CARATTERISTICHE DI BUONA TRADUZIONE BIBLICA

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°Teofilo°
00lunedì 3 agosto 2009 19:59

Le caratteristiche di una buona traduzione

È risaputo che tradurre è una delle arti più difficili che esistano. Su questa arte grava anche l’ombra dei detto: "Tradurre è un po’ sempre tradire". Non è vero del tutto, ma c’è molto di vero in questo assioma. Chi ha una lunga esperienza in questo campo non può non confessare un senso di impotenza e di incapacità a trasporre in una lingua parlata contenuti rinchiusi in espressioni e termini appartenenti a lingue antiche, come sono quelle bibliche.

Ma il traduttore si sente investito di un altro compito, che è quello di essere mediatore tra due mondi culturali, che si esprimono appunto in due lingue diverse: tra questi mondi e tra queste lingue, che egli si sforza di conoscere al meglio, svolge un'opera di mediazione necessaria e pur tanto delicata, senza la quale moltissimi credenti non avrebbero la pur minima possibilità di accostarsi al messaggio biblico. Molte altre cose si potrebbero dire del traduttore, alcune delle quali saranno raccolte al termine di queste considerazioni.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 14/07/2003 19.33

Ma ora è necessario delineare le principali caratteristiche di una buona traduzione.
La prima è indubbiamente quella della fedeltà: si intende la fedeltà al testo originale, sia esso ebraico o greco. Questa nota è da considerare come la prima in senso assoluto. Infatti se manca la fedeltà al testo biblico criticamente ricostruito - fin dove è possibile ricostruirlo - ogni traduzione slitta fatalmente verso la parafrasi, verso l’interpretazione. Tuttavia - è doveroso dichiararlo esplicitamente -una fedeltà assoluta non è possibile per molteplici e svariate ragioni. Basti accennare a una: i mondi culturali sottesi a due lingue diverse, soprattutto se esse sono distanziate di secoli nel tempo, sono assai diversi ed è molto difficile che ad un’area semantica del primo mondo corrisponda esattamente un’area semantica della lingua moderna.
Sotto il profilo della fedeltà al testo originario la presente revisione ha fatto passi da gigante: lo hanno riconosciuto esplicitamente i revisori che, per ultimi, hanno fatto alcune verifiche estremamente minute.

La traduzione della Bibbia come ministero nella Chiesa


Ogni comunità che riconosce e venera la Bibbia come segno manifestativo della presenza di Dio, affida più o meno esplicitamente a qualcuno dei suoi il compito di rendere il messaggio biblico in termini leggibili e comprensibili. Una comunità di fede, infatti, non può vivere e tanto meno alimentare la sua fede senza un costante riferimento alla parola di Dio scritta.
Ma di questa parola scritta è bene cogliere subito la vera natura. Per dirla con un’espressione di K. Barth, la Bibbia è "segno del segno della Parola di Dio". In altri termini: è segno scritto di quel segno orale che fu la predicazione profetica e apostolica, la quale a sua volta fu segno dell’evento storico-salvifico di Dio che ha parlato al suo popolo: all’antico popolo di Israele per mezzo dei profeti, e, nella pienezza dei tempi, per mezzo del Figlio al mondo intero.
Ma come è possibile descrivere l'esperienza del tradurre intesa non come affare personale o privato, bensì come esperienza ecclesiale-comunitaria?
E tradurre la Bibbia per noi è stata anzitutto un'esperienza religiosa autentica, un continuo e metodico accesso a quel mistero che abbiamo appena descritto. Anche se le discussioni vertevano necessariamente spesso su questioni altamente specializzate, non mancava mai tuttavia la nostra attenzione ai risvolti esegetici e alle implicanze teologiche delle pagine bibliche sottoposte ad analisi. In questo modo possiamo dire con estrema sincerità che il nostro lavoro, giorno dopo giorno, assumeva sempre più le sembianze di un approccio discreto, ma metodico, a quel "roveto ardente" che per ogni credente oggi è riconoscibile nella Bibbia (vedi Es 3,1-10).
Per noi tradurre la Bibbia con un mandato particolare e per una precisa comunità, è stato anche l'esercizio di un vero e proprio ministero: un servizio alla comunità cristiana pellegrina in Italia. Abbiamo così risposto alle indicazioni recentemente offerteci dai vescovi italiani in una Nota pastorale che porta il titolo La Bibbia nella vita della Chiesa: "In modo particolare la Nota si rivolge a quanti nella Chiesa sono posti al servizio della Parola, perché prendano sempre più viva coscienza e rafforzino capacità e coraggio per realizzare un compito tanto valido e impegnativo: introdurre tutto il popolo di Dio alla ricchezza inesauribile di verità e di vita della Sacra Scrittura... Insieme alla preparazione delle persone, bisogna attendere alla elaborazione di strumenti e sussidi opportuni per un’efficace incontro con la Bibbia. Il punto di partenza è lo stesso testo sacro, espresso in una buona traduzione" (nn. 4 e 38).


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 14/07/2003 19.34

Tradurre la Bibbia oggi significa accogliere una precisa istanza del Concilio Vaticano II e offrire una risposta adeguata. Afferma il Concilio: È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura. Per questo motivo la Chiesa fin dagli inizi accolse come sua l'antichissima traduzione greca dell’Antico Testamento, detta dei Settanta; e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le versioni latine, particolarmente quella che è detta Volgata.

[Nota: dal Concilio di Trento (IV sess., 8 apr. 1546) "considerando che sarebbe fonte di grande utilità nella Chiesa di Dio se risultasse quale fra le varie versioni latine in circolazione sia da ritenersi per "autentica", stabilisce e dichiara che nelle pubbliche letture, nelle dispute, nelle predicazioni e nelle esposizioni si abbia per autentica., senza che alcuno con qualsiasi pretesto osi o presuma rigettarla, questa stessa versione antica e diffusa ( = vulgata), che è stata approvata nella Chiesa col suo uso plurisecolare" (EB, 46).

Il decreto è soltanto "disciplinare", non ha valore "dommatico".

Il decreto prescinde dai testi originali, dalle altre versioni antiche per precisare che la Vulgata era l'unica versione autentica rispetto alle molte nuove traduzioni latine (ne sono state contate ben 160 solo per gli anni 1450-1522!); e per l'uso "pubblico", nella Chiesa. Il termine autentica va preso in senso giuridico: indica un documento degno di fede, che fa testo: la V. poteva essere adoperata con ogni sicurezza per la dimostrazione delle verità dogmatiche e morali. Il Concilio ne indica la prova nell'uso plurisecolare fattone dalla Chiesa, che è indefettibile nelle questioni di fede e di morale.

Trattandosi di una versione, basta una "conformità" sostanziale col testo originale. I Padri conciliari erano talmente consci di talune imperfezioni della V. da raccomandarne caldamente un'edizione corretta. Le recenti Encicliche (cf. la Divino Afflante Spiritu) inculcano ormai per le dimostrazioni teologiche il ricorso al testo originale.]

Ma poiché la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, a preferenza dai testi originali dei sacri libri. Queste se, secondo l'opportunità e con il consenso dell'autorità della Chiesa saranno fatte in collaborazione con i fratelli separati, potranno essere usate da tutti i cristiani" (Dei Verbum, 22).


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 14/07/2003 19.35

Tradurre la Bibbia oggi significa anche dare una fattiva e valida collaborazione alla pastorale biblica delle comunità cristiane: una pastorale che, sempre nella luce del Concilio Vaticano Il, sta consolidando il suo cammino all'interno delle nostre comunità. Il pericolo, non ancora del tutto scongiurato, è quello di pensare a molteplici e svariate iniziative inerenti all’apostolato biblico senza mai, o quasi mai, giungere al contatto vivo e vivificante con il testo biblico, con il libro sacro. È urgente invece che l’apostolato biblico faccia quanto prima un salto di qualità e ciò potrà essere facilitato dalla revisione della Bibbia in lingua italiana che, nel giro di pochi anni, si spera di poter mettere nelle mani di tutti i fedeli.
Tradurre la Bibbia oggi significa anche prestare un contributo decisivo alla causa dell’ecumenismo, inteso non certo come una moda da seguire, bensì come un movimento che porta le singole confessioni cristiane verso il grande traguardo dell'unità delle Chiese. In questo campo di lavoro sono testimone di non pochi traguardi raggiunti: la traduzione della Bibbia in lingua corrente fatta insieme da cattolici e protestanti, la recente traduzione ecumenica del Vangelo di Giovanni, opera anch’essa di una collaborazione tra protestanti e cattolici, ma soprattutto la molteplice e ricca collaborazione tra cattolici e protestanti in Italia per la diffusione della Bibbia negli ambienti più disparati.
Una buona traduzione biblica oggi costituisce anche un valido strumento all’azione missionaria della Cbiesa. Come i primi cristiani hanno acquisito una chiara consapevolezza del loro essere missionari nel mondo per il loro contatto con Gesù, Parola di Dio fatta persona, e con gli Apostoli, i primi grandi servitori della Parola, cosi anche oggi una comunità cristiana non può prendere coscienza della sua missionarietà e tanto meno vivere la missione come suo compito primario e irrinunciabile se non si tiene in costante, religioso ascolto della parola di Dio scritta e della viva predicazione della Chiesa.

