COSA E' MAI QUESTO VENTO DI PAZZIA...? SVEGLIA CATTOLICI!! imperdibile!

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Caterina63
00mercoledì 18 novembre 2009 01:04
COSA E' MAI QUESTO VENTO DI PAZZIA...?
 


di Don Matteo De Meo


In una cultura come la nostra, dove incombe sempre più la convinzione che tutto è relativo; dove le certezze sono ritenute come pericolose intolleranze; dove il sentimento, l’istinto e l’assurdo sono preferiti alla ragione, la fede è vissuta come una convinzione personale da cui dipende o meno il fatto cristiano, e comunque rilegata nella sfera del privato e del soggettivo!

Si può ancora scendere in piazza, magari anche a difendere quei valori che appartengono alla storia e alla cultura cristiana ma senza che tutto questo sia generato da un’esperienza e da un giudizio;
gli stessi valori “cristiani” diventano un fatto soggettivo, negoziabili e manipolabili! Ci si strappa le vesti per la rimozione del Crocifisso dai luoghi pubblici, e nello stesso tempo si è propensi per l’eutanasia, o per l’aborto... Si va a messa ma “..questo papa ci sta portando al fallimento...”....ecc...!
Un cristianesimo così è insufficiente a sostenere la vita!



Cosa sta avvenendo?


La fede non si fonda più su un “evento” ma su un “valore”. Il Vangelo stesso diventa un deposito “valoriale” delle parole di Gesù, per cui il rapporto con Lui è vissuto ultimamente come un rapporto “morale” e non reale. Questo sta ingenerando l’idea che l’essere cristiano si fondi su “un’etica o una morale (tra l’altro interpretabile e da adattare) e non su una Persona, su un avvenimento che da alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (cf. Benedetto XVI, Deus Caritas est, 1). Così la fede non è più il fondamento della vita ma un’aggiunta ad essa.


Si va ancora in chiesa, e magari ci si attiene ancora a delle regole, ma poi nella realtà ci si riferisce ad altri criteri che comunque non sorgono dall’esperienza di fede; l’evento cristiano non è vissuto come un metodo di conoscenza per cui si dubita che la fede possa essere una ipotesi esplicativa della realtà, ossia, non la si riconosce come una conoscenza vera, capace di dare una risposta ai tanti interrogativi che sorgono, in maniera più o meno drammatica, dal vissuto quotidiano (la vita e la morte, ma anche la salute e la malattia, il lavoro, l’amore, i figli, l’educazione, la politica, l’economia ecc...).

Si finisce per pensare-in maniera più o meno consapevole- che è la fede (la propria convinzione e il proprio ragionamento) che genera il fatto cristiano, il che equivale ad affermare che ultimamente il cristianesimo è un’opera umana; la sua efficacia o meno, dipende unicamente dall’agire dell’uomo, dal suo pensiero, dalla sua riflessione, dalla sua intelligenza ecc...
Per cui non è raro imbattersi con persone (cristiani impegnati, preti, vescovi e teologi di una certa fama) che continuano a sostenere che la Chiesa ha bisogno di un dolce rinnovamento, capace di trovare il favore del mondo; una sorta di metodologia dell’annuncio cristiano che miri ad una “pastorale” sempre più efficace per raggiungere il cuore dell’uomo. La verità che il mondo vuole sentirsi dire deve essere liberata da quella cerchia “dogmatica” in cui la Chiesa l’aveva rinchiusa e diventare “accessibile a tutti”, se si vuole essere ascoltati ed accolti in una “moderna” visione della realtà.


Qualche giorno fa mi è stato segnalato un libro che da mesi viene promosso ed esposto in bella vista dalla casa editrice “cattolica” delle Paoline. L’autore è Ignazio Marino, “Nelle tue mani. Medicina, fede, etica, diritti”, ed. Einaudi, con la prefazione “doc” di Carlo Maria Martini. Il noto e illuminato prelato introduce il lettore al contenuto del libro affermando: “...Dal libro traspare una umanità, una onestà nel considerare i singoli casi che spinge alla fiducia nel mettersi «nelle mani» di tanti servitori della vita...”.  Occhi al cielo


Tutto lascia presagire un contenuto edificante e chiarificatore su alcune questioni che ci stanno particolarmente a cuore: “la vita, la morte, il dolore, la malattia...”. Ma chi sarà mai questo dott. Marino, così osannato ed elogiato da S. Eminenza ...? Il dott. Ignazio Marino, cattolico scout, si è formato presso la Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica. Bene- diremmo- ha tutte le carte in regola per essere un buon cattolico, adulto e impegnato! Ma forse sfugge che l’Autore in questione è proprio quel senatore Marino che si schierò fra i più accaniti sostenitori dell’uccisione per fame, per sete e per legge della povera Eluana Englaro! Eh sì è proprio lui! Il senatore Marino, infatti, sta lottando strenuamente perchè si affermi un rispetto assoluto per la libertà e i diritti umani. I suoi principali obbiettivi per la campagna elettorale durante le primarie del partito democratico sono stati la cosiddetta “laicità dello Stato” e l’autodeterminazione nella sua proposta di legge sul testamento biologico. Le sue posizioni vennero ritenute estremiste addirittura per la sua coalizione di sinistra. Occhi al cielo


Una sorta di grottesco ottimismo continua ad essere annunciato negli areopaghi di questi cristiani “impegnati” e “adulti” che hanno smesso da tempo di guardare la verità dei fatti: ottimismo rispetto ai tempi, all’umanità in generale, al mondo dei non credenti e delle altre religioni, alla condizione interna della stessa Chiesa. Un cristianesimo “gaio” per cui l’essenziale è ottenere una verità condivisa, il dialogo a tutti i costi, una liturgia accessibile a tutti, una chiesa sempre più “umana”; anche se questo richiede subdoli compromessi tra la verità di Cristo e il sentire del mondo.


Un cristianesimo capito e accolto dal mondo, come annunciarlo? Come renderlo assimilabile e interessante di fronte alle sfide sempre più attraenti e interessanti della modernità? Domande che risuonano in continuazione dai pulpiti di molti cattolici, e dalle quali prende vita un cattolicesimo secolarizzato che trova plausi e consensi dappertutto, mentre la “sana dottrina non è più sopportata”:«non sopportando più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (II Tim. IV, 3, 4.)

Si è convinti della necessità di un cambiamento, o meglio di “adattamento” o “riconciliazione” con i tempi in tutto, nel parlare, nello scrivere e nel predicare una carità senza fede; il tutto con uno stile buonista, pacifista e ottimista, come ingredienti fondamentali per una fede adulta e aperta. Tutto questo dovrebbe portare una sorta di “primavera nella Chiesa e nel mondo”; un’era di pace e di fraternità degna di quei scenari romanzeschi, e in un certo qual modo sorprendentemente profetici, (sempre poco letti e conosciuti), che ritroviamo nel trionfo dell’umanitarismo del “padrone del mondo” di Benson, o nel verde e pacifista “anticristo” di Soloviev[1].

Dove ci ha portato questo fiume in piena del “cambiamento a tutti i costi”, di un certo “progressismo cattolico”, che da più di un trentennio irrompe all’interno della Chiesa stessa? Al risultato opposto: cattolici sempre più divisi, diffusione di dottrine eterodosse sostenute con forza e convinzione da tanti teologi, la divisione nel seno stesso della Chiesa, un indebolimento della fede cristiana.
E noi cosa possiamo fare?


Mi vengono in mente le parole di un grande scrittore e umorista, che molto fece discutere di sè, Giovannino Guareschi il quale fa dire al suo “Don Camillo”: “Signore, cos’è mai questo vento di pazzia? Cosa possiamo fare noi?”- e il Signore gli risponde: “...ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi...Bisogna salvare il seme: la fede”.

In un momento in cui una gran confusione, cioè l'incapacità di giudizio, sembra dilagare dappertutto urge tenere fisso lo sguardo su colui che unicamente può segnarci la strada e confermarci nella fede: “Tu es Petrus...Portae inferi non prevalebunt.”.


Don Matteo De Meo


[1] Cf. R. Benson, Il Padrone del mondo, Jaca Book, Milano 1987; V. Soloviev, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Marietti, Milano 1975.

Pubblicato da Francesco Colafemmina su Fides et forma


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Caterina63
00martedì 1 febbraio 2011 16:42

            mons. Crepaldi
                                                              (Lettera sul Rosario alla Chiesa di Trieste di mons. Crepaldi)


La collaborazione tra laici e cattolici


Conversazione con mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste


di Stefano Fontana

TRIESTE, martedì, 1 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Nel mondo di oggi si fa un gran discutere di laici e credenti, Stato e Chiesa, religione e secolarizzazione. E non si tratta solo dell’intervento di ecclesiastici nei riguardai delle politiche che regolano lo Stato e la società civile.

