Benedetto XVI spiega le Cattedrali europee nel Medioevo cristiano

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Caterina63
00mercoledì 18 novembre 2009 16:45

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa ha incentrato la sua meditazione sulle Cattedrali europee nel Medioevo cristiano.

Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.

Al termine dell’Udienza Generale, il Papa ha pronunciato un appello alla Comunità internazionale in occasione della Giornata Mondiale di Preghiera e di Azione per i Bambini.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.



CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA



Cari fratelli e sorelle!

Nelle catechesi delle scorse settimane ho presentato alcuni aspetti della teologia medievale. Ma la fede cristiana, profondamente radicata negli uomini e nelle donne di quei secoli, non diede origine soltanto a capolavori della letteratura teologica, del pensiero e della fede. Essa ispirò anche una delle creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano.


Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico straordinario. Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo: "Accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione. Era come una gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese. Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli" (Rodolfo il Glabro, Historiarum 3,4).


Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa. Anzitutto, condizioni storiche più favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza. Inoltre, gli architetti individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici, assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità.

Fu però principalmente grazie all’ardore e allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi. Nacquero così le chiese e le cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali.

Una novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture. Essendo le chiese romaniche il luogo della preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono soprattutto la finalità educativa. Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse. Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo è la Porta che conduce al Cielo. I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria. Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.


Nel secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo slancio verticale e la luminosità. Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore. Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu possibile innalzarne notevolmente l’altezza. Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera. La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche, l’anelito delle anime verso Dio. Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome. In altre parole, le finestre diventavano grandi immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede. In esse - scena per scena – venivano narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici. Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia.


Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede. La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una "Bibbia di pietra", rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore. In quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente (Christus patiens) divenne un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati. Né mancavano i personaggi dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza.

Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna, sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa. I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio. E non mancarono le manifestazioni "laiche" dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti.

Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia. Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: "Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro. Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta".


Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per noi. Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati. Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che "i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia".
Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile. Vorrei condividere questo nell’incontro con gli artisti del 21 novembre, rinnovando ad essi quella proposta di amicizia tra la spiritualità cristiana e l’arte, auspicata dai miei venerati Predecessori, in particolare dai Servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino: "Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell'acqua, che camminano sulla terra, che volano nell'aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?" (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134).


Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio.


[01703-01.01] [Testo originale: Italiano]



                                              Pope Benedict XVI (C) delivers his weekly general audience on November 18, 2009  in Paul VI Hall at The Vatican.

Caterina63
00mercoledì 18 novembre 2009 20:37
L'abbazia di Saint-Denis manifesto dell'architettura gotica

Sugero e la luce mirabile


di Paolo Portoghesi

architetturaIl dilemma se l'architettura sacra debba essere umile e spoglia o debba rispecchiare la ricchezza e lo splendore della creazione, attraversa tutta la storia della Chiesa cattolica ed è ancora oggetto di animate discussioni. Due grandi personalità del medioevo rappresentano al più alto livello questo conflitto ideale:  san Bernardo da Chiaravalle e l'abate Sugero, il primo, più giovane del secondo di nove anni, sostenitore del rigorismo che aveva ispirato l'architettura cistercense, il secondo considerato il realizzatore di un edificio, la chiesa abbaziale di Saint-Denis, nei pressi di Parigi, che si può definire il manifesto della architettura gotica.
Di umili origini, Sugero, che il padre Elinando volle donare come oblato al convento di Saint-Denis, svolse nella sua vita una quantità di ruoli diversi:  l'abate, il consigliere di due re, il mediatore tra la monarchia e la Chiesa di Roma, il reggente del regno di Francia durante la seconda crociata, l'amministratore, il riformatore della vita monastica, raggiungendo in tutti - in contrasto con la piccolezza del suo corpo - una eccezionale statura.

Il ruolo tuttavia al quale deve maggiormente la sua fama è quella del committente, costruttore e cronista della sua opera, perché l'ampliamento da lui voluto della chiesa di Saint-Denis non è solo un capolavoro ma una delle opere di architettura di cui è meglio nota la genesi ideale in virtù degli scritti che Sugero stesso ci ha lasciato e in modo particolare dello Scriptum consecrationis ecclesiae sancti Dionysii di cui si conserva una copia manoscritta nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Codice Reg. Lat. 571. Le citazioni dalle opere di Sugero sono tratte dai due volumi delle edizioni Les Belles Lettres, Paris 2001).