Conclusione
Non vorrei lasciare un'impressione troppo negativa nei lettori, ma più ci si addentra nell’arte dei tradurre più ci si rende conto che ogni traduzione, compresa quella biblica, comporta una certa qual violenza al testo. Sono ben note e sempre valide le riflessioni di J.W. Goethe: "Non si riflette mai abbastanza al fatto che una lingua è propriamente soltanto simbolica, metaforica e che non esprime gli oggetti mai in modo immediato, ma solo di riflesso ... E tuttavia come è difficile non porre il segno al posto della cosa, avere l’essenza sempre dinanzi a sé e non ucciderla con la parola".
Ciò è ancor più vero di una traduzione, di ogni traduzione. Infatti, per chi ha un minimo di sensibilità letteraria e sa che ogni composizione, soprattutto se poetica, è un piccolo capolavoro che resiste a ogni tentativo di trasposizione, assumere ed esercitare il compito del traduttore è un po' come una tortura, un continuo sentirsi sottomesso al giudizio dell’autore, prima ancora che a quello dei lettori.
Ritengo estremamente valida questa avvertenza di R. Pesch: "Il lettore ingenuo, cosiddetto senza pregiudizi, vorrebbe di solito cogliere subito le cose nel testo, e non pensa che la res di un testo, il messaggio di un testo 'vi' è solo nella sua lingua, che essa 'vi' si trova in modo manifesto e insieme velato e che si sottrae a ogni tentativo temerario di cattura; egli non pensa che il linguaggio è una struttura fragile e ha bisogno di un uso prudente, se la vita non vuole essere soffocata e la 'cosa' che in essa traluce essere distrutta e fatta scomparire. Chi "circonda di palizzata - per dirla con Goethe - la parola di un testo, chi strappa la parola dal suo vivo contesto, chi ne fa una formula maneggiabile, comoda, magari dogmatica, si è già allontanato dal messaggio del testo".
Ogni traduttore che ha la consapevolezza dei suo ministero, oltre al senso di insoddisfazione di cui si diceva prima, avverte l’irrinunciabile dovere di portare anche il lettore a condividerla. Ogni testo è come un organismo vivente e non si lascia vivisezionare. Nella prospettiva della fede, accostarsi al testo biblico significa accostarsi a uno di quei 'segni' della presenza del Dio vivente in mezzo a noi, che sono il nostro viatico.

Carlo Ghidelli

(Tratto dalla Rivista del Clero Italiano, anno LXXXI, n° 7-8, luglio-agosto 2000, pp. 538-550)


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 14/07/2003 19.37

1. Aspetti teologici. Bibbia e cultura

1.1 Le tre tappe dell’inculturazione: traduzione, interpretazione, formazione di una cultura locale cristiana.

Da: Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, IV.B (cf Ad gentes, 11.22)

B. Inculturazione

Allo sforzo di attualizzazione, che consente alla Bibbia di conservare la sua fecondità anche attraverso i mutamenti dei tempi, corrisponde, per la diversità dei luoghi, lo sforzo di inculturazione, che assicura il radicamento del messaggio biblico nei terreni più diversi. Questa diversità non è del resto mai totale. Ogni autentica cultura, infatti, è portatrice, a suo modo, di valori universali fondati da Dio.

Il fondamento teologico dell'inculturazione è la convinzione di fede che la Parola di Dio trascende le culture nelle quali è stata espressa e ha la capacità di propagarsi nelle altre culture, in modo da raggiungere tutte le persone umane nel contesto culturale in cui vivono. Questa convinzione deriva dalla Bibbia stessa, che, fin dal libro della Genesi, assume un orientamento universale (Gn 1, 27-28), lo mantiene poi nella benedizione promessa a tutti i popoli grazie ad Abramo e alla sua discendenza (Gn 12,3; 18,18) e lo conferma definitivamente estendendo a « tutte le nazioni » l'evangelizzazione cristiana (Mt 28,18-20; Rm 4,16-17; Ef 3,6).

La prima tappa dell'inculturazione consiste nel tradurre in un'altra lingua la Scrittura ispirata. Questa tappa ha avuto inizio fin dai tempi dell'Antico Testamento quando il testo ebraico della Bibbia fu tradotto oralmente in aramaico (Ne 8,8.12) e, più tardi, per iscritto in greco. Una traduzione infatti è sempre qualcosa di più di una semplice trascrizione del testo originale. Il passaggio da una lingua a un'altra comporta necessariamente un cambiamento di contesto culturale: i concetti non sono identici e la portata dei simboli è differente, perché mettono in rapporto con altre tradizioni di pensiero e altri modi di vivere.

Il Nuovo Testamento, scritto in greco, è segnato tutto quanto da un dinamismo di inculturazione, perché traspone nella cultura giudaico-ellenistica il messaggio palestinese di Gesù, manifestando con ciò una chiara volontà di superare i limiti di un ambiente culturale unico.

La traduzione dei testi biblici, tappa fondamentale, non può però essere sufficiente ad assicurare una vera inculturazione. Questa deve costituirsi grazie a un'interpretazione che metta il messaggio biblico in rapporto più esplicito con i modi di sentire, di pensare, di vivere e di esprimersi propri della cultura locale. Dall'interpretazione si passa poi ad altre tappe dell'inculturazione, che portano alla formazione di una cultura locale cristiana, che si estende a tutte le dimensioni dell'esistenza (preghiera, lavoro, vita sociale, costumi, legislazione, scienza e arte, riflessione filosofica e teologica). La Parola di Dio è infatti un seme che trae dalla terra in cui si trova gli elementi utili alla sua crescita e alla sua fecondità (cf Ad Gentes, 22). Di conseguenza, i cristiani devono cercare di discernere « quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ma nello stesso tempo devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del vangelo, di liberarle e di riferirle al dominio di Dio salvatore » (Ad Gentes, 11).

Non si tratta, come si vede, di un processo a senso unico, ma di una « reciproca fecondazione ». Da una parte, le ricchezze contenute nelle diverse culture permettono alla Parola di Dio di produrre nuovi frutti e, dall'altra, la luce della Parola di Dio permette di operare una scelta in ciò che le culture apportano, per rigettare gli elementi nocivi e favorire lo sviluppo di quelli validi. La piena fedeltà alla persona di Cristo, al dinamismo del suo mistero pasquale e al suo amore per la Chiesa fa evitare due false soluzioni: quella dell'« adattamento » superficiale del messaggio e quella della confusione sincretista (cf Ad Gentes, 22).

Nell'Oriente e nell'Occidente cristiano l'inculturazione della Bibbia si è effettuata fin dai primi secoli e ha manifestato una grande fecondità. Non può, tuttavia, mai essere considerata conclusa; al contrario, deve essere ripresa costantemente, in rapporto con la continua evoluzione delle culture. Nei paesi di più recente evangelizzazione il problema si pone in termini diversi. I missionari, infatti, portano inevitabilmente la Parola di Dio nella forma in cui si è inculturata nel loro paese di origine. È necessario che le nuove chiese locali compiano sforzi enormi per passare da questa forma straniera di inculturazione della Bibbia a un'altra forma, che corrisponda alla cultura del proprio paese.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 14/07/2003 19.38

1. Aspetti teologici. Bibbia e cultura

1.2 Vangelo e cultura. Effetti della traduzione della Bibbia

Bibliografia:

Shaw, R. Daniel, Transculturation. The Cultural Factor in Traslation and Other Communication Tasks, Pasadena, California: William Carey Library, 1988, pp. 9-20 (Ch. 1 : "A Biblical Perspective of Culture").

Sanneh, Lamin, Gospel and Culture. Ramifying Effects of Scriptural Translation. In Stine, Philip C., ed., Bible Translation and the Spread of the Church. The Last 200 Years, Leiden - New York - Köln: E.J.Brill; 1992; pp. 1-23.

Sanneh, Lamin, Translating the Message: The Missionary Impact on Culture. Maryknoll, NY: Orbis Books, 1989.

Riassumiamo alcuni concetti principali sotto forma di affermazioni, numerate solo per indicare una progressione e una identificazione, non una gerarchia. Esse si presentano, a seconda dei casi, o isolate, o solo largamente concatenate, o solo brevemente sviluppate.


1. L’annuncio del vangelo è sempre stato fatto in situazioni storicamente e culturalmente situate. Parallelamente, ogni sua riespressione sarà sempre fatta ugualmente in situazioni altrettanto storicamente e culturalmente situate. Pensare di poter un giorno esprimere un "vangelo allo stato puro" è perciò illusorio, e si rivela infine su una linea di pensiero contraria al movimento dell’incarnazione.


2. Il vangelo ha presentato fin dall’inizio una natura e una forza capaci di integrare culture diverse. Si rifletta sui seguenti fatti:

a) Esso si è staccato molto presto dai luoghi di origine, per estendersi a paesi prima considerati estranei alla "promessa";

b) Ha abbandonato da subito la lingua del "fondatore", per adottare le forme comuni del greco e del latino dei paesi di arrivo; la "traduzione" fa parte integrante delle origini del cristianesimo.

c) Il cristianesimo ha fin dalle sue origini sempre considerato possibile esprimere nel linguaggio umano quotidiano i disegni "divini", distanziandosi così da ogni tendenza elitista.

