4 Maggio 2014 nuova Marcia per la vita, qui la storia di Rebecca nata da uno stupro

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Caterina63
00giovedì 1 maggio 2014 20:33

  (www.agensir.it) Si svolgerà sabato prossimo, 3 maggio, a Roma (sala S. Pio X, via della Conciliazione 5, ingresso posteriore) il primo grande incontro internazionale pro-vita. La giornata – spiegano i promotori – s’inserisce nelle iniziative sorte attorno alla IV edizione della “Marcia per la vita”; in programma domenica 4 maggio, con inizio alle ore 9 (partenza da piazza della Repubblica, arrivo a Castel Sant’Angelo-San Pietro per il Regina Coeli di Papa Francesco). Come di consueto, la Marcia sarà preceduta il 3 maggio (ore 9.30-18.30) dal convegno nazionale medico-giuridico (“Dai una chance a ogni vita”), organizzato presso l’Ateneo pontificio Regina Apostolorum (Roma, via degli Aldobrandeschi 190). L’incontro internazionale – si legge in una nota – è invece promosso congiuntamente da LifeSiteNews (portale canadese), Human Life International (Usa) e Family Life International New Zealand. VI parteciperanno i rappresentanti di oltre 50 organizzazioni pro-vita attive in una ventina di Paesi, tra i quali – oltre agli Stati Uniti – Francia, Spagna, Belgio, in cui il tema è di particolare attualità. La mattina i lavori si svolgeranno a porte chiuse: i vari rappresentanti pro-life discuteranno di “strategie comuni per la difesa e la promozione di politiche favorevoli al diritto alla vita, da sviluppare nei confronti dei politici, delle autorità religiose, dell’opinione pubblica”.


Rebecca-Kiessling

La gioia di vivere una vita nata da uno stupro. Un colloquio con Rebecca Kiessling

Posted on 01/05/2014 by Il Mastino

Terza ed ultima parte di una trilogia di interviste sullo scontro campale in atto tra cultura della vita e quella della morte. Un colloquio via Skype con Rebecca Kiessling, combattiva militante pro-life americana concepita durante uno stupro e che sarà presente a Roma alla “Marcia per la vita 2014”. Per gridare che ogni singola vita, specie quelle nate, come la sua, da una tragedia, è degna di essere salvata.

Un colloquio di Papalepapale con Rebecca Kiessling prolife americana

 

Precedenti colloqui:

1- L’Uoma: e Dio unisex li creò? Dal pensiero unico dominante al pansessualismo. Un caso editoriale

2- I catari al potere. A volte ritornano, e si dicono “grillini”. Un colloquio con Roberto Dal Bosco

 

 

Intervista a cura di

Luca Dombré

La guerra in atto tra cultura della vita e quella della morte si gioca su territori vastissimi, come abbiamo provato a mostrare nelle due precedenti interviste sul tema. Oltre i campi minati di fasulle libertà, dove cuori e menti di milioni sono ridotti in poltiglia di desideri e pulsioni carnali, cannoneggiati dall’inesauribile fuoco di fila della pansessualizzazione forzata dell’intera società (dai bambini rieducati ai titillamenti genitali fino al Viagra per solleticare gli istinti sopiti di un’età in teoria ormai padrona della carne), oltre questo scenario di annichilimento finale della dignità e della volontà umane, stanno trincee di lotte sanguinose che nessuna edulcorazione può rendere appetibili. Sono fronti periferici scavati per sottrarne alla vista gli smembramenti, troppo orridi perché la superpotenza della morte possa propagandarli, come fa in superficie, travestendoli da legittimi conflitti di liberazione dell’umanità.

La Marcia per la vita. Tutti a Roma per il 4 Maggio.

Questo è il fronte della contesa che le racchiude tutte, la somma delle oscenità che dell’uomo non perseguono l’affrancamento, ma la definitiva umiliazione: la battaglia dell’aborto. Eppure, come in una matrioshka interminabile, all’interno di essa vi sono a loro volta duelli da occultare, scontri in territori di nessuno dove le truppe della vita sembrano aver abbandonato una ridotta di soldati ritenendoli necessari danni collaterali. Sono i figli dello stupro, superstiti di una delle più ignobili violenze.

Di questo manipolo eroico che, contro ogni apparente ragionevolezza, osa gridare il suo nome impronunciabile e sconosciuto ai più, fa parte Rebecca Kiessling, avvocatessa statunitense e battagliera direttrice di “Save the 1” (dove l’uno è quello della pecorella smarrita di evangelica memoria, quella a cui Cristo dà la priorità, come a dire: per la vita si lotta integralmente, nessuno dev’essere lasciato indietro), organizzazione impegnata a testimoniare la potenza lenitrice della vita e dell’amore capace di vincere anche la brutalità più indescrivibile come quella di uno stupro. In una lunga conversazione via Skype tra New York e il suo Michigan, abbiamo tentato di calarci con lei sul terreno della battaglia che certi palati sensibili perfino nel fronte pro-life americano bollano come “estremista” ed irricevibile. Con grande orgoglio di Rebecca, che sarà presente a Roma alla prossima “Marcia per la vita” del 4 Maggio, e dei suoi compagni di lotta il cui motto è eloquente: “100% pro-life, no exceptions, no compromise”.

 Intervista

 

Rebecca Kiessling.

Rebecca, la tua storia e la tua stessa esistenza si possono condensare in un solo termine: scandalo. E lo intendo proprio nel senso più profondamente cristiano della parola, cioè di un avvenimento che sfida con la sua innegabile presenza tutte le menzogne dello spirito del mondo. Quando si parla di aborto, c’è infatti un’ampia probabilità che chi si dice contro di esso, persino cristiano, trovi però accettabile l’eccezione “nel caso di stupro”. Io stesso ti confesso che, prima di imbattermi nella tua esperienza, sebbene anti-abortista anche prima di tornare al cattolicesimo (dopo esserne stato lontanissimo per lunga parte della mia vita), trovavo questa deroga in qualche modo ragionevole, pensando all’incomprensibile dolore di una donna violentata. Sebbene, come detto, la tua sola presenza basterebbe a rispondere alla domanda che sto per farti, ti chiedo di spiegare ai nostri lettori: quali sono i motivi per dire “no” a quell’eccezione?

Se tua madre ha scelto di darti la vita, buon per te. Ma la mia non lo ha fatto. Lei scelse l’aborto. Devo la mia esistenza a tutti gli attivisti, elettori, legislatori pro-vita del Michigan che hanno compreso che la mia vita valeva la pena di essere salvata, persino essendo conseguenza di uno stupro. La maggior parte delle persone non si interessano di tale questione. Io sono in grado di affrontare la gente e so che davvero pochi sarebbero capaci di sostenere impassibilmente tale eccezione e poi guardarmi negli occhi dicendomi che non meritavo di essere protetta e che mia madre avrebbe dovuto abortirmi. Secondo la Corte Suprema degli Stati Uniti, infliggere la pena capitale agli stupratori è una punizione crudele e disumana, e persino i molestatori di bambini non la meritano. Allora per quale motivo un bambino innocente dovrebbe meritare la pena di morte per i delitti del proprio padre?

Quanto ha influito la tua fede cristiana nel formare la tua visione del dramma dell’aborto?

Ero fortemente pro-vita ben prima della mia conversione. Da studente di Giurisprudenza, scrissi una dissertazione filosofica sull’aborto di contenuto assolutamente laico: “Il diritto del bambino non nato a non essere ucciso ingiustamente: un approccio di filosofia del diritto” [qui] Ma all’epoca non conoscevo il mio vero valore. Sapevo che non avrei dovuto essere uccisa, ma ignoravo il mio valore fino a quando scoprii il prezzo pagato per la mia vita. Insomma, non conobbi il mio valore, la mia identità, il mio scopo fin quando non diventai parte della Vite.

Un manifesto con il volto di Rebecca e la significativa domanda: meritavo la pena di morte?

Quali sono i numeri del problema rispetto agli aborti collegati allo stupro? Quante sono le donne che decidono di ricorrere all’aborto e quante invece proseguono la gravidanza fino alla fine?

Di dati disponibili ce ne sarebbero parecchi. Alcuni: secondo il CDC [“Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie”], negli USA si stimano all’incirca 32.000 gravidanze all’anno in seguito a stupro. Altre fonti suggeriscono poi che meno del 50% delle vittime di stupro denunciano il fatto, mentre sono circa il 4-6% del totale a restare incinte. Di queste, il 15-20% sceglie di ricorrere all’aborto, il che rappresenta la metà del tasso della media di gravidanze indesiderate. Oltre il 50% decidono di diventare genitrici: non del “figlio dello stupratore”, ma del PROPRIO figlio.