In una famosa lettera a Sugero, san Bernardo parla della abbazia di San Denis come di una "fucina di Vulcano" e di una "sinagoga di Satana", stigmatizzando la "pompa e il fasto... un po' troppo insolenti" che lo stesso Sugero, nominato abate nel 1122, aveva avallato nei primi tempi della sua gestione, prima della radicale riforma varata nel 1127.
Se i rapporti umani tra i due religiosi dopo la riforma divennero persino affettuosi, non si avvicinarono però le loro idee sulla architettura monastica che possono collegarsi con il diversissimo rapporto che ciascuno di essi aveva verso la natura.

Una celebre affermazione di san Bernardo riguarda i boschi "nei quali si può trovare più che nei libri" ma in realtà i cronisti contemporanei lo descrivono, come scrive Panofsky, "semplicemente cieco di fronte al mondo visibile e alla sua bellezza" e narrano di una cavalcata di un giorno intero intorno al lago di Ginevra fatta senza che il suo sguardo si rivolgesse verso il paesaggio. Sugero al contrario rivela nei suoi scritti una grande ammirazione per la bellezza del creato, le sue luci e i suoi colori.
Questa sensibilità naturale aveva trovato uno straordinario supporto negli scritti di Dionigi l'Areopagita che egli ancora identificava con il Dionigi amico di san Paolo e nello stesso tempo con il primo vescovo di Parigi, apostolo del cristianesimo in Francia, che aveva dato il suo nome all'abbazia in cui era custodito il suo corpo.

Negli scritti di Dionigi e nelle opere di Scoto Eriugena, suo traduttore e divulgatore, Sugero aveva trovato l'antidoto al rigorismo ascetico di san Bernardo e la giustificazione per la sua naturale inclinazione a vedere nelle bellezze del creato e delle materie preziose lo specchio della bellezza divina.
"Ogni creatura - si legge nel commento di Scoto Eriugena alla Gerarchia Celeste - visibile o invisibile, è una luce portata all'essere dal Padre delle luci. Questa pietra (...) è una luce per me poiché io percepisco che esiste secondo le sue proprie regole, che cerca il suo luogo conforme alla sua specifica gravità. Allorché in questa pietra percepisco tali e simili cose esse diventano luci per me, in altre parole mi illuminano. Poiché io comincio a pensare donde la pietra sia investita da tali proprietà (...) e tosto, sotto la guida della ragione sono condotto, attraverso tutte le cose a quella causa di tutto che attribuisce alle cose luogo ed ordine, numero, specie e genere, bontà e bellezza, ed essenza", universalis huius mundi fabbrica maximum lumen fit, ex multis partibus veluti ex lucernis compactum, dalle mille piccole luci che brillano nel mondo sensibile si deduce il fulgore compatto della luce divina, dal mondo materiale si ascende a quello immateriale delle gerarchie celesti.

Nel testo greco dello PseudoDionigi, conservato nell'abbazia, Sugero poteva leggere che la nostra natura è "incapace di salire immediatamente verso le contemplazioni spirituali e necessita dei graduali passaggi verso l'alto a lei consoni e naturali" e che "avendo anche la materia ricevuto l'esistenza da chi è veramente bello, possiede secondo tutta la sua disposizione alcune tracce della bellezza spirituale; ed è possibile risalire da queste verso gli archetipi immateriali" (Gerarchia Celeste, i, 3 e 4) 

Questa visione, tributaria del neo-platonismo enunciata dallo pseudo Dionigi nel V secolo, è ripresa da Ugo di San Vittore, contemporaneo e amico di Sugero che con intensità poetica celebra la luce e il colore. arte sacra

"Cosa c'è di più bello della luce - si chiede - che pur non avendo in sé colore, nondimeno illuminandole colora le cose di tutti i loro colori? (...) Ecco la terra ornata di fiori, che spettacolo gioioso ci mostra, come diletta la vista, come provoca amore? Vediamo le rosseggianti rose, i candidi gigli, le purpuree viole, delle quali è mirabile  non solo la bellezza ma l'origine stessa (...) E bello sopra ogni cosa per ultimo il verde, in che modo  rapisce  l'animo  del  contemplante,  quando  a  primavera le gemme producono nuova vita ed  erette  in  alto  con  le  loro spighe erompono nella luce, quasi innestate sopra quelle morte come immagini di futura resurrezione".
Per Ugo la teologia mondana che si serve della natura per accedere alle realtà spirituali deve integrarsi con la teologia più propriamente divina che utilizza il simulacro del verbo e, anche in questo Sugero si dimostra in sintonia per i continui riferimenti alla Sacra Scrittura di cui tutto il suo racconto è intessuto.

