Bellezza e Verità di Cristo nell'Amore nella Liturgia e nell'arte (da Fides et Forma)

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Caterina63
00martedì 1 dicembre 2009 12:34

BELLEZZA E VERITA' DI CRISTO NELL'AMORE

Crocifisso di scuola donatelliana del Convento di San Bosco ai Frati (San Piero a Sieve)

di Francesco Colafemmina

Ci sono due tipi di bellezza in termini cristiani: la bellezza Divina e la bellezza delle cose create da Dio o dall'uomo. Sono in molti, tuttavia, gli esperti centonari operanti nelle propaggini delle mura leoniane che sembrano non aver capito la differenza sottolineata dal Card. Joseph Ratzinger nel 2002 fra bellezza di Dio e creazione artistica, nonchè la loro intima essenza. Anzi, sono in molti ad aver confuso, anche recentemente, queste due bellezze, in un mix di giustapposizioni che denota da un lato scarsa praticità con i testi ratzingeriani e dall'altro una certa qual belluina ignoranza.

Il testo dell'allora Card. Ratzinger cominciava così:

Ogni anno, nella Liturgia delle Ore del Tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che si trova nei Vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, l’una accanto all’altra, ci sono due antifone, una per il tempo di Quaresima, l’altra per la Settimana Santa. Entrambe introducono il Salmo 44, ma ne anticipano una chiave interpretativa del tutto contrapposta. E’ il Salmo che descrive le nozze del Re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nel Tempo di Quaresima il salmo ha per cornice la stessa antifona che viene utilizzata per tutto il restante periodo dell’anno. E’ il terzo verso del salmo che recita: "Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia". E’ chiaro che la Chiesa legge questo salmo come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra indica la bellezza interiore della Sua parola, la gloria del Suo annuncio. Così, non è semplicemente la bellezza esteriore dell’apparizione del Redentore ad essere glorificata: in Lui appare piuttosto la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso che ci attira a sé e allo stesso tempo ci procura la ferita dell’Amore, la santa passione (eros) che ci fa andare incontro, insieme alla e nella Chiesa Sposa, all’Amore che ci chiama. Ma il mercoledì della Settimana Santa la Chiesa cambia l’antifona e ci invita a leggere il Salmo alla luce di Is. 53,2: "Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore". Come si concilia ciò? Il "più bello tra gli uomini" è misero d’aspetto tanto che non lo si vuol guardare. Pilato lo presenta alla folla dicendo:- "Ecce homo" onde suscitare pietà per l’Uomo sconvolto e percosso al quale non è rimasta alcuna bellezza esteriore.

Partendo dunque dall'apparente contrapposizione estetica dei Salmi nella loro descrizione di Cristo il futuro Pontefice delinea i fondamenti di una "estetica cattolica". Questa estetica si fonda su una Beltà divina che si riflette e vive nella Verità di Cristo. Verità che tuttavia non è soltanto bella e sublime, bensì anche dolorosa e "sfigurata". Il riferimento alla bellezza che genera dolore rimanda Ratzinger al pensiero platonico in base al quale la bellezza "erotica" (che genera amore) sarebbe accompagnata dal dolore:
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Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo "entusiasma" attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. E’ al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso. Questo "altro" però l’anima non riesce a esprimerlo, "ha solamente una vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa come un enigma". Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del teologo bizantino Nicolas Kabasilas si ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova esperienza cristiana. Kabasilas afferma: "Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo".

Ora, va aggiunto un altro fondamentale tassello per comprendere il senso di quella bellezza che intuita da Platone come "sottofondo" dell'uomo e sua "origine" separata, il Cristianesimo ha collocato correttamente nella tensione fra creatura e Creatore, fra uomo e Cristo. Come si percepisce questa bellezza? Come la si raggiunge? E' sì un dardo, uno stimolo, qualcosa che ci ferisce, generando dolore, ma essa è percepibile attraverso la razionalità: è la ragione che unisce bellezza a verità e ridona all'uomo la possibilità di raggiungere il senso intimo della bellezza divina:

La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo, con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità.