Il tema del rapporto tra laicità e religione è diventato ancora più scottante, da quando incombe la minaccia del fondamentalismo islamico che non riconosce differenze tra i due termini.

Per cercare di approfondire il tema, ZENIT ha intervistato monsignor Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa (CCEE) e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa.

Eccellenza, prima di tutto, cosa vuol dire, secondo lei, “laico”?

«Mi sembra che la parola abbia oggi quattro significati. Prima di tutto laico vuol dire “non prete” e “non religioso”. Chi non è sacerdote né appartiene ad una congregazione religiosa di monaci o frati o suore si dice laico. Mia madre e mio padre erano laici. Secondariamente, può dirsi laico chi ritiene che la dimensione politica abbia una propria autonomia dalla religione, ma che nello stesso tempo possa avvalersi delle risorse spirituali e morali della religione, anzi che ne abbia bisogno, altrimenti sarebbe la politica stessa a trasformarsi in un assoluto religioso. In un terzo significato laico significa oggi chi vive e ragiona senza tenere conto della religione; in altre parole significa indifferenza alla religione. Infine, oggi laico vuol dire anche anti-religioso, ossia chi combatte la religione, non la lascia esprimere, non le permette di dire la sua nel campo pubblico».

Potrebbe stabilire una gerarchia tra questi significati? Secondo lei la vera laicità quale sarebbe?

«La prima definizione non fa problema per nessuno. Tra le altre tre vorrei dire che la più corretta è la prima (vale a dire la seconda nell’elenco suddetto), mentre la seconda e la terza sono scorrette, prima di tutto dal punto di vista della laicità. Ossia sono forme di laicità poco laiche».

Capisco che lei sostenga che chi combatte la religione sia poco laico, ma perché chi non ne tiene conto, è indifferente, non sarebbe un autentico laico?

«Perché è già un escludere Dio dall’ambito pubblico. Anche se non lo combatto apertamente, se affermo che l’organizzazione della società non deve tenere conto minimamente della dimensione religiosa ma deve essere indifferenze e, per esempio, che bisogna togliere i simboli religiosi, impostare una istruzione scolastica che prescinda totalmente dalla religione, che il Vescovo non può far sentire pubblicamente la sua voce e i cattolici non possono realizzare una forma di presenza esplicita nella società o cose di questo genere … dico di essere indifferente, mentre invece ho fatto una scelta di esclusione».

Non è quindi possibile non prendere posizione sul problema di Dio?

«Non è possibile. E la laicità che lo ritenesse possibile sarebbe un inganno. La laicità è esercizio della ragione e non uso dell’inganno. Si può costruire un mondo impostato su Dio o uno impostato senza Dio. Non è possibile una terza via. Impostare un mondo su Dio, però, non vuol dire essere integralisti, vuol dire riconoscere alle cose umane la loro autonomia, ma vederle anche nei loro limiti e, quindi, nel loro bisogno strutturale di un supplemento di risorse per poter essere se stesse. Per lo stesso motivo impostare un mondo senza Dio non significare impostare un mondo neutrale».

Eppure oggi si dice che la questione di Dio viene dopo, per chi se la pone. Lei invece dice che viene prima, in quanto nessuno la può eludere.

«La questione di Dio viene prima di tutte le altre e non c’è nessuno che non se la ponga. Questo accade perché quando noi conosciamo la realtà la conosciamo subito come bisognosa di fondamento, ossia incapace di spiegarsi fino in fondo da sola. Lì, in quella percezione, c’à già l’idea – anche se generalissima – di Dio, che poi ci accompagna per sempre. L’idea di Dio non si aggiunge quindi dopo che abbiamo elaborato tutte le altre. Il laico è colui che adopera la ragione per organizzare la propria vita, ma per non assolutizzare la ragione e farsene una prigione, tiene aperta la domanda, rimane disponibile ad un supplemento di senso che la ragione da sola non può darsi, ma a cui essa stessa rimanda dato che in essa si nota un bisogno di completezza che non sa darsi da sola».

In questo senso allora solo chi rimane aperto a Dio è laico.

«Credo proprio che sia così e le farò due esempi. Il presidente francese Sarcozy, in un suo famoso intervento a san Giovanni in Laterano di qualche anno fa, ha coniato l’espressione “laicità positiva”. Egli voleva con ciò indicare una laicità che esprime un atteggiamento di positiva apertura nei confronti della religione. Il Papa Benedetto XVI ha dimostrato di apprezzare l’espressione e l’ha adoperata nel suo viaggio in Francia di due anni fa. Il secondo esempio è il seguente: Joseph Ratzinger, in un suo famoso discorso fatto da cardinale, aveva invitato i laici a “vivere come se Dio fosse”. Ecco ancora il tema della religione positiva. Sarebbe veramente poco laico sospendere il dubbio: e se Dio esistesse? Il credente, la cui fede non va mai completamente esente dal misurarsi con l’incredulità, chiede al laico questa pari onestà intellettuale: viva anche lui senza mai cessare di misurarsi con il dubbio laico: siamo proprio certi che Dio non esista?».

E se un laico non lo fa?

«Io credo che non sia allora più laico. Diventerebbe un dogmatico e sarebbe guidato da un intollerante fastidio per la religione che lo renderebbe incapace di vederne con obiettività il significato, la scambierebbe per superstizione cialtronesca. Di fatto la combatterebbe, naturalmente in nome della laicità, che però sarebbe una nuova religione dell’antireligione. Ce ne sono molti oggi, di laici intolleranti».

In una Lettera di Bambini della sua diocesi per la festa di San Nicolò, lei aveva tra l’altro affermato che i bambini che vivono in una famiglia di genitori sposati sono fortunati. Per questo è stato criticato di discriminare sia i bambini che le famiglie. Lo considera esempio di laicità intollerante?

«La laicità tollerante è quella che permette alla Chiesa di esprimersi secondo la propria logica e non di dire cose che corrispondono ad altre logiche. La fede cristiana dice che il matrimonio non è solo un contratto esplicito o implicito, ma la costruzione sacramentale di una realtà nuova, che vivrà nella misura in cui accetterà di essere vivificata dal Signore. Ciò non è contraddetto dal fatto che, purtroppo, anche tanti matrimoni celebrati in Chiesa umanamente falliscono; né obbliga ad equiparare tutte le forme di “famiglia”. Non credo sia tollerante criticare il Vescovo perché dice che il vero modello di famiglia è quello cristiano, proposto da Dio stesso nella Santa Famiglia di Nazareth, vissuto e insegnato dal Signore Gesù. Né gli si può impedire di affermare che nascere in una siffatta famiglia, in cui l’amore di coniugi è improntato all’amore di Dio per noi e di noi per Dio, sia una grande fortuna. Aggiungo qui qualcosa di più: questo dovrebbe essere considerato un diritto di ogni bambino. Chi lo ha sperimentato sa bene che è una grande fortuna. Dire poi che in questo modo il Vescovo farebbe delle discriminazioni è pressoché ridicolo: l’amore della Chiesa è aperto a tutti, ma non esime di dire come stanno le cose».

Trieste è orgogliosa della sua tradizione laica. Fa bene?

«Fa bene perché laicità vuol dire apertura alla convivenza, accettazione reciproca, dialogo amichevole e non preconcetto, assenza di forme di fondamentalismo. Ma sbaglia quando qualcuno a questa laicità dà un altro significato: che la Verità non esista, che la Chiesa non debba annunciare Gesù Cristo ritenendolo Verità e Vita, che la Chiesa non debba evangelizzare e pregare perché le conversioni aumentino, quando critica l’annuncio chiamandolo proselitismo. Oppure sbaglia quando qualcuno vorrebbe mettere la museruola al vescovo, oppure – il che è peggio – far dire al vescovo quello che il mondo vorrebbe sentirsi dire, e cioè che tutto quello che fa va bene. Non tutto va bene: ci sono forme oggi di impostare la famiglia che non rappresentano il vero bene dei bambini e che li fa soffrire, sbattendoli a destra e a sinistra e scaricando sulle loro povere spalle le irresponsabilità degli adulti. Non è laicità vera quella che impedisse al vescovo di dire queste cose».

La Chiesa chiede obbedienza ai propri fedeli, non a tutti gli uomini. Agli altri la Chiesa chiede rispetto, ritenendo di svolgere un servizio all’uomo e di esprimere risorse spirituali e morali per il bene della società. Chiedere rispetto non è chiedere privilegi. Perché niente e nessuno può togliere alla Chiesa una sua “pretesa”.

Quale pretesa?