L'originalità di Sugero consiste nell'aver tradotto queste riflessioni filosofiche e teologiche in un programma di azione per estendere e rinnovare la chiesa abbaziale, considerata dalla monarchia francese come chiesa madre in quanto ospite delle sepolture reali.
A essa riuscì in pochi anni ad aggiunge il nartece-facciata e un magnifico coro con due deambulatori. Spazio e luce erano i suoi obiettivi primari:  lo spazio per evitare gli assembramenti nei giorni di festa, la luce per guidare la mente dei riguardanti dall'umano al divino.
"La potenza prodigiosa - così inizia lo Scriptum Consecrationis - di una ragione unica, singolare e suprema, egualizza armonizzandola la disparità tra il divino e l'umano e le cose che sembrano tra loro in contraddizione per l'inferiorità dell'origine e l'opposizione delle loro singole nature, essa sola le unisce per il felice accordo di una armonia misurata unica e suprema".

Che Sugero abbia utilizzato per realizzare la sua visione un architetto - o due come suppongono alcuni studiosi - non toglie nulla alla funzione determinante che egli ebbe nella scelta delle forme che potevano tradurre le sue idee, con le quali nel suo scritto dimostra di aver avuto stretta confidenza.
D'altra parte, come affermò Filarete nel suo trattato, se l'architetto è la madre della sua opera in quanto l'ha generata, essa non esisterebbe senza l'azione di un padre-committente che l'ha voluta.
La trasformazione della chiesa iniziò con la demolizione del corpo occidentale costruito da Carlo Magno e la costruzione di una nuova facciata concepita come porta urbis e porta Coeli, sul modello delle porte romane fiancheggiate da due torri.

Nel nuovo portico e nella cappella superiore Sugero sperimentò la volta ogivale in progressive forme di leggerezza e nella facciata compresa tra le torri introdusse per la prima volta il motivo glorioso della finestra centrale a forma di rosone che si diffonderà rapidamente in tutta l'Europa.
Ma è nel rinnovamento della zona absidale che l'abate riesce a esprimere compiutamente la sua visione estetica e teologica puntando sulla trasparenza e sul colore. "Ora che la nuova parte di fondo - commenta nel suo Scriptum - si congiunge a quella anteriore, la chiesa rifulge illuminata nella sua parte mediana. Viva luce infatti illumina ciò che luminosamente si unisce a ciò che è luminoso, e luminoso è il nuovo edificio che è profuso di luce nuova".
Il meditato gioco di parole intorno alla claritas fa capire l'importanza che viene attribuita nella costruzione al colloquio delle parti attraverso la luce, mentre l'allusione alla lux nova allude alla carica innovativa del Nuovo Testamento mostrando chiaramente come il suo metodo anagogico - letteralmente, "che conduce in alto" - si basi sulla trasmissione al linguaggio architettonico di alcune caratteristiche del linguaggio poetico, come la similitudine, la metafora e l'allegoria.

La parte certamente costruita da Sugero nella zona absidale della chiesa - completata poi mirabilmente dall'architetto Pierre de Montreuil - è il doppio deambulatorio e la corona di cappelle che lo circonda illuminate ciascuna da finestre che fiancheggiano gli altari:  "Grazie alle quali tutta la chiesa brillerà per la luce ammirevole e continua delle vetrate risplendenti che scrutano la bellezza interiore" (quo tota, clarissimarum vitrearum luce mirabili et continua interiorem perlustrante pulchritudinem eniteret). Alcuni studiosi hanno voluto vedere nel doppio ambulatorio un riflesso della soluzione absidale di Saint Martin-des-Champs a Parigi, di qualche anno precedente, ma il confronto tra le due opere non fa che sottolineare la profonda differenza tra uno sviluppo meramente funzionalistico - le cappelle comunicanti che si aggiungono deformandosi al deambulatorio - e una idea nuova di fluidità e trasparenza che, proprio perché ispirata da una nuova sensibilità, fa esplodere letteralmente la spazialità compressa della zona absidale secondo il modello irraggiante del flusso luminoso che proviene da un unico punto.

