrebbe essere l’espressione della prudenza pastorale, un contributo in rapporto ad un problema. Le decisioni prudenziali possono e talvolta debbono cambiare a seconda delle circostanze. Tale insegnamento inclina verso una posizione senza per questo condannare l’altra posizione. Si tratta d’un Magistero esercitato in un preciso momento e per le circostanze del momento, potendo quindi cambiare se le circostanze cambiano. Il Cardinale non afferma che tutto il Magistero non-infallibile è esplicitamente provvisorio, ma che esiste anche un Magistero di questo tipo. Classicamente questa sorta di Magistero provvisorio, è detto quello che afferma che una tale dottrina è tuta vel non tuta.

Tale Magistero non vuole metter fine alla questione, ma indica che una determinata dottrina, nel contesto contemporaneo a tale atto del Magistero, può essere insegnata senza pericolo per la fede o la morale oppure che, al contrario, essa non può essere insegnata senza mettere in pericolo la fede o la morale. Allo stesso modo, per esempio, una tesi filosofica può essere condannata come non tuta, non perché il Magistero la consideri falsa in maniera assoluta, ma perché nelle circostanze del momento (considerando in particolare lo stato in cui si trova la teologia, la filosofia o la scienza nel citato momento) non si riesce a conciliarla agevolmente col Deposito Rivelato ed è dunque imprudente tenerla. Col tempo il Magistero può condannare definitivamente tale teoria o affermarne la sua compatibilità con la Rivelazione. In tale quadro può vedersi il caso della condanna di Galileo Galilei, cui fu chiesto di non insegnare in maniera perentoria ciò che all’epoca era solo una tesi non provata e di non fare connessioni esegetiche con le sue teorie. In linea di principio dunque un Magistero puramente autentico e provvisorio può esistere, come l’afferma il Cardinal Ratzinger. Che tale sia il caso del Magistero contro la libertà religiosa del XIX secolo e delle decisioni magisteriali contro il modernismo all’inizio del secolo XX, resta quantomeno estremamente dubbio[1]. 

Un’analisi dell’affermazione di Mons. Ocariz non è facile, poiché il testo manca di chiarezza.
Si vuol semplicemente dire che il Magistero del Vaticano II non appartiene a questo tipo di Magistero fallibile provvisorio ?
Magistero che esisterebbe dunque altrove, ma non nel caso dell’ultimo Concilio?
Si può interpretare in tal modo la sua affermazione ambigua: “il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia esercitato mediante il carisma dell’infallibilità non significa che esso possa essere considerato «fallibile» nel senso che trasmetta una «dottrina provvisoria» oppure «autorevoli opinioni»” ? In tal maniera afferma forse che un atto di Magistero (puramente) autentico non trasmette necessariamente una dottrina provvisoria, benché possa farlo ? O in senso contrario vuole dire che nessun atto di Magistero (puramente) autentico può essere provvisorio ?

Sembra piuttosto essere questo ciò che la sua ultima frase vuole indicare, poiché, per spiegare l’affermazione che il Vaticano II non è provvisorio, finisce per inglobare tutto il Magistero autentico: “Ogni espressione di magistero autentico va recepita come è veramente: un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il «carisma della verità» (Dei verbum, n. 8), «rivestiti dell’autorità di Cristo» (Lumen gentium, n. 25), «alla luce dello Spirito Santo» (ibidem) »”. Mons. Ocáriz sembra quindi piuttosto escludere la possibilità di qualsiasi Magistero provvisorio, contraddicendo il Cardinal Ratzinger, la pratica della Chiesa e la dottrina comune dei teologi. 

Si deve inoltre affermare che un Magistero non-infallibile rimane sempre accompagnato da un certo carattere provvisorio, altrimenti si avrebbe a che fare con un Magistero sempre definitivo, immutabile, irreformabile, in finale infallibile. La distinzione tra fallibile e infallibile, data dalla Chiesa stessa, non avrebbe più alcun senso. Questo carattere provvisorio può essere espresso o direttamente (o esplicitamente) dal Magistero quando afferma che una dottrina è tuta vel non tuta, o indirettamente (o implicitamente) quando il Magistero afferma una dottrina (insegnandone la verità) o la condanna (insegnandone la falsità), senza tuttavia metter fine alla questione. Bisogna anche aggiungere che tale carattere provvisorio può avere più graduazioni. E tale Magistero puramente autentico, anche se non è direttamente o esplicitamente provvisorio non è de iure infallibile e resta riformabile. Si tratta d’un insegnamento che può contenere errori, anche se ciò resta assai raro, e conseguentemente non si può in nessun modo esigere un assenso assoluto per il solo fatto che si tratta d’un atto magisteriale dell’autorità ecclesiastica.
 
 
Don Daniel Pinheiro


                                                                                                


[1]Tale Magistero non è Magistero Straordinario Infallibile, ma è molto probabilmente Magistero Ordinario Pontificio Infallibile, fondato sulla Rivelazione stessa. Questa posizione ha inoltre, a suo fondamento, delle solide ragioni dottrinali e teologiche.  Sulla libertà religiosa si rinvia allo studio di Mons. De Castro Mayer.

Caterina63
00sabato 14 luglio 2012 11:55

Don Bux : « La Chiesa non è un concilio permanente »

Nella nostra attesa, non potevamo tralasciare questa tappa, speriamo significativa, segnata dalle parole di Mons. Bux, come ce le presenta La Porte Latine.

In una intervista esclusiva a Riposte catholique, don Nicola Bux, consultore di numerose congregazioni romane, uomo di fiducia del Santo Padre, ci conferma che « l'analisi critica » del Vaticano II è legittima e che il Papa auspica di tutto cuore la riconciliazione con Écône.

1 – Don Nicola Bux, lei recentemente ha pubblicato, insieme al cardinal Brandmuller e a Mons. Marchetto un libro che presenta le chiavi di Benedetto XVI per interpretare il concilio. Si tratta di un punto sensibile nel processo di riconoscimento della Fraternità San Pio X...
 
NB : Una corretta ermeneutica è del resto la prima chiave data da Benedetto XVI nel suo famoso discorso alla Curia romana sull'interpretazione e l'ecumenicità del Vaticano II. Il rinnovamento, o la riforma, nella Chiesa non può operarsi che nella continuità, alla luce dell'indissociabile binomio “nova et vetera”.
 
Ora i documenti del concilio sono stati tirati fuori dal contesto della Tradizione della Chiesa e spesso utilizzati come espressione d’un aggiornamento che, invece di associare “nova et vetera”, ha mistificato il concilio, non ritenendone che la novità. Quindi, il concilio è stato trasformato in una sorta di ideologia, di un “super-dogma” comme ha affermato l'allora cardinal Ratzinger ai vescovi cileni (13 luglio 1988).[1]
 
C'è bisogno di una veridica presentazione storica del concilio come strumento d’aggiornamento ai sensi del “rinnovamento nella tradizione”.
 
Un aspetto generalmente trascurato della comprensione del concilio è quello del consenso, del modo in cui esso si forma. L'avanzamento che vi ci porta passa attraverso il dialogo tra opinioni diverse che sfociano nell'elaborazione di una sintesi, per lo meno per quanto riguarda la dottrina non definita e ancora in evoluzione – le novità non sono necessariamente definitive e irreformabili ma sono orientamenti che il magistero pontificio ordinario interpreta, precisa, e sviluppa ulteriormente.
 
Bisogna inoltre tener conto che i documenti conciliari non sono tutti, sia tra essi che al loro interno, della stessa natura. A questo proposito non vedo perché il Vaticano II dovrebbe sfuggire all'analisi critica alla quale sono stati sottoposti i precedenti concili.
 
2 – Nella nota della Congregazione per la Dottrina della Fede che illustra la nomina a sorpresa di Mons. Di Noia alla vice presidenza della Commissione Ecclesia Dei, è stato affermato che « La nomina d’un prelato di questo rango [arcivescovo, NDLR] ad un simile posto » rappresentava da parte del Papa un « segno della sua sollecitudine pastorale verso i fedeli tradizionalisti in comunione con la sede apostolica, ma anche del suo vivo desiderio di veder riconciliate le comunità non in comunione ». Mons. Di Noia è dunque l'uomo scelto dal Papa per giungere infine al riconoscimento della FSSPX ?
 
NB : Non bisogna avere alcun dubbio sulle intenzioni del Santo Padre che ha tanto a cuore la riconciliazione e l'unità dei cristiani. Ogni cattolico, come ho già suggerito, deve amare la tradizione ed è per questo “tradizionale”. Inoltre, nella Chiesa, chiunque riceve una carica non deve promuovere le sue idee ma servire la verità, in piena fedeltà all'insegnamento del Sovrano Pontefice.
 
A questo riguardo, abbiamo bisogno di una seconda chiave per interpretare non soltanto il concilio ma anche tutta la vita della Chiesa : quella della Fede. Non è un caso che Benedetto XVI abbia scelto di promulgare un Anno della Fede. In realtà, a cosa deve servire il dibattito sul Vaticano II se non a riscoprire la natura del cristianesimo, necessario alla salvezza dell'uomo ? Attraverso l'intelligenza della Fede i cristiani devono concorrere all'intelligenza della realtà. Ecco il contenuto essenziale della fede di cui il Papa ha compreso tutta l'urgenza che si ha di riaffermarla di fronte alla concezioni che riducono al fede ad un discorso, un sentimento o un'etica.
 
Dobbiamo pregare perché tutti nella Chiesa siano docili allo Spirito Santo, Spiritus unitatis.
 
3 – Mons. Fellay, superiore generale della Fraternità San Pio X e a questo titolo anche depositario dello specifico carisma di quella che è l'eredità di Mons. Lefebvre, si è molto esposto per permettere le condizioni di una riconciliazione. Può confermare che ciò che auspica il Santo Padre, non è negare la singolarità della FSSPX ma piuttosto metterla al servizio della Chiesa ?
 
NB : Nella Lettera ai vescovi scritta da Benedetto XVI in occasione della revoca delle scomuniche dei vescovi lefebvriani, il papa ha dimostrato che conosceva bene e che amava questa larga frangia di fedeli che sono anche suoi figli. I passi compiuti dal Papa sono ispirati dalla “pazienza dell'amore” che, secondo San Paolo, deve caratterizzare tutti i discepoli di Gesù.
 
Mons Fellay, anche lui, ha dimostrato di essere animato dalla stessa virtù e non dubito che la maggior parte della Fraternità, vescovi e sacerdoti in primis, saprà imitarlo preservandosi dall'orgoglio ispirato dal Maligno. Seguiamo Gesù che è dolce ed umile di cuore. Ogni vescovo, ogni sacerdote, ogni cristiano deve avere a cuore l'unità perché è il bene più prezioso, secondo San Giovanni Crisostomo. È stata pagata al prezzo del Preziosissimo sangue di Nostro Signore che, proprio prima della Sua Passione, ha precisamente pregato : “Ut unum sint”.
 
Infine, se anche qualcuno cadesse in errore, la Chiesa è indefettibile perché Gesù l'ha fondata sulla roccia della fede che Pietro rappresenta. La sua unità è “inamissibilis”, non potrà mai sciogliersi perché essa è come la tunica di Cristo, solennemente esposta quest'anno a Trêves : senza cucitura, d'un sol pezzo. Le divisioni tra cristiani non possono distruggere l'unità della Chiesa.
 
Il primato del Papa è superiore al concilio. E la Chiesa non è un concilio permanente. A Pietro ed ai suoi successori, il Signore ha dato il potere delle chiavi : di legare e sciogliere sulla terra ciò che Lui simultaneamente lega e scioglie nel Cielo.
 
