Benedetto XVI incontra il Clero

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Caterina63
00giovedì 26 febbraio 2009 14:27
Benedetto XVI al clero romano: parola e testimonianza per raggiungere il cuore dell’uomo di oggi. E sulla crisi economica: le radici sono nell’egoismo

Le ragioni profonde della crisi economica, l’importanza del primo annuncio e, ancora l’emergenza educativa, il ruolo del parroco nella società di oggi e la centralità della liturgia nella vita del cristiano: sono alcuni dei temi forti affrontati da Benedetto XVI nel suo tradizionale incontro in Vaticano con il clero romano, all’inizio della Quaresima, il primo con il nuovo cardinale vicario, Agostino Vallini. Introducendo l’evento, il porporato ha messo l’accento sulla dimensione famigliare dell’incontro nel quale i parroci romani hanno potuto raccontare al proprio vescovo successi e fatiche della propria attività pastorale. Il servizio di Alessandro Gisotti:

Un incontro caratterizzato dall’affetto e dalla franchezza. Uno scambio famigliare, ha detto il Papa, sottolineando quanto sia importante per lui poter ascoltare le esperienze dei sacerdoti della sua diocesi. Benedetto XVI ha risposto ad otto domande di parroci, espressione della Chiesa di Roma, che hanno spaziato su diversi temi. Rispondendo ad un sacerdote della zona periferica di Tor Bella Monaca, dove si fa particolarmente sentire la crisi economica, il Papa ha ribadito che la Chiesa è chiamata a denunciare i fallimenti del sistema economico-finanziario senza moralismi:

"Denunciare questi errori fondamentali che si sono adesso dimostrati nel crollo delle grandi banche americane: l’avarizia umana è idolatria che va contro il vero Dio e la falsificazione dell’immagine di Dio con un altro dio – Mammona; dobbiamo denunciare con coraggio ma anche con concretezza, perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostenuti dalla conoscenza della realtà, che aiuta anche a capire che cosa si può in concreto fare!"

Da sempre, ha rilevato, la Chiesa non solo denuncia i mali, ma mostra le strade che portano alla giustizia, alla carità, alla conversione dei cuori. Non sempre è facile, ha riconosciuto, perché spesso si oppongono interessi di gruppo. Anche nell’economia, ha proseguito, la giustizia si costruisce dunque solo se ci sono i giusti e costoro si formano con la conversione dei cuori. Due domande, in particolare si sono soffermate sulla sfida della missione evangelizzatrice. Il Papa ha esortato il clero romano a unire gli studi di teologia con l’esperienza concreta per tradurre la Parola di Dio all’uomo di oggi. Non dobbiamo perdere la semplicità della Verità, ha detto ancora, che non può essere assimilata ad una filosofia. Benedetto XVI ha poi messo l’accento sul ruolo del parroco che, ha affermato, come nessun altro conosce l’uomo nella sua profondità, al di là dei ruoli che ricopre nella società.

"Per l’annuncio abbiamo bisogno dei due elementi: testimonianza e parola.

E’ necessaria la parola, che fa apparire la verità di Dio, la presenza di Dio in Cristo e quindi l’annuncio è una cosa assolutamente indispensabile, fondamentale, ma è necessaria anche la testimonianza che dà credibilità a questa parola, perché non appaia solo come una bella filosofia, una utopia. E in questo senso mi sembra che la testimonianza della comunità credente sia di grandissima importanza. Dobbiamo aprire, in quanto possiamo, luoghi di esperienza della fede".

Il Pontefice ha quindi offerto la sua riflessione su un tema a lui particolarmente caro quale è quello dell’emergenza educativa.

Compito dei sacerdoti, ha rilevato, fin dall’oratorio è offrire ai giovani una formazione umana integrale. Ed ha ribadito che oggi viviamo in un mondo dove molte persone hanno tante conoscenze ma senza orientamento interiore etico. Per questo, la Chiesa ha il dovere di proporre una formazione umana illuminata dalla fede. Aprirsi dunque alla cultura del nostro tempo, ma indicando criteri di discernimento.

Nell’incontro non sono mancati momenti simpatici come quando un parroco del quartiere della Casilina ha declinato un sonetto in romanesco per celebrare la prossima visita di Benedetto XVI in Campidoglio. Una poesia che il Santo Padre ha particolarmente gradito:

"Grazie! Abbiamo sentito parlare il cuore romano, che è un cuore di poesia. E’ molto bello sentire un po’ di romanesco e sentire che la poesia è profondamente radicata nel cuore romano. Questo forse è un privilegio naturale che il Signore ha dato ai romani, è un carisma naturale che precede i privilegi ecclesiali …"

(risa - applausi)

Nel colloquio con il clero romano, durato quasi due ore, il Papa ha anche parlato della liturgia ribadendo che imparare a celebrare significa conoscere Gesù Cristo, entrare in contatto con Lui. La Liturgia, è stata la sua riflessione, deve sempre più essere il cuore del nostro essere cristiani. Ancora, il Pontefice ha indicato la peculiarità della Chiesa di Roma, chiamata a presiedere nella Carità. Un dono, ha affermato, che riguarda tutti i fedeli di Roma. [SM=g1740721]

Il ministero petrino, ha poi aggiunto, deve garantire l’unità e la ricchezza della Chiesa, prevenendo ogni assolutizzazione ed escludendo ogni particolarismo.

 Radio Vaticana

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Il Papa ha risposto a tutte le domande a braccio....appena il testo sarà in rete verrà postato qui...[SM=g1740733]

Caterina63
00venerdì 27 febbraio 2009 17:02
Alle ore 11 di ieri, nell’Aula della Benedizione, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato i Parroci e i Sacerdoti della Diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima.

Dopo l’indirizzo di omaggio del Cardinale Vicario Agostino Vallini, sono intervenuti 8 sacerdoti.

Di seguito riportiamo la sintesi degli interventi dei sacerdoti e le risposte del Santo Padre.

1) Santo Padre, sono Don Gianpiero Palmieri, parroco della parrocchia di San Frumenzio ai Prati Fiscali. Volevo rivolgerle una domanda sulla missione evangelizzatrice della comunità cristiana e, in particolare, sul ruolo e sulla formazione di noi presbiteri all'interno di questa missione evangelizzatrice.
Per spiegarmi, parto da un episodio personale. Quando, giovane presbitero, ho cominciato il mio servizio pastorale nella parrocchia e nella scuola, mi sentivo forte del bagaglio degli studi e della formazione ricevuta, ben radicato nel mondo delle mie convinzioni dei miei sistemi di pensiero. Una donna credente e saggia, vedendomi in azione, scosse la testa sorridendo e mi disse: don Gianpiero, quand'è che metti i pantaloni lunghi, quand'è che diventi uomo? È un episodio che m'è rimasto nel cuore. Quella donna saggia cercava di spiegarmi che la vita, il mondo reale, Dio stesso, sono più grandi e sorprendenti dei concetti che noi elaboriamo. Mi invitava a mettermi in ascolto dell'umano per cercare di capire, per comprendere, senza aver fretta di giudicare. Mi chiedeva di imparare a entrare in relazione con la realtà, senza paure, perché la realtà è abitata da Cristo stesso che agisce misteriosamente nel suo Spirito. Di fronte alla missione evangelizzatrice oggi noi presbiteri ci sentiamo impreparati e inadeguati, sempre con i calzoni corti. Sia sotto l'aspetto culturale — ci sfugge la conoscenza attenta delle grandi direttrici del pensiero contemporaneo, nelle sue positività e nei suoi limiti — e soprattutto sotto l'aspetto umano. Rischiamo sempre di essere troppo schematici, incapaci di comprendere in maniera saggia il cuore degli uomini di oggi. L'annuncio della salvezza in Gesù non è anche l'annuncio dell'uomo nuovo Gesù, il Figlio di Dio, nel quale anche la nostra umanità povera viene redenta, resa autentica, trasformata da Dio? Allora la mia domanda è questa: condivide questi pochi pensieri? Nelle nostre comunità cristiane viene tanta gente ferita dalla vita. Quali luoghi e modi possiamo inventarci per aiutare nell'incontro con Gesù l'umanità degli altri? E anche come costruire in noi preti un'umanità bella e feconda? Grazie, Santità!


R.
Grazie! Cari confratelli, innanzitutto vorrei esprimere la mia grande gioia di essere con voi, parroci di Roma: i miei parroci, siamo in famiglia. Il Cardinale Vicario ci ha detto bene è che un momento di riposo spirituale. E in questo senso sono anche grato che posso iniziare la Quaresima con un momento di riposo spirituale, di respiro spirituale, nel contatto con voi. E ha anche detto: stiamo insieme perché voi potete raccontarmi le vostre esperienze, le vostre sofferenze, anche i vostri successi e gioie. Quindi non direi che qui parla un oracolo, al quale voi chiedete. Siamo invece in uno scambio familiare, dove per me è anche molto importante, tramite voi, conoscere la vita nelle parrocchie, le vostre esperienze con la Parola di Dio nel contesto del nostro mondo di oggi. E vorrei così imparare anch'io, avvicinarmi alla realtà dalla quale chi è nel Palazzo Apostolico è anche un po' troppo distante. E questo è anche il limite delle mie risposte. Voi vivete nel contatto diretto, giorno per giorno, con il mondo di oggi; io vivo in contatti diversificati, che sono molto utili. Per esempio, adesso ho avuto la visita «ad limina» dei Vescovi della Nigeria. E ho potuto vedere così, tramite le persone, la vita della Chiesa in un Paese importante dell'Africa, il più grande, con 140 milioni di abitanti, un grande numero di cattolici, e toccare le gioie e anche le sofferenze della Chiesa. Ma per me questo è ovviamente un riposo spirituale, perché è una Chiesa come la vediamo negli Atti degli Apostoli. Una Chiesa dove c'è la fresca gioia di aver trovato Cristo, di aver trovato il Messia di Dio. Una Chiesa che vive e cresce ogni giorno. La gente è gioiosa di trovare Cristo. Hanno vocazioni e così possono dare, nei diversi Paesi del mondo, sacerdoti fidei donum. E vedere che non c'è solo una Chiesa stanca, come si trova spesso in Europa, ma una Chiesa giovane, piena di gioia dello Spirito Santo, è certamente un rinfresco spirituale. Ma è anche importante per me, con tutte queste esperienze universali, vedere la mia Diocesi, i problemi e tutte le realtà che vivono in questa Diocesi.