3. Da un punto di vista storico si è talvolta propensi a supporre un’interazione tra vangelo e cultura più per i paesi cosiddetti di missione e meno per il mondo occidentale. In realtà, sotto questo aspetto non c’è alcuna differenza tra cultura occidentale e altre culture. Anzi, il successo della trasformazione culturale del cristianesimo in Occidente indica una simile e parallela possibilità per le culture del Terzo Mondo, e inversamente le dannose conseguenze dell’adattamento culturale del cristianesimo in Occidente indicano una altrettanto simmetrica possibilità per le culture del terzo Mondo. In altre parole, il rapporto che il vangelo stabilisce con ogni cultura può assumere sia una valenza di forze in sinergia sia una valenza di forze in reciproca contestazione. La misura e la qualità del rapporto sinergia-contestazione determinano la tensione e la qualità del rapporto, che può portare o a una promozione o a una perdita delle rispettive identità.


4. Le numerose discussioni degli studiosi sul collegamento più o meno stretto tra cristianesimo e cultura occidentale, al di là della questione di merito, stanno certamente ad indicare la capacità e il ruolo del cristianesimo nel promuovere le culture, e non solo una cultura.

Stando anche solo a livello della lingua, se è vero che il successo e la conservazione del Latino mostrano la Chiesa come custode della tradizione occidentale romana, è anche vero che lungo la sua storia non sono mai mancate le difese delle lingue vernacolari.

Ad esempio, proprio nel periodo dell’egemonia del latino, durante l’impero carolingio, Otfried von Weissenburg, il primo poeta conosciuto per nome nella letteratura germanica, fu uno dei maggiori promotori delle lingue volgari, anzi alcune dei suoi pronunciamenti presero la forma di una specie di manifesto in favore della lingua volgare.

Un secondo esempio riguarda sia il livello della lingua sia il livello della cultura e si situa nella generale concezione antica dello stato, che vedeva il pluralismo culturale come un’opportunità a favore di una società forte e stabile. Quando Santo Stefano re d’Ungheria (ca. 969-1038) concepì lo stato ungarico come "regno apostolico" e avamposto della cristianità all’est, lo concepì sul modello della grandezza romana, che egli attribuiva proprio al suo carattere pluralista: "nam unius linguae, uniusque moris regnum imbecille et fragilum" ("infatti debole e fragile è quel regno che abbia una sola lingua e un solo costume": Christopher Dawson, Religion and the Rise of Western Culture, London: Sheed and Ward, 1950, p. 137).


5. L’opera monumentale del Edward Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, ha diffuso l’opinione, accettata anche da alcuni studiosi cristiani, che il successo del cristianesimo approfittò della decadenza della cultura greco-latina, ma nello stesso tempo introducendovi endemicamente una buona dose di provincialismo e particolarismo. Come molti "luoghi comuni", anche questo si rivela poco fondato. Ad es., il Neoplatonismo non era affatto in decadenza ed era ben accolto da larghe parti delle classi alte della società.

Sembra invece più corretto dire che il cristianesimo nella sua diffusione favoriva una rivitalizzazione delle culture locali (Plinio afferma che per reazione anche le tradizioni pagane venivano riscoperte), ciò che poteva portare a certe tensioni con un potere centralizzato. Ma è proprio il modo con cui il cristianesimo gestisce il rapporto tra particolarità "nazionale" e solidarietà "mondiale", senza inquadrarle in ideologie opposte, che rende possibile combinare insieme particolare e universale, cultura e vangelo.


6. Nonostante la religione cristiana sia inseparabile dalla cultura (cf. affermazione n. 1), tuttavia non si identifica con essa. Il problema è che se la verità di Dio deve essere qualcosa più di un sistema etnocentrico essa deve poter essere espressa al di là dei sistemi culturali; nello stesso tempo, però, se la religione aggira tali sistemi culturali essa rischia di non essere altro che una astrazione soggettiva.

I due estremi sono evitati da una presentazione multi-culturale del messaggio, così che le forme culturali sono mantenute nella loro plurale diversità senza però essere assolutizzate nella loro unica particolarità. Dalla prospettiva del vangelo, in tal modo, le diverse forme che esso assume lungo la storia sono ben più che episodi disgiunti l’uno dall’altro: al contrario, esse diventano legami coerenti di una catena che lega i vari credenti in un’unica comunità, al di là delle differenze di tempo e di spazio. Nel "piano della salvezza", tutte le culture sono ugualmente valide e tutte ugualmente inadeguate. Una tale visione della cultura è denominata da qualcuno con il termine di "strumentale".

In tal modo, i cristiani "santificano" le culture proprio mentre paradossalmente negano loro ogni intrinseca sacralità, e le elevano proprio mentre si rifiutano di farne un idolo. L’"uno" e i "molti" sono così portati ad "unità".


7. Pagine bibliche che possono fondare una tale visione multiculturale del messaggio evangelico sono:

- l’episodio della Pentecoste in At 2, con il particolare della comprensione in tutte le lingue, ed insieme tutto il successivo sviluppo degli Atti degli Apostoli, soprattutto i capitoli a partire dal discorso di Stefano (cap. 7) fino al cosiddetto concilio di Gerusalemme (cap. 15);

- le "strutture pluraliste" presentate da Paolo in Rom 12 e 1 Cor 12, con le applicazione che egli ne fa al rapporto fra cristiani di provenienza giudaica e cristiani di provenienza pagana esplicitamente soprattutto in Rom 14-15.


8. Bilancio delle traduzioni nelle terre di missione.

a) Le traduzioni nelle lingue locali cominciarono con l’adozione di termini, concetti, costumi o espressioni idiomatiche indigene per le categorie centrali del cristianesimo.

b) Criteri interni alle lingue locali cominciarono a servire per determinare una buona o una cattiva traduzione, arrivando sovente il caso in cui esperti della lingua indigena giungevano a porre in questione quelle che si rivelavano interpretazioni occidentali del cristianesimo.

c) L’uso delle lingua locali portò a una crescita impressionante delle lingue di traduzione della Bibbia.

d) In numerosi casi, si trattava del primo tentativo di scrittura della lingua stessa, con la necessità, per i traduttori di costruire alfabeti, grammatiche, dizionari, vocabolari, con il supplemento di raccolte di proverbi, idiomi, assiomi, materiali etnografici, descrizioni di religioni locali, di pratiche e leggi tradizionali, di memorie storiche. Tali scrupolosi e dettagliati inventari delle culture locali portò sovente a conseguenze inimmaginabili nella società stessa, fondando e maturando coscienze e identità nazionali.

e) In tutta questa attività, i traduttori davano come implicita una verità teologica: cioè, che il preveniente Spirito di Dio aveva preceduto l’attività missionaria, così che i predicatori potevano adottare forme di espressione e usanze già esistenti rivelando così la presenza nascosta di Dio.

9. Nelle società tradizionali, lingua e cultura sono strettamente connesse, e tutte e due sono dalla religione cristiana portate a promozione in modo dinamico. Le traduzioni dei missionari raggiungevano e attingevano alle radici di queste società, ravvivandone perciò le sorgenti vitali. Lo stesso approccio multiculturale aveva sovente come effetto secondario quello di contribuire a un rapporto intertribale più positivo, contribuendo a superare divisioni fratricide vecchie di secoli.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 14/07/2003 19.39

1. Aspetti teologici. Bibbia e cultura

1.3 Il principio della traduzione nella storia cristiana. Traduzione e incarnazione. Traduzione e trasformazione culturale del cristianesimo.

Bibliografia:

Shaw, R. Daniel, Transculturation. The Cultural Factor in Traslation and Other Communication Tasks, Pasadena, California: William Carey Library, 1988, pp. 9-20 (Cap. 1 : "A Biblical Perspective of Culture", soprattutto pp. 14-20).

Walls, Andrew F., The Translation Principle in Christian History, in Philip G. Stine, ed., Bible Translation and the Spread of the Church, Leiden - New York . Köln : E.J. Brill, 1992; pp. 24-39.


1. Se la politica è l’arte del possibile, la traduzione è l’arte dell’impossibile. Tuttavia, la fede cristiana si fonda su una visione ottimistica del tradurre: essa infatti nasce da un atto divino di "traduzione": "Il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14). L’Incarnazione differenzia il cristianesimo da tutte le altre religioni, compreso l’ebraismo e l’islamismo. Le Scritture cristiane non sono semplicemente la Torah ebraica con un supplemento di aggiornamento. Alla traduzione della parola divina in parola umana, esse aggiungono la traduzione del Verbo divino nella stessa umanità, e ciò porta a un incontro nuovo con Dio.


2. Ma allo stesso modo con cui si parla non un linguaggio generale, ma una lingua particolare, così anche il Verbo si incarna non in una umanità generica ed astratta, ma in una umanità concreta, in un posto e in un tempo particolari.


3. Attraverso la "missione ai popoli (cf Mt 28,19-20), il primo atto divino di traduzione dà origine a una successione costante di nuove traduzioni. Il multiculturalismo cristiano è una conseguenza dell’Incarnazione.