Per fortuna, oltre alla Scrittura, i cattolici hanno nella persona del papa un anticorpo visibile contro il conformismo : come scrive Dante ne La Divina Commmedia, noi abbiamo “il pastore della Chiesa per guidarci ; ciò basta alla nostra salvezza”.
 
Che la Santa Vergine – come attualmente le chiede il Santo Padre – faccia in modo che la Fraternità accolga con fiducia la riconciliazione che le è offerta dal papa e possa conoscere anche un nuovo sviluppo per il bene di tutta la Chiesa cattolica.
 
Intervista di Vini Ganimara su Riposte catholique del 10 luglio 2012 - by La Porte Latine
(traduzione mia)
___________________________
1. Nota di Chiesa e post-concilio
« La verità é che questo particolare Concilio [Vaticano II] non ha definito alcun dogma, e ha deliberatamente scelto di rimanere a un livello modesto, come un concilio meramente pastorale; eppure molti lo considerano quasi come fosse un super-dogma, che priva di significato tutti gli altri concili » (Cardinale Joseph Ratzinger, Santiago del Cile 1988).

Caterina63
00giovedì 23 agosto 2012 14:34

un equivoco nelle radici

 

Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco

 

 
 
 
Il Vaticano II. Alle radici di un equivocoRingrazio l'amico Piero Mainardi per averci fatto partecipi di questi brevi, ma significativi, testi tratti dal libro summenzionato di Mons. Brunero Gherardini.

‎"L'insistenza sull'ermeneutica riporta l'attenzione al linguaggio come strumento di comunicazione ... [questo problema] nacque dall'intento dei Padri conciliari d'adeguar il linguaggio evangelico e la dottrina della Chiesa alla mentalità dell'uomo contemporaneo, valorizzandone acquisizioni culturali ed aspirazioni largamente diffuse:' il desiderio di partecipazione, il senso della corresponsabilità, della solidarietà, della decisione personale, dell'interiorizzazione, della libertà religiosa, come pure della responsabilità dei laici, il ruolo della donna, l'attenzione verso i giovani, la ricerca universale della giustizia, della pace, dello sviluppo per tutti gli uomini' [cit. da H. Carrier, Il contributo del Concilio alla cultura, in Latourelle - a cura di - Vaticano II: bilancio e prospettive, venticinque anni dopo]- Con tale intento si pensava di attuare la sensibilità pastorale, che Giovanni XXIII aveva manifestato nel discorso d'apertura ... Da quel momento, cestinati per il loro linguaggio scolastico gli schemi predisposti dalla competente Commissione teologica che aveva potuto contare su un cardinal Ottaviani come presidente, sul padre Tromp come segretario, su 31 membri e 36 consultori - il meglio del mondo teologico d'allora - il Vaticano II prese subito quota sulle ali non della tradizione, ma della Nouvelle Théologie e dei suoi massimi esponenti ... precedentemente tacitati da Pio XII e dalla sua enciclica Humani generis ...

"... si pensò che la rinuncia al metodo e al linguaggio della Scolastica superasse il fissisimo della formula, il trionfalismo della verità posseduta, l'automatismo ed il rigorismo delle deduzioni in auge fino quel momento e si sperò che, grazie a tale rinuncia, d'andar incontro al mondo, alla sua cultura, alle sue attese su un piano di parità, comunicando per quanto possibile con lo stesso strumento, dialogando con la stessa metodologia. E nacque in tal modo mil tanto osannato linguaggio conciliare.
Che cosa sia, difficile dirlo. Le sue componenti non son poche, derivando le une dalla comunicazione biblico-patristica, le altre dal loro rapporto ... con la multiforme e pendula cultura del nostro tempo. Non si trattò d'un rapporto naturale: Sacra Scrittura e Padri della Chiesa non son legati al pensiero moderno e contemporaneo da nessuna parentela diretta. Il rapporto fu però stabilito perchè si voleva dimostrare quanto inutile e ingombrante fosse il linguaggio scolastico. Molto dipese da coloro che, o dall'interno coem 'periti', o dall'esterno come persuasori non sempre occulti e abilissimi agenti di pressione, riuscirono a far breccia nell'aula conciliare..."

" Una dimensione storica prese il sopravvento su quella speculativa e, soprattutto su quella Confessante. ... Cessò la teologia dall'alto come elaborazione di dati provenienti dalla Rivelazione e dal Magistero, ed emerse la teologia dal basso, dal 'posto ove noi viviamo' e dai problemi che son tutt'uno con questo posto e non con altri. Imperversò la categoria del 'mistero' di cui nessuno ignora l'importanza: ma il mistero, un poco alla volta tacitò la ragione. L'interesse per esso, invece di rispettarne la collocazione nella sfera del soprannaturale, gli aprì lo spazio riservato ai problemi temporali, alla loro attuale incidenza e contingenza storica ... Operando una mescolanza inaudita, nel mistero si lesse il coefficiente che avrebbe dovuto cambiare la qualità della vita e dei rapporti sociali, linguaggio compreso, e che, pertanto, esigeva un parallelo cambiamento del linguaggio teologico ...
Sì dichiarò guerra all' 'intellettualismo', accusandolo di falsificare Dio, il suo mondo e quello della Fede. In pari tempo si privilegiò la categoria dell'esperienza ... si proclamò ormai superata la fase del cristianesimo inculturato, per riconoscerlo implicito, ma vivo e vitale, in ogni anelito di giustizia, di bontà e di pace, qualunque fosse la sua matrice.
Quanto al cristianesimo della tradizione teologica, lo si prese con le pinze per analizzarlo in ogni suo particolare e liberarlo da qualunque dipendenza estranea. S'iniziò il suo ressourcement, la corsa alle origini, al fine di ritrovarvi il segreto di un cristianesimo vissuto semplice trasparente. S'intendeva con ciò disincagliare il discorso teologico dal suo incapsulamneto nella logica aristotelico-tomista ed agganciarlo all'esuberanza esperienziale del soggetto cristiano: il singolo e la comunità."

B. Gherardini, Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco. pp.222-223-224-225
tratto da: http://tertiumnondatur.blogspot.it/2012/08/il-vaticano-ii-alle-radici-di-un.html
 
un equivoco non senza effetti: qui sotto la situazione religiosa del Brasile in rapidissima fase di "decattolicizzazione" evidenzia non certo i segni di una primavera ma di un prococe inverno
un equivoco non senza effetti la situazione religiosa del Brasile in rapidissima fase di "decattolicizzazione".
 



[SM=g1740771]
Caterina63
00venerdì 7 settembre 2012 19:03

I frutti della "Primavera del concilio"

 
Come ogni mese, pubblico l'Editoriale di Radicati nella Fede. Ho notato che ora sono diversi i blog cattolici che lo riprendono; ma ugualmente lo inserisco a disposizione di chi passa di qui. Questo è l'ultimo, di Settembre:

Ma dov'è la primavera del Concilio? Dove sono i suoi frutti?

C'è un dogmatismo nuovo, che non riguarda i dogmi di sempre, le verità eterne rivelate da Dio e custodite dalla Chiesa nel suo Credo; è un dogmatismo di opinione, su una questione che ti vietano di discutere: i frutti della primavera del Concilio. Si può variare quasi tutto nella Chiesa di oggi: le verità di fede ti concedono di reinterpretarle.
 
Se i comandamenti ti stanno stretti, una schiera di teologi e pastori ti suggeriscono di situazionarli nel contesto attuale, così da addolcirli. Se poi obbedire non ti va, puoi sempre scoprire un nuovo carisma che ti cada su misura. Puoi fare tutto o quasi, tranne mettere in discussione la primavera del Concilio.
 
La senti questa affermazione sulla bocca di molti addetti ai lavori, dei pastoralisti, la senti come mannaia tranciante se esprimi il desiderio di tornare alla grande Tradizione della Chiesa. Ti concedono una messa antica, purché tu riconosca i frutti del Concilio, senza discutere.
 
E di fronte a questa propagandata certezza, anche i perplessi stanno zitti, per paura di essere esclusi da tutto. Se poi, come nella favola del re nudo, uno con l'anima di fanciullo osa alzare la voce e gridare: ma dove sono questi frutti? Io non li vedo!... il silenzio si fa assordante e minaccioso.
 
Cari amici, dite un po', dove sono i frutti? È forse aumentata la pratica della vita cristiana? C'è più gente a Messa alla Domenica? I comandamenti sono maggiormente osservati? Le famiglie danno più esempio di fedeltà e virtù? Sono aumentate le vocazioni sacerdotali? E quelle religiose di frati e suore? Si aprono nuovi conventi? La gioventù ama di più Nostro Signore? La gente prega meglio e di più? Molti nelle terre di missione si convertono abbandonando le false religioni e le sette? Molti missionari partono per portare la grazia di Dio e la fede sino ai confini della terra?
 
Diteci, quali sono allora i frutti della primavera del Concilio?
 
In alcuni momenti la Chiesa, nelle nostre terre, appare un grande cantiere in vendita, coperto con la facciata di grandi assemblee, fatte per intrattenere i fedeli illudendo sulla situazione.
 
Certo che c'è sempre molto bene nella Chiesa, bene per lo più umilmente nascosto, ma questo non giustifica dal non guardare la situazione generale.
 
Al bambino che grida: il re è nudo!, ci si affretta a dire che il disastro sopra descritto è causato dal mondo, dalla società che è cambiata. I tempi sono cambiati, allora i frutti della primavera del Concilio saranno più interiori e meno visibili. Si affretteranno a dire che è volontà di Dio questo radicale cambiamento, che a noi sembra proprio un grande crollo.
 
Troppo comodo questo modo di procedere, così ci si sottrae a qualsiasi verifica! Stiamo ai fatti, siamo realisti!
 
Quando non si vuol discutere una cosa è perché è già diventata ideologia.
 
La colpa di questa terribile crisi della fede e della pratica cristiana non può essere imputata principalmente alla modernità... questa c'era già prima di questa strana primavera che ha bruciato nel gelo tanti boccioli di santità.
 
La modernità atea e agnostica, laicista e anticlericale c'era già da tanto tempo, ma la vita cristiana non fu fermata da essa, anzi, nella lotta si fortificava e accoglieva nel suo seno tante anime che si convertivano.
 
No, qualcosa di terribilmente ingannevole è successo: si è deciso che questa modernità senza Dio non era più da combattere, ma da abbracciare. Si è detto che da questo abbraccio doveva sbocciare una fiorente stagione per il cristianesimo e per il mondo... ma tutto questo non è avvenuto. E le profezie che non accadono, lo sappiamo dalla Sacra Scrittura, non venivano da Dio.
 
C'è ancora chi dice che è troppo presto valutare questa primavera conciliare, e che 50 anni sono pochi! Quante vittime nella fede dovremo ancora vedere per poter dare un giudizio?
 
Nella Chiesa i dogmi sono le verità di fede rivelate da Dio e trasmesse e custodite dalla Magistero.
 
Contrariamente dagli slogan delle opinioni ecclesiastiche, che non diventeranno mai dogmi, anche se pronunciate da chi ha un posto di riguardo nella Chiesa. I dogmi li rivela Dio e li trasmette la Chiesa. Le opinioni sulle situazioni storiche, queste dobbiamo avere il coraggio di sottoporle a verifica, pena il combinare un grande e tragico pasticcio nella fede.