Pure, la guida della razionalità non sempre basta. La ragione, anzi il razionalismo, può essere strumento relativistico e slegato dall'autentica intuizione dell'anima, dalla sensibilità innata, quasi dall'impronta di una bellezza originaria incisa dentro di noi dalle mani Creatore. Ecco quindi che:

gli argomenti cadono così spesso nel vuoto perché nel nostro mondo troppe argomentazioni contrapposte concorrono le une con le altre, tanto che all’uomo viene spontaneo il pensiero che i teologi medievali avevano così formulato: la ragione "ha un naso di cera", ossia la si può indirizzare, se solo si è abbastanza abili, nelle più svariate direzioni. Tutto è così assennato, così convincente, di chi dobbiamo fidarci? L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima ed in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti.

Qui dunque Ratzinger introduce la vera novità rappresentata dall'Arte e da quell'arte cristiana che nella sua stessa natura estetica, fondata su Bellezza e Verità di Cristo è in grado di riunire la "ferita" originaria della bellezza alla razionalità fondante dell'umanità in una compiutezza percettiva che conduce alla contemplazione di Dio:

Nell’arte delle icone, come pure nelle grandi opere pittoriche occidentali del romanico e del gotico, l’esperienza descritta da Kabasilas, partendo dall’interiorità, si è resa visibile e partecipabile. Pavel Evdokimov ha indicato in maniera così pregnante quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un "digiuno della vista". La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la "gloria di Dio sul volto di Cristo" (2, Cor 4,6). Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore, ci rivela la bellezza, o almeno un raggio di essa. Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità. Io ho spesso già affermato essere mia convinzione che la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i Santi, a entrare in contatto con il bello.

Ecco dunque spiegato perchè l'arte veramente, autenticamente cristiana è un'arte che comunica direttamente con il Bello e la Verità che sono Cristo Stesso. E lo fa ricorrendo ad una razionalità positiva, non ad un razionalismo dialettico e relativista. Non a caso Joseph Ratzinger cita proprio Bach, ovvero quel grandioso maestro della musica di tutti i tempi, le cui composizioni sono intrise di razionalità che illumina e dirige il dardo lancinante dell'amore per Cristo.

A ragione, tuttavia, il futuro Pontefice, sgombrava il campo dalle potenziali critiche e perfidie dialettiche assai diffuse in questo ambito speculativo. Egli ridisegna il senso di quel dolore, dello strazio e della passione di Cristo, di quella bellezza "sfigurata". Ci aiuta a comprendere come nella realtà di Dio, il volto sfigurato di Cristo non sia tale perchè nel "male" e nel "dolore" sfigurato si rivela l'essenza della realtà. Al contrario questa visione sartriana e nichilista è incompatibile alla radice con il senso della "bruttezza" della Passione:

Abbiamo già respinto l’affermazione secondo cui quanto finora sostenuto sarebbe una fuga nell’irrazionale, nel mero estetismo. E’ vero piuttosto l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e resa capace di azione. Maggior peso ha oggi un’altra obiezione: il messaggio della bellezza viene messo completamente in dubbio attraverso il potere della menzogna, della seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza essere autentica, oppure, alla fine, non è che un’illusione? La realtà non è forse in fondo malvagia? La paura che, alla fine, non sia lo strale del bello a condurci alla verità, ma che la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera "realtà" ha angosciato gli uomini in ogni tempo. […] Nella passione di Cristo l’estetica greca, così degna di ammirazione per il suo presentito contatto con il divino, che pure le resta indicibile, non viene rimossa, bensì superata. L’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine - la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva "sino alla fine" e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è "vera", bensì proprio la verità. E’ per così dire un nuovo trucco della menzogna presentarsi come "verità" e dirci: al di là di me non c’e in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla; così facendo siete sulla strada sbagliata. L’icona di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo all’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza.
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Ecco quindi chiarito il senso dell'estetica della Passione di Cristo! Non una "deformità" su Suo volto è il limite estremo della Verità, bensì l'amore che si sostanzia nella Sua sofferenza è autentica Bellezza che muove l'intero creato! Non a caso Dante concludeva così il suo Paradiso:

ma già volgeva il mio disìo e il velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'Amor che move il sole e l'altre stelle