4. Il processo di traduzione implica parallelamente un duplice processo di "conversione". Una traduzione è il tentativo di esprimere il significato del testo di partenza attraverso le risorse e all’interno del sistema del linguaggio di arrivo. In tal modo, qualcosa di nuovo viene immesso nella lingua, ma il nuovo può essere compreso solo attraverso i mezzi e i termini di un linguaggio preesistente. Durante questo processo, il linguaggio di arrivo viene utilizzato per un nuovo scopo, e trova così una reale estensione.

Allo stesso modo, anche l’elemento tradotto dal linguaggio di partenza è sottoposto in qualche modo a un processo di espansione e di rinnovamento. Il linguaggio di arrivo ha infatti una sua propria dinamica e porta il nuovo materiale in spazi non ancora toccati nella lingua di origine.

Così, la conversione implica l’uso di strutture esistenti, il "rivolgerle" verso nuove direzioni. Non si tratta di sostituire qualcosa di vecchio con qualcosa di nuovo, ma di trasformare, di rivolgere l’esistente verso nuovi compiti.


5. Il Verbo non si è fatto semplicemente "carne", si è fatto persona. Proseguendo il parallelo linguistico, il Verbo non è semplicemente una parola straniera adottata nel vocabolario dell’umanità; il Verbo è pienamente tradotto, trasportato nel sistema funzionale del linguaggio, nella pienezza delle esperienze e delle relazioni personali e sociali. La risposta umana appropriata all’incarnazione non può che essere l’apertura e la disponibilità del sistema delle funzioni personali e sociali al nuovo significato, alla nuova espressione del Cristo. Da questo punto di vista, la conversione è il riorientamento verso Dio di ogni aspetto di umanità - umanità sempre intesa in senso culturalmente specifico. Per sua natura, la conversione non è un atto puntuale, ma un processo senza fine.

Così, la traduzione della Bibbia come processo è sia un riflesso dell’atto centrale da cui dipende la fede cristiana, sia una concretizzazione del mandato verso i popoli dato da Gesù ai discepoli. Nessun’altra attività rappresenta più chiaramente la natura della missione della Chiesa.


6. Il parallelo fra Scrittura e Incarnazione è suggerito dal prologo stesso della Lettera agli Ebrei, che mette in relazione le parziali e occasionali parole di Dio attraverso i profeti con la definitiva e completa parola di Dio pronunciata una volta per sempre nel Figlio. Le questioni e i problemi della traduzione della Bibbia sono le questioni e i problemi dell’Incarnazione.

Lo sforzo di presentare degli scritti contenuti in linguaggi e culture estranee alla situazione presente dei popoli è autorizzata dall’atto dell’Incarnazione con cui Dio si è "tradotto" nell’umano.

Come l’Incarnazione è avvenuta nei termini di un contesto sociale particolare, così la traduzione usa termini e strutture di un contesto specifico.

La traduzione della Bibbia ha lo scopo di rendere disponibile la parola su Gesù Cristo così che essa possa raggiungere tutti gli aspetti di uno specifico contesto linguistico e culturale, in modo tale che il Cristo possa rivivere in quel contesto, nelle persone dei suoi discepoli, sentendosi a casa così intimamente come quando visse nella cultura della Palestina giudaica del primo secolo.

Le difficoltà e i rischi del tradurre sono parte necessaria del processo della missione cristiana. Parole o concetti centrali, senza ovvii equivalenti nel linguaggio di arrivo, immagini centrali radicate nel terreno o nella storia del vicino oriente e dell’impero romano, lo slittamento di significato in parole apparentemente corrispondenti, il bagaglio che il linguaggio di arrivo inevitabilmente porta con sé, sono tutti degli strumenti attraverso i quali la parola su Gesù Cristo viene applicata agli aspetti differenzianti di una cultura. Le nuove traduzioni, portando la parola su Gesù Cristo in nuove aree, volgendola a nuove situazioni, hanno la potenzialità di rimodellare e di approfondire o di estendere la fede cristiana.

Invece di definire una "area di sicurezza", dove certe linee di pensiero sono prescritte e altre sono invece proscritte (conseguenza naturale di una autorità concepita come intraducibile), la traducibilità della Bibbia comincia potenzialmente una serie di interazioni della parola su Gesù Cristo con nuove aree di pensiero e di tradizione.


7. Anche da questo punto di vista, la traduzione si rassomiglia alla conversione, anzi ne può essere vista come un modello funzionale. La traduzione, come la conversione, ha un inizio, ma non una fine. Nonostante la sua efficacia, non è mai buona abbastanza; come cambiano la vita sociale e il linguaggio, così deve continuare a cambiare la traduzione. Il principio della traduzione è il principio della revisione.


8. Il principio di revisione ha tuttavia un’eccezione, che in realtà rafforza il parallelismo tra Incarnazione e traduzione.

Le "traduzioni" del Cristo che hanno luogo quando i credenti rispondono a lui nelle differenti culture, sono delle "ri-traduzioni". Queste "re-incarnazioni" sono contingenti rispetto alla prima Incarnazione, con il suo fermo ancoraggio nel tempo e nello spazio, "sotto Ponzio Pilato".

Allo stesso modo, una traduzione della Bibbia è una "ri-traduzione", con l’originale sempre a portata di mano. Le diverse traduzioni possono e devono essere confrontate, non solo con l’originale, ma anche tra di loro, con le altre traduzioni fatte dal medesimo originale. Anche se ogni atto di traduzione, come ogni processo di conversione, porta l’originale in nuovi territori e potenzialmente lo espande, l’assenza di una rassomiglianza "familiare" tra le diverse generazioni dovrebbe legittimamente far nascere qualche sospetto.

Di per sé, la diversità proveniente dalla penetrazione in una nuova cultura non è incompatibile con la coerenza derivante dal fatto che le diverse traduzioni sono fatte a partire da un medesimo originale (si tralasciano qui evidentemente i casi in cui sono effettivamente diverse le "lezioni" originali ). Ed anche da questo punto di vista, la traduzione biblica rispecchia la missione cristiana. Non è possibile avere "troppo" del principio di localizzazione e indigenizzazione, che fa sentire la fede a casa sua, e nemmeno avere "troppo" del principio universalizzante in costante tensione con il primo, e che collega la comunità "locale" con la sua espressione "domestica" della fede nel medesimo Cristo di altri cristiani di altri tempi e luoghi. E’ solo possibile avere "troppo poco" di tutti e due i principi.


9. La strategia comunicativa dell’apostolo Paolo, quale la ritroviamo in 1Cor 9,19-23, ha delle sicure risonanze anche per il problema della "traduzione" della Bibbia. Riportiamo la pagina per intero:

19 Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20 mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. 21 Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. 22 Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. 23 Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro.

Non si tratta di un relativismo morale che approfitta di ogni circostanza, ma di applicare una comprensione culturale alla effettiva comunicazione della verità del vangelo. Si tratta di pertinenza culturale, non di relativismo culturale (cf Shaw 1998, p. 16; Nida, Customs and Cultures, New York: Arper and Row, 1954, p. 52).

°Teofilo°
00lunedì 3 agosto 2009 20:00

1. Aspetti teologici. Bibbia e cultura

1.5 Traduzione contestuale. Ruolo dell’antropologia culturale. Traduzione della Bibbia e sviluppo sociale e culturale

Bibliografia:

Luzbetak, Louis J. 1992. "Contextual translation: the Role of Cultural Anthropology", in Philip G. Stine, ed., Bible Translation and the Spread of the Church, Leiden - New York . Köln: E.J. Brill, 1992; pp. 108-119.

Wendland, Ernst R. 1990. "Traditional Central African Religion Today. A Sociocultural Approach". In Stine, C. Philip - Wendland Ernst R., editors. Bridging the Gap. African Traditional Religion and Bible Translation. New York: United Bible Societies; 1990; pp. 1-23.

Nida, Eugene A. 1972. "New Religions for Old. A Study of Culture Change". In Practical Anthropolgy. 1972; 19(1), pp. 13-26.

Nida, Eugene A. 1968. Religion Across Cultures. New YorkHarper and Row; 1968.

Nida, Eugene A. and Wonderly, William. 1963. "Cultural Differences and the Communication of Christian values". In Practical Anthropology. 1963; 10(6), pp. 241-258.


Molto spesso, e soprattutto per quanto riguarda la Bibbia, una traduzione ha a che fare direttamente con almeno tre culture: quella della lingua di origine, quella della lingua di arrivo, e quella propria del traduttore. Un buon traduttore deve essere ben consapevole di trovarsi all’incrocio fra queste diverse culture. Il ruolo dell’antropologia culturale è proprio quello di sensibilizzare il traduttore alle differenze fra le culture e ai loro rapporti. Una buona sensibilizzazione alle diverse culture fornirà degli orientamenti fondamentali almeno su tre punti: la natura della cultura in questione, la sua organizzazione, il suo modo di operare.


1.5.1 La natura della cultura

Gli studi di antropologia culturale forniscono qualche centinaio di definizioni sulla cultura. Non è quindi qui il caso di sceglierne una come migliore delle altre, tanto più che oggi l’attenzione è più sui "modelli" che sulle "definizioni".

Naturalmente, anche di "modelli" ne esistono più di uno, ed è appena il caso di tener presente che nessuno sarà sufficiente da solo per descrivere completamente una cultura.

