Alle radici della Liturgia di J. Ratzinger (Benedetto XVI)

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Caterina63
00domenica 23 agosto 2009 11:50

venerdì 21 agosto 2009

Benedetto XVI: la liturgia, un mettersi "davanti al Protagonista".

Esce il secondo eccezionale appuntamento di "Strumenti per la Riforma", la collana benedettiana edita da Cantagalli e curata dal nostro collaboratore don Alessandro Galeotti. E' un'antologia sui testi del Papa nel quale si è cercato di racchiudere il tesoro di pensiero liturgico che ha esposto fin dagli inizi e che si può sintetizzare proprio nel titolo dell'opera: la liturgia come un mettere se stessi e la Chiesa intera "davanti al Protagonista". A settembre in libreria.





Riportiamo due estratti da
Il Giornale di oggi 21 agosto 2009.

Pubblichiamo in questa pagina una lettera di Joseph Ratzinger al Dott. Heinz-Lothar Barth e uno stralcio di un intervento sempre di Benedetto XVI, tratte da Davanti al Protagonista. Alle radici della liturgia (Cantagalli, pagg. 232, euro 15), volume in cui i due scritti sono stati raccolti insieme per la prima volta. Nel libro - che verrà presentato al Meeting di Rimini e sarà in libreria a settembre - il Papa (che all’epoca della lettera era ancora cardinale) si interroga sul significato e lo stato attuale della liturgia, esprimendo la speranza che essa non diventi «terreno di sperimentazione per ipotesi teologiche».


Caro dottor Barth, la ringrazio cordialmente per la sua lettera del 6 aprile cui trovo il tempo di rispondere solo ora. Lei mi chiede di attivarmi per una più ampia disponibilità del rito romano antico. In effetti, lei sa da sé che non sono sordo a tale richiesta. Nel contempo, il mio lavoro a favore di questa causa è ben noto. Al quesito se la Santa Sede «riammetterà l’antico rito ovunque e senza restrizioni», come lei desidera e ha udito mormorare, non si può rispondere semplicemente o fornire conferma senza qualche fatica. È ancora troppo grande l’avversione di molti cattolici, insinuata in essi per molti anni, contro la liturgia tradizionale che con sdegno chiamano «preconciliare». E si dovrebbero fare i conti con la considerevole resistenza da parte di molti vescovi contro una riammissione generale.

Diverso è tuttavia pensare a una riammissione limitata. La stessa domanda verso l’antica liturgia è limitata. So che il suo valore, naturalmente, non dipende dalla domanda nei suoi confronti, ma la questione del numero di sacerdoti e laici interessati, ciononostante, gioca un certo ruolo. Oltre a ciò, una tale misura, a soli 30 anni dalla riforma liturgica di Paolo VI, può essere attuata solo per gradi. Qualunque ulteriore fretta non sarebbe di sicuro buona cosa.

Credo tuttavia, che a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per i vescovi e per i preti è difficile da «gestire» in pratica. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma completamente nella tradizione del rito che è stato tramandato. Esso potrebbe assumere qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove feste, alcuni nuovi prefazi della Messa, un lezionario esteso - più scelta di prima, ma non troppa -, una «oratio fidelium», cioè una litania fissa di intercessioni che segue gli Oremus prima dell’offertorio dove aveva prima la sua collocazione.

Caro dott. Barth, se lei si impegnerà a lavorare per la causa della liturgia in questa maniera, sicuramente non si troverà solo, e preparerà «l’opinione pubblica ecclesiale» a eventuali misure in favore di un uso esteso dei libri liturgici di prima. Tuttavia bisogna essere attenti a non risvegliare aspettative troppo alte o massimali tra i fedeli tradizionali.

Colgo l’occasione per ringraziarla del suo apprezzabile impegno per la liturgia della Chiesa romana nei suoi libri e nelle sue lezioni, anche se qua e là desidererei ancora più carità e comprensione verso il magistero del Papa e dei vescovi. Possa il seme da lei seminato germinare e portare molto frutto per la rinnovata vita della Chiesa la cui «sorgente e culmine», davvero il suo vero cuore, è e deve rimanere la liturgia. Con piacere le impartisco la benedizione che lei ha domandato.

***

Nella liturgia cristiana tutta la storia della salvezza, anzi tutta la storia della ricerca umana di Dio, è presente, viene assunta e portata al suo compimento. La liturgia cristiana è una liturgia cosmica - abbraccia la creazione intera che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8, 19). Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido fondamento della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile. Ma noi possiamo e dobbiamo comprenderlo in un modo più profondo, attingendo alle ricchezze della testimonianza biblica e della fede della Chiesa di tutti i tempi. Vi sono autentici segni di speranza che questa comprensione rinnovata e approfondita di Trento possa, in particolare tramite la mediazione delle Chiese di Oriente, essere resa accessibile ai cristiani protestanti.

Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non deve essere il terreno di sperimentazione per ipotesi teologiche. In questi ultimi decenni, congetture di esperti sono entrate troppo rapidamente nella pratica liturgica, spesso anche passando a lato dell’autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella pratica seppero trasformarlo in legge liturgica. La liturgia trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.
La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia e per servire Colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo. La liturgia non è l’espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e mutevole. Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera e di conseguenza la sua norma è la fede della Chiesa, nella quale la Rivelazione è accolta. Le forme che si danno alla liturgia possono variare in relazione ai luoghi e ai tempi, così come i riti sono diversi. Essenziale è il legame con la Chiesa che, a sua volta, è vincolata dalla fede nel Signore. L’obbedienza della fede garantisce l’unità della liturgia, oltre la frontiera dei luoghi e dei tempi e così ci lascia sperimentare l’unità della Chiesa, della Chiesa come patria del cuore.




Joseph Ratzinger - Benedetto XVI

DAVANTI AL PROTAGONISTA
Alle radici della Liturgia

Editrice Cantagalli
Siena 2009
A settembre in libreria


«La parola di Dio non prende, per entrare nella Chiesa e dentro la Chiesa, la forma di opinioni, di discussioni, tanto meno di pure affermazioni dottrinali; essa resta azione di Dio e ha parte ad essa» (A. von Speyr). Al di sopra delle polemiche tra rivoluzionari e conservatori, l’Autore si presenta come contemplatore, come uomo commosso dalla bellezza dell’unico Protagonista della liturgia, Gesù Cristo.