«La pretesa di portare con sé una Risposta ai veri bisogni dell’uomo. La laicità deve rispettare soprattutto questo: che la Chiesa abbia la possibilità di esprimere pienamente il suo messaggio di salvezza, che riguarda l’intera vita umana, pensando che, così facendo, essa svolge un servizio alla persona umana. Chi mi critica perché sostengo che vivere in una famiglia cristiana, vivificata da Cristo stesso e dal suo Spirito, è una grande fortuna, di fatto non accetta che la Chiesa con il suo messaggio possa pretendere di rendere più umana la vita. Ma questa intolleranza nei suoi confronti la Chiesa non potrà mai accettarla».




Caterina63
00lunedì 4 aprile 2011 08:49

Nozioni fondamentali di teodicea.



Quante parole, nel lessico cattolico, sono diventate antiquate, obsolete, addirittura irritanti? Termini come indulgenza, giaculatoria, peccato veniale e mortale, virtù, vizio, battaglia per la Fede, Purgatorio, Inferno, colpa, giudizio, penitenza, sacrificio, timore di Dio, castigo… urticano e “ledendo” le diverse sensibilità e la “dignità” psicologica di ciascuno vanno per ciò stesso bandite, allontanate come la peste, benché, in realtà, questi termini continuino a far  parte del Credo della Chiesa.

Ultimamente a fare scandalo è stato il termine «castigo» utilizzato dal professor de Mattei durante una trasmissione a Radio Maria del 16 marzo u.s., durante la quale ha svolto una riflessione sul mistero del male a partire da due episodi di attualità: il terremoto del Giappone e l’uccisione del ministro pachistano Shahbaz Bhatti. In questo contesto il professor de Mattei ha spiegato, in maniera cattolica, la permissione divina alle catastrofi naturali; ha spiegato, alla luce della teologia e della filosofia cristiana, che in entrambi i casi ci si trova di fronte al problema del dolore e del male; ne è nata non una sana polemica volta al confronto delle idee, ma una vera e propria aggressione morale contro il professore “politicamente scorretto”, poiché aveva messo il dito su una realtà “passata di moda”: il castigo di Dio. Riflettere sulle realtà metafisiche è diventato un’attività praticata da uno sparuto numero di persone… e tutte le voci mediatiche, comprese quelle di coloro che si dichiarano cattolici, si accodano alle indignazioni dell’UARR, ovvero dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, che tanto ricorda la «Lega dei senza Dio militanti» di sovietica memoria; Associazione che chiede, come pure la Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC-GGL) e a gran voce (aprendo addirittura una petizione) le dimissioni del professor de Mattei da vicepresidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).

Insomma, il cattolico autentico, quello che parla chiaro, senza diaframmi farisaici e subdoli, deve essere imbavagliato, perché non credibile, perché non “scientifico”. Il positivismo ha invaso così prepotentemente la mentalità corrente da infettare ogni settore, ogni scomparto del sapere (in realtà, come afferma lo scienziato Zichichi, esso è completo solo se tiene in considerazione anche il lato del mistero) e della religione cristiana.

De Mattei ha semplicemente ricordato ciò che le Sacre Scritture e la Chiesa hanno sempre detto, ma scrive il professore sul quotidiano Libero del 31 marzo, per «comprendere l’azione della Provvidenza, che dà una ragione a tutto ciò che avviene, anche alle tragedie, come i terremoti, bisogna però avere una prospettiva soprannaturale: la prospettiva di chi crede nell’esistenza di un Dio creatore e rimuneratore della vita eterna.

Per meglio spiegare questi concetti, ho citato un libricino pubblicato all’indomani del terremoto di Messina da mons. Orazio Mazzella, (1860-1939), arcivescovo di Rossano Calabro, dal titolo La provvidenza di Dio, l’efficacia della preghiera, la carità cattolica ed il terremoto del 28 di Dicembre 1908: cenni apologetici (Desclée e C., Roma 1909). In questo scritto mons. Mazzella scrive che varie sono le ragioni per cui Dio può permettere le catastrofi. In primo luogo esse ci distaccano dalla vita terrena e ci richiamano col pensiero al fine ultimo della nostra vita, che è immortale.

In secondo luogo esse possono essere un castigo che ci purifica dalle nostre colpe individuali o collettive. Fu il terremoto di Messina un castigo di Dio? “Chi potrebbe dirlo? – commenta mons. Mazzella – È possibile fare delle congetture, non è possibile affermare alcuna cosa con certezza. Intanto per noi, al nostro scopo, basta la sicurezza, che le catastrofi possono essere, e talora sono esigenza della giustizia di Dio”.

In terzo luogo le grandi catastrofi sono spesso una manifestazione non della giustizia di Dio, ma del suo amore misericordioso. Mons. Mazzella scrive che il terremoto può essere stato un battesimo di sofferenza che ha toccato il cuore di molte vittime, unendole a Dio. Non c’è compiacimento per le sofferenze in queste parole, ma desiderio, al contrario, di consolarle. Sapere che i miei dolori sono ordinati ad un fine superiore è certamente più consolante di sapere che sono frutto delle cieche forze del caso».


Il significato di castigo

Il termine castigo deriva dal latino Castum agere, ovvero «rendere puro, casto, purificare». Il castigo ha assunto, nella lingua parlata, dei significati diversi da quello originario.

La disobbedienza all'ammonimento del Signore nell'Eden, circa il divieto di mangiare dell'albero proibito, aveva come conseguenza il castigo della morte dell'uomo: egli  si è trovato di fronte alle conseguenze delle sue scelte. La morte che derivava dalla disobbedienza originale non era il castigo di Dio per il peccato, dunque, ma la libera conseguenza dell'uso della libertà dell'uomo. Così è sempre da leggersi il castigo. Perciò esso è una permissione divina di un male che è frutto delle scelte libere dell'uomo e, al tempo stesso, un mezzo di purificazione e redenzione che Dio, sommo Bene e sommo Amore, usa per convertire l'uomo, che Egli vuole salvare, tanto da aver mandato sulla terra il Suo Figlio unigenito, Agnello sacrificato sul quale ricaddero tutti i peccati del mondo e della storia per salvare chi vuole essere salvato.

La parola castigo nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, appare in 73 versetti e, al plurale, in 18 versetti, per un totale di 91 volte: Dio purifica o "castiga" l'uomo, come avvenne con le dieci piaghe d’Egitto oppure a Sodoma e Gomorra, attraverso le conseguenze funeste del peccato.
Affermò Gesù: «Se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3), tale ammonimento non è una minaccia per l'uomo che non crede, ma profezie di eventi che accadranno sicuramente a coloro che non si convertiranno, perché andranno incontro volontariamente alla morte della loro anima. Leggiamo infatti:
«In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,1-5).

L'Inferno è una scelta dell'uomo, non un castigo di Dio, ma è al tempo stesso il Giudizio di Dio verso il peccatore impenitente, o meglio la conseguenza del suo determinato rifiuto all'amore e alla misericordia di Dio. D’altro canto nello stesso Atto di dolore si afferma: «Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i Vostri castighi…».

L'aspetto misericordioso di Dio, non si scontra minimamente con quello di Giustizia, anzi, il castigo è un atto di misericordia di Dio che vuole la nostra salvezza, a tutti i costi, non una vendetta per il nostro comportamento.

«Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di Lui, per le Sue piaghe siamo stati guariti» dice Isaia (53,5) riferito al Servo di Javhé che sarà prostrato con dolori al nostro posto. Il castigo dà salvezza, perché purifica e monda dai peccati.

Come la Passione di Cristo e la sua morte hanno purificato e redento il mondo, così anche la nostra partecipazione alle Sue sofferenze, contribuisce, nell'economia della Salvezza, alla redenzione e purificazione delle anime.

Dopo il peccato originale è avvenuto uno sconvolgimento totale della creazione, per cui tutto ciò che accade attraverso calamità naturali ha origine da questo sconvolgimento originario, leggiamo, a questo proposito nella lettera ai Romani:
«La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,19-23).

Dire che tutti i disastri naturali hanno origine dal male e vedere in ciò solo il "male" è un'affermazione incompleta, perché Dio ha l'assoluto controllo degli avvenimenti, e tutto ordina per la realizzazione del Suo progetto di Salvezza. Ben esposto è nell’Apocalisse di Giovanni il concetto della permissione, da parte Dio, delle catastrofi. Il grave rischio è di non comprendere gli avvenimenti secondo la Sapienza di Dio, ma secondo la presunta e immensa vanagloria e presunzione dell’uomo, che è in realtà polvere, come il sacerdote un tempo affermava quando imponeva le ceneri: «Ricordati che sei polvere e in povere ritornerai» (Sostituito con: «Convertiti e credi nel Vangelo»).