In questo senso, in sostanza, sono d'accordo con lei: non è sufficiente predicare o fare pastorale con il bagaglio prezioso acquisito negli studi della teologia. Questo è importante e fondamentale, ma deve essere personalizzato: da conoscenza accademica, che abbiamo imparato e anche riflettuto, in visione personale della mia vita, per arrivare alle altre persone. In questo senso vorrei dire che è importante, da una parte, concretizzare con la nostra esperienza personale della fede, nell'incontro con i nostri parrocchiani, la grande parola della fede, ma anche non perdere la sua semplicità. Naturalmente parole grandi della tradizione — come sacrificio di espiazione, redenzione del sacrificio del Cristo, peccato originale — sono oggi come tali incomprensibili. Non possiamo semplicemente lavorare con formule grandi, vere, ma non più contestualizzate nel mondo di oggi. Dobbiamo, tramite lo studio e quanto ci dicono i maestri della teologia e la nostra esperienza personale con Dio, concretizzare, tradurre queste grandi parole, così che devono entrare nell'annuncio di Dio all'uomo nell'oggi.

E, direi, dall'altra parte, non dovremmo coprire la semplicità della Parola di Dio in valutazioni troppo pesanti di avvicinamenti umani. Mi ricordo un amico che, dopo aver ascoltato prediche con lunghe riflessioni antropologiche per arrivare insieme al Vangelo, diceva: ma non mi interessano questi avvicinamenti, io vorrei capire che cosa dice il Vangelo! E mi sembra spesso che invece di lunghi cammini di avvicinamento, sarebbe meglio — io l'ho fatto quanto ero ancora nella mia vita normale — dire: questo Vangelo non ci piace, siamo contrari a quanto dice il Signore! Ma che cosa vuole dire? Se io dico sinceramente che a prima vista non sono d'accordo, abbiamo già l'attenzione: si vede che io vorrei, come uomo di oggi, capire che cosa dice il Signore. Così possiamo senza lunghi circuiti entrare nel vivo della Parola. E dobbiamo anche tener presente, senza false semplificazioni, che i dodici apostoli erano pescatori, artigiani, di questa provincia, la Galilea, senza particolare preparazione, senza conoscenza del grande mondo greco e latino. Eppure sono andati in tutte le parti dell'impero, anche fuori l'impero, fino all'India, e hanno annunciato Cristo con semplicità e con la forza della semplicità di quello che è vero. E mi sembra anche questo importante: non perdiamo la semplicità della verità. Dio c'è e Dio non è un essere ipotetico, lontano, ma è vicino, ha parlato con noi, ha parlato con me. E così diciamo semplicemente che cosa è e come si può e si deve naturalmente spiegare e sviluppare. Ma non perdiamo il fatto che noi non proponiamo riflessioni, non proponiamo una filosofia, ma proponiamo l'annuncio semplice del Dio che ha agito. E che ha agito anche con me.

E poi per la contestualizzazione culturale, romana — che è assolutamente necessaria — direi che il primo aiuto è la nostra esperienza personale. Non viviamo sulla luna. Sono un uomo di questo tempo se io vivo sinceramente la mia fede nella cultura di oggi, essendo uno che vive con i mass media di oggi, con i dialoghi, con le realtà dell'economia, con tutto, se io stesso prendo sul serio la mia esperienza e cerco di personalizzare in me questa realtà. Così siamo proprio nel cammino di farci capire anche dagli altri. San Bernardo di Chiaravalle ha detto nel suo libro di considerazioni al suo discepolo Papa Eugenio: considera di bere dalla tua propria fonte, cioè dalla tua propria umanità. Se sei sincero con te e cominci a vedere con te che cosa è la fede, con la tua esperienza umana in questo tempo, bevendo dal tuo proprio pozzo, come dice san Bernardo, anche agli altri puoi dire quanto si deve dire. E in questo senso mi sembra importante essere attenti realmente al mondo di oggi, ma anche essere attenti al Signore in me stesso: essere un uomo di questo tempo e nello stesso tempo un credente di Cristo, che in sè trasforma il messaggio eterno in messaggio attuale.

E chi conosce meglio gli uomini di oggi che il parroco? La canonica non è nel mondo, è invece nella parrocchia. E qui, dal parroco, vengono gli uomini spesso, normalmente, senza maschera, non con altri pretesti, ma nella situazione della sofferenza, della malattia, della morte, delle questioni in famiglia. Vengono nel confessionale senza maschera, con il loro proprio essere. Nessun'altra professione, mi sembra, dà questa possibilità di conoscere l'uomo com'è nella sua umanità e non nel suo ruolo che ha nella società. In questo senso, possiamo realmente studiare l'uomo come è nella sua profondità, fuori dai ruoli, e imparare anche noi stessi l'essere umano, l'essere uomo sempre alla scuola di Cristo. In questo senso direi che è assolutamente importante imparare l'uomo, l'uomo di oggi, in noi e con gli altri, ma anche sempre nell'ascolto attento al Signore e accettando in me il seme della Parola, perché in me si trasforma in frumento e diventa comunicabile agli altri.


2) Sono Don Fabio Rosini, parroco di Santa Francesca Romana all'Ardeatino. A fronte dell'attuale processo di secolarizzazione e delle sue evidenti ricadute sociali ed esistenziali, quanto mai opportunamente abbiamo, a più riprese, ricevuto dal Suo magistero, in mirabile continuità con quello del suo venerato Predecessore, l'esortazione all'urgenza del primo annuncio, allo zelo pastorale per l'evangelizzazione o rievangelizzazione, all'assunzione di una mentalità missionaria. Abbiamo compreso quanto sia importante la conversione dell'azione pastorale ordinaria, non più presupponendo la fede della massa e accontentandoci di curare quella porzione di credenti che persevera, grazie a Dio, nella vita cristiana, ma interessandoci, più decisamente e più organicamente, delle molte pecore perdute, o perlomeno disorientate. In molti e con diversi approcci, noi presbiteri romani abbiamo cercato di rispondere a questa oggettiva urgenza di rifondare o, addirittura, spesso fondare la fede. Si stanno moltiplicando le esperienze di primo annuncio e non mancano risultati anche molto incoraggianti. Personalmente posso constatare come il Vangelo, annunciato con gioia e franchezza, non tarda a guadagnare il cuore degli uomini e delle donne di questa città, proprio perchè esso è la verità e corrisponde a ciò di cui più intimamente ha bisogno la persona umana. La bellezza del Vangelo e della fede, infatti, se presentati con amorevole autenticità, sono evidenti da se stessi. Ma il riscontro numerico, talvolta sorprendentemente alto, non garantisce di per sè la bontà di un'iniziativa. La storia della Chiesa, anche recente, non manca di esempi. Un successo pastorale, paradossalmente, può nascondere un errore, una stortura di impostazione, che magari non appare immediatamente. Ecco perchè vorrei chiederle: quali devono essere i criteri imprescindibili di questa urgente azione di evangelizzazione? Quali sono, secondo lei, gli elementi che garantiscono di non correre invano nella fatica pastorale dell'annuncio a questa generazione a noi contemporanea? Le chiedo umilmente di segnalarci, nel suo prudente discernimento, i parametri da rispettare e da valorizzare per poter dire di compiere un'opera evangelizzatrice che sia genuinamente cattolica e che porti frutto nella Chiesa. La ringrazio di cuore per il suo illuminato magistero. Ci benedica.

R.  Sono contento di sentire che si fa realmente questo primo annuncio, che si va oltre i limiti della comunità fedele, della parrocchia, alla ricerca delle cosiddette pecore sperdute; che si cerca di andare verso l'uomo d'oggi che vive senza Cristo, che ha dimenticato Cristo, per annunciargli il Vangelo. E sono felice di sentire che non solo si fa questo, ma che si conseguono anche dei successi numericamente confortanti. Vedo, quindi, che voi siete capaci di parlare a quelle persone nelle quali si deve rifondare, o addirittura fondare, la fede.

Per questo lavoro concreto, io non posso dare ricette, perchè sono diverse le strade da seguire, a seconda delle persone, delle loro professioni, delle varie situazioni. Il catechismo indica l'essenza di quanto annunciare. Ma è chi conosce le situazioni che deve applicare le indicazioni, trovare un metodo per aprire i cuori ed invitare a mettersi in cammino con il Signore e con la Chiesa.

Lei parla dei criteri di discernimento per non correre invano. Vorrei innanzitutto dire che tutte e due le parti sono importanti. La comunità dei fedeli è una cosa preziosa e non dobbiamo sottovalutare — anche guardando ai tanti che sono lontani — la realtà positiva e bella che costituiscono questi fedeli, i quali dicono sì al Signore nella Chiesa, cercano di vivere la fede, cercano di andare sulle orme del Signore. Dobbiamo aiutare questi fedeli, come abbiamo detto già poco fa rispondendo alla prima domanda, a vedere la presenza della fede, a capire che non è una cosa del passato, ma che oggi mostra la strada, insegna a vivere da uomo. È molto importante che essi trovino nel loro parroco realmente il pastore che li ama e che li aiuta a sentire oggi la Parola di Dio; a capire che è una Parola per loro e non solo per persone del passato o del futuro; che li aiuta, ancora, nella vita sacramentale, nell'esperienza della preghiera, nell'ascolto della Parola di Dio e nella vita della giustizia e della carità, perchè i cristiani dovrebbero essere fermento nella nostra società con tanti problemi e con tanti pericoli ed anche tanta corruzione che esiste.

In questo modo credo che essi possano anche interpretare un ruolo missionario «senza parole», poiché si tratta di persone che vivono realmente una vita giusta. E così offrono una testimonianza di come sia possibile vivere bene sulle strade indicate dal Signore. La nostra società ha bisogno proprio di queste comunità, capaci di vivere oggi la giustizia non solo per se stessi ma anche per l'altro. Persone che sappiano vivere, come abbiamo sentito oggi nella prima lettura, la vita. Questa lettura all'inizio dice: «Scegli la vita»: è facile dire sì. Ma poi prosegue: «La tua vita è Dio». Quindi scegliere la vita è scegliere l'opzione per la vita, che è l'opzione per Dio. Se ci sono persone o comunità che fanno questa scelta completa della vita e rendono visibile il fatto che la vita che hanno scelto è realmente vita, rendono una testimonianza di grandissimo valore.