Guidandoci per un percorso di testi diversi tra loro, ci educa a guardare alla Chiesa, alla sua Tradizione e alla sua natura, non come spazio per la nostra affermazione, ma come luogo per accogliere il dono di Cristo.

È a partire dall’immagine della Sposa – anche attraverso una lettura magistrale di alcuni testi conciliari, permettendo di superare luoghi comuni che distorcono l’esperienza ecclesiale – che l’Autore racconta se stesso, presentandosi come impareggiabile teologo e come sacerdote vive del Mistero celebrato. Se al centro della riflessione c’è la Chiesa e la sua esperienza liturgica, egli non disdegna al contempo di rispondere alle critiche e neppure di giungere ad indicazioni pratiche. Con l’intento non di abolire la riforma di Paolo VI né di restaurare tout court la Messa di S. Gregorio Magno, ma inserendosi nel grande movimento liturgico degli ultimi due secoli, offre indicazioni pratiche per recuperare alcuni aspetti che sono indispensabili per vivere l’evento liturgico."


sabato 15 agosto 2009

Sabato 15 agosto 2009 alle ore 18.00
Chiesa Parrocchiale di San Michele Arcangelo
Santuario Maria Santissima del Buon Consiglio
piazza del Santuario
Ponte Buggianese (PT)
SANTA MESSA NELLA FORMA STRAORDINARIA
In Assumptione Beatae Mariae Virginis

per informazioni: 0572/635022
Caterina63
00lunedì 23 agosto 2010 22:07
Presentato al Meeting di Rimini il primo volume dell'opera omnia del Papa dedicato alla liturgia

Col modo d'essere
dell'angelo


di Silvia Guidi

"Un regalo implica anche una responsabilità:  quella di accettarlo, di non trascurarlo, di cercare di capirne il valore e percepirne la portata nel tempo" spiega don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana, durante la presentazione in anteprima per l'Italia del primo volume dell'opera omnia del Papa Benedetto XVI (Teologia della liturgia, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 849, euro 55) che si è svolta domenica al Meeting per l'amicizia tra i popoli di Rimini.

"I libri del Papa sono un'immensa ricchezza - continua don Costa - un dono che è nostro compito e nostra responsabilità divulgare. Presto uscirà il secondo volume di Gesù di Nazaret, mentre continueremo a pubblicare le raccolte delle catechesi del mercoledì; per dare un'idea della risposta delle case editrici di tutto il mondo, negli Stati Uniti cinque editori la pubblicheranno simultaneamente. Si tratta di condividere un bene che il Signore ci dà, particolarmente prezioso nello smarrimento del nostro tempo".

Il primo passo di un'opera imponente:  sedici volumi, ventimila pagine di saggi, omelie e lezioni di cui il vescovo di Ratisbona Gerhard Ludwig Müller, presente all'incontro, ha avuto "la gioia e l'impegno" di curare l'edizione in tedesco. "Si potrebbe dire che le tematiche più complicate vengono come sottratte alla loro stessa complessità e rese trasparenti nella loro linearità interna - spiega monsignor Müller a "L'Osservatore Romano" parlando dell'opera che il genius loci della sua diocesi ha visto nascere e poi ha avuto il compito di custodire:  a Ratisbona il professor Joseph Ratzinger ha insegnato dal 1969 fino alla sua nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga nel 1977, e sempre a Ratisbona, nel 2006, durante la visita pastorale nella sua patria bavarese è stata pronunciata la celebre lectio magistralis in cui il Pontefice più diffusamente ha descritto l'intima connessione tra fede e ragione.

Il volume che inaugura la pubblicazione dell'opera omnia di Joseph Ratzinger è dedicato al tema della liturgia perché "nel rapporto con la liturgia che si decide il destino della fede e della chiesa" si legge nella quarta di copertina dell'edizione italiana, curata da Pierluca Azzaro ed Edmondo  Caruana, presenti in sala durante l'incontro.

"Prima di tutto Dio; questo ci dice l'iniziare con la liturgia - si legge nella prefazione del Papa al volume - là dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento. Le parole della regola benedettina Nihil Operi Dei praeponetur (niente si anteponga all'ufficio divino, 43, 3) valgono in modo specifico per il monachesimo, ma nell'ordine delle priorità hanno valore anche per la vita della Chiesa e del singolo, per ciascuno nel modo proprio. È forse utile ricordare qui che nella parola ortodossia la seconda metà della parola, dòxa, non significa opinione, ma gloria; non si tratta dell'opinione giusta su Dio ma del modo giusto di glorificarlo, di rispondere a Lui".

Se il Bello è lo splendore del Vero, la chiave per comunicare l'esperienza "dell'eterno nel tempo" è proprio la "ferita della bellezza", chiosa Alberto Savorana, portavoce di Comunione e Liberazione, citando l'intervento sulla Settimana Santa che nel 2002 l'allora cardinale Ratzinger inviò al Meeting:  la bellezza ferisce, è come un dardo che colpisce l'anima, la richiama al suo destino ultimo e le apre gli occhi sulla sua natura infinita. Secondo un'antica leggenda russa, Vladimiro, principe di Kiev, non si convertì al cristianesimo in seguito a un'opera di persuasione missionaria particolarmente convincente, ma grazie all'incontro con la bellezza del culto divino.

Dice Roberto Fontolan, direttore del Centro internazionale di Roma di Cl, presentando il libro:  "La mia prima e costante reazione è stata la sorpresa; è nota la chiarezza del linguaggio di Joseph Ratzinger, ma la passione del Papa per la liturgia, che definisce "il centro della mia vita", riesce davvero a contagiare. Innanzitutto ecco un punto fondamentale. Ben al di là degli atti liturgici singolarmente considerati e vissuti, sui quali peraltro ci sono moltissime e illuminanti pagine, il culto cristiano è "esperienza della contemporaneità con il mistero pasquale di Cristo".

In esso "esiste qualcosa dei sacramenti primordiali, sacramenti della creazione che nascono dai punti nodali dell'esperienza umana e lasciano intravvedere un'immagine tanto dell'essenza dell'uomo quanto del tipo del suo rapporto con Dio. Punti nodali come la nascita, la morte, il pasto, l'unione sessuale". In queste che sono le sue condizioni biologiche l'uomo sperimenta di essere sopraffatto da una potenza che non può né chiamare né vincere e che, ancora prima delle sue decisioni, già lo circonda e lo sorregge. Fessure, le chiama citando Schleiermacher, attraverso le quali l'eternità getta uno sguardo nel procedere uniforme della vita quotidiana dell'uomo.