La Madonna a La Salette (1846) e a Fatima (1917) ha ampiamente parlato di castighi che si sarebbero verificati se non ci fosse stata conversione… la seconda guerra mondiale è lì a ricordarcelo. È ciò che accade all'uomo lontano dall’Onnipotente, padrone della vita e della morte: il castigo appunto, cioè quel sistema pedagogico di Dio finalizzato alla conversione e alla consapevolezza, da parte dell'uomo, di quanto il peccato possa produrre effetti devastanti e distruttivi.

Le benedizioni

Il venerabile don Luigi Balbiano (1812–1884) allontanava le ribellioni della natura (le carestie causate, per esempio, dalla siccità) e i drammi  prodotti dalle conseguenze atmosferiche (per esempio le grandinate) benedicendo campi e bestiame; una consuetudine che con il Concilio Vaticano II è stata abbandonata ed oggi pressoché dimenticata, tanto che è diventato assai difficile trovare sacerdoti disponibili persino a benedire le case: sono in molti a non credere più in queste “superstizioni”.

Ed ecco don Balbiano, come Gesù e tanti altri santi, rompere le regole della natura. La sua mano casta e penitente era sempre pronta a levarsi nel segno della benedizione, come una carezza dal parte del Signore. Scriveva monsignor José Cottino il 5 settembre 1973, nella commemorazione tenuta sul viceparroco di Avigliana: «L’efficacia delle benedizioni di don Balbiano derivava dal significato biblico di quei gesti che erano anzitutto di adorazione e di lode al Signore […]. Con leggerezza noi pensiamo che gli aspetti “medioevali” del miracolo e della santità non siano più onorifici nel secolo del progresso. Ma nella santità non dobbiamo pretendere di dettare noi le norme. Proprio contro la superbia del pensiero muove la santità regolata da Dio». Don Luigi Balbiano, con le sue benedizioni straordinarie, domava le forze della natura, come sempre era avvenuto. Quando, nella storia, accadevano disgrazie, guerre, pestilenze, carestie, terremoti, maremoti… preti e fedeli pregavano, facevano voti, promettevano, compivano penitenze e digiuni, confidando nell’aiuto divino, perché nella sua onnipotenza e onniscienza credevano… e molte volte ottenevano grazie e miracoli. Ma la Fede, oggi, che cos’è e dov’è? Si crede più nella scienza e nelle risoluzioni umane che nell’intervento di Dio. E le calamità naturali se non sono castighi, che cosa sono? Forse benedizioni? Oppure è il caso? Ma per chi ha Fede, e non è apostata, il caso non esiste…

Nostro Signore spiega in maniera mirabile il senso cristiano del castigo, quando dice: «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto» (Gv 15, 1-2). Le disgrazie materiali che colpiscono ciascuno di noi, sia individualmente che collettivamente, sono occasioni per migliorare la nostra condizione spirituale ed avvicinarci all’unica vera meta: il Paradiso. Nella misura in cui siamo colpevoli, esse sono punizione per le nostre colpe e, come tali, ci permettono di scontare già su questa terra parte o tutte le nostre colpe, liberandoci da patimenti infinitamente più gravosi nell’altra vita. Nella misura in cui siamo innocenti o le disgrazie travalicano le nostre colpe, esse sono occasione di affinamento spirituale: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).  Questo permette alle anime più elevate,  in virtù della comunione dei Santi, di contribuire non solo alla salvezza propria, ma anche a quella di altri, arricchendo il tesoro di grazia della Chiesa.

Lex credendi e lex loquendi

- Professor de Mattei perché la semantica della Fede fa paura?

«Perché durante il Concilio Vaticano II e nel post Concilio si è abbandonato il linguaggio tradizionale della Chiesa, per sostituirlo con un nuovo linguaggio mutuato dal mondo. È stata questa una delle prime conseguenze del conclamato primato della pastorale sulla dottrina. Questa vera e propria rivoluzione del linguaggio ha inciso sullo stesso contenuto della fede. Se è vero che c’è un rapporto tra la lex orandi e la lex credendi, dobbiamo dire che esiste un’analoga relazione tra la lex loquendi e la lex credendi, tra la forma e il contenuto della nostra fede. Non qualsiasi abito è adatto alla vocazione religiosa, così come non qualsiasi linguaggio è idoneo alla formulazione della dottrina della Chiesa. Le verità della Fede erano proclamate, prima del Concilio, in maniera chiara e categorica e gli errori definiti e condannati con altrettanta fermezza; oggi invece, la rivoluzione semantica sta trasformando o relativizzando ogni verità, senza che questo porti ad alcun risultato in termini di dialogo o di ecumenismo. Siamo anzi giunti al paradosso che, mentre i nemici della Chiesa continuano ad esprimersi con un linguaggio chiaro e netto  nella lotta contro di essa, la Chiesa non ha più gli anticorpi necessari per difendersi, come aveva intuito il Cardinale Biffi, quando, con una formula brillante e provocatoria disse: “La Chiesa ha l’Aids”. La trasformazione del linguaggio cattolico è diventata cambiamento profondo della mentalità.
Questa vera e propria rivoluzione delle tendenze è, sotto certi aspetti, più pericolosa di quella dottrinale, perché mentre un errore si può facilmente individuare e colpire, la guerra psicologica è la più difficile da combattere. La Chiesa, custode del Deposito della Fede, dove neppure uno iota può essere perso, è stata mutilata della sua anima militante. Oggi siamo immersi nel continuo peccato di omissione: non si deve più proclamare, dai tetti, la verità; e, in questa verità, è contenuto, tra l’altro, il concetto di Dio provvidente e rimuneratore: come Dio è carità infinita, così è anche giustizia  infinita.

Non ho la certezza che il terremoto in Giappone sia un castigo, ma ho la certezza che Dio castiga non solo le singole anime, ma anche le nazioni, come sempre è stato insegnato. Sant’Agostino ne La città di Dio, scritta come meditazione sul terribile sacco di Roma del 410, ci ricorda che, mentre gli uomini ricevono il loro premio o il loro castigo nell’eternità, le nazioni, che non hanno un orizzonte ultraterreno, sono premiate o punite nel tempo. La Scrittura ci dice anche che si è puniti attraverso ciò in cui si pecca. In questo senso, il maggior castigo che oggi conosciamo non sono i terremoti e le sciagure naturali, ma l’autodistruzione della fede e della morale in cui siamo immersi.
Che poi ad essa si accompagnino grandi catastrofi, permesse da Dio, attraverso le cause seconde che regolano l’universo, è possibile, e talvolta preannunciato. Se l’uomo si ribella a Dio, anche la natura si ribella all’uomo. Mi colpì quanto un giorno mi disse un contadino: l’uomo ha cambiato la Messa e Dio ha cambiato il corso delle stagioni. Ecco che la scienza può spiegare come succede un dato fenomeno, ma non potrà mai spiegare perché succede. Soltanto la Fede offre le ragioni ultime ed escatologiche».


Non dimentichiamo che ad ogni uomo viene dato un Angelo custode così come ai Principati vengono assegnate le nazioni. Quanti hanno dimenticato i precisi compiti assegnati da Dio ai Cherubini, Serafini, Arcangeli, Troni e Dominazioni? Sono i cosiddetti cori angelici della Tradizione cristiana che, però, non rientrano più nella semantica della Chiesa conciliare e postconciliare e dunque sono come stati esautorati e inghiottiti in quel processo di «autodemolizione» di cui tragicamente parlò Paolo VI.

Nella genesi si parla chiaramente di castigo divino nei confronti di Adamo ed Eva, un castigo che non riguardò soltanto i due progenitori, ma tutte le generazioni a seguire, fino alla fine dei tempi, quando si avvereranno le profezie dell’Apocalisse e si verificherà il Giudizio universale. Il castigo, nell’Apocalisse, è rappresentato dai sette flagelli (cap.16), ma è sempre una reazione di amore, è l’estremo tentativo pedagogico per portare l’uomo al ravvedimento: («Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti», Ap. 3,19). È l’uomo a decidere la sua sorte definitiva, così come la rovina di Babilonia (cap. 17) è scaturita dalla pretesa di voler costruire la Città dell’uomo al di fuori e contro Dio; è la «casa costruita sulla sabbia».