E vengo a una seconda riflessione. Per l'annuncio abbiamo bisogno di due elementi: la Parola e la testimonianza. È necessaria, come sappiamo dal Signore stesso, la Parola che dice quanto lui ci ha detto, che fa apparire la verità di Dio, la presenza di Dio in Cristo, la strada che ci si apre davanti. Si tratta, quindi, di un annuncio nel presente, come lei ha detto, che traduce le parole del passato nel mondo della nostra esperienza. È una cosa assolutamente indispensabile, fondamentale, dare, con la testimonianza, credibilità a questa Parola, affinché non appaia solo come una bella filosofia, o come una bella utopia, ma piuttosto come realtà. Una realtà con la quale si può vivere, ma non solo: una realtà che fa vivere. In questo senso mi sembra che la testimonianza della comunità credente, come sottofondo della Parola, dell'annuncio, sia di grandissima importanza. Con la Parola dobbiamo aprire luoghi di esperienza della fede a quelli che cercano Dio. Così ha fatt0 la Chiesa antica con il catecumenato, che non era semplicemente una catechesi, una cosa dottrinale, ma un luogo di progressiva esperienza della vita della fede, nella quale poi si dischiude anche la Parola, che diventa comprensibile solo se interpretata dalla vita, realizzata dalla vita.

Quindi mi sembra importante, insieme con la Parola, la presenza di un luogo di ospitalità della fede, un luogo in cui si fa una progressiva esperienza della fede. E qui vedo anche uno dei compiti della parrocchia: ospitalità per quelli che non conoscono questa vita tipica della comunità parrocchiale. Non dobbiamo essere un cerchio chiuso in noi stessi. Abbiamo le nostre consuetudini, ma dobbiamo comunque aprirci e cercare di creare anche vestiboli, cioè spazi di avvicinamento. Uno che viene da lontano non può subito entrare nella vita formata di una parrocchia, che ha già le sue consuetudini. Per costui al momento tutto è molto sorprendente, lontano dalla sua vita. Quindi dobbiamo cercare di creare, con l'aiuto della Parola, quello che la Chiesa antica ha creato con i catecumenati: spazi in cui cominciare a vivere la Parola, a seguire la Parola, a renderla comprensibile e realistica, corrispondente a forme di esperienza reale. In questo senso mi sembra molto importante quanto lei ha accennato, cioè la necessità di collegare la Parola con la testimonianza di una vita giusta, dell'essere per gli altri, di aprirsi ai poveri, ai bisognosi, ma anche ai ricchi, che hanno bisogno di essere aperti nel loro cuore, di sentir bussare al loro cuore. Si tratta dunque di spazi diversi, a seconda della situazione.

Mi pare che in teoria si possa dire poco, ma l'esperienza concreta mostrerà le strade da seguire. E naturalmente — criterio sempre importante da seguire — bisogna essere nella grande comunione della Chiesa, anche se forse in uno spazio ancora un po' lontano: e cioè in comunione con il vescovo, con il Papa, in comunione così con il grande passato e con il grande futuro della Chiesa. Essere nella Chiesa cattolica, infatti, non implica soltanto essere in un grande cammino che ci precede, ma significa essere in prospettiva di una grande apertura al futuro. Un futuro che si apre solo in questo modo. Si potrebbe forse proseguire nel parlare dei contenuti, ma possiamo trovare un'altra occasione per questo.


(continua)
Caterina63
00venerdì 27 febbraio 2009 17:02
3) Padre Santo, sono Don Giuseppe Forlai, vicario parrocchiale presso la parrocchia di San Giovanni Crisostomo, nel settore nord della nostra Diocesi. L'emergenza educativa, di cui autorevolmente la Santità Vostra ha parlato, è anche, come tutti sappiamo, emergenza di educatori, particolarmente credo sotto due aspetti. Prima di tutto, è necessario avere un occhio maggiore sulla continuità della presenza dell'educatore-prete. Un giovane non stringe un patto di crescita con chi se ne va dopo due o tre anni, anche perché già impegnato emotivamente a gestire relazioni con genitori che lasciano casa, nuovi partner della mamma o del papà, insegnanti precari che ogni anno si danno il cambio. Per educare bisogna stare. La prima necessità che sento è, dunque, quella di una certa stabilità sul luogo dell'educatore-sacerdote. Secondo aspetto: credo che la partita fondamentale della pastorale giovanile si giochi sul fronte della cultura. Cultura intesa come competenza emotivo-relazionale e come padronanza delle parole che i concetti contengono. Un giovane senza questa cultura può diventare il povero di domani, una persona a rischio di fallimento affettivo e un naufrago nel mondo del lavoro. Un giovane senza questa cultura rischia di rimanere un non credente o, peggio ancora, un praticante senza fede perché l'incompetenza nelle relazioni deforma la relazione con Dio e l'ignoranza delle parole blocca la comprensione dell'eccellenza della parola del Vangelo. Non basta che i giovani riempiano fisicamente lo spazio dei nostri oratori per passare un po' di tempo libero. Vorrei che l'oratorio fosse un luogo dove si impara a sviluppare competenze relazionali e dove si riceve ascolto e sostegno scolastico. Un luogo che non sia il rifugio costante di chi non ha voglia di studiare o di impegnarsi, ma una comunità di persone che elaborino quelle domande giuste che aprono al senso religioso e dove si faccia la grande carità di aiutare a pensare. E qui si dovrebbe anche aprire una seria riflessione sulla collaborazione tra oratori e insegnanti di religione. Santità, ci dica una parola autorevole in più su questi due aspetti dell'emergenza educativa: la necessaria stabilità degli operatori e l'urgenza di avere educatori-sacerdoti culturalmente capaci. Grazie.

R. Allora, cominciamo con il secondo punto. Diciamo che è più ampio e, in un certo senso, anche più facile. Certamente un oratorio nel quale si fanno solo dei giochi e si prendono delle bevande sarebbe assolutamente superfluo. Il senso di un oratorio deve realmente essere una formazione culturale, umana e cristiana di una personalità, che deve diventare una personalità matura. Su questo siamo assolutamente d'accordo e, mi sembra, proprio oggi c'è una povertà culturale dove si sanno tante cose, ma senza un cuore, senza un collegamento interiore perché manca una visione comune del mondo. E, perciò, una soluzione culturale ispirata dalla fede della Chiesa, dalla conoscenza di Dio che ci ha donato, è assolutamente necessaria. Direi proprio questa è la funzione di un oratorio: che uno non solo trovi possibilità per il tempo libero ma soprattutto trovi formazione umana integrale che rende completa la personalità.

E, quindi, naturalmente il sacerdote come educatore deve essere egli stesso formato bene e essere collocato nella cultura di oggi, ricco di cultura, per aiutare anche i giovani a entrare in una cultura ispirata dalla fede. Aggiungerei, naturalmente, che alla fine il punto di orientamento di ogni cultura è Dio, il Dio presente in Cristo. Vediamo come oggi ci sono persone con tante conoscenze, ma senza orientamento interiore. Così la scienza può essere anche pericolosa per l'uomo, perché senza orientamenti etici più profondi, lascia l'uomo all'arbitrio e, quindi, senza gli orientamenti necessari per divenire realmente un uomo. In questo senso, il cuore di ogni formazione culturale, così necessaria, deve essere senza dubbio la fede: conoscere il volto di Dio che si è mostrato in Cristo e così avere il punto di orientamento per tutta l'altra cultura, che altrimenti diventa disorientata e disorientante. Una cultura senza conoscenza personale di Dio e senza conoscenza del volto di Dio in Cristo, è una cultura che potrebbe essere anche distruttiva, perché non conosce gli orientamenti etici necessari. In questo senso, mi sembra, abbiamo noi realmente una missione di formazione culturale e umana profonda, che si apre a tutte le ricchezze della cultura del nostro tempo, ma dà anche il criterio, il discernimento per provare quanto è cultura vera e quanto potrebbe divenire anti-cultura.

Molto più difficile per me è la prima domanda — la domanda è anche a Sua Eminenza — cioè la permanenza del giovane sacerdote per dare orientamento ai giovani. Senza dubbio una relazione personale con l'educatore è importante e deve avere anche la possibilità di un certo periodo per orientarsi insieme. E, in questo senso posso, essere d'accordo che il sacerdote, punto di orientamento per i giovani, non può cambiare ogni giorno, perché così perde proprio questo orientamento. D'altra parte, il giovane sacerdote deve anche fare delle esperienze diverse in contesti culturali diversi, proprio per arrivare, alla fine, al bagaglio culturale necessario per essere, come parroco, punto di riferimento per lungo tempo alla parrocchia. E, direi, nella vita del giovane le dimensioni del tempo sono diverse dalla vita di un adulto. I tre anni, dall'anno sedicesimo al diciannovesimo, sono almeno così lunghi e importanti come gli anni tra i quaranta e i cinquanta. Proprio qui, infatti, si forma la personalità: è un cammino interiore di grande importanza, di grande estensione esistenziale. In questo senso, direi che tre anni per un vice parroco è un bel tempo per formare una generazione di giovani; e così, dall'altra parte, può anche conoscere altri contesti, imparare in altre parrocchie altre situazioni, arricchire il suo bagaglio umano. Questo è sempre un tempo non tanto breve per una certa continuità, un cammino educativo dell'esperienza comune, dell'imparare l'essere uomo. Peraltro, come ho detto, nella gioventù tre anni sono un tempo decisivo e lunghissimo, perché qui si forma realmente la personalità futura. Mi sembra, quindi, che si potrebbero conciliare i due bisogni: da una parte, che il sacerdote giovane abbia possibilità di esperienze diverse per arricchire il suo bagaglio di esperienza umana; dall'altra, la necessità di stare un determinato tempo con i giovani per introdurli realmente nella vita, per insegnare loro a essere persone umane. In questo senso, penso a una conciliabilità dei due aspetti: esperienze diverse per un giovane sacerdote, continuità dell'accompagnamento dei giovani per guidarli nella vita. Ma non so che cosa il Cardinale Vicario ci potrà dire in questo senso.