E' l'Amore di Cristo il vero volto della Verità e della Bellezza! Ecco perchè l'arte autenticamente cattolica è quell'arte in grado di trasmettere l'amore anche attraverso la sofferenza della passione, la Bellezza anche attraverso le ambiguità della ragione, la Verità attraverso la struttura sensibile del creato. Ecco dunque alcuni crocifissi quattrocenteschi come quello in foto, nel loro terribile realismo sono pienamente rispondenti ai criteri di Bellezza, Verità ed Amore: Cristo ha le sue forme umane (riflesso del dogma dell'Incarnazione), è rappresentato nella verità della sua Passione da cui emana l'amore glorioso del Suo commovente volto. Come non piangere dinanzi ad una simile opera d'arte? Come non andare incontro al Signore nella sua Bellezza che vorremmo medicare, curare, accarezzare, e che solo con la conversione delle nostre anime e la rinuncia al peccato sappiamo di poter amare in verità?
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Questa è la bellezza dell'arte autenticamente cattolica. Un'arte che avvince a Gesù e ci induce ad adorarlo ed amarlo.
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Tutto il limite dello strazio, dell'incertezza, della soglia verso il nulla e "l'abisso dell'infinito" o "l'abisso dell'essere" sono invece percepibili in quest'altro crocifisso di Bacon. Un crocifisso anticristiano ed anticattolico: nega infatti l'Incarnazione raffigurando una larva deforme al posto del Glorioso redentore, chiude lo spazio in un buco nero senza fuga, non glorifica la divinità ma la irride in un grido percepibile sulle labbra della larva bianca: "Dio è morto!".
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No: Dio è vivo! Non ce lo dicono soltanto la fede ed i Vangeli ma anche le meraviglie dell'arte illuminate dal riverbero della Sua Gloriosa bellezza!


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Caterina63
00lunedì 7 dicembre 2009 21:34
La centralità dell'arte nella vita della Chiesa

Miniature, vetrate e avori
per parlare agli occhi degli uomini


È in libreria il volume L'arte nella vita della Chiesa (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2009, pagine 296, euro 32). Pubblichiamo uno stralcio del primo capitolo.

di Timothy Verdon


Nelle case di molti cristiani vi è una Bibbia, che però viene aperta e letta solo occasionalmente - non perché le persone siano analfabete ma per mancanza di tempo, mancanza di consuetudine, mancata formazione. Spesso nelle stesse case vi sono anche immagini sacre - un crocifisso o dipinti o stampe raffiguranti il Sacro Cuore, la Madonna o qualche santo - che invece accompagnano la vita degli abitanti, offrendo colore e un senso di tradizione.

Simili immagini hanno una funzione analoga a quella dei testi biblici, richiamando a mente personaggi ed eventi della historia salutis, ma in un modo affascinante che attira per la bellezza e permette a tutti di capire; anche se di qualità modesta, sono riflessi di un patrimonio visivo ricco di capolavori - la sterminata galleria dei maggiori artisti di tutte le epoche che indichiamo col termine sintetico "arte sacra cristiana", e che ha avuto la stessa funzione nella vita della Chiesa universale che hanno i crocifissi e le stampe nelle case delle famiglie.

I mosaici scintillanti nelle basiliche paleocristiane; gli affreschi nelle chiese dei frati; i grandi dipinti su tavola e tela sugli altari; le statue fuori e dentro gli edifici di culto; le oreficerie e i tessuti ricamati usati per solenni celebrazioni liturgiche:  tutti questi tesori sono serviti cioè a istruire e ispirare, a narrare i magnalia Dei e a documentare le risposte umane a Dio, configurandosi come un libro - una Bibbia fatta con immagini - tra le mani dei credenti.

Questa Biblia pauperum non era intesa per i soli analfabeti e tanto meno per i bambini, anche se gli uni e gli altri erano - e sono tuttora - tra i fruitori. Il millenario patrimonio artistico della Chiesa è frutto piuttosto di committenze adulte, spesso dotte e perfino erudite, e i poveri a cui la caratterizzazione tradizionale allude non sono gli indigenti - i quali tuttavia hanno sempre avuto accesso all'arte nelle chiese - bensì i "poveri in spirito":  quelle persone a cui, nelle beatitudini, Gesù assegna "il regno dei cieli" (Matteo, 5, 3).