Anni fa anche il Cardinale Siri venne accusato e attaccato, pure da parte di Civiltà cattolica, perché “osò” affermare che l’Aids era un castigo divino, proprio come accade oggi a de Mattei, il quale ha spiegato su Libero: «Morte, malattie, sofferenze, angosce di ogni tipo, tutto è frutto del peccato e tutto può essere vinto dalla vita della Grazia che, morendo sulla Croce, Gesù Cristo ha portato agli uomini spalancando loro le porte della vita eterna, della eterna felicità. Sono questi i pensieri a cui ci dovrebbero richiamare le tragedie collettive, come i terremoti, permessi da Dio per ottenere beni spirituali più alti della vita materiale, perché le sofferenze materiali non sono il male supremo e Dio le permette, come castighi o come purificazioni, e comunque, sempre, come strumenti di meditazione, per aprire il nostro cuore a beni più alti di quelli materiali».
Insomma «non ho fatto che esprimere la dottrina cattolica tradizionale, secondo il Magistero dei Padri, dei dottori della Chiesa, dei Pontefici. Il fatto è che, accanto ai teo-evoluzionisti esistono oggi i catto-ateisti, che sono quei cattolici che pur professando verbalmente di credere in Dio, di fatto vivono immersi nell’ateismo pratico. Essi spogliano Dio di tutti i suoi attributi, riducendolo a puro “essere”, cioè a nulla. Credono, e talvolta dicono apertamente, che Dio, dopo aver creato il mondo, lo abbandona a se stesso. Tutto ciò che accade è per essi frutto della natura, emancipata dal suo autore, e solo la scienza, non la Chiesa, è in grado di decifrarne le leggi.

Non si capisce, a questo punto, neppure l’utilità della preghiera. Chi prega, infatti, chiede a Dio di intervenire nella propria vita, e quindi nelle cose del mondo, per essere protetto dal male, e per ottenere beni spirituali e materiali.
Ma perché mai Dio dovrebbe ascoltare le nostre preghiere se si disinteressa dell’universo da Lui creato? Se, al contrario, Dio può, con i miracoli, cambiare le leggi della natura, evitando le sofferenze e la morte di un uomo, o l’ecatombe di una città, può anche decidere che sia meglio, che un uomo o una città perisca come insegnano, in innumerevoli passi, le Sacre Scritture.

E poi: se chi ricopre una carica pubblica, non può ricordare le verità perenni della fede cattolica, dovrebbero allora essere radiati dalle università e dalle scuole tutti i docenti che credono nei dogmi “anti-scientifici” dell’Immacolata Concezione o della transustanziazione, anche se ne parlano da privati cittadini, come io ho fatto ricordando, in una radio cattolica, l’esistenza della Divina Provvidenza. Il fatto è che il mondo cattolico ha perso il senso cristiano della storia e muore d’inedia spirituale e culturale mentre l’Islam e altre religioni avanzano alla conquista dell’Occidente. Chi crede ancora in Dio, chieda oggi con forza il suo aiuto!».

Un nuovo paganesimo è di fronte a noi, molto forte, molto feroce perché subdolo e millantatore, imbevuto di miele e moine, il quale con le armi del potere cerca di piegare o tacitare chi resta incollato alla Fede; ma sappiamo che Maria Santissima intercede presso Dio, non abbandonando i perseveranti e sappiamo anche che Golia venne vinto da Davide con una semplice fionda, perché Dio era con lui.

Cristina Siccardi




Caterina63
00mercoledì 20 aprile 2011 12:25
GLI ERRORI DI YOUCAT.....


parodie modernistiche: il caso youcat

Il catechismo per i giovani nasce già morto; infarcito di errori non solo grammaticali necessita di pizzini di rettifica. Qui di seguito gli articoli dell'ottimo Colafemmina e del vaticanista Rodari con cui si dà conto delle disavventure di tale testo che varrebbe davvero la pena togliere di mezzo.
Ai modernisti non ne va una giusta: Assisi ha mobilitato le coscienze di molti cattolici che stavolta non sono stati zitti, la beatificazione imprudentemente affrettata di Giovanni Paolo II ha obbligato il cardinale Prefetto della Congregazione delle cause ha diramare il "caveat" seguente: "La causa di beatificazione non è giunta al suo termine per l’impatto che il pontificato ha avuto sulla storia della chiesa quanto per le virtù di fede, speranza e carità che sono state proprie della vita di Wojtyla”, quindi per la prima volta nella storia della Chiesa, incredibile auditu, si beatifica qualcuno a prescindere dalla sua vicenda storica e dal ruolo che ha ricoperto. Ed ora questa figuraccia dopo tanti stronbazzamenti sulla magnifiche sorti e progressive di questo Youcat che già dal nome non lasciava presagire nulla di buono.

PREGHIERA DI YOUCAT (TU GATTO): LIBERACI, SIGNORE, DAL GIOVANILISMO ECCLESIASTICO!
di Francesco Colafemmina

Quando ho sentito nominare per la prima volta "Youcat" mi sono chiesto se non si trattasse di una specie di canale televisivo sul web dedicato ai gatti! Poi ho letto che c'entrava qualcosa con la Chiesa Cattolica e ho pensato che si trattasse di una sorta di libro a fumetti su Chico, il gatto del Papa. Mai, dico mai, avrei immaginato che "Youcat" stesse per "Youth Cathechism" (catechismo dei giovani o della gioventù). E già il titolo è rivelatore di quel giovanilismo ridicolo e un po' infantile che troppo spesso s'impossessa dei sacerdoti... Giovanilismo che è come un travestimento per mostrare ai giovani (categoria vasta e indefinibile come non mai!) che la Chiesa non è lontana, ma è vicina... vicina alle istanze, ai dubbi, alla confusione, ai turbamenti dei giovani.

Questa della divisione del mondo in categorie anagrafiche e della magnificazione della "gioventù" è tuttavia una lagna pazzesca! Cristo non ha detto: "evangelizzate separatemente i giovani, gli adulti, i vecchi..." come non ha detto: "evangelizzate separatamente i maschi, le femmine, e i neutri...". Cristo ha parlato all'umanità nel suo complesso, ha parlato alle anime degli uomini e se la Chiesa di Cristo vive questo complesso di minorità rispetto ai giovani costituito dal timore di non riuscire a suscitare un adeguato appeal sulle nuove generazioni, la colpa è di una mentalità erronea e di una visione distorta del senso del Vangelo.

Quando ero piccolo, diciamo sotto i dieci anni, ero solito chiedermi, ad esempio, perché il buon parroco della Cattedrale del mio paese, don Lorenzo (e sono certo che se dovesse leggere queste righe mi sorriderebbe dal Paradiso), dovesse essere costretto da insulse norme pastorali a far sedere i bimbi in prima fila e fargli continuamente domande e domandine... tanto che la Messa mi pareva una specie di riedizione delle interrogazioni a scuola! Il senso del mistero lo conservavano forse solo le pareti di quell'antico luogo sacro, ma di certo non la liturgia.

Crescendo, invece, tutte quelle aggregazioni parrocchiali cattoliche, fatte di buonismo, peace & love, tastiere elettriche, chitarre, amplificatori e canti da far accapponare la pelle anche a un monaco tibetano, mi sembravano forme di arretratezza culturale della Chiesa Cattolica. Pensavo: ma sti preti non hanno capito che così facendo mostrano solo di essere rimasti indietro, molto indietro? E sì, perché si capisce che si trattava soltanto di metodi per tenere agganciati alla vita parrocchiale l'entità denominata "I Giovani" e questi metodi non nascevano da una reale volontà di curare le loro anime, bensì da una specie di mimetismo a tradimento: si scrutano "i Giovani", si osservano i loro interessi e si cerca di trasferire quegli stessi interessi nell'oratorio, nelle sale del centro parrocchiale, magari edulcorandoli... Purtroppo però i sacerdoti restano vittime di se stessi, di questa utopia giovanilistica. Per due ragioni:

1. Perché le tecniche di mimetismo giovanile normalmente un sacerdote le stabilisce nella sua età matura e non le muta più: così, dopo dieci anni o dopo venti, continuerà a credere che si possa "evangelizzare" i giovani con i campi da calcio e le serate danzanti (come forse accadeva negli anni '80 e '90).

2. Perché ormai "i giovani" contemporanei gli sfuggono di mano! E, poveri sacerdoti, spesso si avvedono con grande delusione che tutti i loro sforzi giovanilistici non sono serviti a rendere quei giovani dei "cattolici adulti" o consapevoli. Così un giorno scoprono che durante una serata danzante una ragazza è stata palpeggiata (se va bene) da un gruppo di ragazzetti infiltrati o durante una partita a pallone vedono il ragazzino più debole perdere sangue dal naso perché picchiato dalla baby gang parrocchiale... E solo allora si chiedono: ma sarà questo il metodo migliore per evangelizzare "i giovani"? Forse non li abbiamo capiti abbastanza... e magari cadono in depressione!

La Chiesa purtroppo è piena di questi casi di sacerdoti alle prese con la delusione e il fallimento delle proprie teorie giovanilistiche... Ma la Chiesa è anche vittima dell'illusione wojtyliana del coinvolgimento di masse oceaniche di "giovani" in esperienze di fede collettiva o massificata. Radunare folle di migliaia di giovani che magari non sono mai andati all'estero e che vorrebbero conoscere altri giovani, e fare esperienze amicali o sentimentali, non toglie e non aggiunge un bel nulla alla fede del singolo giovane! Solo per qualche bacata testa prelatizia i raduni oceanici di giovani possono rappresentare una "novità" nell'evangelizzazione dei "giovani"!