Caterina63
00domenica 9 settembre 2012 16:38
[SM=g1740733] Lo "iota unum" del card. Biffi: l'ideologia post-conciliare

LAMENTAZIONE SUI TEMPI PRESENTI

 

di Giacomo card. Biffi

 

L’ideologia post-conciliare

 

Essa deriva sì storicamente dal Vaticano II e dal suo magistero, ma attraverso un processo di “distillazione fraudolenta” immediatamente posto in atto all’indomani dell’assise ecumenica. L’operazione potrebbe schematicamente essere descritta così: la prima fase sta nella lettura discriminatoria dei passi conciliari, che distingue tra quelli accolti e citabili, e quelli da passare sotto silenzio; nella seconda fase si riconosce come vero insegnamento del concilio non quello effettivamente formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe dato se non fosse stata afflitta dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito;con la terza fase si arriva a dire che la vera dottrina del concilio non è quella di fatto canonicamente approvata ma quella che avrebbe dovuto essere approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coraggiosi, più coerenti.
Con un metodo esegetico siffatto - non enunciato mai in modo esplicito, ma non per questo meno implacabilmente applicato - è facile immaginare i risultati. I quali, per quanto remoti siano dalla verità cattolica, vengono sempre messi in conto al Vaticano II; e chi si azzarda anche timidamente a dissentire è segnato col marchio infamante di “preconciliare”, quando non è addirittura classificato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti. E poiché tra i “distillati di frodo” dal Vaticano II c’è anche il principio che nessun errore può essere condannato nella Chiesa a meno di peccare contro il dovere della comprensione e del dialogo, nessuno osa più denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando il popolo di Dio.

 

Concilio e “post-concilio”

 

Credo che il lavoro preliminare da compiere sia di distinguere accuratamente il concilio dal “postconcilio”, in modo che si possa accogliere il primo con totale cordialità e valutare il secondo alla luce del primo e di tutto l’insegnamento rivelato con animo libero da qualunque intimidazione e da qualunque ricatto culturale. Questa distinzione non deve turbare un cuore credente. Chi alla luce della fede riflette sulla storia della salvezza, sa benissimo che nella nostra vicenda come non c’è evento nefasto dal quale Dio non ricavi qualche bene per i suoi figli, così non c’è divino capolavoro che il demonio non tenti di tramutare per qualche aspetto in occasione di malessere e di rovina. Il che vale anche per il Vaticano II, opera senza dubbio provvidenziale e supernamente ispirata.

 

Gli “idoli” post-conciliari

 

Propiziati dal “post-concilio”, nella coscienza della cristianità contemporanea si celano, come nella sella del cammello di Rachele (Gn 31,19.34), molti svariati idoletti. Non tentiamo di ricordarli tutti ovviamente; ci limitiamo a segnalare quelli che più vistosamente influenzano tanto la ricerca teoretica quanto l’attività pastorale.

 

1. La “antropolatria”

 

Nei primi decenni del secolo XIX Feuerbach affermava che “il segreto della teologia è l’antropologia” e vagheggiava l’avvento di una teologia di nuovo genere, contrassegnata dal fatto “che essa pone nell’al di qua l’essere divino che la teologia comune, per paura e incomprensione, pone nell’al di là”. Viene da pensare che il pensatore tedesco, sia pure anonimamente, abbia fatto scuola presso molti cattolici della seconda metà del secolo XX e che la sua aberrante intuizione, probabilmente veicolata dalla grande ubriacatura marxista, dopo tanto tempo sia stata tacitamente ricevuta. L’uomo sembra divenuto l’unico oggetto dei nostri pensieri, dei nostri interessi, della nostra adorazione. E, nel desiderio di coglierlo in se stesso, nella sua autonoma e singolare natura, si è addirittura proposto da qualcuno che anche il credente debba guardare l’uomo “ut si Deus non daretur”, come se Dio non ci fosse, prescindendo cioè dal suo Creatore e valutando soltanto l’umanità come tale, presa a sé e separata da qualunque dipendenza e da qualunque superiore significazione. Sennonché l’uomo è intrinsecamente e non per un sopraggiunto rivestimento “immagine di Dio” e totale relazione a lui; e dunque escludere Dio sia pur metodologicamente dalla prospettiva sull’uomo vuol dire snaturare l’uomo e non coglierlo nella sua verità.
Se con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che credono in Dio avvertono quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa (Gaudium et spes, 36). Si arriva così anzi a una contraddizione esistenziale. Noi siamo “adoratori costituzionali”: privati ideologicamente del vero Dio, rivolgiamo necessariamente altrove i nostri insopprimibili impulsi latreutici e ci poniamo ad adorare le creature, prima di ogni altra l’uomo. D’altra parte, l’uomo avulso dal suo Archetipo e dalla sua Sorgente è così fragile, debole, manipolabile, che, nell’atto stesso in cui crediamo di adorarlo, poniamo le premesse della sua profanazione. È facile rilevare come lo smarrimento del Padre abbia di solito fatalmente condotto sia al culto indebito della personalità e alla venerazione del tiranno sia alla schiavizzazione dei fratelli.
Naturalmente questa “antropolatria” non ha niente a che vedere con l‘“antropocentrismo” di chi riconosce nell’uomo “il culmine dell’universo e la suprema bellezza del creato”, colui che detiene “la sovranità su tutti gli esseri viventi”, come dice sant’Ambrogio. L’antropocentrismo è prerogativa essenziale del disegno divino, in quest’ordine di cose liberamente eletto tra gli infiniti possibili, dal momento che il Padre ha collocato Cristo Gesù, uomo divinamente personalizzato, al centro di tutto e in lui ha chiamato tutti gli uomini a sé, facendoli partecipare, mediante l’inabitazione dello Spirito Santo, prima alla sua natura e poi alla sua stessa gloria. Come si vede, il vero antropocentrismo include nel suo stesso contenuto concettuale il rapporto privilegiato col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e non lascia spazio ad alcuna forma di antropolatria. Antropolatria e antropocentrismo, anche se all’esterno possono presentare qualche somiglianza, nella realtà sono dunque diversi e incompatibili. L’antropolatria è propria di chi ha “cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile” (Rm 1,23); ed è l’approdo obbligato di chi, perdendo di vista l’Autore dell’essere e della vita, ha in sostanza una visione atea del mondo. L’antropocentrismo è proprio di chi onora l’uomo per quello che l’uomo è; esso non insidia affatto il culto del vero Dio, costituisce la predella da cui ci si può lanciare al riconoscimento del Padre. La cultura antropolatrica dà regolarmente origine a società disumane, nelle quali l’uomo - teoricamente adorato - è di fatto avvilito, reso servo, privato di ogni scopo plausibile dell’esistere.
La cultura antropocentrica è un appello intrinseco al Padre e al suo disegno d’amore, senza di che l’uomo non solo non può essere visto come il centro di tutte le cose, ma appare piuttosto un frammento trascurabile di materia alla deriva sul mare dell’insignificanza. L’esteriore somiglianza può talvolta indurre in equivoci; ma non - c’è dialogo o convivenza possibile tra antropolatria e antropocentrismo, a meno che l’una o l’altra comincino a non essere più nei fatti quello che il loro nome significa in sé. In realtà la questione della riscoperta del Padre è preliminare a ogni serio discorso su un umanesimo non illusorio. Una delle citazioni più frequentemente ripetute in questi anni è la splendente frase di Ireneo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”. Se ne coglierebbe meglio la verità, si eviterebbe il pericolo di travisamenti ideologicamente strumentalizzati, si dimostrerebbe maggior rispetto verso il pensiero dell’antico scrittore, se ci si abituasse a riferirla nella sua integrità: “La gloria di Dio é l’uomo vivente; ma la vita dell’uomo sta nella contemplazione di Dio”.

 

2. La “cronolatria”

 

Il secondo idolo è stato indicato da J. Maritain, quando ha parlato di “cronolatria” o “adorazione dell’attualità”. La lucidità della denuncia del pensatore francese non ha però impedito che questo “culto” si estendesse e si affermasse sempre più nella cristianità, al punto da essere ormai un’abitudine mentale acquisita che neppure sente più il bisogno di giustificarsi. Senza affermarsi mai espressamente, essa trapela in modo spesso involontario e quindi tanto più significativo dal linguaggio d’uso corrente, nel quale l’aggettivazione del biasimo teorico non è: falso, errato, illogico, cattivo, aberrante; ma piuttosto: superato, sorpassato, attardato, vecchio. Non conta tanto la verità quanto la formulazione recente. Le idee, come le uova, devono essere “di giornata”. Talvolta si sente perfino squalificare un teologo o un vescovo con la frase: “è fermo al concilio di Trento”; dove è mirabile il fatto che la condanna sia espressa con l’indicazione non di ciò che, una volta dimostrato, potrebbe costituire una giusta critica (e cioè, ad esempio, la non consonanza con l’insegnamento del Vaticano II), ma di ciò che dovrebbe se mai rappresentare un titolo di merito (e cioè la fedeltà alla dottrina di un magistero solenne che, per quanto antico, resta tuttora autorevole). E con questa disinvoltura “cronolatrica” ci si dispensa dall’addurre le prove di una eventuale infedeltà al magistero più recente. Allo stesso modo, veniamo spesso esortati a pregare per gli “uomini del nostro tempo”, come se qualcuno fosse mai tentato di ricordare nelle sue orazioni gli assiro-babilonesi; o a vivere nel “mondo di oggi”, contro il pericolo di sconfinare inavvertitamente nell’epoca carolingia; o a impegnarci a “essere moderni”, che è un po’ come se una mucca si impegnasse ad avere la coda. Non ci si meraviglia allora di notare che il tema della “vita eterna” si faccia sempre più raro nei discorsi ecclesiastici, dove invece hanno sempre più larga parte le questioni del “tempo presente”.
Queste è giusto e doveroso affrontare senza evasioni alienanti, ma non “invece di quella”, bensì “alla luce di quella”: solo con la coscienza sempre pungente della “vita eterna” e della sua impareggiabile rilevanza è possibile “redimere il tempo presente”, ridonandogli senso e spessore. Naturalmente non c’è niente di male nell’uso di queste locuzioni, le quali possono anche avere la buona finalità di richiamare il cristiano da un atteggiamento “astratto” e troppo remoto dalle condizioni esistenziali. Ma, considerate come un “vezzo linguistico”, sono la spia di un atteggiamento spirituale indebitamente ossessionato dal culto dell’attualità. Si ha talvolta l’impressione che i credenti si ritengano piuttosto mobilitati a riscattare il tempo presente, non dalla vanità e dalla malizia dei “giorni cattivi” (cfr. Ef 5,16), ma proprio dalla incombenza oppressiva dell’eterno, il quale - se è troppo insistentemente rammemorato - si teme non lasci spazio all’inserimento nel quotidiano. Il caso è preoccupante: quando si scambia il fondamento della libertà con la ragione della tirannia, la medicina con la malattia, la fonte dell’energia con la causa della paralisi, le speranze di sopravvivere sono poche. Di solito, poi, prevaricare nei confronti della fede porta anche ad attentare alla ragione. E in effetti la “cronolatria”, rovesciando la prospettiva cristiana, guasta altresì i meccanismi del raziocinio. ”Lo spirito che si inquieta per la verità e arriva a cogliere la verità, trascende il tempo”.
Perciò “sottoporre le cose dello spirito alla legge dell’effimero, che è quella della materia e del puro fatto biologico”, vuol dire soffocare la vita stessa dell’anima. Quando resta se stessa e non viene traviata, “la ragione non si preoccupa di essere inserita o di accettare la storia, né allo stesso modo si interessa e si dà pena di essere contemporanea, ma solo di essere ‘ragione’, perciò di essere vera”.