L'arte sacra cioè, che sovente visualizza quel "regno", è per i "piccoli" della cui esistenza il Salvatore esultò nello Spirito, dicendo:  "Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza" (Luca, 10, 21; cfr. Matteo, 11, 25-27). Né vi è contraddizione tra quest'affermazione e l'asserto che molti committenti erano dotti e perfino eruditi, perché nel cristianesimo pure il dotto è chiamato a convertirsi e diventare come un bambino per entrare nel regno dei cieli (Matteo, 18, 3), e Gesù ammonisce a "non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli" (Matteo, 18, 10). Come ogni espressione creativa dello spirito umano, l'arte sacra conserva infatti una dimensione ludica, a prescindere dai contenuti elevati.

Lo stesso processo di semplificazione che l'immagine rappresenta nei confronti della parola appare come divina "benevolenza", e l'attraente sua bellezza come un invito a contemplare, insieme agli angeli in cielo, "la faccia del Padre".

Ecco allora una prima precisazione:  il legame tra la Bibbia scritta e la Biblia pauperum fatta d'immagini non consiste solo nel fatto che l'arte cristiana tipicamente illustri o evochi i testi sacri, bensì nel comune traguardo dell'una e dell'altra Bibbia di far vedere Dio.

Ed ecco quindi la seconda precisazione:  se l'obiettivo ultimo è di vedere Dio - l'esperienza nota come la "visione beatifica" - l'immagine è un mezzo particolarmente adatto, in quanto anticipa il carattere contemplativo della vocazione ultima dell'uomo. L'arte è inoltre un mezzo particolarmente cristiano, perché Cristo è "l'immagine del Dio invisibile", come afferma il Nuovo Testamento (Colossesi, 1, 15). È vero che nel quarto vangelo Cristo è chiamato "Verbo", ma si tratta di un Verbo che "si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi", così che "noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità" (Giovanni, 1, 14).

Un altro testo sacro cristiano parla similmente della transizione da parole a qualcosa di visibile, affermando che "Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza..." (Ebrei, 1, 1-3).
 
I termini "irradiazione" e "impronta", propri dell'ambito visivo e di quello tattile, suggeriscono che sin dagli inizi il cristianesimo abbia pensato al Figlio di Dio venuto fisicamente in terra come superamento di una cultura religiosa fatta di sole parole.

Queste citazioni suggeriscono inoltre il rapporto particolarissimo di Cristo, il Verbo fattosi uomo per essere "immagine" dell'invisibile Dio, con le immagini umane - pitture, sculture, miniature, vetrate, avori, oreficerie - che parlano di Dio. Si tratta di un rapporto unico nella storia delle religioni, perché laddove in altri sistemi di fede l'arte illustra contenuti il cui baricentro rimane altrove, nel cristianesimo l'arte conduce, per la sua stessa natura, al cuore della cosa creduta:  al paradosso cioè di un Dio spirituale che ha voluto esprimersi in forma materiale.

"Un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico", ricorda il più strenuo difensore delle immagini cristiane, san Giovanni Damasceno, evocando il divieto veterotestamentario a ogni raffigurazione della divinità. "Ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini", continua, "così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio". Scrivendo nel contesto dell'interdizione delle immagini da parte dell'imperatore di Bisanzio, l'iconoclasta Leone iii nel 730, questo autore - nato cristiano in una Damasco allora sotto controllo musulmano - riafferma il nesso tra l'Incarnazione del Verbo e l'uso delle immagini, soprattutto quelle che raffigurano Cristo stesso.