Quante donne hai conosciuto che si sono pentite di aver aggiunto al male dello stupro quello dell’aborto? Hai riscontrato un tratto comune nelle loro testimonianze?

Alcune delle loro storie sono sul mio sito, ed altre si trovano sul sito “Silent no more”. Ne ho incontrate tante, e spesso sono finite col chiedermi se provo perdono per loro. So che non è a me che devono chiederlo, ma ne capisco il motivo: perché sono una sorta di surrogato del bambino che hanno abortito. Offro loro la speranza che abbiamo in Cristo e il bisogno che abbiamo di capire cosa significhi dire che la Sua grazia è sufficiente, che ciò che Lui ha da dire a riguardo è più importante di quel che noi abbiamo da dire. Non dovremmo mai voler dire che ciò che Dio ha fatto mandando a morire in croce Suo Figlio non è sufficientemente positivo per noi.

 La “logica scientifica” dell’abortismo

Alla Marcia per la vita di Washington con attivisti dell’agguerrito fronte prolife americano.

Soffermiamoci per un attimo sull’aborto in particolare, poi avremo modo di discuterne il significato in relazione a problematiche più ampie. Quello che mi è sempre parso l’argomento più insostenibile nel fronte pro-abortista è l’idea che, dal momento del concepimento, si possa definire un particolare istante in cui un “ammasso di cellule” può improvvisamente definirsi “persona umana”. Ed infatti, non essendo possibile una tale demarcazione, esistono le definizioni più acrobatiche e disparate, segno che uno standard oggettivo in tal senso non può esserci (naturalmente, a meno che non lo si indichi nel momento del concepimento). Com’è possibile che questa “logica” venga tuttora perpetrata come “scientifica”?

L’embrione non è una “cosa”.

Come avvocatessa, ho rappresentato una madre nel primo caso di fertilizzazione in vitro del Michigan, che fu il primo del genere negli USA. Ebbe un bambino concepito da un gruppo con altri cinque embrioni le cui vite erano sospese in soluzione liquida. Per questo motivo, poteva guardare ogni giorno suo figlio pensando che sarebbe facilmente potuto essere uno degli altri cinque. A quel punto, interrogai gli esperti in fertilità di questa clinica ed essi testimoniarono che, dal momento del concepimento, questi bambini sono verificabilmente maschio o femmina. Molte volte si sentono i sostenitori dell’aborto che compiono ricerche sull’embrione riferirsi ad esso come ad una “cosa” [“it”, pronome neutro in inglese, n.d.a.], come se quella “cosa” non fosse umana, non una persona. Allora li devo fermare e correggerli: <<No, stai parlando di un “lui” o una “lei”, non di una “cosa”. E’ la scienza ad affermare che questi bambini hanno un sesso e non sono una “cosa”>>. Metà di essi appartengono ad un sesso differente da quello della madre, non sono parte dei tessuti di questa. Inoltre, molta gente non comprende che, dal momento del concepimento, il DNA dei genitori è completamente, per sempre andato. Cerco di spiegare loro che col concepimento il DNA della persona è totalmente tracciato, il sesso è determinato, il colore di capelli e occhi, c’è tutto.

Come in fondo si legge in Genesi: <<In principio, maschio e femmina li creò>>.

Sì, ed è bellissimo vedere la scienza confermarlo. Insomma, si può osservare che al concepimento siamo creati maschio o femmina, sin dal principio, e la cosa è inequivocabilmente confermata dai ricercatori che, attraverso il loro microscopio, possono verificare da una cellula se sei maschio o femmina. Un’altra cosa che poi trovo interessante è come certa gente possa suggerire che quei “lui” o “lei” non siano esseri umani, mentre sono effettivamente esseri umani viventi.

 Certe contraddizioni della cultura della morte

Tertulliano: già contro l’aborto.

Allarghiamo i nostri orizzonti e consideriamo uno dei tanti cortocircuiti di questa totalitaria cultura (che spazia dall’abortismo, all’ossessione omosessualista, all’antispecismo animalista e ambientalista, ecc.) che nega il diritto naturale e tenta di far convivere il sentimentalismo con un razionalismo che si dice unico depositario della “scienza”, e poi che fa? Ad esempio, arriva a promuovere confusamente una non verificata origine genetica dell’omosessualità (il mantra indiscutibile del “born this way”), ma poi incredibilmente oblitera l’evidenza del patrimonio genetico unico ed irripetibile che si manifesta nel concepimento, una scoperta del XX secolo che il cristianesimo già affermava fin dai suoi inizi. Infatti, già nel II secolo Tertulliano notava: <<E’ già un uomo colui che lo sarà; anche ogni frutto è già contenuto nel seme>>.

Hai fatto riferimento alla ricerca di un gene dell’omosessualità. Se davvero dovessero riuscire a provarne l’esistenza, sono convinta che molti omosessuali diventerebbero subito e fortemente pro-vita. Per una ragione ovvia: si troverebbero ad osservare che molti ricorrerebbero a test genetici per assicurarsi di non avere un figlio omosessuale e così, d’improvviso, quel figlio potrebbe ritrovarsi in un “club” a rischio di eliminazione. Per questo, in un certo senso mi auguro che dichiarino di aver individuato un tale gene, perché sarei felicissima di vederli unirsi ai nostri ranghi. Sono certa che lo farebbero. Non appena dovessero sentire che i bambini omosessuali non nati sono nel mirino per essere abortiti, credo che cambierebbero rapidamente idea. Tuttavia, è triste pensare che ciò è quel che è stato inflitto al sesso femminile, che spesso e volentieri è preso di mira in fatto di aborto senza che i vari gruppi femministi si levino protestando contro questo.

Rebecca Kiessling è spesso in tv per difendere la vita.

In effetti, fa una certa impressione osservare questi due lati della medaglia. La tecnologia può servire a difendere e far sviluppare la vita umana, ma un suo uso spregiudicato può portare all’inverso di utilizzarla per eliminare quella vita se essa confligge coi propri piani. E’ un dilemma che rischia sempre di spalancarsi su un abisso insondabile di orrore.

Esistono molte persone che vedono l’avere bambini come una segreta porta d’accesso alla vita eterna, e si può osservare quanto all’estremo si possano spingere pur di perpetuare il proprio sangue. Anni fa, partecipai ad un seminario sull’adozione e su come certe questioni processuali influiscono sui tre soggetti che ne fanno parte, cioè gli adottati, i genitori biologici e quelli adottivi. Lo trovai molto stimolante e fornirono un saggio di grande interesse. Si trattava di una dissertazione laica, ma ognuno di questi problemi legali possedeva delle dimensioni spirituali e gli corrispondevano delle risposte bibliche. Ad esempio, una di tali questioni era che molti genitori adottivi vivono un senso di perdita di dominio e sentono di stare morendo una morte prematura quando sperimentano l’infertilità. Sentono che la loro stirpe sta per finire e per questo moriranno in eterno, poiché il loro nome non si perpetuerà. Per questo devono prima riuscire a elaborare questa perdita prima di poter adottare.

Un fumettistico albero genealogico. Tutti abbiamo desiderio di conoscere le nostre origini.

E la fede come può aiutare a fare i conti con questa tragica percezione di morte?

Penso a San Paolo quando parla di essere innestati nell’albero della famiglia e per me crescere in una famiglia adottiva è stato molto doloroso nel senso che dicevo, poiché non avevo quella connessione con l’eterno. Frequentavo una scuola ebraica essendo stata cresciuta in una famiglia ebrea e ricordo il nostro insegnante parlare delle dodici tribù d’Israele e del fatto che, in teoria, si poteva risalire fino all’inizio del proprio albero genealogico. Ricordo che si parlava di risalire fino ad Adamo ed Eva, mentre io…non potevo andare indietro nemmeno di una generazione! Per cui, era come se sperimentassi quella perdita dell’eternità, però nel senso opposto. Diventata adulta, ritenevo molto importante stabilire una relazione che mi potesse permettere di cominciare la mia discendenza ed essere infine connessa all’eternità.