 

3. La “cosmolatria”

 

Di tutte le idolatrie che ci affliggono, l’adorazione del mondo è senza dubbio la più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male della Sposa di Cristo senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma se azzarda a scrivere due righe contro il “mondo”, deve aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da parte dei recensori più benevoli e pii. Questa “cosmolatria” fa tanto più spicco in quanto stride con tutta la consuetudine linguistica dell’ascetica tradizionale: la “fuga dal mondo”, la “rinuncia al mondo”, il “disprezzo del mondo” dai primordi del cristianesimo fino a pochi anni fa sono, stati temi classici della riflessione e della predicazione; ebbene, di essi nelle comunità cristiane di oggi non si trova più traccia. Al loro posto si propone l’ “inserimento nel mondo” e perfino il “servizio del mondo”. A esaminare con attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per esempio, alcuni formulari suggeriti da qualche parte per le preghiere dei fedeli) si ha l’impressione che i due vocaboli “mondo” e “Chiesa” rispetto all’uso di prima si siano semplicemente scambiati di senso. Si implora sempre infatti che la Chiesa capisca, riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga riconosciuto e appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue necessità, esaltato nei suoi valori.
Ad ascoltare certe celebrazioni del mondo viene da domandarci perché mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la Chiesa, peggiorando notevolmente le cose. Almeno sul piano terminologico è innegabile la rottura con tutta la tradizione precedente. Ma è davvero soltanto una questione di vocabolario?
All’origine di questo mutamento c’è la “Gaudium et spes”; ma si tratta della “Gaudium et spes” passata al filtro della ideologia post-conciliare e, così mortificata, acriticamente accolta da molti strati della cristianità. Affrontando il tema dei rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo, il Vaticano II ha compiuto un’opera preziosa di chiarificazione e di illuminazione. Mettendosi nella prospettiva della Genesi e della Somma teologica, vale a dire considerando la natura umana e il mondo in ciò che li costituisce in se stessi, la Costituzione pastorale afferma senza esitazioni la loro bontà radicale e l’invito al progresso che, per quanto ostacolato dall’ambiguità della materia e dalle ferite del peccato, è iscritto nella loro essenza.
E mostra, non solo in maniera generale ma con analisi molto accurata e con tutta la generosità che deriva dalla divina carità, come la Chiesa, restando perfettamente nel campo della sua missione esclusivamente spirituale e nell’ambito delle “cose di Dio”, possa e voglia aiutare il mondo e la specie umana nel loro sforzo di avanzare verso i loro fini temporali. A dire il vero si trova qui nuovamente affermata la dottrina perenne della Chiesa - ma con connotazioni nuove ed eccezionalmente importanti, dal momento che è riaffermata sotto il segno della libertà - non più per rivendicare il diritto della Chiesa di intervenire ratione peccati nelle cose del mondo al fine di combattere il male (a questo, credo, sarà sempre obbligata, sotto una forma o l’altra), ma per dichiarare il suo diritto, e la sua volontà, di animare, stimolare, assistere dall’alto, ratione boni perficiendi, se posso dire, e senza attentare all’autonomia del temporale, gli sviluppi del mondo verso il raggiungimento di un bene più grande. Ma l’ideologia postconciliare, oltrepassando indebitamente questa prospettiva, ha letto il documento come se esso avesse voluto offrire - a proposito delle relazioni tra il “mondo”, di cui si parla ripetutamente negli scritti apostolici, e la Chiesa - un insegnamento in netto contrasto con quello delle pagine di san Giovanni e di san Giacomo.
Il prevalere di questa ideologia ci spiega come mai in questo tempo di esasperato biblismo ci siano molte frasi del Nuovo Testamento che non si ascoltano mai: è una sorta di censura tacita ma severissima, esercitata sul Libro di Dio. Proprio perché la parola di Dio non sia incatenata (cfr. 2 Tm 2,9), ne trascriviamo un po’ per comodità del lettore.”Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive” (Gv 7,7).”Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv12,31).”Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv 14,27).”Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,18-19).”Quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio” (Gv 16,8).”Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).”Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 17,9).”Io ho dato loro la mia parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,14).”Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17,25).”Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (1 Gv 2,15).”Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!” (1 Gv 2,17).”La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui” (1 Gv 3,1).”Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia” (1 Gv 3,13).”Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa é la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,4-5).
”Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1 Gv 5,19).”Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27).”Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio!” (Gc 4,4).”Il mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio” (1 Cor 1,21).”Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio” (1 Cor 2,12).”La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio” (1 Cor 3,19).”La tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10).”Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Sappiamo benissimo che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento altre espressioni nelle quali la parola “mondo” indica la creazione di Dio che è buona, e l’umanità che è in attesa della salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non saperlo, perché sono passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte le parti; sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes, fortunatamente non si pone. Si pone invece per quelle che abbiamo sopra elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella cristianità dei nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato soltanto il linguaggio, sotto quali locuzioni dei nostri giorni questa dottrina si cela? Tutto sembra farci pensare che si tratti non del disuso di una terminologia, ma di un insegnamento esplicito della Rivelazione che non ha più posto nell’odierna riflessione teologica e pastorale. Così, privo delle naturali difese immunizzatrici, l’organismo ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella “cosmolatria” che stiamo qui denunciando. Occorre ripartire dal dato rivelato preso nella sua integrità, senza operarvi nessuna aprioristica selezione. Una frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la multiformità della parola di Dio a proposito di “mondo”.”Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10).In due righe il vocabolo compare tre volte e sempre con sfumature diverse.”Era nel mondo”: si riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella realtà creaturale.
E’ una indicazione che non implica alcuna valutazione. Nello stesso senso la parabola del seme dice: “il campo è il mondo” (Mt 13,38). ”Il mondo fu fatto per mezzo di lui”: qui è implicitamente affermata l’originaria bontà del mondo, e quindi la presumibile disposizione di accoglienza verso il Figlio di Dio. Allo stesso modo è detto che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). ”Eppure il mondo non lo riconobbe”: qui la parola “mondo” esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente, ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre l’iniziativa salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente ammonito di non perdere mai di vista e non sottovalutare questa tragica realtà. Il mondo è dunque o un semplice spazio o una realtà nativamente buona ma da redimere o una forza malvagia che resiste alla redenzione e cerca di vanificarla. Nessuna di queste tre verità va trascurata Ciò che non c’è nel Nuovo Testamento è l’idea che la Chiesa debba essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo. Neppure c’è l’idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa. Chi muove dalla pur giusta convinzione dell’intrinseco e inalienabile valore delle cose, create da Dio e da lui riconosciute come “buone” (cfr. Gn 1), e ritiene che qui si esaurisca quanto il cristiano ha da dire sul “mondo”, rischia obiettivamente di non riconoscere la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la redenzione e di rendere superflua la croce di Cristo.
Molti atteggiamenti rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del “mondo” sarebbero plausibili in un ordine di cose di incontaminata innocenza; un ordine bello in sé e desiderabile, che però non esiste. L’irenismo a ogni costo nei confronti di tutto e di tutti è forse una nostalgia per la pace del Paradiso terrestre (dove per altro non mancava il serpente); o, se si vuole, è un’abusiva pregustazione dello stato d’animo che ci rallegrerà nell’eterna Gerusalemme: rispetto al tempo di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione. Il “servizio del mondo”. Parrebbe anche utile una breve riflessione circa il “servizio del mondo”, che ci viene indicato spesso come dovere della Chiesa e dei credenti. L’affermazione è carica di ambiguità e, se non è chiarita, può alla lunga provocare una visione distorta dell’impegno cristiano. Gli equivoci possibili sono due: sul concetto di “mondo” e sul dovere del “servizio”. Per “mondo” qui si può intendere solo l’umanità che - dolorante, sviata, senza luce - è in attesa della salvezza. Non certo il “mondo” per il quale il Signore non ha pregato e che poi dalla parola di Dio siamo invitati a odiare; della cui oscura esistenza non dobbiamo mai dimenticarci. E il “servizio” più urgente e necessario che può essere reso agli uomini decaduti e infelici è l’annuncio del Salvatore e del progetto d’amore che il Padre ha pensato per noi: questa é la vera “promozione umana”, che poi diventa la molla propulsiva di ogni altro “progresso” nel benessere, nella pace sociale, nella giustizia terrena. Va anche detto che l’unico a dover essere propriamente e direttamente servito da noi è il Figlio di Dio, Gesù Cristo. “Ci sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore” (1 Cor 12,5). Nessun altro può essere riconosciuto come padrone. Vero è che l’unico nostro Signore si è fatto “servo” di tutti: e noi, se vogliamo veramente e concretamente servirlo, dobbiamo servirlo anche associandoci a lui in questo servizio degli altri e attendendo dunque alle necessità reali di tutti. La delucidazione, che può sembrare sottile e puntigliosa, è invece essenziale: noi, servi di Cristo, diventiamo in lui servi degli uomini; ma non per questo siamo tenuti a dare agli uomini sempre ciò che a loro piace o che da noi essi si aspettano. Noi abbiamo il “foro”.

Un secondo esempio significativo è dato dal fenomeno del monachesimo, che, chiudendosi nel microcosmo del monastero per inseguire l’ideale di una vita evangelica perfettamente coerente, di fatto ha contribuito in modo determinante al sorgere della nuova Europa. È curioso notare nella storia ecclesiale che il programma spirituale e culturale della “fuga dal mondo” di solito riesce ad animare un’azione incisiva nella società e a riplasmarla effettivamente alla luce del Vangelo. Basti pensare all’incidenza nella realtà sociale e politica del suo tempo di sant’Ambrogio, che pure ha scritto un De fuga saeculi e teorizza continuamente nei suoi scritti l’urgenza della solitudine.