Segno evidente, questa svolta innovatrice, del ruolo lievitante delle idee, indispensabile nutrimento della ricerca architettonica che quando diventa autoreferenziale subito si isterilisce.
La verità è che Sugero conosceva benissimo le chiese della Normandia e della Borgogna che prefiguravano il gotico, ma nella ricchezza della sua memoria  con  essi  convivevano  i  ricordi di Roma, di Montecassino e l'immagine mitica di Santa Sofia, come era stata descritta da Paolo Silenziario.

L'ammirazione per la luce e il colore delle vetrate si estende alle meravigliose decorazioni immaginate dall'abate per le suppellettili liturgiche, la grande croce, il paliotto dell'altare, il tempietto dei reliquiari.
Oro, perle e pietre preziose sono considerati da Sugero materie necessarie in questi oggetti di venerazione per due ordini di ragioni. La prima è quella di manifestare la gratitudine verso Dio per aver creato materie di suprema bellezza che innalzano il pensiero verso le bellezze spirituali, la seconda è il richiamo alla Scrittura, all'Esodo, ai Salmi, al libro di Ezechiele e all'Apocalisse di san Giovanni (che Sugero non cita ma dimostra di aver ben presente).
Oltre alle perle, le pietre scelte per il paliotto, la grande Croce e i reliquiari sono il sardonico, il topazio, lo jaspide, il crisolito, l'onice, il berillo, lo zaffiro, il carbuncolo e lo smeraldo, le stesse pietre, con poche varianti, del pettorale di Aronne o delle vesti del re di Tiro, ma anche le pietre del basamento della Gerusalemme celeste descritta nell'Apocalisse (21, 19-21):  "Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni sorta di pietre preziose:  il primo fondamento è diaspro, il secondo zaffiro, il terzo calcedonio, il quarto smeraldo, il quinto sardonico, il sesto sardo, il settimo crisolito, l'ottavo berillo, il nono topazio, il decimo crisopraso, l'undecimo giacinto, il dodicesimo ametista. E le dodici porte sono dodici perle". 

La fede profonda che permea di sé ogni azione del monaco costruttore gli fa riconoscere l'amore provvidenziale e miracoloso del Creatore in ogni felice evento della costruzione:  dal rinvenimento di una cava di pietra, a quello delle pietre preziose o degli alberi necessari per ricavarne delle travi, alla resistenza insperata delle strutture incompiute alla furia di una tempesta.
"Ma una notte, rientrato dal mattutino, cominciai a pensare a letto che io stesso avrei dovuto percorrere tutte le foreste di queste zone (...) Mi liberai in fretta da altri impegni e uscii prestissimo; ci dirigemmo rapidamente, portando con noi i nostri carpentieri e le misure delle travi, alla foresta chiamata Iveline (...) radunammo i guardaboschi e tutti quelli che conoscevano le altre foreste e chiedemmo loro sotto giuramento se fosse possibile trovare anche con grandi difficoltà, tronchi di quelle misure. A questa domanda si misero a ridere, o meglio ci avrebbero riso in faccia se avessero osato farlo; si meravigliarono che ignorassimo che nulla del genere si poteva trovare in tutta la regione (...) Ma noi cominciammo con il coraggio della fede, per così dire, a cercare per i boschi, e dopo un'ora avevamo trovato un tronco rispondente alle misure. Che dire di più? Dopo otto ore, o forse meno, per macchie, folti, recessi spinosi invalicabili, avevamo già contrassegnato dodici tronchi".