Cardinale Vicario:

Padre Santo, naturalmente condivido queste due esigenze, la composizione tra le due esigenze. A me sembra, per quel poco che ho potuto conoscere, che a Roma in qualche modo si conservi una certa stabilità dei giovani sacerdoti presso le parrocchie per almeno alcuni anni, salvo eccezioni. Possono sempre esserci delle eccezioni. Ma il vero problema talvolta nasce da gravi esigenze o da situazioni concrete, soprattutto nelle relazioni tra parroco e vicario parrocchiale — e qui tocco un nervo scoperto — e poi anche dalla scarsezza di giovani sacerdoti. Come ho avuto anche modo di dirle quando mi ha ricevuto in udienza, uno dei gravi problemi della nostra Diocesi è proprio il numero delle vocazioni al sacerdozio. Personalmente sono convinto che il Signore chiama, che continua a chiamare. Forse noi dovremmo fare anche di più. Roma può dare vocazioni, le darà, sono convinto. Ma in tutta questa complessa materia talvolta interferiscono molti aspetti. Sicuramente una certa stabilità credo sia stata garantita e anche io, per quello che potrò, nelle linee che ci ha indicato il Santo Padre, mi regolerò.


4) Santità, sono Don Giampiero Ialongo, uno dei tanti parroci che svolge il suo ministero nella periferia di Roma, fisicamente a Torre Angela, al confine con Torbellamonaca, Borghesiana, Borgata Finocchio, Colle Prenestino. Periferie, queste, come tante altre, spesso dimenticate e trascurate dalle istituzioni. Sono felice che questo pomeriggio ci abbia convocato il presidente del Municipio: vedremo che cosa potrà scaturire da questo incontro con la municipalità. E, forse, più di altre zone della nostra città, le nostre periferie avvertono veramente forte il disagio che la crisi economica internazionale inizia proprio a far pesare sulle condizioni concrete di vita di non poche famiglie. Come Caritas parrocchiale, ma soprattutto anche come Caritas diocesana, portiamo avanti tante iniziative che sono volte prima di tutto all'ascolto, ma anche poi a un aiuto materiale, concreto, verso quanti — senza distinzione di razza, di culture, di religioni — a noi si rivolgono. Nonostante ciò, ci andiamo sempre più rendendo conto che ci troviamo dinanzi una vera e propria emergenza. Mi sembra che tante, troppe persone — non solo pensionati ma anche chi ha un regolare impiego, un contratto a tempo indeterminato — trovino grandi difficoltà a far quadrare il proprio bilancio familiare. Pacchi-viveri, come noi facciamo, un po' di indumenti, talvolta dei concreti aiuti economici per pagare le bollette o l'affitto, possono essere sì un aiuto ma non credo una soluzione. Sono convinto che come Chiesa dovremmo interrogarci di più su cosa possiamo fare, ma ancor più sui motivi che hanno portato a questa generalizzata situazione di crisi. Dovremmo avere il coraggio di denunciare un sistema economico e finanziario ingiusto nelle sue radici. E non credo che dinanzi a queste sperequazioni, introdotte da questo sistema, basti soltanto un po' di ottimismo. Serve una parola autorevole, una parola libera, che aiuti i cristiani, come già in qualche modo ha detto, Santo Padre, a gestire con sapienza evangelica e con responsabilità i beni che Dio ha donato e ha donato per tutti e non solo per pochi. Questa parola, come già ha fatto altre volte — perché altre volte abbiamo ascoltato la sua parola su questo — sarei desideroso di ascoltare ancora una volta in questo contesto. Grazie, Santità!

R. Innanzitutto vorrei ringraziare il Cardinale Vicario per la parola di fiducia: Roma può dare più candidati per la messe del Signore. Dobbiamo soprattutto pregare il Signore della messe, ma anche fare la nostra parte per incoraggiare i giovani a dire sì al Signore. E, naturalmente, proprio i giovani sacerdoti sono chiamati a dare l'esempio alla gioventù di oggi che è bene lavorare per il Signore. In questo senso, siamo pieni di speranza. Preghiamo il Signore e facciamo il nostro.

Adesso questa questione che tocca il nervo dei problemi del nostro tempo. Io distinguerei due livelli. Il primo è il livello della macroeconomia, che poi si realizza e va fino all'ultimo cittadino, il quale sente le conseguenze di una costruzione sbagliata. Naturalmente, denunciare questo è un dovere della Chiesa. Come sapete, da molto tempo prepariamo un'Enciclica su questi punti. E nel cammino lungo vedo com'è difficile parlare con competenza, perché se non è affrontata con competenza una certa realtà economica non può essere credibile. E, d'altra parte, occorre anche parlare con una grande consapevolezza etica, diciamo creata e svegliata da una coscienza formata dal Vangelo. Quindi bisogna denunciare questi errori fondamentali che sono adesso mostrati nel crollo delle grandi banche americane, gli errori nel fondo. Alla fine, è l'avarizia umana come peccato o, come dice la Lettera ai Colossesi, avarizia come idolatria. Noi dobbiamo denunciare questa idolatria che sta contro il vero Dio e la falsificazione dell'immagine di Dio con un altro Dio, «mammona». Dobbiamo farlo con coraggio ma anche con concretezza. Perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostanziati con conoscenze delle realtà, che aiutano anche a capire che cosa si può in concreto fare per cambiare man mano la situazione. E, naturalmente, per poterlo fare è necessaria la conoscenza di questa verità e la buona volontà di tutti.

Qui siamo al punto forte: esiste realmente il peccato originale? Se non esistesse potremmo far appello alla ragione lucida, con argomenti che a ognuno sono accessibili e incontestabili, e alla buona volontà che esiste in tutti. Semplicemente così potremmo andare avanti bene e riformare l'umanità. Ma non è così: la ragione — anche la nostra — è oscurata, lo vediamo ogni giorno. Perché l'egoismo, la radice dell'avarizia, sta nel voler soprattutto me stesso e il mondo per me. Esiste in tutti noi. Questo è l'oscuramento della ragione: essa può essere molto dotta, con argomenti scientifici bellissimi, e tuttavia è oscurata da false premesse. Così va con grande intelligenza e con grandi passi avanti sulla strada sbagliata. Anche la volontà è, diciamo, curvata, dicono i Padri: non è semplicemente disponibile a fare il bene ma cerca soprattutto se stesso o il bene del proprio gruppo. Perciò trovare realmente la strada della ragione, della ragione vera, è già una cosa non facile e si sviluppa difficilmente in un dialogo. Senza la luce della fede, che entra nelle tenebre del peccato originale, la ragione non può andare avanti. Ma proprio la fede trova poi la resistenza della nostra volontà. Questa non vuol vedere la strada, che costituirebbe anche una strada di rinuncia a se stessi e di una correzione della propria volontà in favore dell'altro e non per se stessi.

Perciò occorre, direi, la denuncia ragionevole e ragionata degli errori, non con grandi moralismi, ma con ragioni concrete che si fanno comprensibili nel mondo dell'economia di oggi. La denuncia di questo è importante, è un mandato per la Chiesa da sempre. Sappiamo che nella nuova situazione creatasi con il mondo industriale, la dottrina sociale della Chiesa, cominciando da Leone XIII, cerca di fare queste denunce — e non solo le denunce, che non sono sufficienti — ma anche di mostrare le strade difficili dove, passo per passo, si esige l'assenso della ragione e l'assenso della volontà, insieme alla correzione della mia coscienza, alla volontà di rinunciare in un certo senso a me stesso per poter collaborare a quello che è il vero scopo della vita umana, dell'umanità.

Detto questo, la Chiesa ha sempre il compito di essere vigilante, di cercare essa stessa con le migliori forze che ha le ragioni del mondo economico, di entrare in questo ragionamento e di illuminare questo ragionamento con la fede che ci libera dall'egoismo del peccato originale. È compito della Chiesa entrare in questo discernimento, in questo ragionamento, farsi sentire, anche ai diversi livelli nazionali e internazionali, per aiutare e correggere. E questo non è un lavoro facile, perché tanti interessi personali e di gruppi nazionali si oppongono a una correzione radicale. Forse è pessimismo, ma a me sembra realismo: fino a quando c'è il peccato originale non arriveremo mai a una correzione radicale e totale. Tuttavia dobbiamo fare di tutto per correzioni almeno provvisorie, sufficienti per far vivere l'umanità e per ostacolare la dominazione dell'egoismo, che si presenta sotto pretesti di scienza e di economia nazionale e internazionale.

Questo è il primo livello. L'altro è essere realisti. E vedere che questi grandi scopi della macroscienza non si realizzano nella microscienza — la macroeconomia nella microeconomia — senza la conversione dei cuori. Se non ci sono i giusti, anche la giustizia non c'è. Dobbiamo accettare questo. Perciò l'educazione alla giustizia è uno scopo prioritario, potremmo dire anche la priorità. Perché san Paolo dice che la giustificazione è l'effetto dell'opera di Cristo, non è un concetto astratto, riguardante peccati che oggi non ci interessano, ma si riferisce proprio alla giustizia integrale. Dio solo può darcela, ma ce la dà con la nostra cooperazione su diversi livelli, in tutti i livelli possibili.

La giustizia non si può creare nel mondo solo con modelli economici buoni, che sono necessari. La giustizia si realizza solo se ci sono i giusti. E i giusti non ci sono se non c'è il lavoro umile, quotidiano, di convertire i cuori. E di creare giustizia nei cuori. Solo così si estende anche la giustizia correttiva. Perciò il lavoro dei parroco è così fondamentale non solo per la parrocchia, ma per l'umanità. Perché se non ci sono i giusti, come ho detto, la giustizia rimane astratta. E le strutture buone non si realizzano se si oppone l'egoismo anche di persone competenti.

Questo nostro lavoro, umile, quotidiano, è fondamentale per arrivare ai grandi scopi dell'umanità. E dobbiamo lavorare insieme su tutti i livelli. La Chiesa universale deve denunciare, ma anche annunciare che cosa si può fare e come si può fare. Le conferenze episcopali e i vescovi devono agire. Ma tutti dobbiamo educare alla giustizia. Mi sembra che sia ancora oggi vero e realistico il dialogo di Abramo con Dio (Genesi, 18, 22-33), quando il primo dice: davvero distruggerai la città? forse ci sono cinquanta giusti, forse dieci giusti. E dieci giusti sono sufficienti per far sopravvivere la città. Ora, se mancano dieci giusti, con tutta la dottrina economica, la società non sopravvive. Perciò dobbiamo fare il necessario per educare e garantire almeno dieci giusti, ma se possibile molti di più. Proprio con il nostro annuncio facciamo sì che ci siano tanti giusti, che sia realmente presente la giustizia nel mondo.