Inizia così il senso della spiritualità, il connettersi col cosmo, il proiettarsi nella dimensione del "con":  con le cose, con gli altri uomini. Per i cristiani, cioè per me, la liturgia diventa pertanto una questione terribilmente seria - continua Fontolan - che ha a che fare con la concezione stessa della fede e investe la vita stessa della Chiesa, la sua presenza efficace nel mondo. La perdita della centralità di Dio, lo smarrimento della coscienza della contemporaneità di Cristo si rivela in molti indizi, anche nella liturgia, e rivelano una sorta di resa alla modernità che cancella il mistero dall'orizzonte umano. L'arte visiva, a esempio, manifesta "l'intero problema della conoscenza dell'epoca moderna:  se non si verifica nell'uomo un'apertura interiore che lo renda capace di vedere qualcosa di più di ciò che è misurabile e ponderabile e di percepire nel creato lo splendore del divino, allora Dio rimane escluso dal nostro campo visivo" scrive l'autore. Non vederlo è perciò non viverlo più.

A proposito delle chiese, intese come edifici, l'autore scrive:  "L'edificio chiesa, per conservare la sua legittimità cristiana, deve essere cattolico nel senso originario della parola, una dimora dei credenti in tutti i luoghi". E poi cita Albert Camus "che ha dato espressione sconvolgente all'esperienza dell'estraneità e della solitudine" raccontando di un viaggio a Praga, "in una città in cui non capisce la lingua dei suoi abitanti, è come un esule; anche lo splendore delle chiese rimane muto e non consola. Per un credente questo dovrebbe essere impossibile:  dove c'è la Chiesa, dove c'è la presenza eucaristica del Signore, egli fa esperienza di patria".

Tutto per l'autore concorre a costruire la meravigliosa cattedrale della liturgia cristiana, che vale la pena di conoscere, amare e soprattutto vivere pienamente perché la liturgia, come ha scritto Luigi Giussani, "è un discorso che non ha termine e vi si è trascinati dentro dal flusso della forza della Grazia di Dio, del mistero di Dio del mondo". Trascinati dentro; è proprio l'esperienza che ho fatto e che ho cercato di riproporvi, sentendomi un lettore che ha tutto da imparare" ha concluso Fontolan. "Pregare - continua Savorana citando il discorso di saluto al Meeting del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone - non è un evento dalle nuvole in su, non è una fuga dal mondo ma il massimo della concretezza; imparare a domandare e imparare a desiderare, a "orientare bene i desideri" è imparare a vivere.
 
Pregare è l'avamposto dell'uomo in battaglia per difendere il cuore dell'uomo nel suo desiderio di cose grandi. La preoccupazione che spesso ha espresso il Papa è che l'intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà; la chiesa dovrebbe essere il luogo in cui la bellezza è di casa, "la bellezza - scrive Benedetto XVI - senza la quale il mondo diventa il primo cerchio dell'inferno".

"Vorrei concludere le mie considerazioni con una bella parola del Mahatma Gandhi che ho trovato una volta su un calendario - scrive il Papa nel saggio sulla teologia della musica sacra pubblicato nel volume, nel capitolo dedicato a "L'immagine del mondo e dell'uomo propria della liturgia" - nel mare vivono i pesci e tacciono, gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L'uomo però partecipa di tutti e tre:  porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l'altezza del cielo, e per questo sono sue anche tutte e tre le proprietà, il tacere, il gridare e il cantare. Oggi, vorrei aggiungere, vediamo come all'uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltanto terra e cerca di far diventare terra anche il cielo e la profondità del mare. La liturgia giusta, la liturgia della comunione gli restituisce la sua interezza. Essa gli insegna nuovamente il tacere e il cantare, aprendogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, che è il modo di essere dell'angelo; elevando il suo cuore fa nuovamente risuonare in lui il canto che era stato sepolto".


(©L'Osservatore Romano - 23-24 agosto 2010)

Caterina63
00mercoledì 25 agosto 2010 11:55

Il secondo volume del Papa su Gesù in vendita il 13 marzo 2011


Presentata al Meeting di Rimini l’Opera omnia di Ratzinger


ROMA, martedì, 24 agosto 2010 (ZENIT.org).- Il secondo volume di Benedetto XVI sulla vita di Gesù uscirà in libreria la prima domenica di Quaresima, il 13 marzo 2011. E' quanto ha anticipato alla Radio Vaticana don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana.

L'opera tanto attesa, che tratta della passione e morte di Gesù, si trova al momento in fase di traduzione nelle diverse lingue e verrà consegnata agli editori il prossimo 15 gennaio perché vengano preparate le diverse edizioni nazionali.

Don Costa ha spiegato che attualmente per il nuovo “Gesù di Nazaret” è stato raggiunto un accordo con 18 editori, tuttavia “sicuramente avremo richieste anche da altri editori”.

Secondo quanto confermato il 23 luglio scorso dal portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, Benedetto XVI sta scrivendo il terzo volume sulla vita di Gesù, dedicato all'infanzia di Cristo.

In questi giorni il direttore della Libreria Editrice Vaticana è inoltre presente al Meeting di Rimini per presentare il primo volume dell’Opera Omnia del teologo Joseph Ratzinger, costituita da 16 tomi e che riunisce tutti gli scritti, gli insegnamenti e le interviste risalenti a prima dell'elezione al soglio pontificio.

Nel primo volume, curato da Edmondo Caruana e Pierluca Azzaro e dal titolo “Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell'esistenza cristiana”, Benedetto XVI spiega perché a suo giudizio giustamente il primo documento del Concilio è quello sulla liturgia.

“Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un caso – afferma –, si rivela, guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, come la cosa anche intrinsecamente più giusta. Cominciando con il tema 'liturgia', si mise inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità del tema 'Dio'”.

La liturgia della Chiesa, scrive Joseph Ratzinger nella prefazione all’Opera, “è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita”.

Presente alla presentazione del volume al Meeting di Rimini, il Vescovo di Ratisbona, mons. Gerhard Müller, ha spiegato ai microfoni della Radio Vaticana che "la fede cristiana non è una teoria, una filosofia, un’ideologia, ma è il contatto personale con Cristo, con il Dio che si è fatto uomo, Gesù che è presente nello Spirito Santo. La liturgia è la sacramentale partecipazione alla vita di Dio”.