La certezza di essere amato da Dio e la speranza nella sua misericordia e quindi "il coraggio della fede" accompagna il racconto in ogni riga del suo svolgimento e dà all'indubbio protagonismo del suo autore che volle il suo nome ricordato infinite volte nelle iscrizioni della chiesa, un carattere diverso dal protagonismo individualistico, tipico del nostro tempo. La bellezza della chiesa, che definisce madre come aveva fatto Agostino, non è fine a se stessa ma si compie nella solenne bellezza del rito in cui la luce, il colore, il suono, il gesto si fondono ma che solo nella parola, nel verbo, raggiunge la pienezza. Anche quando dirige il coro, fa da duce al gruppo degli artigiani esecutori, l'abate se ne sente parte integrante e solo nella "coralità" del popolo di Dio riconosce il suo ruolo e i suoi meriti.

"Quando - scrive Sugero - l'incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne, e una degna meditazione mi ha indotto a riflettere, sulla diversità delle sacre virtù, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, allora mi sembra di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell'universo che non sta del tutto chiusa nel fango della terra né è del tutto librata nella purezza del Cielo; e mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per via anagogica".
Quell'incanto delle pietre multicolori, capace di trasportare chi l'osserva in "un altro mondo", da immagine intima e personale era destinata a tradursi, a partire dal coro di Saint-Denis, passando dalla scala della decorazione a quella dell'architettura, in una inesauribile pluralità di immagini spaziali vibranti di luce e di colore nel percorso, durato cinque secoli, dell'architettura gotica:  una delle massime espressioni artistiche dell'Europa cristiana.



(©L'Osservatore Romano - 19 novembre 2009)
Caterina63
00domenica 13 dicembre 2009 11:52
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Caterina63
00lunedì 7 marzo 2011 18:58

Vivevano in catapecchie, ma costruivano cattedrali. Il finanziamento della costruzione del duomo di Milano in una recente ricerca di Martina Saltamacchia
di Silvia Guidi

Riprendiamo da L’Osservatore Romano (che ne detiene il copyright) del 2-3 gennaio 2008 questa recensione al volume di Martina Saltamacchia sulla costruzione del duomo di Milano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Dinanzi a questa ricerca tornano in mente le parole che il grande regista Ingmar Bergman pronunciò durante una conferenza: «Secondo un’antica leggenda, la cattedrale di Chartres fu colpita dal fulmine e interamente bruciata. Migliaia di persone giunsero allora da tutte le parti della terra, come una gigantesca processione di formiche; e tutti insieme – architetti, artisti, operai, contadini, nobili, preti, borghesi – si misero a ricostruire la cattedrale dov’era prima, e lavorarono finché la costruzione non fu ultimata. Ma tutti rimasero anonimi, e oggi nessuno sa chi costruì la cattedrale di Chartres.

A parte le mie credenze e i miei dubbi personali, che a questo proposito sono irrilevanti, è mia opinione che l’arte perse il suo impulso creativo fondamentale al momento in cui fu separata dalla fede. Fu il taglio del cordone ombelicale, ed oggi essa vive la sua sterile vita, generandosi e degenerandosi. In altri tempi l’artista rimaneva sconosciuto, e la sua opera era dedicata alla gloria di Dio. Egli viveva e moriva senza essere né più né meno importante di altri artigiani; “valori eterni”, “immortalità”, “capolavoro” erano termini non applicabili al suo caso. La capacità di creare era un dono. In un mondo come quello fioriva una sicurezza invulnerabile e una naturale umiltà.
Oggi l’individuo è divenuto la forma più alta e la più grande rovina della creazione artistica. La più piccola offesa o il più piccolo odore dell’io vengono esaminati al microscopio come se fossero di un’importanza eterna. L’artista considera il suo isolamento, la sua soggettività, il suo individualismo, come cose quasi sacre. E così finiamo per ammassarci in un grande ovile, dove ce ne stiamo a belare sulla nostra solitudine, senza ascoltarci l’un l’altro, e senza renderci conto di soffocarci a vicenda. Gli individualisti si guardano negli occhi tra loro, e intanto negano la loro reciproca esistenza. Ci muoviamo in circolo, limitati a tal punto dalle nostre ansietà che non riusciamo più a distinguere il vero dal falso, il capriccio del gangster dal più puro ideale.
Così, se mi si chiede quale vorrei che fosse il fine generale dei miei film, risponderei che vorrei essere uno degli artisti della cattedrale di Chartres. Voglio trarre dalla pietra la testa di un drago, di un angelo, di un diavolo – o magari di un santo. Non importa che cosa; è il senso di soddisfazione che conta. Indipendentemente dal fatto che io creda o no, che io sia o no un cristiano, farei la mia parte nella costruzione collettiva della cattedrale».
Per una presentazione a bambini e ragazzi del lungo processo di costruzione di una cattedrale gotica, vedi D.Macaulay, La cattedrale, Nuove Edizioni Romane, Roma, 2006.