(©L'Osservatore Romano - 7-8 dicembre 2009)
Caterina63
00sabato 15 maggio 2010 22:19
Il crocifisso nell'arte e nella liturgia

L'albero glorioso
che spiega il mistero


Il 15 maggio, nella chiesa dell'Annunziata a Pesaro, viene presentato il volume Il Crocifisso e la Maddalena. Meditazioni sul capolavoro di Federico Brandani (Roma, Art, 2009, pagine 136, euro 28, a cura di Stefano Zilia Bonamini Pepoli, con prefazione di monsignor Guido Marini, Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie) realizzato in occasione del restauro della scultura cinquecentesca conservata nella chiesa di Sant'Agostino a Pesaro. Pubblichiamo stralci del saggio scritto dall'abate vicepresidente della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa.

di Michael John Zielinski


La croce identifica il cristianesimo, riunendo nel mistero l'abbassamento e l'innalzamento di Cristo. Per questo il credente acclama Ave, crux gloriosa. La teologia dell'incarnazione del Verbo dà ragione della kènosis, lo "svuotamento" di Dio, poiché attraverso di essa si manifesta la potenza della risurrezione salvifica di Cristo.

A motivo di tale centralità nell'annuncio del Vangelo, nella teologia e nella liturgia, la croce è stato uno dei primi soggetti rappresentati, a mosaico o dipinta, sulle absidi delle basiliche paleocristiane. Dalle ricostruzioni delle basiliche costantiniane, all'inizio del iv secolo, sembra che le absidi presentassero una croce su uno sfondo di mosaico dorato luminoso. Dopo la pace costantiniana, la croce, assunta come nuovo emblema del potere imperiale, era divenuta, infatti, anche simbolo glorioso del trionfo di Cristo.

Tema teofanico per eccellenza, la croce era direttamente connessa alla celebrazione liturgica, come elemento di attrazione dell'assemblea in preghiera e, nelle chiese orientate, indicava il punto da cui il Signore era sorto, come il sole, e da cui ci si attendeva il suo ritorno.

Il legame fra la croce e la liturgia risulta anche dal fatto che questo arredo è legato praticamente in modo indissolubile, già dai primi secoli, all'altare. Fin dal v secolo, infatti, è attestata la presenza di croci preziose appese ai cibori o di croci astili processionali collocate nei pressi dell'altare durante la celebrazione. A partire dal x-xi secolo, quando l'altare subì uno spostamento di posizione verso il fondo dell'abside, divenne abituale in occidente collocare una croce d'altare, in forma di crocifisso, fissa o mobile, sul bordo posteriore della mensa, affiancata da due candelieri.

La croce d'altare, già nel xiii, secolo era una suppellettile comune, mentre nel messale tridentino la sua presenza è scontata. Sempre in epoca tridentina, san Carlo Borromeo raccomandò per la diocesi di Milano l'antica consuetudine di appendere un grande crocifisso al soffitto sopra l'altare.

Una volta superata l'originale reticenza a rappresentare la crocifissione, il più infamante dei supplizi, da parte dei cristiani dei primi secoli, il Cristo crocifisso è stato rappresentato per molti secoli come Christus crucifixus vigilans, in posizione eretta sulla croce, fissato con chiodi e con una ferita sul fianco, coi segni della morte, ma con gli occhi aperti, segno del trionfo sulla morte. Uno dei modelli pittorici più noti di tale tipologia, in cui Cristo è vestito di un solenne colòbion purpureo a clavi dorati, si trova a Roma, in Santa Maria Antiqua, risalente al vii-viii secolo e di derivazione siro-palestinese. Successivamente, sulla base di prototipi bizantini, anche in occidente il Crocifisso cominciò ad apparire con gli occhi chiusi e i segni della passione, rivelatori di una maggiore attenzione all'umanità di Cristo e alla sua passio humilissima, presente anche nella teologia. Riproducono questo tipo di figurazione le cosiddette croci dipinte, che fiorirono nell'Italia centrale nel corso del Duecento-Trecento.

Di particolare interesse è il fatto che attorno alla figura centrale di Cristo fossero disposte delle figurazioni simboliche o narrative secondo un programma di carattere teologico, percepibile da chi guardava l'arredo durante la celebrazione della messa. Nella tabella della cimasa si trovano Dio Padre o il Tetramorfo, in quella della predella l'Agnello mistico o il Calice, con un chiaro riferimento eucaristico, a quelle alle estremità dei bracci Maria e Giovanni evangelista, i testimoni del Golgota, infine in quelle dei fianchi sono riprodotti gli episodi evangelici riconducibili ai principali misteri della fede celebrati nella liturgia.