“Per questo – ha detto – la liturgia non è solo un 'teatro', un’auto espressione del cuore o dell’idea della soggettività, ma la liturgia cattolica è l’espressione obiettiva, reale, concreta del contatto con Dio stesso, che vuole convivere con noi, le sue creature".

Caterina63
00sabato 25 agosto 2012 18:50

Per un nuovo inizio del movimento liturgico


 


Alcune pagine del nuovo libro del cardinale Joseph Ratzinger


Il volume Introduzione allo spirito della liturgia di cui anticipiamo alcune pagine, è l’opera del cardinale Joseph Ratzinger che le Edizioni San Paolo (240 pagine, lire 34.000) manderanno in libreria a febbraio. Il libro è uscito in Germania, col titolo Der Geist der Liturgie. Eine Einführung, per i tipi della casa editrice Herder a gennaio del 2000 ed è già alla quinta edizione. A settembre negli Stati Uniti la Ignatius Press ne ha stampato la versione in lingua inglese (The spirit of liturgy). Presto dovrebbe apparire anche la versione francese.

Il volume è diviso in quattro parti, precedute da una Premessa. La prima è sulla essenza della liturgia. La seconda riguarda il tempo e lo spazio nella liturgia (da questa parte è preso il capitolo sull’“Altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia” che pubblichiamo in queste pagine). La terza parla di arte e liturgia. La quarta si interessa della forma liturgica.

Riguardo al tema della celebrazione della messa verso il popolo o meno, è da segnalare che nella Institutio generalis della terza editio typica del Messale Romano, già stampata ma che entrerà giuridicamente in vigore solo quando verrà pubblicato il Messale in questione, si trova una piccola variazione rispetto all’edizione precedente (1975). Nella nuova Institutio si specifica che la celebrazione verso il popolo «expedit ubicumque possibile sit». Questa aggiunta è stata letta da alcuni come un obbligo assoluto a celebrare verso il popolo. La Congre­gazione per il culto divino, con una nota dello scorso 25 settembre ha escluso questa interpretazione.


L’Eucarestia, 
scultura di Maso 
di Banco, Museo dell’Opera, 
Firenze

L’Eucarestia, scultura di Maso di Banco, Museo dell’Opera, Firenze

Una delle mie prime letture dopo l’inizio degli studi teologici, al principio del 1946, fu l’opera prima di Romano Guardini Lo spirito della liturgia, un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918 come volume inaugurale della collana “Ecclesia orans”, a cura dell’abate Ildefons Herwegen, più volte ristampato fino al 1957. Questa piccola opera può a buon diritto essere ritenuta l’avvio del movimento liturgico in Germania.
Essa contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana. Essa diede il suo contributo perché si celebrasse la liturgia in maniera “essenziale” (termine assai caro a Guardini); la si voleva comprendere a partire dalla sua natura e dalla sua forma interiori, come preghiera ispirata e guidata dallo stesso Spirito Santo, in cui Cristo continua a divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita.


Vorrei arrischiare un paragone, che come tutti i paragoni è in gran parte inadeguato, ma che aiuta a capire. Si potrebbe dire che la liturgia era allora – nel 1918 –, per certi aspetti, simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo: nel messale, con cui il sacerdote la celebrava, la sua forma era pienamente presente, così come si era sviluppata dalle origini, ma per i credenti essa era ampiamente nascosta da istruzioni e forme di preghiera di carattere privato.
Grazie al movimento liturgico e – in maniera definitiva – grazie al Concilio Vaticano II, l’affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure. Ma nel frattempo, a causa dei fattori climatici, minacciato da diversi restauri o ricostruzioni, rischia di essere distrutto, se non si provvede rapidamente a prendere le misure necessarie tali da porre fine a tali influssi dannosi. Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma è indispensabile un nuovo rispetto nel trattarlo, una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà così che l’averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina.


Questo libro che ora presento al pubblico vorrebbe rappresentare un aiuto a tale rinnovata comprensione. Le sue intenzioni coincidono quindi sostanzialmente con ciò che Guardini si era proposto a suo tempo; per questo ho volutamente scelto un titolo che ricorda espressamente quel classico della teologia liturgica.
Solo che bisognava ripensare ciò che Guardini aveva elaborato alla fine della prima guerra mondiale riportandolo, in un contesto storico completamente diverso, alle problematiche, alle speranze e ai pericoli del nostro tempo. Come Guardini, anch’io non ho voluto sviluppare una trattazione o una ricerca di tipo scientifico, ma offrire un aiuto per la comprensione della fede e per una corretta attuazione della sua forma precipua di espressione nella liturgia.
Se questo libro riuscisse a sua volta a essere di stimolo a qualcosa come un “movimento liturgico”, un movimento verso la liturgia e verso una sua corretta celebrazione, esteriore ed interiore, l’intenzione che mi ha spinto a tale lavoro sarebbe pienamente realizzata.


Roma, nella festa di sant’Agostino 1999

Joseph cardinal Ratzinger

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Caterina63
00sabato 25 agosto 2012 18:52

Parte seconda, capitolo terzo.

“L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia”


 

Le trasformazioni fin qui descritte della sinagoga in funzione della liturgia cristiana permettono – come si è già detto – di riconoscere molto chiaramente la continuità e la novità nel rapporto tra Antico e Nuovo Testamento anche dal punto di vista architettonico. Prendeva così forma lo spazio per il culto cristiano vero e proprio, la celebrazione eucaristica, con il servizio della Parola ad essa ordinato. È chiaro che ulteriori sviluppi erano non solo possibili, ma necessari. Il Battesimo doveva trovare un suo spazio appropriato. Il sacramento della penitenza ha avuto una lunga evoluzione, i cui risultati dovevano trovare riscontro nella conformazione della Chiesa.

La devozione popolare, nelle sue molteplici forme, ha trovato necessariamente espressione anche nello spazio liturgico. Bisognava chiarire la questione delle immagini, trovare una giusta collocazione alla musica sacra.
Ma anche il canone architettonico della liturgia della Parola e di quella sacramentale, così come noi lo conosciamo, non era affatto rigido; naturalmente di fronte a ogni evoluzione e cambiamento ci si deve chiedere che cosa corrisponde all’essenza della liturgia e che cosa allontana da essa. In relazione a questa domanda la forma degli spazi liturgici della cristianità di lingua e cultura semitica, di cui abbiamo parlato poco sopra, offre dei criteri che non è possibile trascurare. Soprattutto, però, al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene. La fedeltà a ciò che ci è stato già donato così come la dinamica del progredire in avanti trovano in essa pari espressione.