Ho trovato la mia guarigione in Cristo e nelle Scritture, e quando lessi che ero innestata nell’albero familiare, ciò significò tutto per me. Quando mi dissero che non ero davvero parte di loro [delle due famiglie: quella adottiva e quella ebraica in senso più lato, n.d.a.], iniziai a sentirmi rifiutata; ma ora avevo questo essere trapiantata in una famiglia attraverso Cristo e fu una cosa di enorme significato per me. E, a quel punto, non trovai più importante avere i miei propri figli biologici, che è la ragione per la quale volevo adottare e per cui, con mio marito, decidemmo prima di adottare.



   continua.............












Caterina63
00giovedì 1 maggio 2014 20:35

  Ma che succede a quelli che non sono toccati dalla luce della fede?


Molte persone che sperimentano l’infertilità sono sensibili a tale perdita e credo che molti di loro si sentano perduti, come se stessero annegando, e cercano un significato nella vita e credono di trovarlo procreando dei figli biologici, così che non dovranno fare esperienza di quella morte eterna. Tutto ciò avviene, però, attraverso la fecondazione in vitro, la distruzione di embrioni, un sottrarre valore alla vita ed altro ancora, solo per avere dei bambini. Ma la faccenda può andare oltre.


Vita nascente. Non è tutelata nemmeno quando si fa di tutto per averla in modi innaturali

Vita nascente. Non è tutelata nemmeno quando si fa di tutto per averla in modi innaturali



Anni fa, uscì un articolo sui cosiddetti “sperminatori”, termine un po’ crudo specialmente per certi fedeli. Ebbene, quell’articolo spiegava come negli Stati Uniti lo sperma di qualcuno, nel caso venga rubato, non viene considerato alla stregua di un tessuto, come ad esempio nel prelevare organi. Non è previsto dalle nostre leggi. Per cui il pezzo spiegava che c’è un mercato nero dello sperma: uomini vengono pagati per donare il loro seme alle banche dello sperma, le quali cercano persone con determinate caratteristiche (tipo essere istruiti) per poter pagare. Ma perché pagare per il seme quando puoi prelevarlo da un morto, mettiamo una celebrità? C’è dunque un mercato nero dove avviene una procedura chiamata “elettroeiaculazione”, normalmente applicata ai cavalli per recuperarne lo sperma, che si dice sia stata compiuta sui cadaveri di alcune persone famose.


Stai dipingendo un quadro già visto: togli il timore di Dio dalla cornice, e si finirà con degli scienziati pazzi che giocano a fare Dio utilizzando altri uomini come cavie.


Sì, l’articolo descriveva a quali estremi la gente può arrivare pur di avere il figlio ideale. Arriverebbero al punto di prendere il DNA di una celebrità solo per giungere ad avere una razza perfetta, quel bambino perfetto. Vi si raccontava anche la storia di un dottore il cui figlio morì tragicamente in seguito ad un incidente d’auto. Era ancora in stato di coma, fidanzato prossimo al matrimonio, e il padre era così devastato dalla perdita del suo unico figlio, dalla fine della sua discendenza e dalla non perpetuazione del proprio nome, che prelevò personalmente lo sperma dal figlio in coma e lo offrì alla fidanzata, nella disperazione di poter vedere sangue e nome continuare. Perciò, per tornare a prima, se trovassero un gene omosessuale, credo che molti morirebbero dal desiderio di assicurarsi che qualunque figlio dovessero avere possa proseguire la discendenza.



La croce della testimonianza che cambia i cuori



Il messaggio che porta avanti Rebbecca.

Il messaggio che porta avanti Rebecca.



Cosa si può fare allora per contrastare una cultura follemente individualistica che oggettifica l’umanità facendone un mezzo per raggiungere la propria “felicità”?


Per prima cosa, dobbiamo affrontare le persone e assicurarci di non radunarci in cerchio, come nel football americano. Hai presente quando i giocatori si radunano per decidere uno schema segreto senza farsi sentire dagli avversari? Utilizzo questa similitudine per descrivere una situazione in cui un gruppo di persone si rinchiude nel proprio circolo. Credo che a volte, come gente di fede, tendiamo a radunarci in cerchio con persone che la pensano come noi, per condividere il nostro segreto fra di noi, per parlare di aborto fra di noi, ma non andiamo fuori a parlarne per renderla una questione culturalmente rilevante.


Perché accade questo?


Il problema è che, in questo paese, molta gente non ritiene l’aborto materia di dibattito. Anche se la maggioranza degli americani sono pro-vita, non votano per la vita. Sono convinta che non lo facciano poiché ritengono non sia un problema rilevante, che la faccenda sia stata chiusa e il loro voto non conterà anche se votano a favore della vita. Ma questo è il punto in cui l’essere umani e la vita reale devono entrare nel quadro, perché è quando le persone iniziano a parlare dell’aborto condividendo le proprie esperienze personali che cominciano a cambiare i cuori e le idee. Finché l’aborto rimane solo una discussione filosofica, perdiamo. Quando vado a parlare nelle università, durante la sessione di domande e risposte, c’è gente che mi dice: <<Molto di quel che dici è soggettivo, la tua storia è soggettiva>>. E allora racconto loro di altre storie presenti sul mio sito di persone concepite in uno stupro e mi ripetono: <<Beh, anche queste sono soggettive>>. Così rigettano sommariamente la mia storia, perché non vogliono che alcuno riesca a perforare il muro che si sono costruiti attorno al cuore. E come replicare con un argomento filosofico? Vedi, lì non avrei problemi. La mia dissertazione sull’aborto è da anni in cima ai criteri di ricerca di Google riguardo i saggi filosofici sull’aborto. Sono capace di affrontare la materia da giurista e dal punto di vista filosofico. Ma ho osservato che quando lo faccio nel dibattiti universitari, vedo molti sorrisetti. A quel punto, mantenere la discussione nell’ambito della filosofia li porta a pensare: <<Qualunque cosa possa dire, non si tratta di vita vissuta>>. E credo che non ci sia nulla di più potente da toccare il cuore della storia di una persona reale.


Volontari prolife

Volontari prolife



Dobbiamo dunque essere pessimisti riguardo alle nuove generazioni?


Ci sono moltissimi giovani che sono stati più abortisti che pro-vita, ma attraverso le esperienze della vita il loro cuore viene ferito poiché finiscono con lo sperimentare il dolore dell’aborto o hanno amici e amiche che lo soffrono, che ne soffrono uno spontaneo loro oppure della propria moglie, o la perdita di un bambino. La vita inizia ad accadere e i loro cuori vengono trafitti, per questo sempre più persone divengono pro-vita. E’ una grande cosa combattere contro l’aborto con argomenti filosofici o biblici, ma c’è bisogno di esser pronti a condividere la propria storia. Purtroppo, molta gente non intende farlo. Può essere doloroso, si può venire attaccati, ed io ne ho fatto esperienza.


In che modo, quindi, queste persone possono trovare il coraggio di aprirsi e condividere la propria esperienza?


La forza della vita, il diritto di vivere

La forza della vita, il diritto di vivere



Nelle Scritture ricorre questo tema dove i personaggi sono chiamati ad alzarsi e parlare. Ad esempio, quando Dio dice a Mosè di non temere di alzarsi e parlare al popolo poiché l’avrebbe istruito, ma Mosè fa poi parlare Aronne. E Gesù stesso affronta questo timore di comunicare quando dice ai discepoli: <<Se andate in una città e non vi ascoltano, scuotete la polvere dai vostri piedi>>. Avevano paura, perché sapevano di poter essere respinti. Ed è in effetti quel che accade quando cominci a condividere la testimonianza di ciò che ti è accaduto: verrai ridicolizzato, rifiutato, perseguitato. Crocifisso. Troppe persone, però, non intendono arrivare a questo, ed allora mi sento di incoraggiarle: Lui è con te. L’ho provato io stessa. Lui è con te nei momenti oscuri in cui sei attaccato e perseguitato. Ecco perché incoraggio gli altri a condividere. E poiché condivido la mia storia ed è stata tradotta in diverse lingue, essa può contribuire a toccare il cuore delle persone. Gente che lavora per organizzazioni pro-vita all’estero mi dice: <<Vorremmo tanto avere gente qui che condivida la propria storia, ma non abbiamo nessuno come te>>. E non è che non ne abbiano perché negli altri paesi non esistono persone concepite in uno stupro; certo che ci sono. E’ che non hanno il coraggio di farsi avanti e parlare. La mia idea è che, poiché negli Stati Uniti abbiamo goduto per oltre due secoli della libertà di espressione, forse le persone di altri paesi tendono a non essere aperte come noi. Ma forse non siamo aperti abbastanza. Ritengo che i credenti dovrebbero sentirsi investiti di più potere di quello offerto dalla nostra Costituzione o dalla Carta dei diritti. Dovremmo sentirci più “empowered” non perché il governo ci concede tale libertà, ma perché la troviamo in Cristo. Ecco perché spero che la mia storia possa spingere altri a condividere la propria.