 

4. La “schizolatria”

 

La quarta “latria” nasce ed è alimentata da una “fobia”. La paura ossessiva dell’integralismo - cioè dell’abitudine mentale a risolvere tutti i problemi umani di ogni ordine e grado deducendo immediatamente le soluzioni dai princìpi di fede - induce alcuni incauti al culto esasperato della divisione degli ambiti e alla esaltazione della totale impermeabilità tra un piano e l’altro dell’impegno umano. Alcune annotazioni si impongono a questo proposito. L’inerzia mentale, lo schematismo linguistico, l’incapacità a seguire l’effettivo succedersi dei mutamenti culturali cospirano a tenere nascosto agli occhi di molti il fatto che un integralismo cattolico - che pur ha avuto una sua lunga e deleteria stagione - oggi non esiste più se non in frange trascurabili della cristianità. È morto da un pezzo, anche se il suo fantasma è continuamente evocato da alcuni sprovveduti e da molti interessati. A lottare contro le ombre non c’è pericolo di farsi male, e perciò sono numerosi i prodi che si slanciano in queste battaglie. Per contro esistono - graffianti, acritici, sicuri di sé - altri integralismi di vario colore: c’è un integralismo marxista, un integralismo radicale, un integralismo laicista, un integralismo liberale, perfino un integralismo mazziniano.
Ogni “parrocchia” politica in Italia ritiene di avere una concezione totalizzante della realtà, in grado di portare luce su ogni questione, ivi comprese quelle che si riferiscono alla coscienza morale, ai contenuti dell’impegno religioso. alle forme di esercizio del, magistero ecclesiale. Tutte queste “parrocchie” si adoperano a tenere viva la fobia dell’integralismo cattolico; e il più delle volte viene contrassegnato con questa etichetta ogni desiderio di coerenza cristiana ed è condannata a questo titolo ogni determinazione di irradiare la fede nella cultura e nella vita. Né c’è da stupirsene; stupisce piuttosto che questo tipo di intolleranza trovi consensi in molti credenti anche sinceri. Ma la schizolatria è soprattutto un attentato alla retta visione cristiana della realtà. Essa sembra dimenticare totalmente l’esistenza di un solo Signore, nel quale, per mezzo del quale, in vista del quale tutto esiste, sia nell’ordine della redenzione sia nell’ordine della creazione. Conseguentemente colpisce al cuore l’unità del piano divino e la stessa ultima intelligibilità di questo universo di fatto esistente. Ci sia consentito riprodurre qui alcune pagine lucidissime di Inos Biffi, meritevoli di rilettura e di approfondita meditazione. ”Il primo punto di partenza non esatto è la suddivisione, anzi la distinzione tra piano creaturale / o di natura, e piano redentivo / o della grazia.
Questa distinzione, che per qualcuno arriva persino alla separazione, non è teologicamente accettabile e proponibile. Essa viene a misconoscere il dato primo dell’attuale e concreto ordine di realtà: ed è il progetto originario, assoluto e totalizzante - su cui abbiamo già insistito - consistente nella predestinazione dell’uomo e dell’universo in Gesù Cristo risorto da morte. E’, indubbio che Dio avrebbe potuto concepire un altro ordine di provvidenza; è indiscutibile che solo la fede - che fa uditori della Parola - trasmette integralmente questo disegno originario di fronte al quale tutti gli altri sono ipotetici: ma questo è in ogni modo un fatto, fuori del quale esiste solo, obiettivamente, la non esistenza o l’ipotesi. Una teologia corretta non accetterà mai un ordine naturale e ad esso giustapposto un ordine soprannaturale concretamente esistenti e che si tratterebbe di tenere uniti. E di conseguenza: una specie di natura-ragione neutra, valida per tutti, non riferita a Gesù Cristo, di “pura” entità “creaturale” (ossia dipendente dalla pura creazione). Ne deriva che, se per mediazione si dovesse intendere l’atto di chi si sforza di mettere insieme tali due ordini inizialmente separati, essa è semplicemente scorretta e impossibile.
Purtroppo ci è dato di constatare che un certo linguaggio e certe impostazioni concettuali traducono esattamente questa inconsistente dicotomia. Manca un pensiero che traduca, oltre la cultura religiosa e storica, una dottrina teologica criticamente fondata. La verità è un’altra: nel disegno originario in Gesù Cristo è compresa la “ragione”, la “filosofia”, l’incontrovertibilità, dell’essere e vi è compresa non come sostituibile dalla fede, ma nella sua specificità. Per il fatto di essere creata in Gesù Cristo la ragione non smette di essere tale: l’accoglienza per fede del disegno divino in Cristo non la degenera e non la umilia. Per poter giustamente parlare di mediazioni bisogna uscire da questo equivoco. Il cristiano va anche più avanti: egli intende la grazia non solo non adulterante, ma di fatto sanante la ragione: la redenzione in certo modo rende la ragione a se stessa. Un secondo punto di partenza non esatto sarebbe quello di porre da un lato il dato della fede, dall’altro il dato della storia, e quindi della temporalità, della politica, come se alla fede non appartenesse la storicità, la politicità, in una parola sola: l’antropologia filosofica. Ci sono dati di intelligibilità e di struttura antropologica la cui mortificazione significherebbe la mortificazione dello stesso disegno originario. Il cristiano non prende a prestito dalla filosofia pagana-neutra la dimensione razionale dell’uomo: piuttosto, eventualmente, riconosce che al di fuori dell’orizzonte della fede consapevole esistono valori obiettivamente appartenenti al piano di salvezza, il quale non si separa e non si distingue affatto - in concreto! - dal piano “creaturale” come abbiamo ora detto.
Facendo storia, cultura, politica, ecc., il cristiano non fa altro che rilevare e determinare una dimensione del contenuto della sua fede, mettendo in atto la razionalità che è un reale ingrediente del disegno divino: un ingrediente che richiede riflessione, ricerca, confronto; che conclude a gradi più o meno di certezza, che lascia spazi di ipoteticità e margini di pluralismo. Se è vero in un certo senso che non c’è passaggio diretto dalla fede alla politica, è altrettanto vero che la politica mette in opera elementi che non sono discordi o àlteri rispetto al piano integrale originario. S’è parlato, con preciso fondamento, di “umanesimo integrale”. Occorrerebbe più compiutamente parlare di “cristianesimo integrale”. Ancora: si è detto - e giustamente in una determinata prospettiva - che si deve distinguere per unire: nella nostra prospettiva va detto che si deve “distinguere nell’unito”. Una mediazione che fosse configurata come lo sforzo o l’impegno di tenere insieme la salvezza e la storia, il vangelo e la politica, come se fossero costitutivamente separati, è una pura ideologia, in quanto immagina radicalmente fuori il secondo versante dall’ordine salvifico; oppure m quanto si rappresenta piuttosto miticamente la storia come entità a sé da ‘battezzare’. L’originario costitutivo impone una filosofia, con le sue proprietà caratterizzanti: essa è un compito del credente - e ognuno, dotto o indotto, la pone, sia pure con diversa teorizzazione. È vero che il cristianesimo non può fare a meno della filosofia, ma il motivo è perché l’uomo creato da Dio in Gesù Cristo è un essere “filosofico”, con quel che ne consegue”.

 

5. La “bibliolatria”

 

Il culto della Sacra Scrittura, la riscoperta del suo valore vitale, gli studi di cui è fatta oggetto rappresentano certamente una preziosa conquista del nostro tempo. Possiamo anzi dire che ancora non è letta, meditata, amata abbastanza dai cattolici: è augurabile che si abbia a progredire su questa strada a passo più spedito e con animo più risoluto. Pure c’è qualcosa che ci inquieta nel modo attuale di accostarci al Libro di Dio e ci spinge a formulare alcune osservazioni, che proponiamo candidamente trascurando il rischio non ipotetico di essere fraintesi e mal giudicati. Noi non siamo il “popolo del Libro”; a rigore non siamo neppure il “popolo della Parola”: siamo il “popolo dell’avvenimento”. La Parola di Dio risuona all’interno dell’evento salvifico e, rendendolo non solo un fatto ma anche una illuminazione, non solo una “res” ma anche un “signum” eloquente, non solo un “mistero” ma anche un “evangelo”, lo offre alla nostra contemplazione perché la contemplazione ci porti alla partecipazione intera della vita. La “pagina sacra” è il mezzo privilegiato con cui possiamo arrivare alla “Parola” per nutrircene e vivere con intelligenza nell’evento.
Non è dunque un assoluto, ma è ordinata all’avvenimento. L’avvenimento resterà nel Regno eterno, quando la Bibbia non avrà più sussistenza e valore. Per circa un secolo la Chiesa non ha avuto un canone dei libri sacri cristiani, senza che per questo potesse dirsi manchevole di qualche elemento essenziale. Anche quando i vangeli non erano ancora stati scritti né erano state ancora raccolte le lettere degli apostoli, la Parola di Dio risuonava con tutta la sua forza nella Chiesa e la salvezza era presente e operante. Chi si colloca integralmente all’interno dell’avvenimento, si pone nelle condizioni di leggere giustamente la Sacra Scrittura e di coglierne il senso ultimo. Chi non si colloca integralmente, o almeno non con sempre rinnovata coscienza, all’interno dell’avvenimento, per quanto numerose, erudite, scientificamente vagliate si facciano le sue citazioni è sempre in pericolo di rimanere all’esterno del Libro di Dio e di non gustare la sua saporosa sostanza. A cominciare dal demonio, che nelle narrazioni sinottiche appare bravissimo nell’addurre i passi ispirati a sostegno delle sue argomentazioni, la storia delle aberrazioni teologiche è caratterizzata dall’abbondante ricorso da parte degli eretici ai testi scritturistici.
E per la verità anche ai nostri giorni assistiamo talvolta ad “alluvioni” di frasi bibliche che nascondono una fondamentale infedeltà alla Parola di Dio. Ma c’è una insidia più subdola e perniciosa: l’uso abbondante e quasi ossessivo della Bibbia - staccato però dalla consapevolezza sempre richiamata dell’avvenimento salvifico, il quale include anche la Sacra Scrittura e la trascende - può condurre a una visione meramente “culturale” del cristianesimo e rendere l’atto di fede non più un “assenso reale” ma un puro “assenso nozionale” mentre - come splendidamente dice san Tommaso, “actus credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”: l’atto di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni ma una realtà. La distinzione tra “assenso nozionale” e “assenso reale” è uno dei concetti fondamentali della Grammatica dell’assenso, di J.H. Newman. In realtà, in campo teologico la questione è ancora più seria di quel che per il campo pastorale abbiamo qui cercato di dire. Il pericolo sta nell’insensibile ma sempre più vasto affermarsi della tendenza (crediamo non pienamente consapevole) a considerare la “res” - attinta nell’atto di fede, quando l’atto di fede c’è veramente - scientificamente inconoscibile come il “noumeno” kantiano, e quindi non più oggetto di attività teologica, la quale si esercita soltanto sul “fenomeno”. Di qui la risoluzione della teologia nell’esegesi, e poi anche nella storiografia, nella metodologia, nello studio delle mediazioni con le filosofie contemporanee, nella psicologia religiosa, nella sociologia religiosa ecc. Sventurato quel teologo o quell’esegeta che, pensando a Gesù Cristo, primariamente e come d’istinto si richiama a un personaggio della catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al Salvatore che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto antecedentemente a tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni testimonianza, come qualcuno che vive. Un uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: “Dov’é Gesù?” risponde in modo del tutto ovvio e naturale: “In cielo alla destra del Padre e in chiesa nel tabernacolo”, senza che gli passi lontanamente per la testa di tirare in campo la Sacra Scrittura.
Questo, per lui, è l’indirizzo di una persona reale e concreta. Guai se l’interrogazione cominciasse ad avere come risposta: “Si trova nel vangelo di Luca, nel ‘corpus’ giovanneo, nella lettera agli Ebrei”; cominciasse cioè ad avere come risposta l’indicazione di un “luogo” letterario. Nei modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura diventa non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al mistero che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il Signore Gesù. Così sarebbe un “idolo”. Da questo ” idolo ” deve essere purificato il santuario del nostro cuore e il “tempio” della comunità cristiana radunata in Cristo e offerta al Padre dall’impeto dello Spirito.