Giovanni Battista Montini, cardinale di Milano, 
celebra la messa sull’altare del Duomo nel giugno del 1963

Giovanni Battista Montini, cardinale di Milano, celebra la messa sull’altare del Duomo nel giugno del 1963

L’uomo contemporaneo comprende poco tale “orientamento”. Mentre per l’ebraismo e per l’islam continua a essere ovvio che si deve pregare rivolti verso il luogo centrale della Rivelazione – verso Dio che si è mostrato a noi, dove e come egli si è mostrato a noi –, nel mondo occidentale è divenuto dominante un pensiero astratto che, per qualche aspetto, è persino frutto della stessa evoluzione della cultura cristiana. Dio è spirito, e Dio è dappertutto. Ciò non significa forse che la preghiera non è legata a nessun luogo e a nessuna direzione? In effetti, noi possiamo pregare dovunque, e Dio è per noi raggiungibile dovunque.
Questa universalità del pensare a Dio è conseguenza dell’universalità cristiana, dello sguardo cristiano al Dio che è al di sopra di tutti gli dei, che abbraccia il cosmo e che è più intimo a noi di noi stessi. Ma la consapevolezza di questa universalità è frutto della Rivelazione: Dio si è mostrato a noi. Solo per questo lo conosciamo, solo per questo possiamo abbandonarci con fiducia a lui nella preghiera in ogni luogo. E proprio per questo continua a essere appropriato il fatto che nella preghiera cristiana trovi espressione la dedizione fiduciosa al Dio che si è rivelato a noi.

E come Dio stesso ha preso un corpo, è entrato nello spazio e nel tempo della terra, così è giusto – almeno nella preghiera liturgica comunitaria – che il nostro parlare con Dio sia “incarnato”, cristologico, si volga al Dio trinitario attraverso la mediazione del Verbo incarnato. Il simbolo cosmico del sole che sorge esprime ad un tempo l’universalità al di sopra di tutti i luoghi e mantiene comunque la concretezza della rivelazione di Dio. La nostra preghiera si colloca così nella processione dei popoli verso Dio.

Come stanno però le cose con l’altare? In quale direzione preghiamo nella liturgia eucaristica? Mentre nella costruzione delle chiese bizantine la struttura ora descritta veniva sostanzialmente mantenuta, a Roma si è andata sviluppando una diversa disposizione. Il seggio episcopale viene spostato al centro dell’abside; di conseguenza, anche l’altare viene portato nella navata centrale. Pare che nella Basilica Lateranense e in Santa Maria Maggiore le cose siano state così fino al secolo nono. Nella Basilica di San Pietro, invece, sotto il pontificato di Gregorio Magno (590-604) l’altare fu collocato vicino al seggio episcopale, probabilmente perché così veniva a trovarsi sopra la tomba di san Pietro.

Trovava così espressione concreta il fatto che noi celebriamo il sacrificio del Signore nella comunione dei santi, che abbraccia ogni tempo. L’usanza di edificare l’altare sopra le tombe dei martiri risale molto indietro nel tempo ed esprime sempre lo stesso concetto: i martiri continuano lungo tutto il corso della storia il sacrificio di Cristo; essi sono, per così dire, l’altare vivente della Chiesa, che non è fatto di pietra, ma di persone che sono divenute membra del corpo di Cristo e che esprimono così il nuovo culto: il sacrificio è l’umanità che con Cristo si trasforma in amore. Sembra, poi, che la disposizione adottata nella Basilica di San Pietro sia stata imitata anche in molte altre chiese romane.

I singoli particolari di questi sviluppi sono oggetto di discussioni che, per le nostre riflessioni, rivestono scarsa importanza. Nel nostro secolo il dibattito è stato piuttosto acceso da altre innovazioni. Le indagini topografiche hanno infatti rivelato che la Basilica di San Pietro guardava verso occidente. Se, dunque, il sacerdote celebrante voleva guardare verso oriente – così come esige la tradizione liturgica cristiana –, allora egli doveva trovarsi dietro il popolo e, di conseguenza, guardava verso il popolo. In ogni caso, per influsso diretto della Basilica di San Pietro, si può ritrovare questa disposizione in tutta una serie di altre chiese. Il rinnovamento liturgico del nostro secolo si è rifatto a questa presunta posizione del celebrante, per sviluppare sulla sua base una nuova idea di forma liturgica: l’Eucaristia deve essere celebrata versus populum (in direzione del popolo); l’altare – come si può dedurre dalla configurazione di San Pietro, ritenuta normativa, deve essere disposto in maniera tale che il sacerdote e il popolo possano guardarsi a vicenda e costituire così nel loro insieme il cerchio dei celebranti. Solo questa forma corrisponderebbe al senso della liturgia cristiana, all’impegno della partecipazione attiva. Solo così si corrisponderebbe, inoltre, all’immagine originaria dell’Ultima Cena.

Queste conclusioni appaiono poi tanto convincenti che dopo il Concilio (che, di per sé, non parla di “disposizione verso il popolo”) da tutte le parti si sono eretti nuovi altari; la celebrazione orientata
versus populum appare oggi come il vero frutto del rinnovamento liturgico operato dal Concilio Vaticano II. In effetti essa è la conseguenza più visibile di una nuova forma che non significa solo una diversa disposizione esteriore degli spazi liturgici, ma implica anche una nuova idea dell’essenza della liturgia come pasto comunitario.

È evidente che in questo modo si è frainteso il senso della Basilica romana e della disposizione dell’altare al suo interno. Quanto meno approssimativa è poi anche l’immagine dell’Ultima Cena di Gesù. Ascoltiamo in proposito ciò che scrive Louis Bouyer: «L’idea che la celebrazione versus populum sia stata la celebrazione originaria, e soprattutto quella dell’Ultima Cena, non ha altro fondamento se non un’errata concezione di ciò che poteva essere un pasto, cristiano o meno, nell’antichità. In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, e distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma o a ferro di cavallo. Mai, dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi versus populum per presiedere un pasto. Anzi, il carattere comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizione contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola» (p. 38).