Come effetto, i due livelli sono inseparabili. Se, da una parte, non annunciamo la macrogiustizia quella micro non cresce. Ma, d'altra parte, se non facciamo il lavoro molto umile della microgiustizia anche quella macro non cresce. E sempre, come ho detto nella mia prima Enciclica, con tutti i sistemi che possono crescere nel mondo, oltre la giustizia che cerchiamo rimane necessaria la carità. Aprire i cuori alla giustizia e alla carità è educare alla fede, è guidare a Dio.


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(continua)

Caterina63
00venerdì 27 febbraio 2009 17:03
5) Santo Padre, sono Don Marco Valentini, vicario presso la parrocchia Sant'Ambrogio. Quando ero in formazione non mi rendevo conto, come ora, dell'importanza della liturgia. Certamente le celebrazioni non mancavano, ma non capivo molto come essa sia «il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e la fonte da cui promana tutta la sua energia» (Sacrosanctum Concilium, 10). La consideravo, piuttosto, un fatto tecnico per la buona riuscita di una celebrazione o una pratica pia e non piuttosto un contatto con il mistero che salva, un lasciarsi conformare a Cristo per essere luce del mondo, una fonte di teologia, un mezzo per realizzare la tanto auspicata integrazione tra ciò che si studia e la vita spirituale. D'altro canto pensavo che la liturgia non fosse strettamente necessaria per essere cristiani o salvi e che bastasse sforzarsi di mettere in pratica le Beatitudini. Ora mi chiedo cosa sarebbe la carità senza la liturgia e se senza di essa la nostra fede non si ridurrebbe ad una morale, un'idea, una dottrina, un fatto del passato e noi sacerdoti non sembreremmo più insegnanti o consiglieri che mistagoghi che introducano le persone nel mistero. La stessa Parola di Dio è un annuncio che si realizza nella liturgia e che con essa ha un rapporto sorprendente: Sacrosanctum Concilium 6; Praenotanda del Lezionario 4 e 10. E pensiamo anche al brano di Emmaus o del funzionario etiope (Atti, . Perciò arrivo alla domanda. Senza nulla togliere alla formazione umana, filosofica, psicologica, nelle università e nei seminari, vorrei capire se la nostra specificità non richieda una maggiore formazione liturgica, oppure se l'attuale prassi e struttura degli studi già soddisfino sufficientemente la Costituzione Sacrosanctum Concilium 16, quando dice che la liturgia va computata tra le materie necessarie e più importanti, principali, e va insegnata sotto l'aspetto teologico, storico, spirituale, pastorale e giuridico e che i professori delle altre materie abbiano cura che la connessione con la liturgia risulti chiara. Ho fatto tale domanda perché, prendendo spunto dal proemio del decreto Optatam totius, mi sembra che le molteplici azioni della Chiesa nel mondo e la nostra stessa efficacia pastorale, dipendano molto dall'autocoscienza che abbiamo dell'inesauribile mistero del nostro essere battezzati, crismati e sacerdoti.

R. Dunque, se ho capito bene, si tratta della questione: quale sia, nell'insieme del nostro lavoro pastorale, molteplice e con tante dimensioni, lo spazio e il luogo dell'educazione liturgica e della realtà del celebrare il mistero. In questo senso, mi sembra, è anche una questione sull'unità del nostro annuncio e del nostro lavoro pastorale, che ha tante dimensioni. Dobbiamo cercare che cosa è il punto unificante, affinché queste tante occupazioni che abbiamo siano tutte insieme un lavoro del pastore. Se ho capito bene, lei è del parere che il punto unificante, che crea la sintesi di tutte le dimensioni del nostro lavoro e della nostra fede, potrebbe proprio essere la celebrazione dei misteri. E, quindi, la mistagogia, che ci insegna a celebrare.

Per me è importante realmente che i sacramenti, la celebrazione eucaristica dei sacramenti, non sia una cosa un po' strana accanto a lavori più contemporanei come l'educazione morale, economica, tutte le cose che abbiamo già detto. Può accadere facilmente che il sacramento rimanga un po' isolato in un contesto più pragmatico e divenga una realtà non del tutto inserita nella totalità del nostro essere umano. Grazie per la domanda, perché realmente noi dobbiamo insegnare a essere uomo. Dobbiamo insegnare questa grande arte: come essere un uomo. Questo esige, come abbiamo visto, tante cose: dalla grande denuncia del peccato originale nelle radici della nostra economia e nei tanti rami della nostra vita, fino a concrete guide alla giustizia, fino all'annuncio ai non credenti. Ma i misteri non sono una cosa esotica nel cosmo delle realtà più pratiche. Il mistero è il cuore dal quale viene la nostra forza e al quale ritorniamo per trovare questo centro. E perciò penso che la catechesi diciamo mistagogica è realmente importante. Mistagogica vuol dire anche realistica, riferita alla vita di noi uomini di oggi. Se è vero che l'uomo in sé non ha la sua misura — che cosa è giusto e che cosa non lo è — ma trova la sua misura fuori di sé, in Dio, è importante che questo Dio non sia lontano ma sia riconoscibile, sia concreto, entri nella nostra vita e sia realmente un amico con il quale possiamo parlare e che parla con noi. Dobbiamo imparare a celebrare l'Eucaristia, imparare a conoscere Gesù Cristo, il Dio con il volto umano, da vicino, entrare realmente con Lui in contatto, imparare ad ascoltarLo e imparare a lasciarLo entrare in noi. Perché la comunione sacramentale è proprio questa interpenetrazione tra due persone. Non prendo un pezzo di pane o di carne, prendo o apro il mio cuore perché entri il Risorto nel contesto del mio essere, perché sia dentro di me e non solo fuori di me, e così parli dentro di me e trasformi il mio essere, mi dia il senso della giustizia, il dinamismo della giustizia, lo zelo per il Vangelo.

Questa celebrazione, nella quale Dio si fa non solo vicino a noi, ma entra nel tessuto della nostra esistenza, è fondamentale per poter realmente vivere con Dio e per Dio e portare la luce di Dio in questo mondo. Non entriamo adesso in troppi dettagli. Ma è sempre importante che la catechesi sacramentale sia una catechesi esistenziale. Naturalmente, pur accettando e imparando sempre più l'aspetto misterico — là dove finiscono le parole e i ragionamenti — essa è totalmente realistica, perché porta me a Dio e Dio a me. Mi porta all'altro perché l'altro riceve lo stesso Cristo, come me. Quindi se in lui e in me c'è lo stesso Cristo, anche noi due non siamo più individui separati. Qui nasce la dottrina del Corpo di Cristo, perché siamo tutti incorporati se riceviamo bene l'Eucaristia nello stesso Cristo. Quindi il prossimo è realmente prossimo: non siamo due «io» separati, ma siamo uniti nello stesso «io» di Cristo. Con altre parole, la catechesi eucaristica e sacramentale deve realmente arrivare al vivo della nostra esistenza, essere proprio educazione ad aprirmi alla voce di Dio, a lasciarmi aprire perché rompa questo peccato originale dell'egoismo e sia apertura della mia esistenza in profondità, tale che possa divenire un vero giusto. In questo senso, mi sembra che tutti dobbiamo imparare sempre meglio la liturgia, non come una cosa esotica, ma come il cuore del nostro essere cristiani, che non si apre facilmente a un uomo distante, ma è proprio, dall'altra parte, l'apertura verso l'altro, verso il mondo. Dobbiamo tutti collaborare per celebrare sempre più profondamente l'Eucaristia: non solo come rito, ma come processo esistenziale che mi tocca nella mia intimità, più che ogni altra cosa, e mi cambia, mi trasforma. E trasformando me, dà inizio anche alla trasformazione del mondo che il Signore desidera e per la quale vuol farci suoi strumenti.


6) Beatissimo Padre, sono padre Lucio Maria Zappatore, carmelitano, parroco della parrocchia di santa Maria Regina Mundi, a Torrespaccata.

Per giustificare il mio intervento, mi riallaccio a quanto lei ha detto domenica scorsa, durante la preghiera dell'Angelus, a proposito del ministero petrino. Lei ha parlato del ministero singolare e specifico del vescovo di Roma, il quale presiede alla comunione universale della carità. Io le chiedo di continuare questa riflessione allargandola alla Chiesa universale: qual è il il carisma singolare della Chiesa di Roma e quali sono le caratteristiche che fanno, per un dono misterioso della Provvidenza, unica al mondo? L'avere come vescovo il Papa della Chiesa universale, cosa comporta nella sua missione, oggi in particolare? Non vogliamo conoscere i nostri privilegi: una volta si diceva: Parochus in urbe, episcopus in orbe; ma vogliamo sapere come vivere questo carisma, questo dono di vivere come preti a Roma e cosa si aspetta lei da noi parroci romani.

Fra pochi giorni lei si recherà al Campidoglio per incontrare le autorità civili di Roma e parlerà dei problemi materiali della nostra città: oggi le chiediamo di parlare a noi dei problemi spirituali di Roma e della sua Chiesa. E, a proposito della sua visita al Campidoglio, mi sono permesso di dedicarle un sonetto in romanesco, chiedendole la compiacenza di ascoltarlo.

Er Papa che salisce al Campidojo / è un fatto che te lassa senza fiato / perchè 'sta vortas sòrte for dar sojo, / pe creanza che tiè 'n bon vicinato. / Er sindaco e la giunta con orgojo / jànno fatto 'n invito , er più accorato, / perchè Roma, se sà, vojo o nun vojo /nun po' fa' proprio a meno der papato. / Roma, tu ciài avuto drento ar petto / la forza pè portà la civirtà. / Quanno Pietro t'ha messo lo zicchetto / eterna Dio t'ha fatto addiventà. / Accoji allora er Papa Benedetto / che sale a beneditte e a ringrazià!


R. Grazie. Abbiamo sentito parlare il cuore romano, che è un cuore di poesia. È molto bello sentir parlare un po' in romanesco e sentire che la poesia è profondamente radicata nel cuore romano. Questo forse è un privilegio naturale che il Signore ha dato ai romani. È un carisma naturale che precede quelli ecclesiali.