Sarà opportuno invece fare certo una scelta di un modello fondamentale, ma saper anche affiancarlo con altri sottomodelli presenti nelle contemporanee teorie di antropologia culturale, per poter equilibrare o correggere la prospettiva dominante preferita.

Tanto per avere un’idea di partenza e un orientamento generale, si può dire, in un modo che certo non evita il rischio di eccessiva semplificazione, che la cultura è tutto ciò che noi impariamo dalla società, un piano di vita della società, un codice di comportamento, un insieme di idee, di norme, di nozioni, di credenze, di valori circa persone, cose, eventi, comportamenti. In una parola, il sistema simbolico di un popolo.


1.5.2 L’organizzazione della cultura

Il secondo aspetto cui un traduttore deve essere sensibile è quello della strutturazione di ogni cultura. In quanto sistema, ogni area di una cultura è interconnessa con le altre aree per formare un insieme più o meno integrato (con possibilità, cioè, di incoerenza e disintegrazione).

A un livello di superficie ci sono le forme di un modo particolare di vivere. il chi, che cosa, quando, dove, che genere. Anche se queste forme non sono uniche nel senso stretto del termine, esse sono strutturate in modo unico a un secondo e un terzo livello, al livello cioè dei significati immediati, delle interrelazioni e delle presupposizioni, dei perché immediati, ma anche e soprattutto al livello dei punti iniziali del pensare, del reagire emotivamente, del motivare, il livello delle premesse soggiacenti di un popolo, degli atteggiamenti e dei valori fondamentali, in una parola il livello della visione del mondo propria di una società.

Per accennare alle strutturazione presenti sul secondo livello, quello dei perché immediati di comportamento, si pensi per esempio all’area del vestito.

Per comprendere il significato del vestire-vestirsi in una data cultura, è necessario tenere presenti le connessioni che esso implica in quella cultura. Il termine stesso di vestito non indica la stessa cosa in Alaska o tra i Boscimani dell’Africa. Dobbiamo conoscere le ragioni per coprirsi, gli usi, i presupposti o le condizioni per potersi coprire (soldi, materiali, tecniche, ecc.), a quali bisogni il coprire-coprirsi risponde, con quali associazioni è collegato (religione, occupazione, responsabilità), quali ripercussioni o conseguenze comporta il non vestire-non vestirsi o il non farlo in un certo modo e in certe circostanze, e così via. Se non si tengono presenti tutte queste interconnessioni, non sarà possibile comprendere veramente che cosa significa il vestito in una data cultura. I parlanti nativi di una lingua possono non essere in grado di articolare queste interconnessioni, ma certamente le sentono, allo stesso modo con cui uno sente e applica le regole grammaticali anche se non è in grado di articolarle esplicitamente.

Essere sensibilizzati verso una cultura significa essere sensibilizzati ai valori unici di quella cultura. Per fare un altro esempio, non possiamo comprendere che cosa è la poligamia in una data cultura senza tener presente come un matrimonio plurimo è collegato con altre aree, come quella del prestigio, dell’amicizia fra tribù, delle obbligazioni interfamiliari, della salute, del lavoro familiare, del confort, dell’allevamento degli animali, del rapporto di ostilità e fedeltà tra tribù, del culto degli antenati, della sicurezza sociale per le vedove, e molto altro ancora. La cura di sé e la sensualità possono non avere alcun posto in tale quadro, o al massimo possono apparire all’ultimo posto.

Soggiacente a questo secondo livello dei perché immediati è il terzo livello, quello più profondo, il livello della logica interna, degli atteggiamenti fondamentali, delle spinte basilari.

Per potersi dire sensibilizzato ad una cultura, un traduttore deve apprezzare l’importanza di questo livello profondo, degli ultimi perché di un modo di vivere. Questo livello, ad esempio, può spiegare le relazioni che si sono venute a creare sul secondo livello più immediato, esso contiene l’ "anima" di un popolo, la sua psicologia fondamentale.


1.5.3. La dinamica di una cultura

Per essere sensibilizzati ad una cultura, oltre a conoscere che cosa è una cultura e come è strutturata, è necessario anche essere consapevoli del modo con cui una cultura opera. Non si tratta qui di studiare la materia complessa della dinamica di una cultura, ma almeno di capire che cosa si intende per dinamica.

La cultura, essendo una specie di sistema organico, tende a cambiare e ad adattarsi, più o meno con successo, e questo sempre all’interno di una tendenza generale a conservarsi, come avviene per ogni organismo. Nuovi elementi sono aggiunti, altri vengono persi, sostituiti, mescolati, sempre in parallelismo con il cambiamento dell’esperienza delle persone, dei bisogni e delle esigenze di un sempre cangiante ambiente fisico, sociale e spirituale, del succedersi degli avvenimenti storici, e via dicendo. Ogni cambiamento porta con sé uno squilibrio nello stato attuale della cultura, il quale a sua volta lancia la domanda per un nuovo equilibrio nella strutturazione dell’insieme, normalmente in accordo con la visione generale del mondo propria della cultura stessa. Per trovare questo nuovo equilibrio, o viene modificato il nuovo elemento oppure è la cultura stessa che viene modificata pur di trovare un equilibrio stabile. Solo allora il nuovo elemento sarà normalmente integrato nel sistema che noi chiamiamo cultura.

Per essere, dunque, sensibilizzati a una cultura, un traduttore deve essere consapevole del fatto che le culture sono dinamiche, che stanno sempre agendo e reagendo. Una cultura non è una tradizione morta. La cultura è il qui e ora, con un passato e molto probabilmente un futuro. Soprattutto in un mondo sempre in rapido cambiamento, comprendere una cultura in modo diverso, e non in senso dinamico, equivarrebbe a trattare con un mondo irreale e inesistente.



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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 14/07/2003 19.41

1. Aspetti teologici. Bibbia e cultura

1.4 Teologia e traduzione. Implicazioni di alcune questioni teologiche per la traduzione: testo, canone, ispirazione (parola di Dio in linguaggio umano), rapporto fra ricerca e teologia.

Bibliografia: Daniel C. Arichea, Theology and Translation: the Implications of Certain Theological Issues to the Translation Task, in Philip G. Stine, ed., Bible Translation and the Spread of the Church, Leiden - New York . Köln: E.J. Brill, 1992; pp. 40-67.


La Bibbia è, fra le altre cose, un documento teologico. Il compito di tradurre è perciò necessariamente un compito teologico, e come tale deve fare i conti con alcune questioni teologiche strettamente collegate alla traduzione.


1.4.1 Che cosa si traduce. Il problema del Testo e del Canone\


a) Il Testo

1. La qualità di una traduzione comincia dalla scelta del testo critico che si traduce. La "critica testuale" è di importanza fondamentale, e i traduttori devono tenersi aggiornati sui risultati dello studio critico dei manoscritti.

Tra le chiese oggi c’è un accordo a fare uso delle seguenti edizioni critiche:

The Greek New Testament, per il Nuovo Testamento,

e il testo del

Hebrew Old Testament Text Project (HOTTP) o della più facilmente accessibile

Biblia Hebraica Stuttgartensia, per l’Antico Testamento.


A queste edizioni critiche si affiancheranno alcuni aiuti. Ad es.

- Bruce M. Metzger, A Textual Commentary on the Greek New Testament, London: United Bible Societies, 1971;

- Bruce M. Metzger. Il testo del Nuovo Testamento. Trasmissione, corruzione e restituzione. Ed. italiana a cura di Donatella Zoroddu, Brescia: Paideia, 1996.

- Emmanuel Tov, Textual Criticism of the Hebrew Bible, Minneapolis: Fortress Press, 1992.

- Reinhard Wonneberger, Understanding BHS : A Manual for the Users of Biblia Hebraica Stuttgartensia, Ed. Pontificio Istituto Biblico, Roma 1990.


2. Per il processo di traduzione, le decisioni più utili sono quelle basate su principi critici, letterari e linguistici, e non quelle basate su degli a priori teologici.


3. Strumenti per rendere accessibili ai traduttori le informazioni testuali. Fra gli strumenti concepiti non solo per gli specialisti, ma anche e soprattutto per i traduttori sono da ricordare: la rivista The Bible Translator, edita dal 1950, e i vari Helps su singoli libri biblici pubblicati a cura delle United Bible Societies.

Diversi siti Internet sono dedicati al problema della traduzione della Bibbia, in particolare si possono seguire quello del Summer Institute of Linguistics e quello delle stesse UBS.


b) Il Canone

Le scelte "canoniche" riguardano la forma, l’ordine e i limiti dei libri biblici che vengono tradotti. Le principali domande a questo proposito sono: 1) Quale stadio di formazione dei libri bibici e del corpo canonico è oggetto della traduzione? 2) Quanto è importante distinguere tra singoli libri e compilazioni degli stessi? 3) Quale è il posto della critica testuale nel processo canonico? Basterà per ora aver accennato a questi problemi e dire che a livello di progetti interconfessionali di traduzione un certo consenso si è ormai delineato sul modo di procedere circa queste questioni.


1.4.2 Che genere di libro si sta traducendo. La natura della Bibbia come letteratura sacra


a) La Bibbia come composizione letteraria: l'importanza degli studi

l. L'aspetto di composizione umana della Scrittura rende possibile il compito della traduzione, insieme con quello dell'interpretazione. Ogni sottovalutazione dell'aspetto umano a favore di una valutazione esclusiva dell'aspetto divino rende o impossibile o secondaria ogni traduzione ed ogni interpretazione.