Il Centro culturale Gli scritti (21/1/2008)



                              

Furono le piccole offerte, donate dalla popolazione meno abbiente, la parte più cospicua delle entrate per l'edificazione della cattedrale milanese. È questa la rivelazione sorprendente che emerge da una ricerca di Martina Saltamacchia
, della Rutgers University (New Jersey, Usa), che ha esaminato con attenzione i Registri delle offerte del Duomo di Milano. Davvero centrato, quindi, il titolo del volume scritto dalla studiosa: Milano, un popolo e il suo Duomo (Genova-Milano, Marietti, pagine 192, euro 56).

E davvero la chiesa dedicata a Santa Maria Nascente fu l'opera di un popolo: principi, mercanti, uomini d'arme, ma anche, appunto, la folta schiera degli anonimi, con le loro offerte modeste ma frutto di sacrifici. Di questo popolo facevano parte anche strozzini e briganti e prostitute, che al termine dei loro giri notturni versavano una parte dei loro guadagni offrendoli alla Madonna (sui registri è annotato il loro nome elaloroprofessione).

"Un pomeriggio di due anni fa sento don Stefano Alberto esclamare: "La tua vita è fatta per fare cose grandi, come gli uomini del Medioevo che vivevano nelle catapecchie e costruivano le cattedrali".
"L'entusiasmo sorto in me per quell'augurio è tale che la mattina successiva mi precipito dal mio professore di Storia economica, chiedendogli di poter fare una tesi a partire da quella frase. Così, inaspettatamente, è cominciato un viaggio di 18 mesi nella storia del Duomo di Milano e della sua Fabbrica nei primi 15 anni dalla sua fondazione (1387)" racconta Martina Saltamacchia sul mensile "Tracce".

Prima ancora che maestoso esempio di architettura gotica lombarda, agli occhi del visitatore attento il Duomo di Milano appare innanzitutto come testimonianza di una devozione spettacolare, segno tangibile di una mentalità religiosa che nel Medioevo permeava profondamente la vita degli uomini: "Senza differenza di classe, tutti accorrevano - annotano gli Annali della Fabbrica del Duomo - a portare il proprio obolo per la grande impresa, con le materiali offerte di denaro e robe".

Immediato, per chi si accosta a queste pietre con semplicità e sincera curiosità, porsi molteplici interrogativi: come e chi lo costruì? Chi lo finanziò? Quali motivazioni spinsero povera gente a innalzare un'imponente cattedrale di marmo, la più grande, per lunghezza, del mondo allora conosciuto? La mancanza di uno studio completo a partire dalla trascrizione e analisi della mole di manoscritti, registri e carteggi conservati nell'Archivio della Fabbrica del Duomo di Milano ha aperto la strada a svariate interpretazioni storiche e suscitato numerosi dibattiti: mausoleo dinastico voluto da Gian Galeazzo Visconti per la sua stirpe o cattedrale cristiana voluta dal popolo? Progetto finanziato dai lasciti dei ricchi mercanti per celebrare il loro prestigio sociale o simbolo dell'orgoglio cittadino che ambiva a primeggiare sugli altri comuni italiani edificando una chiesa di proporzioni mai viste?

Dopo la lettura di opere di autorevoli storici che attribuivano arbitrariamente la paternità della costruzione al principe piuttosto che a nobili e ricchi mercanti, senza mai comprovare, però, le loro tesi con un riscontro effettivo numerico sulle fonti, la Saltamacchia ha intrapreso un'analisi quantitativa puntuale, mai effettuata prima, di manoscritti inediti dell'Archivio del Duomo, in modo da presentare un quadro dell'identità dei donatori e dell'entità delle donazioni in denaro e in natura, fonte principale di finanziamento del Duomo, e fornire al dibattito sul finanziamento della cattedrale un contributo originale, strettamente aderente ai contenuti numerici delle fonti. Particolarmente ricchi di notizie e informazioni si sono rivelati, da una parte, i Registri delle Oblazioni, in cui quotidianamente veniva annotata la descrizione di ciascun dono e del suo valore, insieme ad alcune note sintetiche sul suo offerente; dall'altra, è negli Annali che la studiosa ha potuto ritrovare, minuziosamente tratteggiati, i fatti, i personaggi e gli avvenimenti di un'immane costruzione durata ben sei secoli.