Confessiamocelo: il futuro del giovanilismo ecclesiastico non sarà concentrato né nelle Giornate mondiali della Gioventù (ma perché non organizzare la Giornata mondiale dell'Anziano?), né nelle operazioni feline alla Youcat, ma probabilmente solo nelle mani dei gruppi settari come i Neocatecumenali. E' infatti tipico delle sette creare conflitti generazionali e puntare specialmente sui giovani per garantirsi un futuro dopo averli adeguatamente indottrinati.

Per il Cattolicesimo, al contrario, non è mai esistita una categoria dei "giovani" separata dalla cellula essenziale da cui essa proviene ossia "la famiglia"! Creare questa indipendenza dei "giovani" dalle "famiglie" è qualcosa di profondamente erroneo e non a caso è un'eredità del sessantotto. Lo scontro generazionale volto all'affermazione dell'indipendenza giovanile appartiene all'ideologia sessantottarda e fa specie che la Chiesa Cattolica cerchi ancora di inseguire il miraggio della conquista dei giovani separandoli dal loro contesto essenziale e vitale che è familiare!

D'altra parte chi vive nel mondo dell'educazione non può non testimoniare che "i giovani" sono un esito dell'attività plasmante delle famiglie da cui provengono. Non possono essere presi per sè. E se la nostra società vede una progressiva riduzione della pratica religiosa a livello familiare, è opportuno concentrare la propria attenzione pastorale sulle complesse interazioni fra genitori e figli. Se una famiglia è autenticamente cattolica, genererà (si presume) figli altrettanto cattolici. Di conseguenza la Chiesa invece di consegnare inutili libretti con traduzioni erronee e con in copertina una Y al posto della Croce... (perché la Y come il segno di vittoria che si fa con l'indice e il medio è molto cool, fa figo... ma è anche molto antiquato!) al posto di queste corbellerie, la Chiesa dovrebbe invitare i genitori ad educare cristianamente i propri figli.

UN POOL PER YOU CAT E I SUOI ERRORI
di Paolo Rodari

La conferenza stampa di presentazione di Youcat, il catechismo preparato in vista della Gmg di Madrid dalla conferenza episcopale austriaca e tradotto in 13 lingue con tanto di prefazione di Benedetto XVI, si è chiusa con due notizie succose.

La prima è che i testi tradotti dal tedesco nelle altre lingue sono pieni di errori. Il testo francese, ad esempio, presenta errori circa il tema del valore delle diverse religioni secondo il Concilio Vaticano II. Il testo italiano presenta due errori macroscopici. Il primo (come scritto nel post precedente) riguarda la regolarizzazione delle nascite e la liceità dell’uso dei preservativi. In sala stampa hanno dato insieme al testo un foglietto bianco che va a correggere l’errore. Il secondo (al momento ancora senza foglietto correttivo) riguarda l’eutanasia. Al punto 382 si dice che “chi aiuta una persona durante la morte nel senso di un’eutanasia passiva obbedisce al comandamento dell’amore per il prossimo”. Il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e presidente della conferenza episcopale tedesca, ha detto che il testo tedesco non usa il termine eutanasia passiva ma semplicemente parla di “inevitabilità” della morte. Monsignor Rino Fisichella, invece, ha detto che comunque “i termini eutanasia attiva e passiva sono superarti” e ha lasciato intendere che, quindi, la traduzione oltre che sbagliata è anche pessima.

Per ovviare a tutti questi problemi Schönborn ha detto che la Congregazione per la dottrina della fede organizzerà un pool di esperti incaricato di raccogliere tutti gli errori e dunque di pubblicare un piccolo fascicolo con le correzioni. Un lavoro quanto mai necessario, certo, ma che obiettivamente poteva essere fatto prima.

La seconda notizia è che a precisa domanda su come sia possibile che si sia arrivati a delle traduzioni così sballate Schönborn ha risposto: “Per ogni edizione abbiamo chiesto a un vescovo che ha notorietà teologica di mettersi come garante. Per il testo italiano il garante è il cardinale Angelo Scola. Dunque, la responsabilità della traduzione è di chi è garante”.

Caterina63
00sabato 21 maggio 2011 23:51
QUANDO PER LA "PAR-CONDICIO" SI SUPERANO DAVVERO I LIMITI!!

Suoretta nera fa litigare Lecce

di Rino Cammilleri
20-05-2011
 da la BussolaQuotidiana

Il fatto: la scuola tenuta dalle suore Marcelline a Lecce ha pensato bene di organizzare un saggio in cui, il 6 giugno prossimo venturo, un centinaio di bimbi tra i cinque e i dieci anni commemoreranno l’Unità d’Italia eseguendo in coro canti «storici», da quelli garibaldini a – e qui sta il problema - Faccetta nera. Un genitore (adottivo di una bimba di colore), sentendo la figlia canticchiare la marcetta colonialista, ha protestato. Non si sa se l’abbia fatto perché: a) la figlia è nera, b) il colonialismo è una brutta cosa, c) quella marcetta la cantavano soprattutto i fascisti. La scuola ha convocato i protestatari (anche qualche mamma si è aggiunta) e ha spiegato che i bambini stanno imparando anche l’Inno di Mameli e Bandiera rossa. Ma la cosa era ormai uscita dalle mura della scuola e aveva invaso la città.

A quel punto sono scesi in campo i politici locali, uno per parte: l'ex presidente della Provincia e della Commissione stragi, il pd Giovanni Pellegrino, e l'ex sindaco di Lecce, la senatrice di Io Sud Adriana Poli Bortone. Entrambi, pur da opposte sponde, hanno definito «stupida» la polemica. La direttrice della scuola, che aveva fatto marcia indietro per timore che l’istituto venisse accusato di apologia del fascismo, ha allora dovuto riunire il collegio dei docenti. Il quale, forte del sostanziale placet politico, ha rifatto dietrofront. Il saggio, insomma, si farà. Con Faccetta nera e Bella ciao. Par condicio.

Solo che, a questo punto, uno pensa: ma insomma, non si poteva celebrare il Risorgimento e, dunque, l’Unità, puntando più sulla seconda che sul primo? Perché non eseguire i canti della tradizione regionale italiana? Cori di mondine, Calabrisella mia, Vitti ‘na crozza, O mia bela Madunina, ‘O sole mio, Roma nun fa’ la stupida stasera, e via gorgheggiando? Nelle discoteche a metà prezzo si trovano i dischi della Sat, da cui imparare Quel mazzolin di fiori e magari Ta-pum. Sono più belli e armonici dei canti politici, tra i quali spicca, per miseria lirica, Bandiera rossa.

E poi, diciamola tutta: uno manda suo figlio a scuola dalle suore (e pagando non poco, stando all’eccellenza dell’istituto leccese delle Marcelline, dove, si dice, vanno i rampolli della città-bene) proprio, perché no, per sottrarli al pantano politicamente corretto della scuola statale, e poi si ritrova in mezzo a ‘ste storie. Che suscitano polemiche altrettanto politicamente corrette. Ma per piacere. Sennò va a finire che, visto che in classe ci sono sempre più immigrati, uno si ritrova il pargolo che canticchia in bagno la nenia mattutina del muezzin. Par condicio.


Caterina63
00domenica 3 luglio 2011 01:16

Povero San Francesco!

Da La Bussola
di Antonio Giuliano 29-06-2011



Se il buongiorno si vede dal mattino, allora il Festival Francescano, in programma dal 23 al 25 settembre a Reggio Emilia, non nasce sotto i migliori auspici.

Basta guardare lo spot che lancia la rassegna, organizzata dal Movimento Francescano dell’Emilia Romagna e presentata nei giorni scorsi a Milano, per rendersi conto di una certa confusione, sin dall’immagine che si vuole tramandare del Santo d’Assisi. Curiosa appare infatti la ricostruzione della vita del Poverello la cui conversione sarebbe scaturita dalla “violenza”.
«L’esperienza della violenza lo cambia», dice proprio così il filmato.

Eppure le Fonti Francescane (FF) convergono nel testimoniare chiaramente che il cambiamento di Francesco fosse di tutt’altra natura (!). Sia durante la prigionia dovuta alla guerra tra Perugia e Assisi, sia nella lunga malattia che ne seguì, il Santo cominciava ad avvertire dentro di sé l’iniziativa del suo Signore (che lo chiamava peraltro a una battaglia come suo cavaliere). Tant’è che a Spoleto, nel 1205 circa, una visione misteriosa lo sconsigliava di andare a combattere in Puglia e lo invitava a tornare ad Assisi (FF 1401). Lì Francesco avrebbe detto: «Signore cosa vuoi che io faccia?».