Queste croci erano immagini liturgiche e come tali avevano una collocazione congrua, addossate alla parete dell'abside, appese sopra l'altare o fissate sopra lo jubé, il recinto che racchiudeva la zona dell'altare e del coro.

La preferenza per il Cristo doloroso ricevette un grande influsso nel pieno medioevo per impulso della mistica francescana e di quella nordica con la loro insistenza sulla devozione all'umanità sofferente di Cristo. In questa temperie spirituale, infatti, il crocifisso è considerato un mezzo per alimentare la devozione personale, cioè di appagare il desiderio dell'anima pia di immedesimarsi anche affettivamente ed emotivamente nella passione del Signore. Se poi, per influenza dell'umanesimo, i crocifissi del Quattrocento tornarono a rappresentare il corpo di Cristo, pur morto, con una forza e bellezza ideali, non mancarono in epoca barocca crocifissi dolorosamente connotati, a seconda della sensibilità spirituale dell'artefice e del committente.

La Crocifissione è un soggetto largamente sfruttato anche in pittura con una connotazione talvolta serena e talvolta drammatica della scena. Il Crocifisso dalle carni d'avorio di Guido Reni di San Lorenzo in Lucina a Roma (1639-1642) è molto distante nella composizione dai due trittici tragici e teatrali di Rubens per la cattedrale di Anversa (1610-1612), raffiguranti l'uno l'innalzamento della croce, fra la strage degli innocenti e la crocifissione e l'altro la deposizione dalla croce, fra la visitazione e la presentazione al tempio. Tuttavia, entrambe le opere sono concepite come pale d'altare e comunque realizzate per sottolineare il legame fra il sacrificio della croce e il sacrificio della messa.

Si può affermare che già nel medioevo maturo la forma di quest'immagine, con la preferenza al Cristo doloroso, è ormai sostanzialmente determinata e diverrà una delle immagini più presenti nelle chiese, ma anche fra le più diffuse nelle case, nei crocicchi delle strade, nei luoghi pubblici e considerata fra le più care al popolo di Dio fino ai nostri giorni. Esso è diventato persino un segno universalmente riconosciuto e rispettato, anche da quanti pur ritenendosi non credenti, riconoscono il cristianesimo e i suoi simboli come parte della civiltà europea.

Oggi non mancano artisti che si lasciano ispirare da soggetti sacri. Il problema attuale è di individuare opere che non siano solo religiose, ma tali da entrare nelle chiese perché in grado di svolgere una funzione liturgica. Per questo è necessario che gli artisti abbiano la possibilità di avere una sorta di canone teologico, in modo da poter confrontare le loro opere con ciò che la Chiesa desidera da essi. I credenti, infatti, hanno bisogno di vedere immagini conformi alla verità della fede, cosicché l'artista diventa strumento vitale della nuova evangelizzazione in un mondo in cui l'immagine è sempre più preponderante.

Nella scelta della croce per l'altare bisogna pensare anzitutto che essa deve essere espressiva di tutto il mistero pasquale. Non è sufficiente che provochi una partecipazione affettiva, né che richiami semplicemente l'evento storico del Golgota. Deve saper riassumere e rendere evidente lo stesso mistero di Cristo morto, risorto, asceso al cielo, di cui si attende il ritorno, che si celebra nella messa. Le forme elaborate dalla tradizione possono aiutare l'artista contemporaneo a proporre soluzioni accettabili.

L'utilizzo di materiali preziosi e nuovi che aumentino la luminosità dell'arredo è una via che non deve essere trascurata. Ad ogni modo, solo se assolve a questa finalità squisitamente liturgica, un crocifisso contemporaneo può essere ammesso a fungere da "immagine d'altare" o meglio di immagine "per lo spazio dell'altare", la cui collocazione solitamente è la parete di fondo ben visibile ai fedeli.


(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2010)

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