La sua domanda, se ho capito bene, si compone di due parti. Anzitutto, cosa è la responsabilità concreta del vescovo di Roma oggi. Ma poi lei estende giustamente il privilegio petrino a tutta la Chiesa di Roma — così era considerato anche nella Chiesa antica — e chiede quali siano gli obblighi della Chiesa di Roma per rispondere a questa sua vocazione.

Non è necessario sviluppare qui la dottrina del primato, la conoscete tutti molto bene. Importante è soffermarci sul fatto che realmente il Successore di Pietro, il ministero di Pietro, garantisce l'universalità della Chiesa, questa trascendenza di nazionalismi e di altre frontiere che esistono nell'umanità di oggi, per essere realmente una Chiesa nella diversità e nella ricchezza delle tante culture.

Vediamo come anche le altre comunità ecclesiali, le altre Chiese avvertano il bisogno di un punto unificante per non cadere nel nazionalismo, nell'identificazione con una determinata cultura, per essere realmente aperti, tutti per tutti e per essere quasi costretti ad aprirsi sempre verso tutti gli altri. Mi sembra che questo sia il ministero fondamentale del Successore di Pietro: garantire questa cattolicità che implica molteplicità, diversità, ricchezza di culture, rispetto delle diversità e che, nello stesso tempo, esclude assolutizzazione e unisce tutti, li obbliga ad aprirsi, ad uscire dall'assolutizzazione del proprio per trovarsi nell'unità della famiglia di Dio che il Signore ha voluto e per la quale garantisce il Successore di Pietro, come unità nella diversità.

Naturalmente la Chiesa del Successore di Pietro deve portare, con il suo vescovo, questo peso, questa gioia del dono della sua responsabilità. Nell'apocalisse il vescovo appare infatti come angelo della sua Chiesa, cioè un po' come l'incorporazione della sua Chiesa, alla quale deve rispondere l'essere della Chiesa stessa. Quindi la Chiesa di Roma, insieme con il Successore di Pietro e come sua Chiesa particolare, deve garantire proprio questa universalità, questa apertura, questa responsabilità per la trascendenza dell'amore, questo presiedere nell'amore che esclude particolarismi. Deve anche garantire la fedeltà alla Parola del Signore, al dono della fede, che non abbiamo inventato noi ma che è realmente il dono che solo da Dio stesso poteva venire. Questo è e sarà sempre il dovere, ma anche il privilegio, della Chiesa di Roma, contro le mode, contro i particolarismi, contro l'assolutizzazione di alcuni aspetti, contro eresie che sono sempre assolutizzazioni di un aspetto. Anche il dovere di garantire l'universalità e la fedeltà all'integralità, alla ricchezza della sua fede, del suo cammino nella storia che si apre sempre al futuro. E insieme con questa testimonianza della fede e dell'universalità, naturalmente deve dare l'esempio della carità.

Così ci dice sant'Ignazio, identificando in questa parola un po' enigmatica, il sacramento dell'Eucaristia, l'azione dell'amare gli altri. E questo, per tornare al punto precedente, è molto importante: cioè questa identificazione con l'Eucaristia che è agape, è carità, è la presenza della carità che si è donata in Cristo. Deve sempre essere carità, segno e causa di carità nell'aprirsi verso gli altri, di questo donarsi agli altri, di questa responsabilità verso i bisognosi, verso i poveri, verso i dimenticati. Questa è una grande responsabilità.

Al presiedere nell'Eucaristia segue il presiedere nella carità, che può essere testimoniata solo dalla comunità stessa. Questo mi sembra il grande compito, la grande domanda per la Chiesa di Roma: essere realmente esempio e punto di partenza della carità. In questo senso è presidio della carità.

Nel presbiterio di Roma siamo di tutti i continenti, di tutte le razze, di tutte le filosofie e di tutte le culture. Sono lieto che proprio il presbiterio di Roma esprima l'universalità, nell'unità della piccola Chiesa locale la presenza della Chiesa universale. Più difficile ed esigente è essere anche e realmente portatori della testimonianza, della carità, dello stare tra gli altri con il nostro Signore. Possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti nelle singole parrocchie, nelle singole comunità, e che tutti insieme possiamo essere realmente fedeli a questo dono, a questo mandato: presiedere la carità.


(continua)
Caterina63
00venerdì 27 febbraio 2009 17:04
7) Santo Padre, sono padre Guillermo M. Cassone, della comunità dei padri di Schoenstatt a Roma, vicario parrocchiale nella parrocchia dei santi Patroni d'Italia, San Francesco e Santa Caterina, in Trastevere.

Dopo il Sinodo sulla Parola di Dio, riflettendo sulla Proposizione 55, «Maria Mater Dei et Mater fidei», mi sono chiesto come migliorare il rapporto fra la Parola di Dio e la pietà mariana, sia nella vita spirituale sacerdotale e sia nell'azione pastorale. Due immagini mi aiutano: l'annunciazione per l'ascolto, e la visitazione per l'annuncio. Vorrei chiederle, Santità, di illuminarci con il suo insegnamento su questo tema. La ringrazio per questo dono.

R. Mi sembra che lei ci abbia dato anche la risposta alla sua domanda. Realmente Maria è la donna dell'ascolto: lo vediamo nell'incontro con l'Angelo e lo rivediamo in tutte le scene della sua vita, dalle nozze di Cana, fino alla croce e fino al giorno di Pentecoste, quando è in mezzo agli apostoli proprio per accogliere lo Spirito. È il simbolo dell'apertura, della Chiesa che attende la venuta dello Spirito Santo.

Nel momento dell'annuncio possiamo cogliere già l'atteggiamento dell'ascolto — un ascolto vero, un ascolto da interiorizzare, che non dice semplicemente sì, ma assimila la Parola, prende la Parola — e poi far seguire la vera obbedienza, come se fosse una Parola interiorizzata, cioè divenuta Parola in me e per me, quasi forma della mia vita. Questo mi sembra molto bello: vedere questo ascolto attivo, un ascolto cioè che attira la Parola in modo che entri e diventi in me Parola, riflettendola e accettandola fino all'intimo del cuore. Così la Parola diventa incarnazione.

Lo stesso vediamo nel Magnificat. Sappiamo che è un tessuto fatto di parole dell'Antico Testamento. Vediamo che Maria realmente è una donna di ascolto, che conosceva nel cuore la Scrittura. Non conosceva solo alcuni testi, ma era così identificata con la Parola che le parole dell'Antico Testamento diventano, sintetizzate, un canto nel suo cuore e nelle sua labbra. Vediamo che realmente la sua vita era penetrata della Parola; era entrata nella Parola, l'aveva assimilata ed era divenuta vita in sé, trasformandosi poi di nuovo in Parola di lode e di annuncio della grandezza di Dio.

Mi sembra che san Luca, riferendosi a Maria, dica almeno tre volte, forse quattro volte, che ha assimilato e conservato nel suo cuore le Parole. Era, per i Padri, il modello della Chiesa, il modello del credente che conserva la Parola, porta in sé la Parola; non solo la legge, la interpreta con l'intelletto per sapere cosa è stata in quel tempo, quali sono i problemi filologici. Tutto questo è interessante, importante, ma è più importante sentire la Parola che va conservata e che diventa Parola in me, vita in me e presenza del Signore. Perciò mi sembra importante il nesso tra mariologia e teologia della Parola, del quale anche hanno parlato i Padri sinodali e del quale parleremo nel documento post-sinodale.

È ovvio: Madonna è parola dell'ascolto, parola silenziosa, ma anche parola della lode, dell'annuncio, perché la Parola nell'ascolto diventa di nuovo carne e diventa così presenza della grandezza di Dio.



8 ) Santo Padre, sono Pietro Riggi e sono un salesiano che opera al Borgo ragazzi Don Bosco, le volevo chiedere: il Concilio Vaticano ii ha portato tante importatissime novità nella Chiesa, ma non ha abolito le cose che già vi erano. Mi sembra che diversi sacerdoti o teologi vorrebbero far passare come spirito del Concilio ciò che invece non c'entra con il Concilio stesso. Ad esempio le indulgenze. Esiste il Manuale delle indulgenze della Penitenzieria apostolica, attraverso le indulgenze si attinge al tesoro della Chiesa e si possono suffragare le anime del Purgatorio. Esiste un calendario liturgico in cui si dice quando e come si possono lucrare le indulgenze plenarie, ma tanti sacerdoti non ne parlano più, impedendo di fare arrivare suffragi importantissimi alle anime del Purgatorio. Le benedizioni. Vi è il Manuale delle benedizioni in cui si prevede la benedizione di persone, ambienti, oggetti e prefino di alimenti. Ma molti sacerdoti sconoscono queste cose, altri le ritengono preconciliari, così mandano via quei fedeli che chiedono quello che per diritto dovrebbero avere.

Le pratiche di pietà più conosciute. I primi venerdì del mese non sono stati aboliti dal Concilio Vaticano II, ma tanti sacerdoti non ne parlano più, oppure, addirittura, ne parlano male. Oggi vi è un senso di avversione a tutto questo, perché le vedono antiche e dannose, come cose vecchie e preconciliari, mentre ritengo che tutte queste preghiere e pratiche cristiane sono attualissime e molto importanti, che vanno riprese e spiegate adeguatamente al Popolo di Dio, nel sano equilibrio e nella verità a completezza del Vaticano II.

Volevo anche chiederle: una volta lei parlando di Fatima ha detto che vi è un legame tra Fatima e Akita, le lacrimazioni della Madonna in Giappone. Sia Paolo vi che Giovanni Paolo II hanno celebrato a Fatima una messa solenne ed hanno utilizzato lo stesso brano della sacra Scrittura, Apocalisse 12, la donna vestita di sole che lotta una battaglia decisiva contro il serpente antico, il diavolo, satana. C'è affinità tra Fatima e Apocalisse 12?

Concludo: l'anno scorso un sacerdote le ha regalato un quadro, io non so dipingere ma volevo anch'io farle un regalo, così ho pensato di farle dono di tre libri che ho scritto di recente, spero che le piacciano.