Strategie culturali e politiche tra Dio e Cesare



Campagna newyorkese contro le gravidanze adolescenziali.

Campagna newyorkese contro le gravidanze adolescenziali.



Sono convinto che non ci si può efficacemente opporre all’aborto se non si combatte il contesto che lo coltiva ed incentiva, cioè quello dell’ossessiva “sessualizzazione” della società. In questo quadro di irreversibile decadenza, il cristiano deve continuare a tenere il dito puntato contro le contraddizioni di una cultura che ha sequestrato parole come “diritti”, “dignità”, “libertà” , mentre non promuove che la degradazione e desertificazione di corpi ed anime.


Un esempio concreto: tempo fa, l’amministrazione cittadina di New York promosse una campagna di utilizzo dei profilattici intitolata “Il mio corpo, i miei rischi, le mie regole”, eloquente promozione del relativismo più totale in fatto di responsabilità dei comportamenti sessuali. Dopo poco, ha proposto una campagna contro le gravidanze adolescenziali chiamata “Non adesso” in cui, ad esempio, un bambino piangente veniva fatto dire alla madre: <<Ho due volte più probabilità di non diplomarmi alle superiori perché mi hai partorito da adolescente>>.


Insomma: da una parte si propagandava la più assoluta liberalità dei costumi sessuali specie fra i giovanissimi, poi dall’altra ci si preoccupava delle conseguenze di tali azioni quando, viene da sospettare, non si è riusciti ad evitarle facendo ricorrere le giovani madri all’aborto [si pensi che, in questa città, una minorenne non ha nemmeno bisogno del consenso dei genitori per accedere a farmaci abortivi]. Come ritieni si possa contrastare il veleno di tale ideologia a livello di processi decisionali?


Pam Stenzel, altra nota prolife americana

Pam Stenzel, altra nota prolife americana



Innanzitutto, io penso che le culture possano essere cambiate. Pensa ai Vangeli: molte delle culture che gli apostoli andavano ad evangelizzare erano pagane e prevedevano sacrifici. E guarda a come quelle culture furono cambiate dai Vangeli. Per questo credo che le culture si possano trasformare, ne abbiamo esempi storici. Certo, normalmente quel tipo di paganesimo risulta nel collasso delle istituzioni di governo: un impero crolla e viene sostituito da un altro. Per questo, credo che il paganesimo possa portare alla fine di un impero, ma le persone che vivono in quella determinata regione, le generazioni possono essere cambiate dal Vangelo. Credo che, in ultima istanza, si concentri tutto sulle questioni dell’anima.


Una delle mie migliori amiche, Pam Stenzel (anche lei concepita in uno stupro ed è un’oratrice pro-vita a livello internazionale), parlando ai bambini delle malattie sessualmente trasmissibili (MST), ha tentato di andare molto più in profondità. Perché puoi fornire loro fatti sulle MST, puoi parlare loro dell’AIDS, di contraccettivi, eccetera. Puoi dare loro tutti questi dati, ma può darsi che non tocchi la loro anima, perché c’è nelle persone una dimensione spirituale dove nuove e ben più grandi prospettive entrano in gioco. Domande come: <<perché sono qui?>>, <<qual è il mio scopo?>>. Perciò, quando le persone sentono di non avere un fine, possono cominciare a credere che non serve relazionarsi con gli altri, per cui una ragazza può pensare: <<Essere promiscua è indifferente. Alla fine, non gliene frega a nessuno. Non ci sono conseguenze. Non possiedo nulla di speciale>>. Queste sono questioni spirituali, del cuore. Ed ecco che molte ragazze inseguono uomini sessualmente attivi, ma non perché, come direbbe la gente, <<sono delle sgualdrine>>. E’ solo perché vogliono essere amate e sentirsi speciali.


Per questo, ripeto, dobbiamo parlare al cuore delle persone e mostrare loro che contano e sono degne che si investa tempo con loro. Non so se le istituzioni governative possono farlo. Penso che ci voglia fede perché si possa decidere di entrare nelle vite degli altri. E’ una cosa che ho verificato un’infinità di volte: alle persone non interessa sapere quanto sai, fin quando non sanno quanto esse ti interessano. E’ necessario che entriamo nelle loro vite, in situazioni terribili e in ambienti sgradevoli per mostrare alle persone che ci interessano, che sono speciali.


Riguarda salute e sicurezza. Non della vita, però, dato che è un manifesto della Planned Parenthood.

Riguarda salute e sicurezza. Non della vita, però, dato che è un manifesto della Planned Parenthood.



Certamente: agire. Come tradurre questa affezione per le persone in azione politica e culturale?


New York è l’esempio più sfrenato della cultura che descrivevi. Sono completamente andati. Hanno il più alto tasso di aborto del paese ed il maggior numero di cliniche abortive. Hanno le leggi abortiste più liberalizzate eppure detengono il primato del più alto tasso di infanticidi a livello nazionale, sebbene lo slogan abortista prima della Roe vs. Wade fosse “ogni bambino, un bambino voluto” [coniato dalla fondatrice di Planned Parenthood, Margaret Sanger, n.d.a.]. Hanno votato le “Safe haven laws” [“Leggi del rifugio sicuro”] in base a cui, pur di non gettarlo nella spazzatura, si può lasciare un neonato davanti ad un ospedale o una stazione di pompieri senza essere perseguiti. E nonostante abbiano questa legge, detengono ancora il più alto tasso di infanticidi, e ne deriva una cosa che andrebbe sottolineata molto più di quanto non si faccia, vale a dire: la promessa che con la legalizzazione dell’aborto l’abuso di minori, il loro abbandono e l’affidamento sarebbero divenuti rari era in realtà una menzogna, poiché si sono svalutati i bambini e la vita umana.


Per tornare poi alla questione dell’attivismo politico, essere pro-vita a New York è oggettivamente difficile in questo momento. Ma ci sono altri Stati in una situazione intermedia, i cosiddetti “Stati viola”. Sai che qui abbiamo gli Stati repubblicani che sono rossi e i democratici blu, e poi ci sono i viola dove la situazione è più bilanciata. Io vivo in uno di questi, il Michigan, dove abbiamo la più forte organizzazione pro-vita a livello statale, “Right to life of Michigan” , che è anche il più potente comitato di azione politica pro-vita della nazione. La maniera in cui operano è l’esempio da seguire: partendo dal coinvolgimento personale, bisogna avere una comunità di azione politica ed i vari comitati devono unirsi, e questi comitati di azione devono appoggiare determinati candidati. “Right to life of Michigan” ha sostenuto candidati sia repubblicani che democratici. Io sono repubblicana per la semplice ragione che un comitato non può nemmeno approvare leggi pro-vita o avere un’opportunità di votarle se i repubblicani non controllano un Parlamento statale o il Senato. Il modo in cui quell’organizzazione lavora, dunque, è di appoggiare candidati pro-vita anche in distretti fortemente democratici, dove si sa per certo che un repubblicano non verrà eletto.


Proteste degli attivisti americani in favore della vita. Sempre più organizzati.

Proteste degli attivisti americani in favore della vita. Sempre più organizzati.



Sembra che i pro-lifers americani siano ben consapevoli della necessità di costituirsi in organizzazioni ben strutturate.