Il lavoro non è stato facile, ma "lo scoraggiamento iniziale per l'incomprensibilità delle scritture (in caratteri gotico lombardi) e la lunga e ripetitiva trascrizione di cifre (in lire-soldi-denari, ed espresse in sistemi differenti dal nostro, metrico decimale) si è presto trasformato in commozione man mano che da quegli inchiostri sbiaditi cominciavano a far capolino innumerevoli storie di uomini e donne mossi quotidianamente a piccoli grandi atti di carità". È una full immersion documentaria in una mentalità molto lontana dalla nostra. "All'uomo medioevale è ben chiaro come tutto concorra alla Costruzione - spiega Saltamacchia - come ogni gesto, per quanto banale o umile, nell'offerta acquista un valore eterno, così ogni bene, anche il più insignificante, serve all'edificazione della cattedrale. Ogni cosa, dentro questa prospettiva, diventava occasione di dono: il fiorino d'oro come la monetina di rame, l'anello di diamanti come il bottone in madreperla, la botte di vino come il sacco di biada, la tovaglia ricamata come il drappo logoro. Ogni dono trovava poi prontamente il suo utilizzo nel cantiere (calce, ferro, utensili), nella chiesa (paramenti sacri, arazzi e cere), tra gli operai (pane e vino) o, ancora, veniva trasformato in denaro tramite vendita all'incanto, una pubblica asta organizzata ogni giorno presso il palazzo comune nella piazza adiacente al cantiere".

Ogni circostanza partecipava di quest'opera, persino la morte. "Quando le epidemie di peste serpeggiavano per la città - continua la storica - deputati della Fabbrica si recavano presso i lazzaretti per spogliare i defunti delle loro vesti, che venivano rivendute dopo un anno di deposito precauzionale in un apposito magazzino, oppure, se eccessivamente deteriorate, se ne ricavavano bottoni e fili intessuti d'oro e d'argento da porre separatamente in commercio. Ciascuno, col suo tanto o col suo niente, concorreva alle necessità della costruzione. Notai, speziali, pescatori, orefici, fornai, mugnai, macellai prestavano gratuitamente le loro braccia per scavare le fondamenta. Ingegneri ed operai del cantiere devolvevano talvolta in offerta il loro salario, o vi rinunciavano in cambio di un'indulgenza per i loro peccati. Le prostitute, terminato il loro giro notturno, deponevano una parte del ricavato sull'altare. Lì, il vicario dell'Arcivescovo doveva provvedere affinché rimanesse sempre acceso un lume, così che a qualsiasi ora gli offerenti potessero versare il proprio obolo; la fioca luce della lampada permetteva all'incaricato, detto ebdomadale, di ricevere l'offerta mantenendo nella penombra il volto del donatore".
Quando non era il fedele a recarsi alla Chiesa, era la Chiesa a bussare alla porta del fedele.

"Tutti desideravano partecipare alla costruzione della cattedrale, chi sgrossando un blocco di marmo, chi versando una moneta, chi mettendo da parte un po' del suo raccolto per gli operai del cantiere, ma non sempre era possibile alla gente giungere nel centro di Milano dalle città e dalle campagne, assentandosi dalla bottega o dal campo per percorrere a piedi strade che il freddo, i briganti o le frequenti guerriglie rendevano spesso impervie. Per questo la Fabbrica, negli anni, aveva perfezionato, con notevole successo, un sistema capillare di raccolta delle offerte che raggiungesse ogni angolo del contado. Cassette e ceppi - tronconi di legno vuoto dove versare l'elemosina - venivano collocati in tutti i punti nevralgici e di maggior passaggio: presso le porte urbane, ai crocicchi delle strade principali, nelle chiese, nei palazzi comunali. Schiere di ragazze vestite di bianco sfilavano danzando e cantando nelle piazze e nei carrobi, chiedendo ai passanti offerte per la cattedrale. Sacerdoti, frati mendicanti e volontari laici venivano inviati, in squadre ordinate, nei villaggi più lontani. Lì celebravano la messa mattutina a cui tutto il popolo accorreva, e dopo una sentita omelia sulla virtù della carità veniva dato annuncio della grande impresa di costruzione. Quindi, il gruppo dei questuanti bussava a ogni porta per chiedere alle famiglie donazioni di qualunque forma".