R. Sono realtà delle quali il Concilio non ha parlato, ma che suppone come realtà nella Chiesa. Esse vivono nella Chiesa e si sviluppano. Adesso non è il momento per entrare nel grande tema delle indulgenze. Paolo vi ha riordinato questo tema e ci indica il filo per capirlo. Direi che si tratta semplicemente di uno scambio di doni, cioè quanto nella Chiesa esiste di bene, esiste per tutti. Con questa chiave dell'indulgenza possiamo entrare in questa comunione dei beni della Chiesa. I protestanti si oppongono affermando che l'unico tesoro è Cristo. Ma per me la cosa meravigliosa è che Cristo — il quale realmente è più che sufficiente nel suo amore infinito, nella sua divinità e umanità — voleva aggiungere, a quanto ha fatto lui, anche la nostra povertà. Non ci considera solo come oggetti della sua misericordia, ma ci fa soggetti della misericordia e dell'amore insieme con Lui, quasi che — anche se non quantitativamente, almeno in senso misterico — ci volesse aggiungere al grande tesoro del corpo di Cristo. Voleva essere il Capo con il corpo. E voleva che con il corpo fosse completato il mistero della sua redenzione. Gesù voleva avere la Chiesa come suo corpo, nel quale si realizza tutta la ricchezza di quanto ha fatto. Da questo mistero risulta proprio che esiste un tesaurus ecclesiae, che il corpo, come il capo, dona tanto e noi possiamo avere l'uno dall'altro e possiamo donare l'uno all'altro.

E così vale anche per le altre cose. Per esempio, i venerdì del sacro Cuore: è una cosa molto bella nella Chiesa. Non sono cose necessarie, ma cresciute nella ricchezza della meditazione del mistero. Così il Signore ci offre nella Chiesa queste possibilità. Non mi sembra adesso il momento di entrare in tutti i dettagli. Ognuno può più o meno capire cosa è meno importante di un'altra; ma nessuno dovrebbe disprezzare questa ricchezza, cresciuta nei secoli come offerta e come moltiplicazione delle luci nella Chiesa. Unica è la luce di Cristo. Appare in tutti i suoi colori e offre la conoscenza della ricchezza del suo dono, l'interazione tra capo e corpo, l'interazione tra le membra, così che possiamo essere veramente insieme un organismo vivente, nel quale ognuno dona a tutti, e tutti donano il Signore, il quale ci ha donato tutto se stesso.


- FINE -

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Caterina63
00giovedì 23 luglio 2009 12:47
A colloquio con il vicario di Aosta sull'incontro della comunità diocesana con il Papa

Evento di grazia
in un cammino di rinnovamento


di Mario Ponzi

C'è molta attesa, nella comunità ecclesiale di Aosta, per l'incontro con il Papa venerdì prossimo, 24 luglio, in cattedrale. Attesa da parte di un clero che soffre per la mancanza di prospettive immediate di ringiovanimento - sofferenze alimentate dal recentissimo abbandono di alcuni giovani sacerdoti diocesani - e attesa da parte di un laicato pronto a venire incontro alle necessità della Chiesa e che anzi reclama maggiori spazi. Ne abbiamo parlato con don Franco Lovignana, vicario del vescovo di Aosta e responsabile della pastorale sacerdotale. 

L'incontro del clero aostano con il Papa avviene a circa un mese dall'inizio dell'Anno sacerdotale. Può essere colto, questo evento, come un'occasione per riflettere sul senso del sacerdozio vissuto nel contesto della vostra diocesi?

L'incontro è atteso con gioia da tutti noi, anche per il ricordo - sempre vivo nel cuore - del momento bellissimo vissuto in occasione delle sue prime vacanze in Valle d'Aosta nel 2005. Assume poi il senso di una grazia particolare perché si colloca come primizia di questo Anno sacerdotale indetto dal Papa e che in diocesi abbiamo iniziato con la celebrazione del cinquantesimo di ordinazione sacerdotale del vescovo Giuseppe Anfossi lo scorso 28 giugno.
La presenza del Papa, il suo pregare con noi e le parole che ci rivolgerà durante i vespri di venerdì, si inseriscono in una riflessione avviata da qualche mese nel nostro consiglio presbiterale e che, a partire da ottobre, si allargherà alla partecipazione di tutto il presbiterio diocesano sulla figura e sulla missione del parroco oggi nella diocesi. La lettera di indizione dell'Anno sacerdotale, che Benedetto XVI ci ha donato, rappresenterà un punto di riferimento per questo delicato discernimento comunitario. Vorrei però sottolineare che in cattedrale, assieme ai sacerdoti e ai diaconi, il Papa ha voluto che fossero presenti anche religiosi e religiose e i laici, rappresentanti dei consigli pastorali parrocchiali, delle aggregazioni e di altre istanze. Leggiamo questo come un invito "a evidenziare gli spazi di collaborazione che è doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano l'unico popolo sacerdotale" come lo stesso Pontefice scrive nella lettera.
Tale collaborazione risponde alla natura della Chiesa e della chiamata battesimale che tutti unisce e responsabilizza in ordine alla missione, ma risponde anche all'urgenza dei tempi. La complessità della situazione sociale e culturale, la difficoltà di trovare riferimenti etici condivisi, una rinnovata richiesta di spiritualità, sommati alla diminuzione del clero chiedono un maggior coinvolgimento del laicato. Nella nostra diocesi molto lavoro resta da fare al riguardo, ma alcune esperienze lasciano ben sperare:  la presenza di molti catechisti laici che assicurano con il parroco il servizio capillare dell'iniziazione cristiana di bambini e ragazzi; la collaborazione di animatori ed educatori, anche alcune famiglie, che operano nella pastorale giovanile; il servizio di operatori laici che svolgono anche un servizio di animazione nelle comunità che non hanno più un parroco residente. È un piccolo seme che domanda attenzione e cura. La diocesi conta negli anni venturi di potenziare la formazione teologica e spirituale di tutti gli operatori pastorali laici per qualificare meglio il loro ministero.

Il modello sacerdotale tradizionale è ancora rispondente alle nuove esigenze della società che è chiamato a servire?

Se per modello tradizionale si intende quello del prete che sta in mezzo alla sua gente con il cuore del Pastore, profondamente unito a Gesù nella preghiera e nel sacrificio eucaristico e totalmente donato alle persone affidategli (siano esse vicine o lontane), allora credo proprio di sì. Mi pare che sia anche questo il messaggio che vuole trasmettere il Papa riproponendo l'esemplarità del santo curato d'Ars. È vero che il mondo è molto cambiato, ma il cuore della missione evangelica resta sempre lo stesso:  portare l'annunzio e il segno efficace dell'amore salvifico di Dio per tutti gli uomini. Mi ha molto colpito che il Papa rilevi una certa somiglianza tra la situazione di oggi e quella della Francia postrivoluzionaria. Anche se ci sono particolari legati alla persona e alle contingenze storiche che non possono rivivere in noi, l'esempio di Jean-Marie Vianney è attualissimo:  un pastore che affronta una società scristianizzata, inviato a una comunità quanto meno tiepida e l'affronta con una dedizione totale, una grande fede, tanto amore e soprattutto con una consapevolezza altissima del dono e del compito che Dio gli aveva affidato. Non sempre questa consapevolezza riempie il cuore e la vita di noi sacerdoti del terzo millennio. L'esempio del curato d'Ars ci chiede conversione, ci chiede di contare di più su Dio che su di noi e sulle nostre forze umane o mondane!

Qual è lo stato del clero valligiano in generale e aostano in particolare?

La diocesi di Aosta conta 93 parrocchie sparse su un territorio montuoso e assai vasto - più di tremila chilometri quadrati - con una popolazione di circa 130.00 abitanti. La diocesi però accoglie, sia in estate che in inverno, decine di migliaia di turisti e di villeggianti che a volte moltiplicano a dismisura la popolazione delle parrocchie e domandano attenzione e cura pastorale. La diocesi e i parroci in prima persona vivono questa come una bella vocazione che si aggiunge e alla quale cercare di rispondere, consapevoli come siamo che chi viene in montagna spesso non cerca solo divertimento e attività o riposo per il corpo, ma anche nutrimento spirituale, tempo per ritemprare l'anima. Mi pare che le nostre comunità siano molto accoglienti verso quanti soggiornano fra noi, in modo particolare nelle messe domenicali.
Al servizio di questo popolo vi sono 88 sacerdoti secolari - due appartenenti al clero di altre diocesi - e 24 religiosi. Di questi preti soltanto 83 sono impegnati direttamente nella pastorale in diocesi; alcuni sono a riposo a motivo dell'età e della salute, altri sono impegnati nelle opere delle loro famiglie religiose, altri sono fuori per servizi pastorali in altre realtà ecclesiali. L'età media dei parroci è di 61 anni. Ai sacerdoti si aggiungono 17 diaconi permanenti; diversi svolgono il ministero in collaborazione con i parroci. Non vorrei dimenticare la presenza tanto importante delle comunità femminili, compresi due monasteri di clausura. Le religiose rappresentano, con la loro vita e con i loro servizi pastorali e caritativi, un punto di riferimento per molti fedeli e un sostegno non piccolo per il ministero dei sacerdoti.
In questi ultimi quindici anni le linee pastorali offerte dal vescovo alla diocesi hanno cercato di far crescere l'impegno per la valorizzazione della domenica, per la pastorale giovanile, per la pastorale familiare, con un percorso di preparazione dei fidanzati al matrimonio e l'attenzione alle giovani coppie di sposi e alle famiglie in difficoltà - sta nascendo uno spazio di ascolto - e per l'iniziazione cristiana di bambini e ragazzi. L'anno pastorale che sta per iniziare si svolgerà, per una felice coincidenza, sulla scia dell'enciclica del Papa:  sarà infatti incentrato sul tema "Una comunità che pratica la carità". L'attenzione sarà focalizzata sui sacerdoti, sulla loro vita e sulla loro missione in mezzo alla comunità e sul sofferto tema delle vocazioni.

Quale attenzione viene dedicata in diocesi alla formazione del clero?