In realtà, non sempre. Una volta, ero in viaggio per lo Stato ad incontrare organizzazioni pro-vita e ai loro affiliati chiedevo: <<Chi di voi fa volontariato?>>. E alcuni di loro: <<Io>>. <<E chi altri con te?>>. <<Beh, solo io>>. E allora sbottai: <<Cosa?! Che differenza potrai mai fare se sei da solo? Non hai amici? Non cerchi di coinvolgere persone? Devi raccogliere discepoli!>>. E’ impossibile pensare di poter guidare un’organizzazione pro-vita senza un’attiva azione di reclutamento. In un’occasione nella mia città ebbi cinquanta volontari capaci di raccogliere mille firme. In un solo evento. Non posso credere che ci siano tante persone nel movimento pro-vita abituatesi a vivacchiare, contente di essere da sole. Non puoi essere solo tu. Devi reclutare persone, perché le persone vogliono far parte di un’organizzazione, essere attive, sentirsi incoraggiate dall’esser parte di qualcosa di più grande che sia in grado di cambiare le cose. Poi c’è anche un altro aspetto da considerare: molte persone di fede non si impegnano in politica, perché pensano che i credenti non vi abbiano un ruolo e che a Dio in fondo non interessi la politica. Stiamo scherzando?! Mai sentito parlare del “Libro dei Re”, “Giudici”, eccetera? La Bibbia è estremamente politica. Queste persone devono comprendere che, invece, conta chi sono i leader. Pensiamo solo al Nuovo Testamento e agli eventi che conducono alla crocifissione: hanno un alto contenuto politico. Lo stesso San Paolo ne parla e si appella ai propri diritti di cittadino romano. Dunque, c’è sicuramente uno spazio in cui impegnarci ed esercitare i nostri diritti.


Rebecca-Kiessling_aborto_stuproSono d’accordo. E, in quanto cattolici, c’è altro in aggiunta alle Scritture: la Dottrina Sociale della Chiesa, le encicliche o penso allo stesso Papa Francesco quando di recente disse che i cattolici hanno il dovere di non essere timidi quando si tratta di questioni politiche. Purtroppo, però, parecchi cattolici hanno annacquato la propria fede nell’idea che non debbano manifestare la propria identità nell’arena politica, rendendo così oggetto di un equivoco il rapporto tra fede e politica, tra Dio e Cesare.


In Proverbi 24, 11-12 si legge: <<Libera quelli che sono condotti a morte, e salva quelli che, vacillando, vanno al supplizio. Se dici: “Ma noi non ne sapevamo nulla!…” Colui che pesa i cuori, non lo vede egli? Colui che veglia sull’anima tua non lo sa forse? E non renderà egli a ciascuno secondo le opere sue?>>. Di questo si tratta: siamo noi quelli che devono andare in aiuto dei bisognosi.

   continua.....




Caterina63
00giovedì 1 maggio 2014 20:36


  Il sale della Terra, giusto?

Sì!

Costruire la vita sulla roccia

Un altro manifesto con il volto sorridente della Kiessling.

Un altro manifesto con il volto sorridente della Kiessling.

Il tuo accenno mi fa tornare per un attimo alla tua storia personale: tu stessa sei stata letteralmente salvata dalla morte e risparmiata così dal supplizio. Quali pesi, però, ha dovuto sopportare il tuo cuore di bambina adottata? Quanto è stato difficile fare i conti con l’essere stata sottratta alla morte?

Quel che posso dire è che, crescendo da bambina consapevole di essere stata adottata, mi sentivo come una sciagura. Sul serio. E non perché ci sia qualcosa di instrinsecamente sbagliato nell’adottare, ma perché i miei genitori non mi davano delle fondamenta solide. Al contrario, mi parlavano della storia della loro infertilità e così pensavo che si riferissero a me come ad un’ultima spiaggia. Mi raccontarono anche che c’era un’altra coppia in attesa prima di loro che avrebbe dovuto adottarmi, ma quelli dissero che volevano un bambino e non una bambina. Ed allora i miei dissero: <<Beh, noi abbiamo già un bimbo: vada per la bambina!>>. Insomma, ora non solo sentivo di esser stata respinta dalla mia madre naturale, bensì di essere stata esclusa anche da un’altra coppia che non mi voleva per via del mio sesso.

Ecco perché ora penso sempre a come deve sentirsi un bambino che non ha idea di chi sia il proprio padre biologico, che è stato creato in laboratorio così che i propri genitori potessero sentirsi “normali” come chiunque altro. Queste non sono le fondamenta da dare ad un bambino. E’ sbagliato dire che si è adottato per sentire cosa si prova ad essere genitori. Non è questo il motivo per cui si adotta. Si adotta perché Dio ha un piano per quel bambino. L’adozione, così come la famiglia, dovrebbe essere incentrata su Dio, non sul bambino né sui genitori. A volte, l’essere genitori arriva ad incentrarsi sul bambino, ma di certo la decisione di aver bambini non ruota attorno ad essi, ma attorno ai genitori e sicuramente non attorno a Dio.

 Certamente, spesso in questo dibattito c’è sempre un invitato mancante, cioè il bambino. E, come dicevi, molte volte il desiderio dei genitori di avere figli è basato sul desiderio di diventare genitori e creare una famiglia. Paradossalmente, però, questa pretesa individualistica emerge in una cultura che ridicolizza continuamente l’istituzione familiare…

Voglio specificare: non condanno queste persone. Capisco che si tratta di questioni del cuore, spirituali, di visione del mondo. E capisco perché le persone pensino che mettere in piedi una famiglia possa aiutarli a dare senso alle proprie vite. Provo comprensione per loro, e per gli omosessuali e le lesbiche che intraprendono simili pratiche. Ma ci sono conseguenze per i bambini e per le società che devono essere considerate.

Quale America dopo Obama?

Sorride a tutti, ma non alla vita.

Sorride a tutti, ma non alla vita.

Tutto ciò di cui abbiamo discusso finora si condensa qui in America in un’icona intoccabile: Barack Obama. Protetto da un potenziale di fuoco mediatico che lo incensa come paladino libertario, una sorta di Martin Luther King, Jr. del Terzo millennio, il presidente è il sommo avvocato di tutte le istanze di quella cultura falsamente umanitaria che, invece, è cultura della morte spacciata come “libertà e diritto di scegliere”. Basti solo pensare al legame di assoluta e reciproca fedeltà tra il presidente e Planned Parenthood, allo HHS Mandate o al vergognoso silenzio mediatico sul recente processo Gosnell.

Che America sarà alla fine del secondo mandato obamiano nel 2016?

Obama ha certamente causato grandi danni. Per ogni presidente democratico che viene eletto, il successore repubblicano non è in grado di capovolgere i danni compiuti, perché non ne ha il coraggio. Ad esempio, Bill Clinton fu colui che, con una semplice lettera, vent’anni fa modificò l’emendamento Hyde affinché gli Stati potessero utilizzare fondi federali per finanziare i programmi Medicaid per aborto in caso di stupro, incesto e situazioni di rischio per la madre. Questa iniziativa ha provocato effetti raggelanti, se pensiamo che, viaggiando per il paese per incontrare i legislatori, mi dicevano che non possono approvare emendamenti contro l’aborto in quei casi, perché sotto l’emendamento Hyde sono costretti a finanziarlo. George W. Bush avrebbe potuto cambiare questa situazione, ma non l’ha fatto. Come dicevo: i democratici fanno danni, ma, quando subentrano, i repubblicani non vi pongono rimedio.

Perciò sono preoccupata che anche se ci saranno dei candidati pro-vita, essi non avranno il coraggio o, a volte, persino la competenza di ricomporre i guasti. Pensa a quando Romney ha dibattuto con Obama: non aveva nemmeno idea che Planned Parenthood non fornisce mammografie [il riferimento è ad una polemica del 2012 in cui gli attivisti pro-vita denunciarono la falsa pretesa dell'ente abortista di fornire tale servizio per edulcorare la preminenza della pratica feticida nelle proprie cliniche, n.d.a.]. Sono davvero preoccupata da questa mancanza di conoscenze.

Molti leader repubblicani, come Romney, sono impreparati sull'aborto nel dibattito con Obama

Molti leader repubblicani, come Romney, sono impreparati sull’aborto nel dibattito con Obama

Un altro problema è che i pro-lifers continuano a frazionare i voti nelle primarie repubblicane, per cui non c’è da addossare che ai conservatori la responsabilità della loro inefficacia. I leader conservatori non sostengono un unico candidato, perché se si guarda alle primarie e a come gli elettori hanno votato, il 70% hanno votato per un candidato pro-vita al 100%. Ben cinque candidati firmarono il compatto “Nessuna eccezione, nessun compromesso”, ma poi il voto si è frazionato, per cui tutto quello che un moderato può fare è attendere dietro le quinte che i conservatori suddividano i loro voti e poi scapparsene con la nomination. Ed ecco che alle presidenziali, gli elettori pro-vita non sono motivati a votare un “RINO” [acronimo che sta per “Repubblicano solo di nome”, n.d.a.]. Nel 2012, non diedi il mio endorsement a Romney e fui attaccata per questo. <<Ma come, vuoi che vinca Obama?>>. Votai per Romney, ma non gli diedi il mio endorsement perché aveva sostenuto l’eccezione in caso di stupro enfatizzando di non essere così “estremo”, cosa che trovai offensiva.

prolifeantiobama

Gli embrioni anti-Obama

A parte ciò, resta frustrante che i pro-lifers non sostengano tutti un solo candidato. Sono così schizzinosi che persino se Cristo tornasse, non si unirebbero per sostenerlo! Non ci sarà mai un candidato perfetto per i conservatori, ecco.