Era l’inizio di un graduale processo di conversione che sarebbe seguito poi con la visione di Cristo nel lebbroso e con il messaggio del Crocifisso di San Damiano. E a fugare ogni dubbio su chi determinò il suo cambiamento ci pensò lo stesso Santo nel preziosissimo Testamento del 1226 allorché ripete fino allo sfinimento «Il Signore mi dette»… (FF 110-131). Tutta la sua iniziativa è dettata da Cristo che nel filmato non viene neppure mai menzionato. Solo grossolana ricostruzione? Semplice lapsus pacifista? Poi però nella rassegna spunta per tre sere consecutive lo spettacolo di Dario Fo “Lo Santo Iullare Francesco” che a detta dello stesso attore vuole riproporre la storia vera del Poverello che «la Chiesa ha censurato».

Il ritratto di una sorta di profeta marxista, un santo «proiettato nella lotta di classe», che lotta insieme con gli operai e gli artigiani contro i potenti. E l’immancabile timbro anticlericale di Fo per cui Francesco sembra un eretico del suo tempo. Come se il Santo fino alla fine non avesse ammonito i suoi frati ad amare la Chiesa e i sacerdoti «anche se mi facessero persecuzione» (FF 112-113), perché quantunque peccassero sarebbero comunque da onorare per il fatto che amministrano il corpo di Cristo (Francesco nella sua umiltà scelse di non diventare sacerdote proprio perché non si sentiva degno).

Ciò che però dal programma sembra evaporare è l’immagine di Francesco alter Christus. Non basta infatti far indossare al Santo la camicia del patriota in occasione del 150° dell’Unità. Festeggiamo sì il Patrono d’Italia, ma siamo sicuri che per dimostrarne l’attualità del messaggio sia necessario strattonare il suo saio fino all’immancabile invito politico bipartisan a Romano Prodi e Beppe Pisanu?Non che nella rassegna manchino personaggi anche di spessore (come Ernesto Olivero) ma l’impressione è quella di un calderone a più voci dove l’immaginetta del Santo viene appiccicata alla Costituzione italiana così come alle canzonette moderne. Una frammentarietà non priva peraltro di discutibili (a dir poco) conferenze. Come quella del filosofo Armando Massarenti su “Divorzio, aborto, eutanasia… L’Italia e i grandi problemi etici”.

In tempi di disorientamento cattolico sui temi eticamente sensibili, figura quale relatore unico Massarenti, già noto per i suoi libri e le sue posizioni a favore della sostenibilità morale dell’eutanasia e critico sul pensiero della Chiesa in materia di bioetica (come nel libro in cui sponsorizza la ricerca sulle staminali embrionali). Certo è lodevole la volontà degli organizzatori di scendere in piazza e avvicinare quante più persone, specie i giovani, alla figura di Francesco. Ma non attirano forse di più (e meglio) le preziose iniziative dei Centri vocazionali francescani che ad Assisi e in tutt’Italia propongono corsi ed eventi di cristallina spiritualità, in cui Francesco appare tutt’altro che un filantropo politicamente corretto?

A quanto pare no. Ecco perché nel Festival c’è spazio per tutto e il contrario di tutto, anche per il giovanilismo dello scrittore Enrico Brizzi, autore del fortunato Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Peccato però che in questa rassegna a uscire dal gruppo sembra sia proprio il povero san Francesco (casomai ci fosse mai entrato).

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In Isaia 49,4 leggiamo queste parole: “Invano ho faticato, per nulla e inutilmente ho speso la mia forza…”.  
 in Gv 21,1-19....i discepoli vanno a pesca, devono pur campare!  
Non prendono nulla durante tutta la notte. Avevano forse dimenticato che senza di Lui …  
Ma con Gesù il risultato si ribalta....tuttavia le reti son trascinate a riva solo quando Pietro aiuta! 

Certi francescani (ma anche in altri Ordini... )  pensano ormai che basta un Waka-Waka per riempire le reti....
 
stanno ponendo la fede nella mentalità del mondo fino a sovvertire la storia del loro Fondatore....  
Un'altra vittima dell'errata interpretazione di Paolo VI questa volta, più che del Concilio....egli invitava gli Ordini Religiosi a RILEGGERE ATTENTAMENTE  i propri Fondatori per ritrovare NUOVA VITALITA'.... ma non credo che intendesse dire di sovvertire le proprie storie....  
Quella di san Francesco venne sovvertita già dall'800.... e meno male che Benedetto XVI ha fatto ben tre Catechesi su san Francesco richiamando proprio a questa FALSA IMMAGINE DEL SANTO PROGRESSISTA E MODERNISTA...  
e meno male che il primo MP di Benedetto XVI fu proprio quello su Assisi per tentare di rimettere  ordine laddove i francescani avevano sovvertito l'ordine della VERITA'....



Caterina63
00martedì 12 luglio 2011 12:46

Il tubolario del conciliese




Rivestite un incarico ecclesiale in una diocesi del nord e vi ritrovate all'ultimo momento, alla vigilia della elezioni amministrative, a dovere fare un importante discorso e avete i tempi ristretti?



Vi hanno assunto presso un settimanale di ispirazione cristiana, e dovete comporre la "risposta del teologo" dopo una notte di bisboccia?
Dovete presentare un liturgista di grido, che dirà la sua opinione sul motu-proprio e su Benedetto XVI?
Siete un moderno e disinibito operatore pastorale, che si è diplomato a pieni voti presso una scuola di teologia per laici, e il parroco vi ha chiesto di preparare 37 ammonizioni varie con cui interropere la Messa?


NIENTE PAURA!


La moderna linguistica offre oggi - solo per voi di Messa in latino! -, un formidabile strumento: il tubolario del conciliese.
Ora potrete, in quattro e quattr'otto, preparare prolusioni, presentazioni, articoli di riviste e intere annate di settimanali diocesani!


Basta comporre il vostro testo congiungendo, a caso, una delle nove frasi dei sette gruppi elencati qui sotto: unitene una di ciascun gruppo con un'altra, a piacere, del gruppo successivo, e così via. Quando siete alla fine, ricominciate da capo, tante volte a seconda della lunghezza che volete dare al vostro documento pastorale, articolo, omelia etc.


Quale la garanzia di riuscita? Funziona da oltre 40 anni e mai una volta che sia venuto fuori qualcosa di sensato !!!!!!!!


Ecco i gruppi di frasi:



La preoccupante condizione del paese
Il dialogo con il mondo
Lo slancio del popolo di Dio in cammino
La nuova comunione-comunità
La pastorale non più verticistica
Il crollo dei privilegi e delle barriere
L’ascolto degli ultimi
Il metodo partecipativo
Il nuovo dinamismo pastorale

estrinseca
ci propone
presuppone
porta avanti
auspica
si caratterizza per
privilegia
prefigura
riconduce a sintesi
persegue


un organico collegamento interecclesiale,
il superamento di ogni ostacolo e/o resistenza,
la puntuale collaborazione tra diversi,
la verifica critica dei recenti obiettivi sinodali,
il riorientamento della comunità degli uomini,
il decentramento delle funzioni decisionali,
la ricognizione del bisogno emergente,
l’articolazione periferica dei servizi parrocchiali,
un corretto rapporto fra struttura e sovrastruttura,
il ribaltamento della logica trionfalistica,


al di là delle ansie e dei timori iniziali che certo potrebbero insorgere,
in maniera articolata e non totalizzante,
attraverso i meccanismi della collegialità,
senza precostituzione delle risposte,
nel primario interesse dell’uomo di oggi,
senza pregiudicare la qualità e il livello dell’ascolto degli uditori della parola,
al di sopra di qualsivoglia pressione di potere mondano,
in una dimensione non devozionalistica,
con criteri non fermi a un certo tipo di passato,


umanamente soppesando e ponderando,
recuperando ovvero rivalutando,
ipotizzando e perseguendo,
attualizzando e concretizzando,
attivamente focalizzando,
non sottacendo ma anzi puntualizzando,
non dando assolutamente nulla per scontato,
sostanziando e vitalizzando,
evidenziando ed esplicitando,

tra memoria e profezia,
irreversibilmente sospinti dal vento del Concilio,
alla luce della crescita della base della comunità e della comunità di base,
senza timore della più pluralistica delle laicità,
senza assurgere a giudici del nostro prossimo,
in una atmosfera ecumenico-dialogica,
senza pretendere di convertire alcuno,
senza temere di attraversare nuove frontiere,
non certo come chi ha la verità in mano,
l'appianamento di discrepanze e discrasie esistenti.

l'annullamento di ogni ghettizzazione.
il coinvolgimento attivo di tutti gli uomini di buona volontà.
la ridefinizione di un nuovo soggetto pastorale.
l'adozione di una pastorale nel contempo organica e differenziata.
una congrua flessibilità delle strutture pastorali.
un’idea di Chiesa non più come un recinto chiuso.
la rinuncia ad aggrapparsi a canoni e a dogmi.
la fantasia nello sviluppo dell’evento concilio.