A questa analisi della “forma del convito” si deve comunque aggiungere che l’Eucaristia non può certamente essere descritta adeguatamente dai termini “pasto” o “convito”. Il Signore, infatti, ha indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell’ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha comandato di ripetere questa novità, non il banchetto come tale. Proprio per questo la novità si è molto presto liberata dal suo antico contesto e ha trovato una forma a lei propria, che era già stata anticipata dal fatto che l’Eucaristia rinvia alla croce e, quindi, alla trasformazione del sacrificio del tempio nel culto spirituale. Altra conseguenza è che la liturgia sinagogale della Parola, rinnovata e approfondita cristianamente, si fuse con la memoria della morte e resurrezione di Cristo, divenendo “Eucarestia” e, proprio in questo modo, si restò fedeli all’incarico del «fate questo». Questa nuova immagine complessiva non poteva, in quanto tale, essere desunta semplicemente dal pasto, ma dall’insieme di tempio e di sinagoga, di Parola e di sacramento, di dimensione cosmica e storica. Essa si esprime appunto nella forma che abbiamo ritrovato nella struttura liturgica delle prime chiese della cristianità semitica. Essa è rimasta ovviamente fondamentale anche per Roma.

Cito, in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella data (cioè prima del secolo XVI) non abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si sia attribuita qualche importanza o anche solo qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il popolo davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia veramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente… Anche quando l’orientamento della Chiesa permetteva al celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all’altare, non era solo il presbitero a doversi volgere verso oriente; era l’assemblea intera che lo faceva insieme a lui» (p. 39).

Vincenzo De Paoli 
e celebra la messa

Vincenzo De Paoli e celebra la messa

La consapevolezza di questo stato di cose si andò certamente oscurando nel corso della modernità o, addirittura, andò del tutto perso, tanto nel modo di costruire le chiese che in quello di celebrare la liturgia. Solo così si può spiegare il fatto che l’orientamento comune del sacerdote e del popolo sia stato etichettato come “celebrazione verso la parete” o come “un mostrare le spalle al popolo” e che, quindi, sia apparso come qualcosa di assurdo e completamente inaccettabile. Solo così si può spiegare che l’idea del “convito” – ulteriormente ripresa nelle raffigurazioni artistiche moderne – sia divenuta ora normativa per la celebrazione liturgica dei cristiani. In verità si è così introdotta una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza.
Ora, infatti, il sacerdote – o, il “presidente”, come si preferisce chiamarlo – diventa il vero e proprio punto di riferimento di tutta la celebrazione. Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione.
È altresì comprensibile che si cerchi poi di ridurre questo ruolo attribuitogli, distribuendo numerose attività e affidandosi alla “creatività” dei gruppi che preparano la liturgia, i quali vogliono e devono anzitutto “portare se stessi”.

L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio ed è sempre più importante quello che fanno le persone che qui si incontrano e che non vogliono affatto sottomettersi a uno “schema predisposto”. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era “celebrazione verso la parete”, non significava che il sacerdote “volgeva le spalle al popolo”: egli non era poi considerato così importante. Difatti, come nella sinagoga si guardava tutti insieme verso Gerusalemme, così qui ci si rivolgeva insieme “verso il Signore”. Per usare l’espressione di uno dei padri della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, Joseph A. Jungmann, si tratta piuttosto di uno stesso orientamento del sacerdote e del popolo, che sapevano di camminare insieme verso il Signore. Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino, sono in partenza verso l’oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro.

Ma tutto questo non è forse romanticismo e nostalgia per il passato?
La forma originaria della preghiera cristiana può dirci ancor oggi qualcosa o dobbiamo semplicemente cercare la nostra forma, la forma per il nostro tempo?

Naturalmente non si può voler semplicemente imitare il passato.
Ogni età deve ritrovare ed esprimere l’essenziale. Quel che importa è, quindi, scoprire questo essenziale attraverso i cambiamenti. Sarebbe certamente errato rifiutare in blocco le nuove forme del nostro secolo. Era giusto avvicinare al popolo l’altare spesso troppo lontano dai fedeli, anche se, nelle chiese cattedrali ci si poteva comunque richiamare alla tradizione dell’altare del Crocifisso, che aveva trovato posto nel passaggio dal presbiterio alla navata. Era anche importante tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della Parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano l’uno di fronte all’altro colui che annuncia e coloro che ascoltano, i quali rielaborano nel salmo ciò che hanno ascoltato, lo riprendono interiormente e lo trasformano in preghiera, così che diventi risposta.

Resta, invece, essenziale il comune orientamento verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell’essenziale. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma lo sguardo al Signore. Non si tratta qui di un dialogo, ma di una adorazione comune, l’andare incontro a Colui che viene. Non il cerchio chiuso in se stesso esprime l’essenza dell’evento, ma il comune andare incontro, che si esprime nell’orientamento comune.

Contro queste idee, da me già esposte in altra occasione, A. Häußling ha avanzato diverse obiezioni. Ho già toccato la prima di esse: queste idee sarebbero ricerca romantica dell’antico, erronea nostalgia del passato. Inoltre sarebbe strano il fatto che io mi richiami solo al cristianesimo antico, prescindendo da tutti i secoli seguenti. Da parte di uno specialista di liturgia si tratta di un’obiezione notevole, dato che a me sembra che il punto problematico di gran parte della moderna scienza liturgica consiste proprio nella pretesa di riconoscere soltanto l’antico come corrispondente all’originale e quindi autorevole, considerando tutto ciò che è successivo, che è stato elaborato in seguito, nel Medioevo e dopo Trento, come spazzatura. Si arriva così a delle discutibili ricostruzioni di ciò che è più antico, a dei criteri mutevoli e, quindi, a delle continue proposte di forme sempre nuove che, alla fine, finiscono per dissolvere la liturgia cresciuta con la vita.