E allora che si fa?

Credo che dobbiamo continuare a fare ciò che è giusto. Gente come Ann Coulter ed altri opinionisti hanno detto [qui un articolo di Rebecca a riguardo, n.d.a.]: <<Dobbiamo metterci alle spalle il problema dell’aborto, non vale la pena perderci le elezioni. Sono cose da intransigenti, e queste intransigenze vanno superate>>. Ed anche in seguito a questo, l’anno scorso siamo riusciti a proporre e far approvare come mai prima leggi senza eccezione in caso di stupro su tutto il territorio nazionale. Questo mi dà speranza. Per questo conservatori e pro-lifers devono mettersi d’accordo e proporre un unico candidato, e solo uno forte e solidamente pro-vita può essere quello in grado di disfare i danni prodotti.

Pensi dunque che i danni che Obama sta provocando verranno un giorno sovvertiti? Questa guerrà verrà vinta negli USA?

I progressisti dicono di volere che il governo stia alla larga dalle loro camere da letto, ma poi pretendono che esso li sovvenzioni per ciò che fanno in camera da letto. Dicono di volere che il governo tenga la Chiesa fuori dalle loro camere da letto, ma poi pretendono che essa paghi per quello che ci fanno costringendola a finanziare l’aborto. Per cui, che dire? Quando Obama fu eletto, ricordo gente dire: <<Oh, speriamo che non faccia troppo>>. Al che io rispondevo: <<Scordatelo! Voglio che faccia una campagna “shock-and-awe” [“traumatizzare e sbalordire”, questo il significato dell'espressione, era il nome in codice della strategia bellica americana nella conquista dell'Iraq, n.d.a.]!>>. Volevo che buttasse tutte le carte sul tavolo, così da svegliare un gigante dormiente e poter vedere i credenti alzarsi e dire: <<Santo cielo! Come abbiamo potuto starcene tranquilli e permettere che accadesse?>>. Desideravo che Obama scatenasse questa campagna “shock-and-awe” e mostrasse tutto il peggio di cui è capace, così che, perdendo questa battaglia, ci avviassimo poi a vincere la guerra. Sono perciò speranzosa che vedremo una nuova generazione ergersi ed affermare: <<Dio è dalla nostra parte, possiamo farcela>>. Una generazione capace di rimboccarsi le maniche per trovare unità e sconfiggere il gigante.

 







Caterina63
00lunedì 5 maggio 2014 15:10

  Successo per la IV edizione dell’iniziativa. Esponenti pro-life da ogni parte del mondo e di ogni confessione, per dire che la difesa della vita “non è un atto di fede, ma di ragione”


Roma, (Zenit.org) Federico Cenci


“Tanti auguri e avanti, e lavorare su questo!”. Non potevano desiderare una conclusione migliore i tanti partecipanti alla quarta edizione della Marcia per la Vita, svolta a Roma ieri mattina. L’incoraggiamento di papa Francesco, che ha evidenziato inoltre il “carattere internazionale ed ecumenico” dell’evento, è giunto al termine del Regina Coeli.



Ad ascoltare le sue parole, mischiate tra la folla dei pellegrini, circa 50mila persone festanti che hanno preso parte all’evento. Partito da piazza della Repubblica alle ore 9,30, il lungo corteo si è ingrossato man mano che si è snodato per le vie del centro. Molti altri partecipanti, sin dalle prime ore della mattinata, hanno occupato piazza San Pietro con tanto di bandiere e striscioni. Per la prima volta, quest’anno, la Marcia ha assunto così un’impronta originale e distribuita in diverse fasi.


Sono arrivati da ogni angolo d’Italia – associazioni, parrocchie, confraternite, singoli individui – ma anche dal mondo. C’erano esponenti di 36 gruppi pro-life internazionali e una ridda di bandiere di vari Paesi e regioni. Tra il caleidoscopio di colori, spiccava il nero delle talari dei tanti sacerdoti presenti (particolarmente vivaci, con tamburi e corde vocali robuste, quelli dell’Istituto del Verbo Incarnato) e anche il rosso porpora di una berretta cardinalizia, quella di Raymond Leo Burke, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, che ha percorso a piedi tutto il tragitto conversando in modo cordiale con i partecipanti.


Tuttavia, l’immagine più adatta a rappresentare la moltitudine di persone che componevano il corteo, è il volto sorridente dei bambini. Ce n’erano tanti, dai più piccoli in carrozzina a quelli che stringevano la mano ai propri genitori, oltre a un nutrito gruppo che riempiva divertito un trenino a due vagoni.


La gioia trasmessa da questi piccoli è lo spot della Marcia, un manifesto animato ed energico a favore della vita. “Un raggio di luce e di speranza”, per parafrasare quanto espresso da Virginia Coda Nunziante – portavoce della Marcia per la Vita – durante il suo discorso iniziale.


La Nunziante ha ricordato che ogni anno 45milioni di esseri umani vengono assassinati, “un’ingiustizia commessa nei confronti dei deboli e degli indifesi”, nonché “una trasgressione della legge naturale e divina”. Uno stillicidio che sottrae al mondo la bellezza di quei sorrisi innocenti.


È per questo, ha aggiunto la portavoce, che va riconosciuto che “l’aborto è un delitto”. Un assunto condiviso non sulla base di un credo religioso, bensì “in nome della ragione”. La difesa della vita, ha infatti osservato la Nunziante, “non è un atto di fede, ma di ragione”.


Difesa della vita di cui è stato un autentico militante Mario Palmaro, bioeticista e scrittore scomparso lo scorso 9 marzo. Toccante il ricordo che gli ha dedicato durante il suo intervento la Nunziante, la quale ha levato al cielo la promessa “di continuare il lavoro iniziato insieme”, e ha chiosato: “Il nostro spirito non è divisivo, ma unitivo”.


Un richiamo all’unità è stato espresso dalla Nunziate anche all’inizio del suo discorso, quando ha definito la Marcia “al di sopra di ogni polemica e divisione” e ha specificato che “in piazza ci sono gruppi e personalità con storie e strategie diverse”, ma “tutti uniti dalla comune volontà di opporre un no chiaro e senza compromessi ad ogni violazione della vita umana innocente”.


Le sue parole hanno anticipato quelle di papa Francesco sul “carattere internazionale ed ecumenico” e sono state testimoniate dalla presenza di rappresentanti e fedeli della Chiesa ortodossa (tra cui l’ambasciatore Onu Alexey Komov), di protestanti, evangelici, valdesi ed anche musulmani marocchini, assiepati dietro una bandiera del loro Paese.


Tante anime strette “attorno ad un’unica meta”. Decise a marciare sin quando non sarà riconosciuta l’inviolabilità della vita umana, con un appuntamento già fissato per il prossimo anno. Il 10 maggio 2015. Sempre a Roma, per dire no alla cultura della morte e sì alla vita.

   qui per le foto, altre notizie... http://www.marciaperlavita.it/


Caterina63
00lunedì 12 maggio 2014 12:49

   Manuela, un'attesa durata sette anni
di Paola Bonzi
10-05-2014


A casa è ora di cena. Poiché il telefono suona sempre, la raccomandazione dei miei familiari è: «Staccalo, per piacere. Vediamo almeno di riuscire a mangiare in pace». Naturalmente disobbedisco e vengo subito scoperta: il trillo del telefono sembra più imperativo del solito e, con uno ‘scusate’, mi alzo frettolosamente per andare a prendere la comunicazione.

La voce che risponde al mio ‘pronto’ è di donna: «Buonasera, sicuramente disturbo, ma ho sentito un irrefrenabile bisogno di chiamarla. Chissà se si ricorda di me. Sono Manuela».

Vorticosamente nomi, situazioni, ricordi, emozioni, girano a mulinello nella mia testa. Attimi di panico. Devo assolutamente ricordare. Potrebbe restarci troppo male se non dovessi riconoscerla. Finalmente si accende la lampadina. Non oso crederci. «Manuela di qualche anno fa?»