Essa è oggi, per la nostra diocesi come per tutta la Chiesa, un passaggio tanto fondamentale quanto difficile e delicato, per l'esiguità dei numeri ma anche per altre ragioni. Riteniamo che la vita comune e la presenza attenta dei formatori sia indispensabile per accompagnare i giovani aspiranti al sacerdozio, ma anche per cogliere in tempo segni di disagio o di problemi che potrebbero poi col tempo degenerare in situazioni dolorose per la Chiesa. In seminario abbiamo due soli giovani, giunti al terzo anno di formazione. Frequentano la facoltà teologica di Torino e durante la settimana condividono la vita comunitaria con i seminaristi di Ivrea. Rientrano ad Aosta il venerdì sera. Durante il fine settimana svolgono un servizio pastorale in due parrocchie. In questo momento c'è anche un adulto che ha iniziato un cammino di discernimento.

Pochi seminaristi e qualche abbandono recente. Sono dati che preoccupano.

Sì. La diocesi ha vissuto alcuni abbandoni dolorosi da parte di sacerdoti giovani, è vero, e le vocazioni attendono una nuova fioritura. Tuttavia si nota una certa reazione, al di là dello sconcerto immediato e della sofferenza che in molti perdura. È il segnale di una fede matura e consapevole, che continua a orientare verso la preghiera e che ci spinge a contare sulla certezza che Dio non abbandona la sua Chiesa, malgrado le debolezze degli uomini.


(©L'Osservatore Romano - 23 luglio 2009)
Caterina63
00sabato 25 luglio 2009 16:36

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Santo Padre Benedetto XVI ha pronunciato ieri pomeriggio, nella Cattedrale di Aosta, nel corso della Celebrazione dei Vespri:

  • OMELIA DEL SANTO PADRE

  • Eccellenza,

    cari fratelli e sorelle.

  • Vorrei innanzitutto dire «grazie» a lei, Eccellenza, per le sue buone parole, con le quali mi ha introdotto nella grande storia di questa Chiesa Cattedrale e così mi ha fatto sentire che preghiamo qui, non solo in questo momento, ma possiamo pregare con i secoli in questa bella chiesa.

    E grazie a tutti voi che siete venuti per pregare con me e per rendere visibile così questa rete di preghiera che ci collega tutti e sempre.

  • In questa breve omelia vorrei dire qualche parola sull'orazione, con la quale si concludono questi Vespri, perché mi sembra che in questa orazione, il brano della Lettera ai Romani ora letto sia interpretato e trasformato in preghiera.

    L'orazione si compone di due parti: un indirizzo — un'intestazione, per così dire — e poi la preghiera composta da due domande.

  • Cominciamo con l'indirizzo che ha, anche da parte sua, due parti: va qui un po' concretizzato il «tu» al quale parliamo, per poter bussare con maggior forza al cuore di Dio.

    Nel testo italiano, leggiamo semplicemente: «Padre misericordioso». Il testo originale latino è un po' più ampio; dice «Dio onnipotente, misericordioso». Nella mia recente Enciclica, ho tentato di mostrare la priorità di Dio sia nella vita personale, sia nella vita della storia, della società, del mondo.

  • Certamente la relazione con Dio è una cosa profondamente personale e la persona è un essere in relazione, e se la relazione fondamentale — la relazione con Dio — non è viva, non è vissuta, anche tutte le altre relazioni non possono trovare la loro forma giusta. Ma questo vale anche per la società, per l'umanità come tale. Anche qui, se Dio manca, se si prescinde da Dio, se Dio è assente, manca la bussola per mostrare l'insieme di tutte le relazioni per trovare la strada, l'orientamento dove andare.

  • Dio! Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente. Ma Dio, come conoscerlo? Nelle visite «ad limina» parlo sempre con i Vescovi, soprattutto africani, ma anche quelli dell'Asia, dell'America Latina, dove ci sono ancora le religioni tradizionali, proprio di queste religioni. Ci sono molti dettagli, abbastanza diversi naturalmente, ma ci sono anche elementi comuni. Tutti sanno che c'è Dio, un solo Dio, che Dio è una parola al singolare, che gli dei non sono Dio, che c'è Dio, il Dio.

  • Ma nello stesso tempo questo Dio sembra assente, molto lontano, non sembra entrare nella nostra vita quotidiana, si nasconde, non conosciamo il suo volto. E così la religione in gran parte si occupa delle cose, dei poteri più vicini, gli spiriti, gli antenati ecc., poiché Dio stesso è troppo lontano e così ci si deve arrangiare con questi poteri vicini. E l'atto della evangelizzazione consiste proprio nel fatto che il Dio lontano si avvicina, che il Dio non è più lontano, ma è vicino, che questo «conosciuto-sconosciuto» adesso si fa conoscere realmente, mostra il suo volto, si rivela: il velo sul volto scompare, e mostra realmente il suo volto. E perciò, poiché Dio stesso adesso è vicino, lo conosciamo, ci mostra il suo volto, entra nel nostro mondo. Non c'è più bisogno di arrangiarsi con questi altri poteri, perché Lui è il potere vero, è l'Onnipotente.

    Non so perché abbiano omesso nel testo italiano la parola «onnipotente», ma vero è che ci sentiamo un po' quasi minacciati dall'onnipotenza: sembra limitare la nostra libertà, sembra un peso troppo forte. Ma dobbiamo imparare che l'onnipotenza di Dio non è un potere arbitrario, perché Dio è il Bene, è la Verità, e perciò Dio può tutto, ma non può agire contro il bene, non può agire contro la verità, non può agire contro l'amore e contro la libertà, perché Egli stesso è il bene, è l'amore, e la vera libertà.

  • E perciò tutto quanto egli fa non può mai essere in contrasto con verità, amore e libertà. E' vero il contrario. Egli, Dio, è il custode della nostra libertà, dell'amore della verità. Questo occhio che ci vede non è un occhio cattivo che ci sorveglia, ma è la presenza di un amore che non ci abbandona mai e ci dona la certezza che il bene è essere, il bene è vivere: è l'occhio dell'amore che ci dà l'aria per vivere.

  • Dio onnipotente e misericordioso. Un'orazione romana, collegata con il testo del libro della Sapienza, dice: «Tu, Dio, mostri la tua onnipotenza nel perdono e nella misericordia». Il vertice della potenza di Dio è la misericordia, è il perdono. Nel nostro odierno concetto mondiale di potere, pensiamo a uno che ha grandi proprietà, che in economia ha qualcosa da dire, dispone di capitali, per influire nel mondo del mercato. Pensiamo a uno che dispone del potere militare, che può minacciare. La domanda di Stalin: «Quante divisioni ha il Papa?» ancora caratterizza l'idea media del potere. Ha potere chi può essere pericoloso, chi può minacciare, chi può distruggere, chi ha in mano tante cose del mondo. Ma la Rivelazione ci dice: «Non è così»; il vero potere è il potere di grazia, e di misericordia. Nella misericordia, Dio dimostra il vero potere.

    E così la seconda parte di questo indirizzo dice: «Hai redento il mondo, con la passione, con il soffrire del tuo Figlio». Dio ha sofferto e nel Figlio soffre con noi. E questo è l'estremo apice del suo potere che è capace di soffrire con noi. Così dimostra il vero potere divino: voleva soffrire con noi, e per noi. Nelle nostre sofferenze non siamo mai lasciati soli. Dio, nel suo Figlio, prima ha sofferto ed è vicino a noi nelle nostre sofferenze.

  • Tuttavia rimane la questione difficile che adesso non posso interpretare ampiamente: perché era necessario soffrire per salvare il mondo? Era necessario perché nel mondo esiste un oceano di male, di ingiustizia, di odio, di violenza, e le tante vittime dell'odio e dell'ingiustizia hanno il diritto che sia fatta giustizia . Dio non può ignorare questo grido dei sofferenti che sono oppressi dall'ingiustizia. Perdonare non è ignorare, ma trasformare, cioè Dio deve entrare in questo mondo e opporre all'oceano dell'ingiustizia un oceano più grande del bene e dell'amore. E questo è l'avvenimento della Croce: da quel momento, contro l'oceano del male, esiste un fiume infinito e perciò sempre più grande di tutte le ingiustizie del mondo, un fiume di bontà, di verità, di amore. Così Dio perdona trasformando il mondo ed entrando nel nostro mondo perché ci sia realmente una forza, un fiume di bene più grande di tutto il male che può mai esistere.

  • Così l'indirizzo a Dio diventa un indirizzo a noi: cioè questo Dio ci invita a metterci dalla sua parte, ad uscire dall'oceano del male, dell'odio, della violenza, dell'egoismo e di identificarci, di entrare nel fiume del suo amore.

    Proprio questo è il contenuto della prima parte della preghiera che segue: «Fa' che la tua Chiesa si offra a te come sacrificio vivo e santo». Questa domanda, diretta a Dio, va anche a noi stessi . E' un accenno a due testi della Lettera ai Romani. Noi stessi, con tutto il nostro essere, dobbiamo essere adorazione, sacrificio, restituire il nostro mondo a Dio e trasformare così il mondo. La funzione del sacerdozio è consacrare il mondo perché diventi ostia vivente, perché il mondo diventi liturgia: che la liturgia non sia una cosa accanto alla realtà del mondo, ma che il mondo stesso diventi ostia vivente, diventi liturgia.

  • E' la grande visione che poi ha avuto anche Teilhard de Chardin: alla fine avremo una vera liturgia cosmica, dove il cosmo diventi ostia vivente. E preghiamo il Signore perché ci aiuti a essere sacerdoti in questo senso, per aiutare nella trasformazione del mondo, in adorazione di Dio, cominciando con noi stessi. Che la nostra vita parli di Dio, che la nostra vita sia realmente liturgia, annuncio di Dio, porta nella quale il Dio lontano diventa il Dio vicino, e realmente dono di noi stessi a Dio.

  • Poi la seconda domanda. Preghiamo «Fa' che il tuo popolo sperimenti sempre la pienezza del tuo amore». Nel testo latino va detto «Saziaci con il tuo amore». Così il testo accenna al salmo che abbiamo cantato, dove si dice: «Apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente. Quanta fame esiste nella terra, fame di pane in tante parti del mondo: Sua Eccellenza ha parlato anche delle sofferenze delle famiglie qui: fame di giustizia, fame di amore. E con questa preghiera, preghiamo Dio: «Apri la tua mano e sazi realmente la fame di ogni vivente. Sazi la fame nostra della verità, del tuo amore».

    Così sia. Amen.



  •                                                       Papa

                                       vespri


                                       benedict XVI

                                   amore

                              b16

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