2. Il carattere umano della Bibbia rende possibile una giusta valorizzazione della sua diversità. Una buona traduzione non attenua queste diversità, di qualsiasi genere esse siano, letterarie, stilistiche o teologiche. Ciò va fatto rispettando sempre le caratteristiche proprie della lingua di arrivo. Si deve purtroppo dire che le traduzioni finora non si sono molto preoccupate di questo aspetto.

3. Il carattere umano della Bibbia rende possibile e necessario analizzarla come si fa per qualsiasi altro libro. Si useranno quindi tutti gli strumenti messi a disposizione dalle scienze moderne dei testo.


b) La Bibbia come libro teologico. L'importanza della teologia. L’Ispirazione

Naturalmente, una analisi che tenesse conto soltanto dell'aspetto umano della Bibbia sarebbe parziale e insufficiente. Non solo lo studioso credente, ma anche il non credente deve tener conto che la Bibbia stessa pretende di contenere delle affermazioni di fede di diverse comunità credenti, proponendole al tempo stesso come normative.

Non si tratta qui di ripetere le affermazioni e le discussioni circa la dottrina dell'Ispirazione, ma di proporre delle considerazioni che ne illustrano la relazione con il compito della traduzione

i. Una dottrina verbale dell'ispirazione è controproducente per il compito della traduzione, specialmente quando è strettamente collegata con l'antica posizione dell'inerranza e dell'infallibilità. Un tale stretto legame porta a omologare ogni divergenza nei testi (Cf la traduzione della Living Bible di Lc 24,20a, omologato a At 1, 12; così la correzione di Mc 1,2 nel textus receptus che attribuisce la citazione ai profeti in genere, invece che ad Isaia) o ad attribuire un valore assoluto e intoccabile a certi termini o a certe espressioni, favorendo quindi almeno per questi una traduzione quanto mai formale pur all'interno di traduzioni concepite come dinamiche (Cf certi usi anche nella NIV e nella Living Bible).

ii. è necessario passare a una dottrina dell'Ispirazione che tenga conto del dettato del Concilio Vaticano Il e delle acquisizioni sia delle scienze bibliche sia delle scienze testuali in genere.

iii. L'ispirazione deve essere messa in relazione con tutto il processo di formazione dei singoli libri e dell'intero canone,.e non solo con un presupposto e unico processo finale di scrittura.

iv. Per il processo di traduzione è più utile una comprensione funzionale dell'ispirazione (cf2 Tm 3,16).

v. Si collega all'approccio funzionale una concezione dell'ispirazione che si pone in relazione con la rivelazione di Dio concepita come comunicazione di sé stesso. All'interno di questo contesto va situata ogni discussione circa l''ispirazione'' di certe traduzioni fondamentali nella storia della Chiesa, come quella della Settanta o della Vulgata, ma anche ogni valutazione di procedure ecclesiali comunitarie di atti di traduzione.


c)La ricerca di un equilibrio: la relazione tra studi e teologia

Una volta chiarito che la Bibbia è nello stesso tempo composizione umana e letteratura sacra, non solo l'impostazione degli studi biblici accademici, ma anche la traduzione deve tenere in conto questo duplice aspetto descrittivo (passato) e teologico (presente) del testo. Facciamo menzione di tre aree in cui traduzione può prendere sul serio l'aspetto teologico:

i. La traduzione dei termini tecnici teologici.

ii. La disponibilità della traduzione verso alcune sensibilità contemporanee, sia nella chiesa sia nella società.

Es. La questione del trattamento del termine "giudei" nel vangelo di Giovanni secondo la Good News Bíble. Cf Robert G. Bratcher, "The Jews in the Gospel of John", in A Transator's Handbook on the Gospel of John, by Barclay M. Newman and Eugen A. Nida, New York: United Bible S ocieties, 1980, pp. 641-649 (reprinted from Practical Papers for the Bíble Translator 26, October 1975, pp. 401-409).

Es. La questione dell'uso del linguaggio inclusivo in accettazione di alcune istanze della sensibilità femminista.

iii. La necessità per la traduzione di essere fedele sia alla cultura biblica di partenza sia alla cultura dei popoli della lingua di arrivo.


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Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 14/07/2003 19.42

1. Aspetti teologici. Bibbia e cultura

1.6 Traduzione della Bibbia e sviluppo sociale e culturale

Bibliografia:

Whiteman, Darrell L., "Bible Translation and Social and Cultural Development". In: Stine, C. Philip, ed. Bible Tanslation and the Spread of the Church. Second ed., Leiden - New York - Köln: E.J. Brill; 1992; pp. 120-141.

Dato il ruolo che la traduzione della Bibbia ha avuto nella storia di certe lingue, non sembra fuori luogo chiedersi se c’è qualche dato che permetta di affermare che quando un popolo ha avuto la Bibbia tradotta nella propria lingua, ciò ha di fatto contribuito al suo sviluppo come popolo, come comunità e come nazione.

Una volta posta la domanda, si potrà restare sorpresi dalla scarsità di studi empirici che dimostrino una correlazione tra sviluppo e traduzione della Bibbia. E’ perciò necessario impostare la questione fin dal suo fondamento, in modo da poter poi impostare delle eventuali ricerche e verifiche. Sarà opportuno avere delle idee chiare sull’idea di sviluppo culturale e introdurre il concetto di sviluppo umano integrale, in modo da poter poi discutere se la traduzione della Bibbia può contribuire e in che modo a queto tipo di sviluppo. Si potrà poi prendere in considerazione alcune aree problematiche particolari, dove è necessaria una sensibilità multiculturale per poter assicurare un contributo positivo da parte di una traduzione. Infine, si accennerà ad alcuni casi particolari dove sembra che la traduzione della Bibbia abbia segnato qualche differenza sulla via dello sviluppo. Alcune considerazioni finali potranno suggerire delle attenzioni per il proseguo della ricerca.


1.6.1 Evoluzione del concetto di "sviluppo"

Il concetto di sviluppo ha conosciuto anch’esso non pochi pogressi negli ultimi decenni. Per un certo periodo, il paradigma dominante è stato quello economico e tecnologico. Alcune nazioni del cosiddetto "sottosviluppo" lo hanno applicato, ma con risultati deludenti, tra i quali stagnazione economica, grande concentrazione di guadagni e potere in mani di pochi, alta disoccupazione, scarsità di cibo, enormi debiti nazionali.

Al paradigma dominante si viene così affiancando (sia pure sovente soltanto a parole) un nuovo concetto di sviluppo che prende in considerazione dei valori alternativi a quelli economici: il rispetto per i valori culturali che conferiscono identità e dignità di popolo, il primato del soddisfacimento dei bisogni basilari (salute, educazione, casa, lavoro), una politica che porti alla riduzione della dipendenza, al rispetto dei diritti umani, della libertà e della democrazia, l’inclusione della dimensione del senso globale della vita e della storia. In breve, lo sviluppo viene visto non solo come problema economico, ma anche come problema etico.

Da un punto di vista negativo, si è preso coscienza che sviluppo non è urbanizzazione, né industrializzazione, né modernizzazione né occidentalizzazione. Al contrari, queti fattori hanno sovente avuto conseguenze disastrose sui popoli "in via di sviluppo".


1.6.2 Caratteristiche di uno sviluppo umano integrale

1. Uno sviluppo umano integrale riguarda tutta la vita nella sua globalità. Esso riconosce un equilibrio nella soddisfazione dei bisogni fondamentali della vita umana nelle sue diverse componenti. Uno schema utile a riassumere un tale concetto di equilibrio può prendere in considerazione quattro aree: crescita personale, crescita materiale, crescita sociale, crescita spirituale. Ognuna di queste aree include diverse componenti.

A titolo di esempio:

- l’area della crescita personale include: l’auto-stima e la fiducia in sé stessi, la sicurezza, il nutrimento e la salute;

- l’area della crescita sociale include: la partecipazione, l’autonomia, la solidarietà, l’educazione;

- l’area della crescita materiale include quelle componenti che sono generalmente pensate far parte dello sviluppo: i trasporti, la comunicazione, il denaro, la proprietà e l’uso della terra;

- l’area della crescita spirituale include il rapporto con il soprannaturale. Se questo è caratterizzato in modo negativo da sentimenti di paura e di incertezza, ciò avrà sicuramente delle conseguenze negative su tutto il processo di sviluppo. Al contrario, se è caratterizzato in modo fondamentalmente positivo da sentimenti di speranza e di amore, come pensiamo che dovrebbe essere all’interno del cristianesimo, allora anche lo sviluppo ne risentirà in modo positivo.

[La "ruota" dello sviluppo e la misura della qualità della vita (cf p. 126)]

2. Uno sviluppo umano integrale si focalizza sulla gente, non sui progetti. Al primo posto sta l’attenzione ai processi con cui la gente si sviluppa e non i prodotti dello sviluppo.

3. Uno sviluppo umano integrale dà importanza alla dimensione spirituale e ai valori morali.


1.6.3 Fattori contrari allo sviluppo

Un assioma degli antropologi è che c’è sempre una distanza tra i valori ideali o le credenze professate da una società e gli effettivi comportamenti della gente in quella società. In altre parole, in ogni società la gente non realizza pienamente i propri ideali culturali.