Anche il divertimento e il desiderio di far festa insieme erano vissuti per la cattedrale. "Spettacolari processioni, dette "trionfi", venivano organizzate annualmente dalle sei porte di Milano per portare solennemente in Duomo la propria offerta" spiega l'autrice dello studio, "ciascuna porta gareggiava per essere la più sfarzosa, inscenando drammi sacri o mitologici su carri allestiti da tutta la popolazione. All'arrivo sul sagrato, i cortei erano accolti da una folla capeggiata da duchi, cavalieri e dame, e a ciascuno veniva offerto un boccale di vino".

"L'aspetto più impressionante di questa storia per me - ci tiene a precisare la Saltamacchia - è tuttavia da ricercarsi nei lunghi elenchi di cifre contenuti nei registri di donazioni. Se al nostro sguardo distratto appare uno stuolo di svettanti santi di marmo a ricordarci il Cielo, se l'abbraccio della Madonna ci coglie, alta sopra il caos delle nostre giornate, perché non dimentichiamo mai quanto siamo preferiti e amati, è per lo spettacolo della carità che, in anni segnati da guerre, vessazioni, carestie ed epidemie, si inscenò silenzioso per le strade e i vicoli di questa città. Solo nell'anno 1400 sono circa 8.000 le donazioni raccolte, in denaro o in natura, per un valore totale di oltre 42.000 lire dell'epoca. Cifra assai ragguardevole, se si pensa che, oltre a costituire poco meno di un terzo delle entrate (tra le altre forme di ricavo c'erano, ad esempio, eredità e possessi immobiliari), copre la quasi totalità delle ingenti spese per il gigantesco cantiere (pari a più di 49.000 lire per quell'anno), in cui gli operai ricevevano in media 3 lire al mese. L'entità delle singole donazioni varia, nell'anno 1400, da un minimo di qualche denaro (la 240 parte della lira) a un massimo di 1.500 lire, corrisposte da un anonimo benefattore che chiede di esser annotato sui registri come un devoto della Beatissima Vergine Maria, che dona i suoi cospicui averi perché sotto il suo nome sia riedificata la chiesa della città.

"Tra le offerte spicca il contributo del principe Gian Galeazzo Visconti, che corrisponde mensilmente alla Fabbrica 700-800 lire, somma davvero esorbitante rapportata alle 4-5 lire versate in media dal popolo. E ciononostante, il denaro principesco rappresenta solo il 16% della somma raccolta quell'anno, mentre l'ammontare complessivo di elemosine e doni del popolo corrisponde all'84%; in particolare, le donazioni più povere, di valore compreso tra 1 denaro e 10 lire, ne costituiscono ben il 28%".

È dunque a una folla di gente comune che si deve l'edificazione del Duomo di Milano, uomini e donne ben lieti di dare tutto ciò che avevano per un'opera che, ben sapevano, mai i loro occhi avrebbero potuto contemplare ultimata. Uomini e donne ricchi soltanto di un'incrollabile fede, certi soltanto di dove fissare il proprio cuore. Come Caterina di Abbiateguazzone, una pauperrima, poverissima vecchietta che da tempo si adoperava per aiutare gli operai del cantiere, trasportando i materiali da costruzione nella gerla che portava sulle spalle. In una fredda mattina del novembre 1387 va a deporre come offerta, sull'altare, la sua unica, logora pelliccetta con cui si riparava dal gelo. Sopraggiunge di lì a poco un uomo, Manuele, che riconoscendo la pelliccia subito l'acquista, per poi deporgliela nuovamente sulle spalle. E l'amministrazione della Fabbrica, venuta a conoscenza del gesto di quella povera donna, la premia, dopo qualche mese, pagandolel'affittodellacasupolaincuiviveva.

(© L'Osservatore Romano - 2-3 gennaio 2008)




             

                                                                     


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