 

Alcuni segni di sanità teologica e pastorale

 

La rassegna delle più diffuse “idolatrie” non deve indurci a credere che tutto sia traviato nella cristianità e non ci siano più veri adoratori del Dio vivo. Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito Santo è all’opera oggi più che mai e riesce coi suoi inattesi prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una insipienza ecclesiale che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione. E così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un’acutissima mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall’incontro con persone, gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni spirituali diverse, sinceramente si determinano a una generosa adesione all’Evangelo e a una totale partecipazione all’evento salvifico. Il fenomeno, che complessivamente è stato una felice sorpresa dopo lo squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza futuro, è composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta analisi e di una pacata valutazione. Da quali segni possiamo riconoscere, nella concretezza di questo momento storico, la sanità teologica e pastorale delle forze che vanno via via affiorando nel mondo cristiano? Dopo l’esperienza di questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci parrebbe di poter suggerire, come contributo a un discernimento che non sia astratto e puramente nominale, l’attenzione a tre note caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono né forse le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono aiutare nell’ora presente.
La prima è il sentimento acuto della distinzione tra il bene e il male, la consapevolezza che tra il bene e il male è in atto una lotta irriducibile e la persuasione che in questo scontro - che è ancora in atto e lo sarà fino alla venuta del Signore - ciascuno di noi è chiamato a combattere nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli sono date La seconda è la convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, è il Salvatore del mondo e non colui che deve essere salvato dal mondo. Egli è il vincitore, e noi dobbiamo essere la sua vittoria. Perciò a lui - e quindi al cristianesimo - è necessario ricorrere perché l’uomo viva, cresca, emerga dalle sue contraddizioni e dalle sue schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a pensare che solo l’apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di essere ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai nostri tempi (1). La terza è la percezione della bellezza della Chiesa e l’ammirato stupore per questo capolavoro dell’amore del Padre; o almeno la certezza di fede che la Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che l’infinita potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra polverosa e dalla nostra umanità disastrata.

 

NOTE

(1) La retorica circa il “dialogo” e il “confronto” - che sono attitudini lodevoli in se stesse, quando non diventano i nuovi nomi del cedimento e della mondanizzazione - ha innegabilmente contribuito a una “smobilitazione generale” dei cristiani, che ha pochi precedenti nella storia. Anche l’uso acritico e indiscriminato di alcune frasi, che adoperate a proposito hanno una loro validità, ha contribuito al diffondersi dello spirito di resa o almeno alla confusione. Ne citiamo qualcuna, per non restare nel vago.

 

“Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante”. Principio giustissimo, ma da applicarsi con due avvertenze: che di fatto l’affermazione non si traduca nel non distinguere più tra l’errore e la verità; che ci si renda conto che, se la condanna dell’errore non deve restare un’inutile astrazione, il popolo cristiano va messo in guardia anche da colui che di fatto semina l’errore, naturalmente senza cessare di volere il suo vero bene e lasciando sempre a Dio il giudizio sulle intenzioni profonde delle persone.

 

“Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. Questo principio vale solo in proporzione alla vastità e all’importanza di ciò che ci unisce e all’esiguità di ciò che ci divide. Quando si ha la stessa fede nella Trinità, in Cristo, Figlio di Dio, crocifisso e risorto, nella vita eterna, è del tutto insipiente litigare su quando e come vada cantato l’alleluia. Ma quando la divisione verte sulle questioni sostanziali, il volerla accantonare e quasi dimenticare vuol dire snaturarsi nel profondo e perdere la propria identità; così l’ecumenismo diventa davvero, come amaramente è stato detto, una “comune apostasia”.

 

“La Chiesa deve diventare credibile”. Così come suona, il concetto è mal formulato e inaccettabile, perché fa delle esigenze e delle persuasioni degli uomini il metro per giudicare l’azione e la realtà dei cristiani, mentre l’unico metro resta il Signore Gesù e la sua verità. La Chiesa deve sforzarsi di essere sempre più credente; in tal modo diventerà sempre più credibile agli occhi dei non credenti ben disposti, che ricercano la verità, e sempre più incredibile agli occhi dei non credenti che non hanno nessuna voglia di credere.

 

“Bisogna guardarsi dai profeti di sventura”. Se la frase vuol dire di evitare coloro che tentano di uccidere le ragioni della speranza cristiana - tra le quali emergono l’esistenza di Cristo vivo e Signore, e l’inalienabile bellezza della Chiesa - allora è giusta e da approvare. Se vuol dire che bisogna sempre dire a tutti i costi e per tutte le circostanze che tutto va bene, allora è smentita dalla parola di Dio. Di solito i veri profeti sanno annunziare anche il dolore e sanno denunziare il male; gli annunziatori di facile allegria, di tranquillità senza lotta, di immancabile benessere, nella Bibbia sono i falsi profeti (cfr. Ger 14,13-16; 23,17; 27,9-10).

 

“Non bisogna essere manichei”. Il manicheismo consiste nel credere all’esistenza di due princìpi assoluti, due dèi, uno del bene e uno del male; il manicheo non crede quindi al Dio buono, creatore di tutto, né alla sua vittoria finale. Questa è un’aberrazione da condannare. Definire manicheo invece chi vuol distinguere tra il vero e il falso, tra il buono e il cattivo, tra il giusto e l’ingiusto, tra ciò che è conforme alla volontà di Dio ed è perciò da seguire, e ciò che è difforme ed è perciò da respingere, è un modo truffaldino di combattere il cristianesimo dandogli prima una falsa e infamante etichetta.

 

 

GIACOMO BIFFI, La bella, la bestia e il cavaliere. Saggio di teologia inattuale, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 20-41.

 

 

 

Caterina63
00martedì 11 settembre 2012 23:47

Il Concilio Vaticano II è stato davvero profetico (Prima parte)


Intervista esclusiva con il cardinale Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero


di Antonio Gaspari

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 10 settembre 2012 (ZENIT.org) - Pubblichiamo di seguito la prima parte dell'intervista esclusiva concessa a ZENIT dal cardinale Mauro Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero, in vista del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. La seconda ed ultima parte verrà pubblicata domani, martedì 11 settembre.

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Eminenza, ZENIT intende, con questa intervista, inaugurare una serie di contributi per l’Anno della Fede, focalizzando l’attenzione sul Concilio Vaticano II, nella ricorrenza del suo 50mo. Come mai tanto dibattito su questo evento ecclesiale?

Card. Mauro Piacenza: Il dibattito è sempre positivo, perché indice di vitalità e di volontà di approfondimento; se, poi, ciò su cui si dibatte non è esclusivamente umano, ma è, come un Concilio Ecumenico, un avvenimento sia umano, sia soprannaturale, perché lo stesso Spirito Santo guida la Chiesa alla progressiva, piena comprensione dell’unica Verità rivelata, allora non stupisce affatto che la comprensione dei dettami conciliari domandi decenni di confronto – e talora perfino di dibattito – sempre nel solco dell’ascolto di ciò che lo Spirito Santo ha voluto dire alla Chiesa in quella straordinaria Assise.

Quale dovrebbe essere il giusto atteggiamento nei confronti del Concilio?

Card. Mauro Piacenza: Quello dell’ascolto! Il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato, di fatto, il primo Concilio “mediatico”, le cui fisiologiche dinamiche di confronto ed i cui testi sono stati immediatamente divulgati dai mezzi di comunicazione, non sempre cogliendone la reale portata e, non di rado, orientandone la comprensione in modo mondanizzante. Ritengo particolarmente interessante – e forse perfino necessario – tornare o, meglio, andare verso l’attento ascolto di ciò che, realmente, lo Spirito Santo ha voluto dire all’intera Chiesa attraverso i Padri conciliari. Tale dinamica di approfondimento, tale “giusto atteggiamento” si realizza attraverso la lettura diretta dei testi, dalla quale si può evincere l’autentico spirito del Concilio, la loro esatta collocazione all’interno dell’intera storia ecclesiale e la genesi redazionale.

Talora alcune scelte, anche del Magistero, paiono andare “contro” il Concilio. È possibile?

Card. Mauro Piacenza: Basta considerare i pronunciamenti del Magistero autentico postconciliare a livello universale per constatare che ciò non è avvenuto. Ben altra cosa è, invece, favorire la corretta ricezione delle decisioni conciliari, chiarire il significato di determinate affermazioni, talvolta doverosamente correggere interpretazioni unilaterali, o perfino errate, artificialmente indotte da chi legge gli eventi pneumatici ecclesiali, con lenti esclusivamente umane e storicistiche. Il servizio ecclesiale del Magistero, che affonda le proprie radici nell’esplicita Volontà divina, prepara i Concili Ecumenici, si attua in essi nella sua massima espressione e, negli interventi successivi, ad essi obbedisce, favorendone la corretta ricezione.

Che cos’è davvero “l’ermeneutica della continuità” della quale spesso parla il Santo Padre?

Card. Mauro Piacenza: è, secondo quanto esplicitamente indicato dallo stesso Pontefice, l’unico corretto modo di leggere e di interpretare ogni Concilio Ecumenico e, pertanto, anche il Concilio Vaticano II. La continuità dell’unico Corpo ecclesiale, prima di essere un criterio ermeneutico, cioè di interpretazione dei testi, è una realtà teologica, che affonda le proprie radici nello stesso atto di fede, che ci fa professare: «Credo la Chiesa Una». Per tale ragione, non è pensabile alcuna dicotomia tra pre e post Concilio Vaticano II, e sono certamente da rifiutare sia la posizione di chi vede nel Concilio Ecumenico Vaticano II un “nuovo inizio” della Chiesa, sia quella di chi vede la “vera Chiesa” solo prima di questo storico Concilio. Nessuno può arbitrariamente decidere se e quando inizi la “vera Chiesa”. Sgorgata dal costato di Cristo e corroborata dall’effusione dello Spirito a Pentecoste, la Chiesa è Una e Unica, sino alla consumazione della storia, e la comunione che in essa si realizza è per l’eternità.

Taluni sostengono che l’ermeneutica della riforma nella continuità sia solo una delle possibili ermeneutiche, accanto a quella della discontinuità e della rottura. Il Santo Padre ha recentemente definito “inaccettabile” l’ermeneutica della discontinuità (Udienza all’Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, 24 maggio 2012). Fra l’altro ciò è ovvio: diversamente non si sarebbe cattolici e si inietterebbe il germe dell’infezione e del progressivo disfacimento; sarebbe anche un grave danno per l’ecumenismo.

Possibile che sia così complesso comprendere queste realtà?

Card. Mauro Piacenza: Lei sa meglio di me come la comprensione, anche di realtà evidenti, possa essere, non di rado, condizionata da aspetti emotivi, biografici, culturali e perfino ideologici. È umanamente comprensibile che chi ha vissuto, negli anni della sua giovinezza anagrafica, l’entusiasmo legittimo dell’Assise conciliare, non disgiunto dal desiderio di superamento di talune “incrostazioni”, che era necessario e urgente togliere dal volto della Chiesa, possa interpretare come pericolo di “tradimento” del Concilio ogni espressione che non condivida il medesimo “stato emotivo”. È necessario, per tutti, un radicale salto di qualità nell’accostarsi ai testi conciliari, per comprendere, a mezzo secolo da quello straordinario evento, che cosa realmente lo Spirito ha suggerito e suggerisce alla Chiesa. Cristallizzare il Concilio nella sua necessaria, ma non sufficiente, “dimensione entusiastica” equivale a non svolgere un buon servizio alla stessa ricezione del Concilio, che ne rimane quasi paralizzata, poiché, nel tempo, ci si può confrontare e si possono condividere valutazioni su testi oggettivi, non certamente su stati emotivi e su entusiasmi storicamente segnati.


Il Concilio Vaticano II è stato davvero profetico (Seconda parte)


Intervista esclusiva con il cardinale Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero


di Antonio Gaspari

CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 11 settembre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la seconda ed ultima parte dell'intervista esclusiva concessa a ZENIT dal cardinale Mauro Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero, in vista del 50mo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. La prima parte è stata pubblicata ieri, lunedì 10 settembre.

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E' noto che Lei ha sempre parlato con grande entusiasmo del Concilio Vaticano II. Che cosa ha rappresentato per Lei?