Contro tutto ciò è importante e necessario riconoscere che non è l’antico a poter essere in sé e per sé un tale criterio e che ciò che è venuto in seguito non può essere automaticamente etichettato come estraneo alle origini. Ci può essere senz’altro un’evoluzione viva in cui il seme dell’origine giunge a maturazione e porta frutto. Dovremo ritornare su questo pensiero. Nel nostro caso, però, come si è già mostrato, non si tratta affatto di una fuga romantica nell’antico, ma della riscoperta dell’essenziale, in cui la liturgia cristiana esprime il suo orientamento permanente. Häußling, evidentemente ritiene che oggi non si può più cercare di riproporre nella liturgia l’orientamento ad est, verso il sole che sorge. Davvero ciò non è possibile? Il cosmo non ci riguarda più? Oggi siamo davvero chiusi senza speranza nel nostro cerchio? O non è forse proprio oggi importante pregare insieme con tutta la creazione? Non è forse proprio oggi importante dare spazio alla dimensione del futuro, della speranza nel Signore che tornerà? Riconoscere, quindi, e vivere la dinamica della nuova creazione come forma essenziale della liturgia?

Un’ulteriore obiezione è che non vi è bisogno di guardare verso oriente e verso la croce, dal momento che quando il sacerdote e i fedeli si guardano reciprocamente, essi vedono nell’uomo l’immagine di Dio; di conseguenza, il giusto orientamento della preghiera è quello in cui ci si rivolge gli uni verso gli altri. Mi risulta difficile credere che il noto recensore abbia potuto sostenere seriamente una tesi di questo genere, dal momento che l’immagine di Dio nell’uomo non la si vede poi così facilmente. “Immagine di Dio” non è nell’uomo ciò che si può fotografare o che si può scorgere con uno sguardo puramente fotografico. La si può certamente vedere, ma soltanto con il nuovo vedere della fede. Si può vedere così come si può vedere in un uomo la bontà, la sincerità, la verità interiore, l’umiltà, l’amore – ciò che lo rende simile a Dio. Ma proprio per questo si deve apprendere il vedere nuovo, e anche per questo esiste l’Eucaristia.

Più importante è un’obiezione pratica. Si dovrebbe allora di nuovo cambiare tutto? Niente è più dannoso per la liturgia che il mettere continuamente tutto sottosopra, anche se apparentemente non si tratta di vere novità. Mi sembra che una via d’uscita possa venire dalla osservazione cui ho accennato all’inizio richiamandomi a delle osservazioni di Erik Peterson. La direzione verso oriente, si trovava in stretto rapporto con il «segno del Figlio dell’uomo», con la croce, che annuncia il ritorno del Signore. L’Oriente fu quindi posto molto presto in relazione con il segno della croce. Dove non è possibile rivolgersi insieme verso oriente in maniera esplicita, la croce può servire come l’oriente interiore della fede. Essa dovrebbe trovarsi al centro dell’altare ed essere il punto cui rivolgono lo sguardo tanto il sacerdote che la comunità orante.
In tal modo seguiamo l’antica invocazione pronunciata all’inizio dell’Eucaristia: «Conversi ad Dominum» – Rivolgetevi al Signore. Guardiamo insieme a colui la cui morte ha squarciato il velo del tempio, a colui che sta presso il Padre in nostro favore e ci stringe nelle sue braccia, a colui che fa di noi un nuovo tempio vivente. Tra i fenomeni veramente assurdi degli ultimi decenni io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la croce, durante l’Eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? Questo errore dovrebbe essere corretto il più presto possibile e questo può avvenire senza nuovi interventi architettonici. Il Signore è il punto di riferimento.
È lui il sole nascente della storia. Può trattarsi tanto della croce della passione, che rappresenta Gesù sofferente che lascia trafiggere il suo fianco per noi, da cui scaturiscono sangue ed acqua – l’Eucaristia e il Battesimo –, come pure di una croce trionfale, che esprime l’idea del ritorno e attira l’attenzione su di esso. Perché è lui, comunque, l’unico Signore: Cristo ieri, oggi e in eterno (
Eb
13, 8).

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Caterina63
00martedì 2 luglio 2013 21:05

La liturgia tra i riformisti radicali e gli intransigenti



Viene pubblicato in Italia il libro di Alcuin Reid «Lo sviluppo organico della liturgia. I principi della riforma liturgica e il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del Concilio Vaticano II» (Cantagalli, 432 pagine, 22 euro). Il libro ha la prefazione dell'allora cardinale Joseph Ratzinger

Joseph Ratzinger
Città del Vaticano

Pubblichiamo l'interno testo del futuro Benedetto XVI
Negli ultimi decenni, la questione della corretta celebrazione della liturgia è diventata sempre più uno dei punti centrali della controversia attorno al Concilio Vaticano II, ovvero a come dovrebbe essere valutato e accolto nella vita della Chiesa.

Ci sono gli strenui difensori della riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l’ultima edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è considerata come “semper reformanda”, cosicché alla fine è la singola “comunità” che fa la sua “propria” liturgia, nella quale esprime se stessa. Un Liturgisches Kompendium [Compendio liturgico, ndr] protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat, Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come “progetto di riforma” (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti liturgisti cattolici. D’altra parte vi sono anche i critici accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua pratica applicazione, ma anche le sue basi conciliari.

Essi vedono la salvezza solo nel totale rifiuto della riforma. Tra questi due gruppi, i riformisti radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile solo se viene preservata l’identità della liturgia, e sottolineano che uno sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”. Come un giardiniere accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue energie vitali e alle sue leggi, così anche la Chiesa dovrebbe accompagnare rispettosamente il cammino della liturgia attraverso i tempi, distinguendo ciò che aiuta e risana da ciò che violenta e distrugge.

Se le cose stanno in tal modo, allora dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua energia vitale nel mutare dei tempi per incrementarla e rinnovarla. Il libro di dom Alcuin Reid si colloca in questa linea. Percorrendo la storia del Rito romano (Messa e breviario), dalle origini fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, cerca di stabilire quali siano i principi del suo sviluppo liturgico, attingendo così dalla storia, con i suoi alti e bassi, i criteri su cui ogni riforma deve basarsi. Il libro è diviso in tre parti. La prima, molto breve, analizza la storia della riforma del Rito romano dalle sue origini alla fine del XIX secolo. La seconda parte è dedicata al movimento liturgico fino al 1948.