Di questa tensione parlano, ad esempio, le opere di due noti antropologi.

Raoul Naroll, The Moral Order. An Introduction to the Human Situation (Beverly hills, CA: Sage Publications; 1983) ha sviluppato una teoria, che egli chiama "moralnets", per mostrare come le società hanno bisogno di avere delle solide "reti morali" di supporto e stabilità in modo da poter affrontare i problemi sociali più gravi e diffusi. Ora, il cristianesimo sovente rafforza le già esistenti "reti morali" o ne aggiunge delle altre dove prima non ce n’erano o non erano più funzionali. Questa è un’area dove la traduzione della Bibbia in lingua locale ha certo un ruolo da svolgere.

Walter Goldschmidt, Comparative Functionalism; An Essay in Anthropological Theory (Berkeley, CA: University of California Press, 1966) nota come una delle funzioni delle istituzioni in una società è quella di "mantenere il sistema sociale come sistema, in modo da evitare che la società si disgreghi a causa delle tendenze centrifughe degli interessi egoistici individuali" (p. 58). Sono parole di un antropologo, e non di san Paolo, il quale, tuttavia, pur in termini teologici, dice cose molto simili.

Se l’egocentrismo e l’etnocentrismo sono forze che lavorano in modo contrario allo sviluppo integrale di un popolo, appare ancora una volta chiaro il ruolo positivo che la conoscenza della Bibbia nella lingua del popolo può svolgere.

Naturalmente, il modo di valutare questo ruolo risentirà delle presupposizioni antropologiche e dei modelli di cultura con cui si affronta il problema.

Ora, di fatto, molti studi di antropologia hanno valutato negativamente l’impatto del cristianesimo sulle culture del mondo non occidentale. Non è il momento ora di affrontare le ragioni delle tensioni esistenti fra antropologi e missionari. Tuttavia, è il caso almeno di evidenziare che un modello statico di cultura arriva a vedere come dannoso e disgregante qualsiasi contatto di culture implicante un cambiamento. Di questo passo si arriva a volere una fossilizzazione delle culture e si riduce l’antropologia a museo etnografico di oggetti non più viventi. Ma una tale realtà è inesistente. Le culture sono in un continuo processo di adattamento a sempre nuove situazioni ambientali, interne ed esterne. E’ necessario perciò avere un modello dinamico e non statico di cultura. Allinterno di questo modello trova un ruolo positivo l’introduzione in una cultura della Bibbia in lingua locale.


1.6.4 Livelli di uno sviluppo umano integrale

1. Livello individuale

2. Livello comunitario

3. Livello inter-comunitario


1.6.5 Traduzione della Bibbia e sviluppo umano integrale

Ovviamente, si parla del ruolo della traduzione della Bibbia come di un fattore fra numerosi altri fattori e dal punto di vista di un concetto di sviluppo umano integrale. Questo concetto è stato precedentemente esposto, ma possiamo così riassumerlo: "Un processo con cui una comunità si rafforza così da poter creativamente rispondere ai propri bisogni (spirituali, mentali, fisici, sociali) attraverso una accresciuta consapevolezza, una maggiore interazione dentro e fuori la comunità e una effettiva utilizzazione delle risorse disponibili" (Larry E. Yost - Willa D. Yost, A Philosophy of Intercultural Community Relations and a Strategy for Preparing S.I.L. Members for Intercultural Community Work, Dallas: Summer Institute of Linguistics, 1983; p. 3).

Alcune aree in cui è possibile riconoscere un rapporto positivo tra sviluppo e traduzione della Bibbia sono le seguenti: 1) Un progresso nella stima di sé e nella consapevolezza della propria dignità; 2) Un allargamento del proprio mondo; 3) Un nuovo senso di identità; 4) Una nuova potenzialità da una accresciuta e allargata capacità "letteraria", almeno in certi casi.

Caterina63
00martedì 20 ottobre 2009 00:43
A quanto postato da Teofilo...aggiungerei un ulteriore aspetto all'argomento...

...per chi è alle prime armi con questo tema è meglio chiarire che cosa intendiamo per una "traduzione FALSIFICATA" della Bibbia......in tal senso non si intende dire che quella Bibbia è "falsa", ma che essa NON corrisponde ALL'INTERPRETAZIONE che poi la stessa Chiesa da formulando le dottrine......

proprio l'apostolo Pietro nella sua Lettera 2Pt.3.....dice:
15 La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; 16 così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina.
17 Voi dunque, carissimi, essendo stati preavvisati, state in guardia per non venir meno nella vostra fermezza, travolti anche voi dall'errore degli empi; 18 ma crescete nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. A lui la gloria, ora e nel giorno dell'eternità. Amen!

ergo l'interpretazione delle Scritture non è così solo ed esclusivamente un problema LETTERALE....questo fondamentalismo letterario nasce con il PROTESTANTESIMO......


La New International Version (1978) per esempio, fu una versione facilmente leggibile ma piuttosto libera e caratterizzata da frequenti equivalenze dinamiche: Si trattò comunque di una vera e propria nuova traduzione dall’ebraico, dal greco e dall’aramaico, equidistante sia dalle continue parafrasi della Living Bible (1971) sia dal letteralismo estremo della American Standard Bible (1901). Ebbe grande successo perché fu concepita con finalità ecumeniche e, allo stesso tempo, risultò scarsamente influenzata da tendenze liberali e razionaliste. Combinò poi l’uso di un inglese moderno e comprensibile con il profondo rispetto di alcuni punti fermi del protestantesimo fondamentalista (inenarranza delle Sacre Scritture, nascita verginale, redenzione sacrificale, divinità di Cristo, resurrezione fisica di Gesù e suo ritorno glorioso....


Tutto ok all'apparenza.....ma cerchiamo di capire che cosa è il fondamentalismo delle Scritture....

La lettura fondamentalista parte dal principio che la Bibbia, essendo Parola di Dio ispirata ed esente da errore, dev’essere letta e interpretata letteralmente in tutti i suoi dettagli. Ma per “interpretazione letterale” essa intende un’interpretazione primaria, letteralista, che esclude cioè ogni sforzo di comprensione della Bibbia che tenga conto della sua crescita nel corso della storia e del suo sviluppo.

Si oppone perciò all’utilizzazione del metodo storico-critico per l’interpretazione della Scrittura, così come ad ogni altro metodo scientifico. La lettura fondamentalista ha avuto la sua origine, all’epoca della Riforma, da una preoccupazione di fedeltà al senso letterale della Scrittura. Dopo il secolo dei lumi, essa si è presentata, nel protestantesimo, come una salvaguardia contro l’esegesi liberale.

Il termine “fondamentalista” si ricollega direttamente al Congresso Biblico Americano tenutosi a Niagara, nello stato di New York nel 1895. Gli esegeti protestanti conservatori definirono allora «cinque punti del fondamentalismo»: l’inerranza verbale della Scrittura, la divinità di Cristo, la sua nascita verginale, la dottrina dell’espiazione vicaria e la risurrezione corporale in occasione della seconda venuta di Cristo.

Quando la lettura fondamentalista si propagò in altre parti del mondo, diede vita ad altri tipi di lettura ugualmente “letteralisti”, in Europa, Asia, Africa e America Latina. Questo genere di lettura trova sempre più numerosi aderenti nel corso dell’ultima parte del XX secolo, in alcuni gruppi religiosi e sette e anche tra i cattolici. Benché il fondamentalismo abbia ragione di insistere sull’ispirazione divina della Bibbia, sull’inerranza della Parola di Dio e sulle altre verità bibliche incluse nei cinque punti fondamentali, il suo modo di presentare queste verità si radica in una ideologia che non è biblica, checché ne dicano i suoi rappresentanti.

Infatti essa esige una adesione ferma e sicura ad atteggiamenti dottrinali rigidi e impone, come fonte unica d’insegnamento riguardo alla vita cristiana e alla salvezza, una lettura della Bibbia che rifiuti ogni tipo di atteggiamento o ricerca critici. Il problema di base di questa lettura fondamentalista è che rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità della stessa Incarnazione.

Il fondamentalismo evita la stretta relazione del divino e dell’umano nei rapporti con Dio. Rifiuta di ammettere che la Parola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta, sotto l’ispirazione divina, da autori umani le cui capacità e risorse erano limitate. Per questa ragione, tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia condizionati da una data epoca.

Non accorda nessuna attenzione alle forme letterarie e ai modi umani di pensare presenti nei testi biblici, molti dei quali sono frutto di una elaborazione che si è estesa su lunghi periodi di tempo e porta il segno di situazioni storiche molto diverse.

Il fondamentalismo insiste anche in modo indebito sull’inerranza dei dettagli nei testi biblici, specialmente in materia di fatti storici o di pretese verità scientifiche. Spesso storicizza ciò che non aveva alcuna pretesa di storicità, poiché considera come storico tutto ciò che è riferito o raccontato con verbi al passato, senza la necessaria attenzione alla possibilità di un significato simbolico o figurativo.

Il fondamentalismo tende spesso a ignorare o a negare i problemi che il testo biblico comporta nella sua formulazione ebraica aramaica o greca. È spesso strettamente legato a una determinata traduzione, antica o moderna. Omette ugualmente di considerare le “riletture” di alcuni passi all’interno stesso della Bibbia.