«Sette anni e mezzo fa, per la precisione. Sono stata da lei con mio marito, quella volta, e abbiamo avuto un lungo colloquio. Ero incinta e aspettavo due gemelli».

Tensione, tensione, tensione. Quel colloquio è stampato nella mia mente come qualcosa di indelebile. Si trattava di una gravidanza alla ventesima settimana. Manuela e Riccardo, due professionisti, sposati da dieci anni. Manuela non sentiva il bisogno di un figlio. Suo marito, invece, nutriva un grande desiderio di paternità che a tratti emergeva. Anche la madre di Manuela voleva diventare nonna e lo chiedeva insistentemente. Manuela, figlia unica, a un certo punto della vita, si era sentita in dovere di esaudire la sua accorata richiesta.

Finalmente si decide per questa nascita che, naturalmente, ora, deve accadere subito. La futura madre si sottopone addirittura a una stimolazione ormonale. Si studia il tempo di ovulazione ed ecco la gravidanza.
Felicità. Le settimane trascorrono ed è già ora dell’ecografia. Guardano e riguardano. Sì, sono proprio due gemelli. Ancora un po’ di tempo. La  mamma di Manuela muore improvvisamente.

Dolore. Quasi disperazione e, poi, il rifiuto. «Non voglio questi bambini. Ho cercato la gravidanza solo per assecondare il desiderio di mia madre e, ora, lei non c’è più. Non voglio farli nascere questi figli».

Riccardo interviene: «Le ho tentate tutte! Cerco di farle piacere in ogni modo. Ho chiesto un periodo di aspettativa al lavoro. Mi occupo della casa, faccio arrivare i pasti dal ristorante vicino, apro il mio cuore senza ritegno per raccontarle il mio sogno di paternità e le mie emozioni legate ai nostri figli. Tutto è inutile!»

Sono assolutamente senza respiro e non trovo parole. I due coniugi discutono. Manuela riesce sempre a tacitare Riccardo: «Perché parli ancora? Che cosa ne sai tu del mio dolore? E delle mie fatiche? Sai bene che ho cercato di rendere felice mia madre, con questa gravidanza. Ora non serve più. Lei è morta, mi ha lasciata sola con questa situazione che mi causa grandissimi disagi. La cosa non ha più senso. Ho la mia carriera e una gran voglia di realizzarmi attraverso il mio lavoro».

Le parole anche cattive si rincorrono. Non si viene a capo di nulla. Riproviamo per l’ennesima volta a ripercorrere strade già sperimentate. Non riesco a dire altro che: «Manuela, la prego, ci pensi ancora un po’. Per la legge 194 è impossibile abortire alla ventesima settimana».

«Ho trovato un medico che, sentito il mio grande disagio, si è dichiarato disposto a farmi abortire».

Un grande senso di lutto mi prende alla gola. «Manuela – riesco a dire con il terrore nella voce – questi piccoli potrebbero nascere vivi».

«Il medico mi ha garantito che ogni cosa è stata presa in considerazione. Ci penserà lui».

Non possiedo più parole né voce. La stanza si riempie di una grande tristezza, tristezza dalla quale ciascuno di noi, per motivi diversi, si sente sommerso. Infine, sentendo di aver perso e di ritrovarmi senza nessuna energia, riesco a dire: «Io sono qui e mi piacerebbe tanto rivederla. Sappia che l’aspetterò». 

Ho atteso per giorni. Ho sperato in una telefonata, in una richiesta di appuntamento, in un qualunque segnale. Nulla se non l’eco di quella disperazione.

Stasera la telefonata: «Quanto tempo! E che sorpresa!». «Eravamo a cena con tanto di torta con doppie candeline rosa e azzurre: sette per ciascuno e ho sentito forte l’impulso di telefonarle per dirle ‘GRAZIE’ per conto di tutti noi. I miei bambini sono nati e stanno bene: Eleonora e Matteo. Sono bellissimi e noi non sappiamo misurare la nostra gioia. Mi sono alzata di scatto e ho detto loro che dovevo proprio telefonare a un’amica prima che loro spegnessero le candeline».

Inutile dire la mia commozione. «Sono io che devo ringraziarla, Manuela. Non vi ho mai dimenticati e la sua telefonata è il più grande sorriso alla Vita».







Caterina63
00giovedì 15 maggio 2014 21:37


  Colton Burpo, il bimbo che ha visto il Paradiso e ce lo racconta: la sua incredibile storia

A 4 anni è sopravvissuto miracolosamente a un'appendicite in peritonite. Ricoverato d'urgenza ha raccontato ai genitori di aver parlato con Gesù durante l'operazione. Ora che ha 14 anni, ha voluto raccontare la sua vicenda. Che diventa anche un film

Colton Burpo, il bimbo che ha visto il Paradiso. E ce lo racconta (FOTO)

Colton Burpo è il bimbo che ha visto il Paradiso. E, incredibile a dirsi, ora ce lo racconta. Una storia che ha catturato mezzo mondo e che ora arriva anche in Italia: Colton a 4 anni è miracolosamente sopravvissuto a un’appendicite in peritonite. Durante l’operazione, ha detto poi ai genitori stupefatti, è andato in paradiso e ha parlato con Gesù. È successo nel 2003. Lui oggi ha 14 anni e ha voluto far conoscere a tutti la sua storia che ha davvero dell’incredibile.

 

 

Le immagini di Colton Burpo – FOTOGALLERY

 

 

“STAVO IN BRACCIO A GESU’- Colin racconta che stava in braccio a Gesù, che lo ha accolto sul suo cavallo color arcobaleno e “ha detto agli angeli di cantare, perché avevo tanta paura”. Ha spiegato di aver incontrato Dio, che è “grandissimissimo e ci vuole veramente bene”. E aggiunge di aver visto anche una luce, quella “sparata”, secondo le sue parole,  dallo Spirito Santo sugli uomini.

 

 

“In coma ho visto il Paradiso”. Parla lo scienziato Eben Alexander ESCLUSIVO 

 

 

“VEDEVO DALL’ALTO IL MEDICO CHE MI AGGIUSTAVA” – Colin racconta anche di aver  visto “dall’alto” il medico che lo “aggiustava” e i genitori  preoccupati e sofferenti per lui. Ma il particolare più suggestivo è quando Colin ricorda l’incontro con la sorellina in Paradiso e mai nata e di cui nessuno gli aveva parlato.

 

 

I SUOI TRE MINUTI IN PARADISO – E’ il cinque marzo quando  i il bambino che non ha ancora compiuto quattro anni, entra in sala operatoria: ha l’appendice perforata, pochissime speranze di sopravvivere. Mentre Todd, il padre,  prega e la madre cerca conforto negli amici, per tre lentissimi minuti Colton “muore”, i medici lo perdono. Invece, il bambino  miracolosamente reagisce e si salva. Qualche anno dopo, Colton racconta ai genitori stupefatti il suo “viaggio” in Paradiso con grande tranquillità, come se fosse un avvenimento normale e la sua storia di fede e di speranza fa il giro del mondo.

UN LIBRO E UN FILM – Adesso la sua storia è diventato un libro, Il paradiso per davvero(Rizzoli) e un film Heaven is for real”, già blockbuster in Usa, che arriva in Inghilterra.





Caterina63
00sabato 7 giugno 2014 15:05

La testimonianza di fede di Silvia, soprannominata mamma coraggio «Lì il nostro "SI" si è fatto carne»




di Titti Mallitti da testimonianza di Elisa Silvi

Semplice, vestita di chiaro, i capelli raccolti, cammina abbracciata al marito Giovanni. Tutto in lei parla di semplicità: è Silvia “mamma coraggio”.

Un “MA” nel momento in cui ci abbracciamo scuote il mio cuore: i suoi occhi gonfi che parlano di Benedetto nato in cielo sette giorni prima. E’ tutto normale: per un bel po’ le “mamme coraggio” dimenticano anche l’esistenza del rimmel.

Mi regala la foto di Benedetto (che custodisco gelosamente): “Io e Giovanni siamo sposati da quasi 10 anni e abbiamo quattro magnifici bambini: Agnese, di 9 anni, Pietro di 7, Tommaso di 4 e Benedetto, nato il 4 aprile di quest’anno e salito al cielo il giorno successivo, dopo (8 mesi e) 30 ore di vita.