La terza – di gran lunga la più estesa – tratta della riforma liturgica sotto Pio XII fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. Questa parte si rivela molto utile, proprio perché tale fase della riforma liturgica non viene più molto ricordata, nonostante che proprio in essa – come anche nella storia del movimento liturgico, evidentemente – si ritrovino tutte le questioni circa le modalità corrette per una riforma, facendo sì che sia possibile acquisire anche dei criteri di giudizio. La decisione dell’autore di fermarsi alla soglia del Concilio Vaticano II è molto saggia. Egli evita così di entrare nella controversia legata all’interpretazione e alla ricezione del Concilio, illustrando il momento storico e la struttura delle varie tendenze, la quale risulta determinante per la questione circa i criteri della riforma. Alla fine del suo libro, l’autore elenca i principi per una corretta riforma: essa dovrebbe essere in egual misura aperta allo sviluppo e alla continuità con la Tradizione; dovrebbe sapersi legata a una tradizione liturgica oggettiva e fare sì che la continuità sostanziale sia salvaguardata. L’autore, poi, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica, sottolinea che «anche la suprema autorità della Chiesa non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia» (CC n. 1125). Come criteri ulteriori troviamo, infine, la legittimità delle tradizioni liturgiche locali e l’interesse per l’efficacia pastorale. Vorrei sottolineare ulteriormente, dal mio punto di vista personale, alcuni dei criteri già brevemente indicati del rinnovamento liturgico. Comincerò con gli ultimi due criteri fondamentali. Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l’essenza del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione e perciò il primo garante dell’obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono.

La legge cui deve attenersi non è l’agire ad libitum, ma l’obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il “rito”, e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l’insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis. È importante a tale riguardo interpretare correttamente la “continuità sostanziale”. L’autore ci mette espressamente in guardia dalla strada sbagliata sulla quale potremmo essere condotti da una teologia sacramentaria neoscolastica slegata dalla forma vivente della liturgia. Partendo da essa, si potrebbe ridurre la “sostanza” alla materia e alla forma del sacramento, e dire: il pane e il vino sono la materia del sacramento, le parole dell’istituzione sono la sua forma; solo queste due cose sono necessarie, tutto il resto si può anche cambiare. Su questo punto modernisti e tradizionalisti si trovano d’accordo. Basta che ci sia la materia e che siano pronunciate le parole dell’istituzione: tutto il resto è “a piacere”. Purtroppo molti sacerdoti oggi agiscono sulla base di questo schema; e persino le teorie di molti liturgisti, sfortunatamente, si muovono in questa direzione.

Essi vogliono superare il rito come qualcosa di rigido e costruiscono prodotti di loro fantasia, ritenuta pastorale, attorno a questo nocciolo residuo, che viene così relegato nel regno del magico oppure privato del tutto del suo significato. Il movimento liturgico aveva cercato di superare questo riduzionismo, prodotto di una teologia sacramentaria astratta, e di insegnarci a considerare la liturgia come l’insieme vivente della Tradizione fattasi forma, che non si può strappare in piccoli pezzi, ma che deve essere visto e vissuto nella sua totalità vivente. Chi, come me, nella fase del movimento liturgico alla vigilia del Concilio Vaticano II, è stato colpito da questa concezione, può solo constatare con profondo dolore la distruzione di quel che ad esso stava a cuore. Vorrei brevemente commentare altre due intuizioni che appaiono nel libro di dom Alcuin Reid. L’archeologismo e il pragmatismo pastorale – quest’ultimo, peraltro, è spesso un razionalismo pastorale – sono entrambi errati. Potrebbero essere descritti come una coppia di gemelli profani. I liturgisti della prima generazione erano per la maggior parte storici e, di conseguenza, inclini all’archeologismo.

Volevano dissotterrare le forme più antiche nella loro purezza originale; vedevano i libri liturgici in uso, con i loro riti, come espressione di proliferazioni storiche, frutto di passati fraintendimenti e ignoranza. Si cercava di ricostruire la più antica Liturgia romana e di ripulirla da tutte le aggiunte posteriori. Non era cosa del tutto sbagliata; ma la riforma liturgica è comunque qualcosa di diverso da uno scavo archeologico e non tutti gli sviluppi di qualcosa di vivo devono seguire la logica di un criterio razionalistico/storicistico. Questa è anche la ragione per cui – come l’autore giustamente osserva – nella riforma liturgica non deve spettare agli esperti l’ultima parola. Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi). Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i Sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori. Poiché spesso, ovviamente, risulta impossibile elevare la conoscenza storica al rango di nuova norma liturgica, molto facilmente questo “archeologismo” si è legato al pragmatismo pastorale. Si è deciso in primo luogo di eliminare tutto ciò che non era riconosciuto come originale e, di conseguenza, come “sostanziale”, per poi integrare lo “scavo archeologico” – qualora fosse sembrato ancora insufficiente – con “il punto di vista pastorale”. Ma che cosa è “pastorale”? I giudizi intellettualistici dei professori su queste questioni erano sovente determinati dalle loro considerazioni razionali e non tenevano conto di ciò che realmente sostiene la vita dei fedeli. Cosicché oggi, dopo la vasta razionalizzazione della liturgia nella prima fase della riforma, si è di nuovo alla ricerca di forme di solennità, di atmosfere “mistiche” e di una certa sacralità.

Ma poiché esistono – necessariamente e sempre più evidentemente – giudizi largamente divergenti su che cosa sia pastoralmente efficace, l’aspetto “pastorale” è divenuto il varco per l’irruzione della “creatività”, la quale dissolve l’unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità. Con questo non si vuol dire che la liturgia eucaristica, come anche la liturgia della Parola, non siano molte volte celebrate, a partire dalla fede, in modo rispettoso e “bello” nel senso migliore della parola.

Ma dato che stiamo cercando i criteri della riforma, dobbiamo pure menzionare i pericoli che negli ultimi decenni, purtroppo, non sono rimasti soltanto fantasie di tradizionalisti nemici della riforma. Vorrei soffermarmi ancora sul fatto che, in quel compendio liturgico citato sopra, il culto è stato presentato come “progetto di riforma”, e cioè come un cantiere dove ci si dà sempre un gran da fare. Simile, seppure un po’ diverso, è il suggerimento, da parte di alcuni liturgisti cattolici, di adattare la riforma liturgica al mutamento antropologico della modernità e di costruirla in modo antropocentrico.

Se la liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? In ogni riforma liturgica e in ogni celebrazione liturgica, il primato di Dio dovrebbe sempre occupare il primissimo posto. Con questo sono andato molto oltre il libro di dom Alcuin. Ma credo che, comunque, sia risultato chiaro che questo libro, con la ricchezza dei suoi spunti, ci insegna dei criteri e ci invita a un’ulteriore riflessione. Per questo ne raccomando la lettura.

 





Ratzinger



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