Card. Mauro Piacenza: Come non essere entusiasti di un evento straordinario come un Concilio Ecumenico! In esso rifulge la Chiesa, in tutta la sua bellezza: Pietro e tutti i Vescovi in comunione con Lui si pongono in ascolto dello Spirito Santo, di ciò che Dio ha da dire alla Sua Sposa, cercando di declinare - secondo gli auspici del beato Giovanni XXIII - nell’oggi della storia, le immutabili verità rivelate e leggendo i segni di Dio nei segni dei tempi, e i segni dei tempi alla luce di Dio! Diceva lo stesso Pontefice nella solenne allocuzione di apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962: «Trasmettere pura ed integra la dottrina, senza alterazioni o travisamenti […] questa dottrina certa ed immutabile che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze dei nostri tempi».

Negli anni del Concilio, ero un giovane studente poi un seminarista e il mio ministero sacerdotale, fin dai primi passi, si è svolto interamente alla luce del Concilio e delle sue riforme. Infatti sono stato ordinato sacerdote nel 1969. Non posso che ritenermi quindi un figlio del Concilio, che, anche grazie ai propri maestri, ha cercato di accogliere, sin dall’inizio, le indicazioni conciliari, secondo una naturale ermeneutica di unità e continuità. Questa riforma nella continuità personalmente l’ho sempre sentita, vissuta e, anche da docente, insegnata.

Come prefetto del Clero pensa che i sacerdoti abbiano ben recepito il Concilio?

Card. Mauro Piacenza: Certamente, in quanto porzione eletta del Popolo di Dio, i sacerdoti sono coloro che, nella Chiesa, conoscono meglio ed hanno maggiormente approfondito gli insegnamenti conciliari. Mi pare non siano assenti, tuttavia, le medesime problematiche, alle quali accennavamo prima, sia in ordine alla giusta ermeneutica della riforma nella continuità, sia in ordine al doveroso approccio non prevalentemente emotivo all’evento conciliare. Se, in quest’Anno della Fede, avessimo tutti l’umiltà e la buona volontà di prendere in mano i testi del Concilio, in ciò che realmente essi hanno detto e non nella “vulgata”, che ne ha fatto una certa pubblicistica, scopriremmo come il Concilio Vaticano II è stato davvero profetico e molte delle sue indicazioni siano ancora davanti a noi, come orizzonte a cui guardare e meta da raggiungere, con l’aiuto della grazia. Certamente, per compiere ciò, è necessaria una grande dose di umiltà ed una certa capacità di sospensione del giudizio precostituito, per poter riaccogliere una verità, che forse, per troppo tempo, è apparsa differente.

Su quali punti si dovrebbe ancora focalizzare la ricezione dei documenti conciliari?

Card. Mauro Piacenza: Accenno ad un punto di particolare tensione che è rappresentato dalla riforma liturgica, anche perché costituisce l’elemento di maggiore visibilità della Chiesa stessa. Più volte il Servo di Dio Paolo VI, il Beato Giovanni Paolo II ed il Santo Padre Benedetto XVI hanno sottolineato l’importanza della Liturgia, come luogo nel quale si realizza pienamente lo stesso essere Chiesa, ed è purtroppo sotto gli occhi di tutti come, in non pochi casi, si sia ancora lontani da un condiviso equilibrio a tale riguardo. Certamente, una Liturgia desacralizzata, o ridotta a “rappresentazione umana”, in cui sfuma fino a smarrirsi la dimensione cristologica e teologica, non è ciò che la lettera e lo spirito della Sacrosantum Concilium intendeva. Ciò non giustifica, tuttavia, la posizione di chi, sposando a sua volta l’ermeneutica della discontinuità, rifiuta la riforma conciliare, ritenendola un “tradimento” di una vagheggiata “vera Chiesa”.

Esistono innovazioni più importanti di quelle liturgiche?

Card. Mauro Piacenza: Data la centralità della Liturgia, “culmine e fonte” della vita stessa della Chiesa (cfr SC, 10), non parlerei di maggiore importanza. Certamente il Concilio ha voluto valorizzare talune verità evangeliche, che oggi rappresentano patrimonio condiviso dell’intera cattolicità; basti pensare alla felice sottolineatura della vocazione universale di tutti i battezzati alla santità. Questo ha favorito la nascita e lo sviluppo di tante nuove esperienze; si pensi anche all’apertura verso i cristiani appartenenti ad altre confessioni, che ha fatto riemergere, in tutta la sua bellezza, il valore dell’unità, come necessario attributo della Chiesa e come dono, gratuitamente offerto da Cristo, da accogliere sempre, attraverso la continua purificazione di coloro che a Lui appartengono. L’importanza della Collegialità episcopale, che è tra le espressioni più efficaci della comunione ecclesiale e mostra al mondo come la Chiesa sia necessariamente un corpo unito. La stessa comprensione organica del Ministero Ordinato, a servizio del sacerdozio battesimale, infine, che vede presbiteri e diaconi, intimamente uniti al proprio Vescovo, come espressione di sacramentale comunione nel servizio alla Chiesa e agli uomini, ha rappresentato un oggettivo, felice sviluppo della comprensione del volto della Chiesa, come Nostro Signore lo ha voluto delineare.

Eminenza, in questo momento la Chiesa si appresta ad iniziare il Sinodo sulla nuova Evangelizzazione e l’Anno della Fede. Se dovesse dire ai sacerdoti una parola sintetica, cosa direbbe?

Card. Mauro Piacenza: Alla luce della fede, sacerdote diventa ogni giorno ciò che sei!

[SM=g1740766]



Caterina63
00mercoledì 7 novembre 2012 19:25

i pentiti del Concilio

"Tutto è diventato così avvizzito".

Il filosofo Spaemann a cinquant'anni dal Concilio Vaticano II



In una recente intervista rilasciata da Robert Spaemann al giornale Die Welt (26 ottobre 2012), il filosofo tedesco spiega perché a suo giudizio non c'è motivo, a cinquant'anni dal Concilio Vaticano II, per una celebrazione giubilare: "tutto infatti è divenuto così avvizzito... È subentrata nella Chiesa un'epoca del tramonto. Persone che negano la risurrezione di Cristo rimangono professori di teologia e predicano come sacerdoti. Persone che non vogliono pagare la tassa per il culto vengono cacciate fuori dalla Chiesa. Qui c'è qualcosa che non va". Vediamo in dettaglio l'intervista in una nostra traduzione [Approfondimenti di "Fides Catholica"]
 
Die Welt: Lei era a Roma per la celebrazione del giubileo del Concilio Vaticano II. Per lei personalmente un motivo per festeggiare?
 
Robert Spaemann: In verità no. Si deve dire apertamente in primo luogo che si è introdotta un'epoca del tramonto. Una celebrazione giubilare non può far assolutamente niente di fronte al fatto che migliaia di sacerdoti già durante il Concilio hanno lasciato il loro ministero.
 
Die Welt: Quale la responsabilità del Concilio a tal proposito?
 
Robert Spaemann: Fu parte di un movimento, che ha avvolto l'intero mondo occidentale, parte della cultura della rivoluzione. Papa Giovanni XXIII disse allora che fine del Concilio era l'aggiornamento della Chiesa. Questo fu tradotto da molti con adattamento, adattamento al mondo. Ma questo fu un malinteso. Aggiornamento significa: opposizione della Chiesa al mondo, che sempre ha avuto e sempre deve avere, attualizzandola per il nostro tempo. Questo è il contrario di adattamento.
 
Die Welt: Giovanni XXIII certamente nel suo stesso discorso di apertura del Concilio ha risvegliato le attese che si trattasse di adattamento.
 
Robert Spaemann: Questo è vero. Giovanni XXIII era un uomo profondamente devoto. Ma era impresso di un ottimismo che presto già lo si poteva definire scellerato. Questo ottimismo non era giustificato. Nelle cose ultime la prospettiva storica cristiana suona conforme al Nuovo Testamento: alla fine ci sarà un grande apostasia, e la storia si scontrerà con l'Anticristo. Ma di questo il Concilio non fa parola. Si è eliminato tutto ciò che alludeva a lite e conflitto. Si è voluto benedire lo spirito del mondo emancipatore e culturalmente rivoluzionario.
 
Die Welt: Se in Germania come all'inizio dell'anno un tribunale giudica che la Chiesa cattolica può essere chiamata impunita setta di pedofili nessuno protesta. Questo ha qualcosa a che fare con lo spirito del Concilio Vaticano II?
 
Robert Spaemann: Sì. Il Concilio ha indebolito i cattolici. La Chiesa si è sempre trovata in un combattimento, un combattimento spirituale, non militare, ma una lotta. L'Apostolo Paolo parla delle armi della luce, l'elmo della fede ecc. Oggi la parola "nemico" è diventata indecente, il comandamento "Amate i vostri nemici" non può essere più impiegato perché non siamo più autorizzati ad avere nemici. Per i cosiddetti cattolici progressisti c'è in realtà ancora solo un nemico: i tradizionalisti. Questo è sì un'eredità del Concilio. Certamente noi cristiani per le offese della fede e della Chiesa non dovremmo usare nessuna violenza. Ma protestare dovrebbe essere possibile.
 
Die Welt: I testi che il Concilio dopo lunghe discussioni ha approvato sono vaghi compromessi. Chi ha vinto, riformatori o tradizionalisti?
 
Robert Spaemann: Nessuno dei due. Entrambi gli schieramenti hanno agito al Concilio come politici. Questo vale soprattutto per il partito dei progressisti. Quando per una decisione potevano prevedere di non ottenere la maggioranza, hanno introdotto nella decisione di compromesso alcune clausole generali, da cui sapevano, che dopo il Concilio poteva essere ammollita. Hanno spesso lavorato in modo cospirativo. E hanno fino a oggi la prerogativa dell'interpretazione sul Vaticano. Gradualmente tuttavia si instaura una nuova coscienza. Lentamente si cessa di mentire nelle proprie tasche. Tutto è diventato così avvizzito: uomini che negano la risurrezione di Cristo possono rimanere professori di teologia cattolici e predicare come sacerdoti durante le Messe. Persone che non vogliono pagare la tassa per il culto vengono cacciate fuori dalla Chiesa. Qui certo qualcosa non funziona.
 
Die Welt: Cosa intende quando dice che i novatori avrebbero una prerogativa di interpretazione sul Vaticano?
 
Robert Spaemann: Le porto tre esempi. Oggi viene detto spesso che il Concilio avrebbe eliminato il celibato. Si dovrebbe solo condurre fino in fondo gli accenni di allora. A tal proposito mai prima alcun concilio ha difeso il celibato con così tanto rilievo. Secondo esempio. I vescovi tedeschi hanno annunciato nella cosiddetta dichiarazione di Königstein che l'insegnamento della Chiesa in materia di "pillola" non è vincolante. Il Concilio aveva detto proprio il contrario, ovvero che l'insegnamento della Chiesa in questa domanda obbliga in coscienza i cattolici. O, terzo esempio: ognuno sa che il Concilio ha autorizzato la lingua del popolo nella liturgia. Solo alcuni sanno: il Concilio ha soprattuto asserito che la lingua propria della liturgia della Chiesa occidentale è e riamane il latino. E Papa Giovanni XXIII ha appositamente scritto un'enciclica sul significato del latino per la Chiesa occidentale.

Die Welt: Cosa le disturba soprattutto?