Da quando vivo a Cremona presto saltuariamente servizio come volontaria presso il Cav Centro Aiuto Vita del nostro ospedale.
Questo mi ha permesso di confrontarmi più volte con la questione dell’aborto e con storie difficili, di donne che affrontano gravidanze con mille difficoltà, da quelle economiche a quelle di salute. Ma vivevo tutto questo con un certo distacco e forse un po’ inconsapevolmente, perché mi ritenevo tutto sommato fortunata, coi miei tre bambini e la mia vita tranquilla.

Nell’ultimo anno avevo però anche incontrato la storia di Chiara Corbella Petrillo, che mi aveva colpito tantissimo e lasciato senza fiato per l’evidente semplicità e letizia con cui questa giovanissima donna aveva affrontato le sue prove, insieme a suo marito: come non desiderare una fede così anche per me? Mi sembrava impossibile.

Questo ha contribuito a far nascere in me il desiderio di accogliere un altro bambino, rispondendo anche ad una questione sempre aperta per mio marito, “già pronto” da tempo. A me, invece, venivano in mente un sacco di obiezioni: abbiamo già tre figli, i soldi che non bastano mai, il mutuo che sembra non finire mai, la scelta delle scuole private cattoliche, i problemi organizzativi (non avendo nonni vicini), il lavoro che porta via tanto tempo… e quell’ultima grossa paura legata alla possibilità che questa volta non andasse bene come le altre, che ci potesse nascere un figlio con una qualche disabilità o con Syndrome di Down visti i miei 37 anni.

Ma il desiderio in me cresceva e allora mi sono affidata alla preghiera e la gravidanza è arrivata. Il mio cuore, però, non era tranquillo. Non respiravo neanche un centesimo di quella letizia tanto desiderata: ad ogni dolorino o perditina correvo in ospedale a farmi controllare, come se in cuor mio già sapessi che questo bambino non era per noi.

Poi arrivó Il 23 dicembre, il giorno della eco morfologica in ospedale e per la prima volta, ad una morfologica, volli accanto a me mio marito. Appena la ginecologa iniziò a guardare il nostro bimbo il clima passò immediatamente da scherzoso e rilassato a gelido e silenzioso. 

Il nostro bimbo aveva malformazioni ovunque: il cervello, il cuore (un disastro), un braccino, i piedini, una trisomia 18, incompatibile con la vita. Io ero alla ventesima settimana, per cui la ginecologa mi disse che se avessi fatto subito l’amniocentesi avrei avuto ancora il tempo di “scegliere”.
Con mio marito non c’è stato neanche bisogno di guardarsi in faccia per dire il nostro dolorosissimo “si”: il nostro bimbo era lì, col suo visino, le sue manine e gambine che si agitavano. Se avesse vissuto o no non sarebbe stata una nostra scelta. 

Lui era stato voluto così e così noi l’avremmo accolto. Lui era vivo e non sarei stata io, sua madre, ad ucciderlo. Il primo pensiero è stato che il Signore forse aveva capito che non sarei stata capace di accudire un bimbo disabile e me l’aveva donato con un male ancora più grande, che l’avrebbe portato via da me, probabilmente ancora prima di nascere. Ma l’affezione al nostro bimbo si faceva sempre più grande, tanto da chiedere il miracolo che potesse comunque sopravvivere (ci sono bimbi con trisomia 18 vivi e vegeti, anche se con mille patologie). Certo ci faceva paura anche solo l’idea di quello che avrebbe significato per noi e i nostri bimbi ma se il Signore l’aveva voluto era per noi.

Era così forte e tenace Benedetto tanto che ha tenuto duro fino alla trentacinquesima settimana. Durante la gravidanza ci siamo appoggiati all’equipe della dott.ssa Vergani del San Gerardo di Monza e siamo stati seguiti anche dal neonatologo dello stesso ospedale, dott. Paterlini, e - seppur da lontano – dalla neonatologa dott.ssa Parravicini, esperta di comfort care, a New York.

Ci tengo a ricordarli perchè per noi non sono stati solo dei medici, ma sono stati parte di una compagnia che ci ha aiutato ad accogliere Benedetto, a volergli bene fin da subito e a dargli solo ciò di cui aveva bisogno, che poi è ciò di cui noi tutti abbiamo bisogno: essere amati e sentirsi amati. Questo mi ha fatto anche capire come l’essere accompagnati da professionisti che, non solo sono estremamente preparati nel loro campo, ma hanno anche uno sguardo aperto alla realtà, sia indispensabile in queste delicate circostanze: alla prima ecografia che abbiamo fatto a Monza, la Dott.ssa Vergani per prima cosa ha cercato di capire se fosse maschietto o femminuccia e non a vedere il lungo elenco di malformazioni che portava Benedetto. Quante volte, rivolgendosi a lui, ci ha detto “è proprio un mistero”.

Questo mi ha aiutato a non vacillare: non mi ha mai sfiorato nella testa il dubbio che fosse tutto inutile, che quei mesi di gravidanza fossero mesi buttati al vento, anche perchè penso di non aver mai vissuto momenti più belli e intensi con mio marito, i nostri figli e gli amici che ci hanno accompagnato come fratelli.

































Il parto di Benedetto, che poi è avvenuto a Cremona e non a Monza, perchè improvviso e pre-termine, è stato una vera festa: i nostri amici, con i nostri tre bimbi, il parroco, nonne e zii, hanno letteralmente invaso la sala d’aspetto dell’ospedale per un’intera mattina seguendo “a distanza” il travaglio. 

Benedetto è nato alle 12.55 del 4 aprile: appena nato ha pianto e l’ostetrica, che piangeva come una fontana, me l’ha dato tra le braccia e senza neanche tagliare il cordone è andata subito a chiamare il prete per il Battesimo. Poi ha fatto entrare in sala parto i miei bambini, che così l’hanno potuto vedere e conoscere e anche le nonne e due nostri amici. La dott.ssa Parravicini ci aveva parlato spesso di “celebrare la vita e la nascita del nostro bimbo”, ma fino a quel momento non avevo capito cosa volesse dire realmente, tutte quelle foto che ci 
aveva mostrato di famiglie sorridenti in sala parto, dopo aver messo alla luce i loro figli “terminali” mi sembravano una forzatura, mi sembrava impossibile vedere gioia dove ci sarebbe dovuto essere solo dolore.

Invece, ora guardo le nostre foto e scopro che è stato proprio così anche per noi, perchè una nascita è sempre e comunque un evento meraviglioso, indipendentemente da quello che succederà dopo. Benedetto era un lottatore e dato che le sue condizioni erano stabili, un’oretta dopo il parto è andato in TIN con mio marito, dove lo abbiamo accudito, aiutati dalle infermiere per 30 ore. Il primario Dott. Poggiani, che avevamo già contattato per avvisarlo dell’eventualità che Benedetto potesse nascere a Cremona, si è dimostrato davvero collaborativo, tanto da diffondere a tutto il suo personale le linee guida della comfort care, che tempo prima gli avevamo portato su suggerimento della Dott.ssa Parravicini. In fondo, anche lui sposava pienamente la nostra decisione di non sottoporre Benedetto ad alcun esame invasivo nè tanto meno ad alcuna terapia, se non quella antidolorifera al bisogno, e di lasciarci con lui per tutto il tempo che volevamo, notte compresa, pur andando contro quello che è il normale regolamento della TIN.

Ho tenuto in braccio il mio piccolino forse più di quanto abbia mai fatto con gli altri figli, me lo sono studiato, guardato e gustato in ogni particolare e in ogni secondo della sua vita. L’ho tenuto sul mio petto, sotto la camicia da notte, abbiamo fatto la Kangoor care nei momenti più duri per lui ed era incredibile come subito si calmava.

 Non ho alcun rimpianto, perché abbiamo la certezza di avergli dato veramente tutto ciò di cui aveva bisogno. Nei giorni a seguire tantissimi amici, ma anche sconosciuti e alcuni del personale che ci ha seguito in ospedale, ci hanno ringraziato per la testimonianza che abbiamo dato con la nostra scelta, ma a noi non ci è sembrato di scegliere proprio nulla: “semplicemente” abbiamo aderito a ciò che ci accadeva, domandando che ci fosse chiara la strada da seguire e che il Signore attraverso questo duro cammino si facesse sempre più presente nella nostre fragili vite. E così è stato ed è tuttora. Benedetto ha trasformato le nostre vite, perché forse per la prima volta anche il nostro “si” si è fatto carne”.

in memoria di Benedetto Luigi Maria Della Porta
4 aprile 2014 – 5 aprile 2014

“Il verbo si è fatto carne e abita in mezzo a noi” (Gv 1,14).


   




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