Per ciò che concerne i vangeli, il fondamentalismo non tiene conto della crescita della tradizione evangelica, ma confonde ingenuamente lo stadio finale di questa tradizione (ciò che gli evangelisti hanno scritto) con lo stadio iniziale (le azioni e le parole del Gesù della storia).

Viene trascurato nello stesso tempo un dato importante: il modo in cui le stesse prime comunità cristiane compresero l’impatto prodotto da Gesù di Nazaret e dal suo messaggio. Invece abbiamo lì una testimonianza dell’origine apostolica della fede cristiana e la sua diretta espressione. Il fondamentalismo snatura così l’appello lanciato dal vangelo stesso.

Il fondamenta­lismo porta inoltre a una grande ristrettezza di vedute: ritiene infatti come conforme alla realtà, perché la si trova espressa nella Bibbia, una cosmologia antica superata, il che impedisce il dialogo con una concezione più aperta dei rapporti tra cultura e fede.

Si basa su una lettura non critica di alcuni testi della Bibbia per confermare idee politiche e atteggiamenti sociali segnati da pregiudizi, per esempio razzisti, del tutto contrari al vangelo cristiano.
Infine, nel suo attaccamento al principio del “sola Scrittura”, il fondamentalismo separa l’interpretazione della Bibbia dalla Tradizione guidata dallo Spirito, che si sviluppa in modo autentico in unione con la Scrittura in seno alla comunità di fede.

Gli manca la consapevolezza che il Nuovo Testamento si è formato all’interno della Chiesa cristiana e che è Sacra Scrittura di questa Chiesa, la cui esistenza ha preceduto la composizione dei suoi testi.

Per questa ragione, il fondamentalismo è spesso antiecclesiale, ritenendo come trascurabili i credo, i dogmi e le pratiche liturgiche che sono diventate parte della tradizione ecclesiastica, così come la funzione di insegnamento della Chiesa stessa.

Si presenta come una forma di interpretazione privata, la quale non riconosce che la Chiesa è fondata sulla Bibbia e attinge la sua vita e la sua ispirazione nelle Scritture.

L’approccio fondamentalista è pericoloso, perché attira le persone che cercano risposte bibliche ai loro problemi di vita. Tale approccio può includerle offrendo interpretazioni pie ma illusorie, invece di dire loro che la Bibbia non contiene necessariamente una risposta immediata a ciascuno di questi problemi. Il fondamentalismo invita, senza dirlo, a una forma di suicidio del pensiero. Mette nella vita una falsa certezza, poiché confonde inconsciamente i limiti umani del messaggio biblico con la sostanza divina dello stesso messaggio.

(PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 1993)


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La Chiesa Cattolica incoraggiò il lavoro di revisione e ricerca, soprattutto con san Pio X che, nel 1907, commissionò ai monaci benedettini l'incarico di fare ricerche e preparativi per un’edizione riveduta della Volgata e con Pio XII che, nel 1943, con l’enciclica Divino Affilante Spiritu caldeggiò vivamente lo studio delle lingue antiche e la preparazione di nuove traduzioni dai testi originali. Furono così pubblicate moltissime traduzioni sui testi originali come le Bibbie di Vaccari (1958), di Nardoni (1960), di Garofalo (1960) e di Galbiati (1963). Nel 1979 la Chiesa cattolica ha quindi presentato, in lingua latina, la Nova Vulgata, splendida revisione della Vulgata di San Gerolamo, condotta sui testi originali e destinata soprattutto a fini liturgici.




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Si può allora usare la Bibbia INTERCONFESSIONALE?

si, perchè no....TUTTO MI E' LECITO, MA NON TUTTO GIOVA...dunque a cosa mi gioverebbe una Bibbia interconfessionale che modifica la traduzione dai testi originali solo per mettere più gruppi d'accordo?...

occorre tenere presente che gli esegeti PROTESTANTI.....usano un metodo DIVERSO da quello usato dai cattolici....se si terrà a mente questa sottile ma non indifferente differenza (scusate il gioco di parole!) allora potrete leggere queste bibbie "ecumeniche" senza farvi ingannare e senza pretendere di trovarvi LA DOTTRINA....

Poi molto dipenderà da quanto tempo avete da perdere.....

Per esempio, e finisco... un altra traduzione ingannevole è:

La New Revised Standard Version (1990) è stata curata personalmente da Bruce Metzger (autore, con il cardinale cattolico Carlo Martini, di un’autorevole revisione del testo critico di Nestlé-Aland del Nuovo Testamento).

Si tratta di una versione facilmente leggibile, abbastanza letterale, sicuramente attendibile ma segnata, in alcuni punti, da discutibili forzature linguistiche (come il gender-neutral language ). Ne esistono una versione protestante (senza note e senza libri deuterocanonici), una ortodossa (con libri apocrifi - i deuterocanonici per loro) ed una cattolica (con imprimatur, note e libri deuterocanonici).

L'uso liturgico di quest'ultima non è però consentito.....come mai?

semplice.........perchè ....il gender-neutral language ...tende a tradurre i termini greci “andropoi” e “adelfoi” con “uomini e donne”, “gente”, “popolo”, “fratelli e sorelle” al fine di arginare discutibili critiche di matrice femminista al tono un po’ maschilista e patriarcale di alcune pagine del testo biblico.
Qualunque cosa si possa pensare di tale procedimento (talvolta giustificato dal contesto ma talvolta dubbio e criticabile) è evidente che ogni traduzione che faccia uso del gender-neutral language introduce discutibili emendamenti congetturali sul cui valore testuale il lettore di media cultura spesso non è in grado di esprimere una valutazione critica....per fare un esempio concreto I PROTESTANTI USANO QUESTO METODO PER INSEGNARE CON LA BIBBIA ALLA MANO CHE MARIA, DOPO AVER PARTORITO GESU' NON RIMASE VERGINE ED EBBE ALTRI FIGLI....I FAMOSI "FRATELLI DI GESU'..." intesi appunto come fratelli di sangue.....

Un altro esempio ?

Qualche pregiudizio teologico o ideologico è invero presente in quasi tutte le Bibbie.

Sotto l’influsso del pensiero socialista moltissime versioni fanno pagare al fariseo la decima sul patrimonio e non sul reddito (Luca 18,12), tradendo così il senso della norma ebraica (Deuteronomio 14,22) ed introducendo un principio di tassazione giacobina mai insegnato dalle Sacre Scritture.....

Il dogma protestante della salvezza per sola fede incide poi sulla traduzione di Romani 10,10 (dove la NIV usa il presente del verbo essere, dando per sicura la salvezza) e di Romani 11,20 (dove la RSV e la NRSV aggiungono un “only” mancante nei testi originali).

Pregiudizi ariani sono quindi evidenti in Giovanni 1,1 (dove la NWT aggiunge un articolo indeterminato non presente nel testo greco) e in Colossesi 1,16 -17 (dove la NWT inserisce più volte il termine “altre” non contenuto nei testi originali).
Influssi liberali e razionalisti incidono infine sulla traduzione di Romani 9,5 e di Tito 2,13 (che la NAB e la NWT traducono separando nettamente Cristo da Dio).

Con la KJV e la NKJV, anche l'ottima versione CEI, forse spaventata dalla irreparabile gravità del peccato di apostasia, introduce -in Ebrei 6,6- un "se" mancante nel testo originale.

In un altra occasione, l'amico Daniele  di oriensforum rispondeva sulla Bibbia:

La Bibbia Marietti del 1960 è l'editio minor di un grande commentario esegetico in più volumi (uno per ciascun libro della Bibbia) uscito tra il 1948 e il 1976 e curato dai maggiori biblisti cattolici italiani, sempre sotto la direzione di mons. Garofalo. Per la sua notevole caratteristica, purtroppo sconosciuta ai manuali moderni, di coniugare rigore scientifico e aderenza alla dottrina cattolica, si configura, ancora oggi, come un'opera di fondamentale importanza, nonostante alcune differenze d'impostazione tra i volumi usciti per primi e quelli usciti nei decenni successivi. L'editio minor fu allestita col duplice scopo di completare provvisoriamente l'editio maior fin quando non fossero usciti di tutti i volumi (traguardo che però non fu mai raggiunto) e di offrire al pubblico colto italiano un'edizione della Bibbia che, pur non avendo l'ampiezza di un commentario specialistico, offrisse però le stesse garanzie scientifiche di quello. L'utilizzo del nome "Jahve" al posto di "Signore" si motiva quindi con ragioni di ordine filologico.

Ritengo che l'editio minor della Bibbia Marietti sia, a tutt'oggi, la migliore edizione da studio del testo sacro in lingua italiana. Le introduzioni ai singoli libri e i commenti a piè di pagina sono addirittura più completi e dettagliati di quelli della "Bibbia di Gerusalemme". E soprattutto, a differenza di questi ultimi, non contengono nessuna affermazione che non sia conforme alla santa dottrina della Chiesa in materia di ispirazione e inerranza
.

.....se conosci queste realtà....allora le eviti...




si rifletta anche leggendo e meditando qui:

Rapporto fra Chiesa ed esegesi Biblica, di J. Ratzinger




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