Robert Spaemann: Non penso a singole scelte. Maggiormente a ciò che veramente è stato fatto dal Concilio. Forse si deve ricominciare a leggere i testi originali. Già alla fine del Concilio si è sollevato, come scrive Joseph Ratzinger, come un certo spettro, che si chiama "spirito del Concilio" che, molto condizionato, aveva a che fare solo con decisioni fattuali. Spirito del Concilio significa: la volontà del nuovo. Fino ad oggi i cosiddetti riformatori si richiamano attraverso tutte le possibili idee di riforma allo spirito del Concilio e intendono con ciò adattamento. Oggi però abbiamo bisogno del contrario del "mondanizzarsi della Chiesa", che già Lutero deplorava. Abbiamo bisogno di ciò che il Papa chiama "fine della mondanizzazione" (Entweltlichung).
 
Die Welt: Lei ha scritto: "L'autentico progresso rende talvolta necessarie le correzioni di corso e in talune circostanze anche passi indietro" Come può la Chiesa invertire rotta?
 
Robert Spaemann: Fondamentalmente deve fare quello che sempre ha fatto: deve sempre tornare indietro. Vive dei Santi, che sono modello del tornare indietro. Non è in ordine se la Chiesa in Germania, a cui appartiene la Casa Editrice "Weltbildverlag", si sostiene per anni mediante la vendita del porno. Per dieci lunghi anni i cattolici hanno informato di questo i vescovi e non è successo niente. Ora che il tutto viene fuori il segretario della Conferenza Episcopale Tedesca ha fatto di questi fedeli con disprezzo dei fondamentalisti. Che ora viene introdotta questa prassi di vendita ha a che fare poco evidentemente con il tornare indietro.
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Fonte: Die Welt by Approfondimenti di "fides Catholica"
Vedi anche la notizia su: www.kath.net
 
 
Caterina63
00lunedì 19 novembre 2012 18:08
Indagine storica
CLICCARE SUI COLLEGAMENTI IN BLU per l'audio [SM=g1740733]
 
Mons. Negri: “Il Vaticano II non parla
di dialogo ad ogni costo”
 
“Io non credo che la Gaudium et Spes citata e stracitata possa essere stirata sino a fare del dialogo l’obiettivo
ad ogni costo, poiché non si ritrova nulla di questo”. Ad affermarlo, è in quest’intervista realizzata da Mauro Faverzani il Vescovo di San Marino-Montefeltro, S. Ecc. mons. Che aggiunge:
“Il dialogo è l’espressione di un’identità e non l’alternativa all’identità.
E si costruisce a partire dal riconoscimento di Cristo presente sacramentalmente nella Sua Chiesa”.
Nega inoltre la necessità o anche solo l’opportunità di un “Vaticano III”.
 
 
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Vaticano II tra vera e falsa teologia
 
Mons. Antonio Livi, autore del libro “Vera e falsa teologia-insegna
come distinguere l’autentica ‘scienza della fede’ da un’equivoca ‘filosofia religiosa’“
 
 
 
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Il Concilio Vaticano II,un Concilio pastorale
 
Conferenza al Convegno dei Francescani dell'Immacolata. Roma, dicembre 2010
 
 
 
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Vaticano II, un Concilio pastorale. P. Paolo M. Siano
 
Conferenza al Convegno dei Francescani dell'Immacolata. Roma, dicembre 2010
 
 
 
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Vaticano II, un Concilio pastorale. Don Nicola Bux
 
Conferenza al Convegno dei Francescani dell'Immacolata. Roma, dicembre 2010
 
 
 
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La Sacrosanctum Concilium e gli abusi liturgici postconciliari
 
Splendido intervento di Mons Nicola
al Secondo Convegno sul Motu Proprio Summorum Pontificum
dedidcato agli abusi liturgici del post-Concilio Vaticano II
 
 
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Vaticano II, un Concilio pastorale. Don Florian Kolfhaus
 
Conferenza al Convegno dei Francescani dell'Immacolata. Roma, dicembre 2010
 
 
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Vaticano II, un Concilio pastorale. Sua Ecc.za Mons. Athanasius Schneider
 
Conferenza al Convegno dei Francescani dell'Immacolata. Roma, dicembre 2010
 
 
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Vaticano II, un Concilio pastorale. Don Ignacio Andereggen
 
Una valutazione filosofica della modernità
Conferenza al Convegno dei Francescani dell'Immacolata. Roma, dicembre 2010
 
 
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Ecco perché il Vaticano II non condannò il comunismo
 
 
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Interrogativi  sul Concilio Ecumenico Vaticano II
 
 
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Quando la Tradizione fu opacizzata
 
 
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Il linguaggio onesto della tradizione
 
 
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Il linguaggio pastorale del Concilio Vaticano II
 
 
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La Chiesa del dialogo e la Chiesa che convertì Agostino
 
 
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L'immagine della Chiesa nel 1962
 
 
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Il rapporto tra la Chiesa e il mondo
 
 
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Papa Giovanni XXIII apre il Concilio
 
 
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Le due minoranze
 
 
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Dove va la Santa Chiesa?
 
 
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Apologia della tradizione
 
 
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Le vere cause e il vero rimedio dei mali odierni della Chiesa
 
 
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I frutti malati del secolarismo post-Conciliare
 
 
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Indagine teologico-filosofica
 
Hanno scritto:
 
Don Nicola Bux
 
La riforma liturgica del Concilio Vaticano II nell’insegnamento di Benedetto XVI
 
 
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Mons. Guido Pozzo
 
Aspetti della ecclesiologia cattolica nella recezione del Concilio Vaticano II
 
 
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Mons. Athanasius Schneider
 
Proposte per una corretta lettura del Concilio Vaticano II
 
 
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Padre Stefano M.Lanzetta
 
Perchè è opportuno discutere sul Concilio Vaticano II
 
 
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Gnocchi e Palmaro
 
La bella addormentata.
Perchè dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi.
Perchè si risveglierà
 
 
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Mons. Brunero Gherardini
 
La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa
 
 
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Martin Rhonheimer
 
L'ermeneutica della riforma e la libertà di religione
 
L'ermeneutica della riforma e la libertà di religione
 
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don Florian Kolfhaus
 
Il magistero pastorale del Concilio Vaticano
 
 
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Che cosa aveva stabilito il Concilio Vaticano II
in materia liturgica?
 
 
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L'ermeneutica della riforma:
Discontinuità del Concilio nella continuità?
 
 
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Due forme dello stesso rito
 
 
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Caterina63
00martedì 11 giugno 2013 09:45
[SM=g1740758] Editoriale di "Radicati nella fede" del mese di giugno

 Non piange più nessuno.
 Se non ci sono più preti non piange quasi più nessuno. È questa la triste constatazione che ci tocca fare.
 Assistiamo alla più grande crisi sacerdotale della storia della Chiesa, intere terre in Europa sono ormai senza sacerdote e tutto tace. Non sentirete nemmeno un vescovo gridare all'allarme, piangere con i suoi fedeli, domandare a tutti una grande preghiera per le vocazioni sacerdotali; intimare un digiuno e una grande supplica perché il Signore abbia pietà del suo popolo.

 Sentirete, questo sì, vescovi e responsabili di curia descrivere i numeri di questo calo vertiginoso di presenza dei preti nella Chiesa, li sentirete elencare  i dati pacatamente, troppo pacatamente, in modo distaccato, come se fosse una situazione da accettare così com'è, anzi la chance per una nuova Chiesa più di popolo.

 Nella nostra terra italiana, terra di antica cristianità, assisteremo in questi prossimi anni alla scomparsa delle parrocchie, allo stravolgimento, impensabile fino a qualche anno fa, della struttura più semplice del Cattolicesimo, di quella trama di comunità parrocchiali dove la vita cristiana era naturale per tutti... ma l'assoluta maggioranza dei cattolici impegnati farà finta di niente, perché i pastori hanno già fatto così.
 È un “cataclisma”, un “terremoto”... ma nessuno piange, si fa finta di niente.
 Si fa finta di niente, perché bisogna che la favola della primavera del Concilio continui. Ci si sottrae a qualsiasi verifica storica, si nega l'evidenza di una crisi senza precedenti.

 E si prepara un futuro che ci sembra poco cattolico.

 Sì, perché si parla di “ristrutturare” l'assetto delle comunità cristiane, di fare spazio ai laici (come se in questi anni non ne avessero avuto a sufficienza), si inventa un nuovo genere di fedeli cristiani che diventeranno gli addetti delle parrocchie, che di fatto sostituiranno i preti. Fedeli laici “clericalizzati”, un nuovo genere di preti che terranno le chiese... e nell'attesa di una qualche messa predicheranno loro, come cristiani adulti, il Verbo di verità...

 ...ma nessuno piange, nessuno prega gridando a Dio.

 Forse non gridano perché da anni qualcuno ha preparato questo terremoto nella Chiesa.

 Hanno svilito il sacerdozio cattolico, trasformando i preti da uomini di Dio ad operatori sociali delle comunità. Hanno ridotto loro il breviario e la preghiera, gli hanno imposto un abito secolare per essere come tutti, gli hanno detto di aggiornarsi perché il mondo andava avanti... e gli hanno detto di non esagerare la propria importanza, ma di condividere il proprio compito con i fedeli, con tutti.

 E come colpo di grazia gli hanno dato una messa che è diventata la prova generale del cataclisma nella Chiesa: non più preghiera profonda, non più adorazione di Dio presente, non più unione intima al sacrificio propiziatorio di Cristo in Croce, ma cena santa della comunità. Tutta incentrata sull'uomo e non su Dio, tutta un parlare estenuante per fare catechesi e comunità. Una messa che è tutto un andirivieni di laici sull'altare, prova generale di quell'andirivieni di signori e signore che saranno le nostre ex parrocchie senza prete.

 E con la messa “mondana”, hanno inculcato la dottrina del sacerdozio universale dei fedeli... stravolgendone il significato. I battezzati sono un popolo sacerdotale in quanto devono offrire se stessi in sacrificio, in unione con Cristo crocifisso, offrire tutta la loro vita con Gesù. I fedeli devono santificarsi: questo è il sacerdozio universale dei battezzati. Ma i fedeli non partecipano al sacerdozio ordinato che è di altra natura, che conforma a Cristo sacerdote. E’ attraverso il sacramento dell’Ordine che Cristo si rende presente nella grazia dei sacramenti. Se non ci fossero più preti sarebbero finite sia la Chiesa che la grazia dei sacramenti.

 Martin Lutero e il Protestantesimo fecero proprio così: distrussero il sacerdozio cattolico dicendo che tutti sono sacerdoti: sottolineando appunto il sacerdozio universale, il laicato.
 Nella pratica della ristrutturazione delle parrocchie forse si finirà così: diverso sarebbe stato affrontare questa crisi con nel cuore e nella mente un'alta stima del sacramento dell'ordine, sapendo che il prete è uno dei doni più grandi per la Chiesa e per il popolo tutto; ma così non è: si affronterà questa crisi dopo anni di protestantizzazione e di relativizzazione del compito dei preti. Si affronterà questa crisi dopo anni di confusione totale nella vita del clero; dopo anni di disabitudine alla messa quotidiana e alla dottrina cattolica: così i fedeli faranno senza il prete, anzi già fanno senza. E quando un prete arriverà, non sapranno più che farsene, abituati a credere che il Signore li salva senza di loro e i loro sacramenti.

 A noi sembra ingiusto far finta di niente.

 Per questo chiediamo ai nostri fedeli di pregare con forza perché il Signore torni a concedere, come un tempo, tanti sacerdoti alla sua Chiesa.
 Cari fedeli, in questo mese di giugno, che è il mese delle sacre ordinazioni, abbiamo il coraggio di chiedere, anche con le lacrime, questa grazia al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria.
 E teniamo come dono preziosissimo la Messa di sempre, la Messa della tradizione, che sola saprà dare nuovi preti alla Chiesa di Dio.


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