Caterina63
00lunedì 19 settembre 2011 21:35
[SM=g1740733]Ringraziando il sito unavox e lo stesso mons. Gherardini, vescovo, autore del presente scritto, vi invitiamo a leggere quanto segue INTEGRALMENTE:

L'Eucarestia, il più laico dei sacramenti

Articolo di Mons. Brunero Gherardini, sulla riduzione allo stato laicale dei Sacramenti della Chiesa, massimamente l'Eucarestia, operata da certa teologia moderna

trasmessoci per la pubblicazione.

Ringraziamo l'illustre Autore.


Era proprio scritto da qualche parte che, prima di chiudere gli occhi, dovessi leggere anche questo. 
E, si badi bene, non in un testo anticlericale o comunque lontano dalla sensibilità cattolica, bensì in un settimanale interdiocesano (1).
Perché non si creda che abbia letto male o, peggio che riferisca in modo non esatto quant’ho letto, riporto alla lettera questo squarcio di sublime deformazione dogmatico-teologica:
     “L’Eucaristia è il più laico di tutti i sacramenti, perché il rito del sacrificio antico è stato abolito da Cristo e sostituito con il dono della vita reale, che Gesù ha fatto con la sua persona e che noi a nostra volta facciamo, celebrando l’Eucaristia sulla scia dell’unico sacrificio importante davanti a Dio, quello di Cristo. Questo comporta che l’Eucaristia è incompatibile con ogni dualismo tra sacro e profano: non si può varcare la soglia del tempio come se si entrasse in un altro mondo, poi uscire e tornare nella vita reale…”.

    Non ha importanza, per il presente articolo, la paternità di queste deliranti parole; è importante solo – in modo estremamente negativo – che esse siano state ospitate da un Settimanale che si fregia del titolo “Cattolico” nel quale dovrebbe riflettersi il “magistero ordinario” dell’episcopato toscano. Dai vescovi della Toscana, così come da quelli di tutto l’orbe cattolico, laici e preti s’attendono, perché ne hanno il diritto, non qualche sparata sensazionale ma priva di senso e capace soltanto d’impallinare la Fede della santa madre Chiesa, bensì un insegnamento almeno in linea con quello ufficiale della Chiesa stessa. Per ricuperare codest’insegnamento, anche senz’andar tanto indietro nel tempo, al Concilio di Trento, p. es., o al Catechismo per i parroci che ne sintetizzò i contenuti, o all’immortale Catechismo di san Pio X,  esso è oggi reperibile nel Catechismo della Chiesa Cattolica, redatto dopo il Vaticano II e promulgato da Giovanni Paolo II con la Costituzione apostolica dell’11 ottobre 1992 (2). In questo prontuario di dottrina cattolica, è vero, manca una definizione vera e propria della SS.ma Eucaristia, ma la dottrina esposta è chiarissima e nulla, assolutamente nulla contiene che possa, sia pur vagamente, giustificare la sparata di cui sopra.
    L’Eucaristia è detta anzitutto “fonte e culmine della vita ecclesiale” (par. 1324-1327), “sacramento” o “memoriale della passione e della risurrezione del Signore”, sua presenza reale e comunione (par. 1328-1332), “sacrificio sacramentale” e “banchetto pasquale” (par. 1356-1401), “pegno della gloria futura” (par. 1402-1405).
   
Se, dunque, è questa la dottrina cattolica sul mistero eucaristico, è legittimo chiedersi su quale base un settimanale cattolico, che in quanto tale fa da cassa di risonanza all’insegnamento del Magistero in genere e segnatamente a quello dell’episcopato locale, abbia potuto o possa appoggiare una così evidente deformazione dottrinale come quella sopra riportata. In altre occasioni, in tema di linguaggio, ho lamentato la frequente violenza alla quale si sottopongono oggi le parole, il cui compito è invece quello di far capire e di comunicare. Qui la violenza è fatta non solo contro le parole, ma contro il mistero eucaristico e la dottrina che lo espone.

1 – Analisi del testo –
Essendo probabile che l’elefantiasi, oggi invalsa, del concetto e dell’uso di laico non colga immediatamente quanto d’insulso e dissennato c’è, teologicamente parlando, nel testo  in esame, sarà bene commentarlo in sé ed in ognuna delle sue componenti.
    Se uno dichiara che “l’Eucaristia è il più laico di tutt’i sacramenti”, esprime un giudizio esplicito sul sacramento eucaristico, riconoscendogli il massimo della laicità: non in assoluto ma relativamente agli altri, a tutti gli altri sacramenti. Implicitamente tutti gli altri sacramenti son giudicati laici, sia pure a livelli inferiori di laicità rispetto all’Eucaristia. Questa collocando nel dichiarato ordine di preminenza, anche l’Autore d’un siffatto giudizio avverte il bisogno o addirittura l’urgenza di darne una spiegazione. Al giudizio, infatti, segue immediatamente un “perché” epesegetico. In base ad esso, il lettore dovrebbe capire la ragione che ha indotto l’Autore a formular un giudizio così inconsueto ed in base alla quale codesto medesimo giudizio sintetizza ciò che primariamente – nella linea della definizione – può e deve dirsi della SS.ma Eucaristia.
    Il “perché” ha in effetti una funzione esplicativa; ma non è detto che la spiegazione addotta rimuova automaticamente ogni ombra ed ogni ostacolo alla retta comprensione di ciò che il giudizio stesso intendeva definire o comunque illustrare. Saranno i lettori di questa nota a sperimentare  l’efficacia illuminante o meno del “perché”.
    Esso proclama l’abolizione del rito antico e la sua sostituzione con il dono della vita reale, “che Gesù ha fatto con la sua persona e che noi a nostra volta facciamo”, celebrando l’Eucaristia, unico sacrificio importante davanti a Dio. Da qui una deduzione (“questo comporta”): l’incompatibilità dell’Eucaristia “con ogni dualismo tra sacro e profano: non si può varcare la soglia del tempio come se si entrasse in un altro mondo, poi uscire e tornare nella vita reale, non tenendo conto di quello che il Vangelo ci chiede”. Se ne deduce:
a)    che Gesù sostituì il rito del sacrificio antico con il dono della vita reale;
b)    che questo dono non è un rito;

c)    che tutt’il popolo cristiano,  “celebrando l’Eucaristia”, fa lo stesso dono di Cristo, il dono quindi della “vita reale”;

d)    ch’esso non ha nulla in  comune col dualismo tra sacro e profano;

e)    che, pertanto, l’esser in chiesa o l’esser in piazza, o al bar, o al lavoro, è la stessa cosa;

f)    altrimenti, non si tien conto di ciò che il Vangelo ci chiede.

Al riguardo si può osservare:

a)    nessun dubbio sulla sostituzione del “sacrificio antico”, da parte di Cristo, con il sacrificio di sé, realmente presente nel pane e nel vino del mistero eucaristico, il quale però non è affatto “il dono della vita reale”, specie se la vita reale, come appare dal seguito della spiegazione, è il quotidiano al di fuori del tempio, vale a dire la vita normale.
b)    E’ vero che l’Eucaristia è dono, nel quale e mediante il quale Gesù elargisce se stesso, “corpo sangue anima e divinità”, ma non in alternativa a rito, tant’è che la liturgia della quale è il vertice è anche un insieme di riti e che la celebrazione eucaristica è attuabile mediante un rito sia ordinario, sia straordinario.

c)    E’ anche vero che tutt’il popolo cristiano partecipa, sì, alla celebrazione eucaristica, non però sacramentalmente, non essendo in grado di consacrare; non può quindi né fare lo stesso “dono” di Cristo, né ripeterlo o, meglio, attualizzarlo riportandolo nel presente mediante la consacrazione del pane e del vino.

d)    Assurda appare la sua contrapposizione al dualismo – l’espressione “ogni dualismo”, non ostante che questo venga specificato e ben individuato, è un’assoluta mancanza di logica – tra sacro e profano. Già di per sé la Liturgia è a titolo speciale nella categoria del sacro (3) e raggiunge la sacralità massima proprio con la celebrazione eucaristica (4). L’incompatibilità non si verifica quindi tra l’Eucaristia e il dualismo tra sacro e profano, ma tra l’Eucaristia e quel profano che, di natura sua, contraddice il sacro.

e)    L’esser dunque in chiesa o al bar, o in qualunque altro posto che non sia costituzionalmente sacro o ad esso addetto, ha la sua sostanziale differenza.

f)    Come poi, tenendo conto di codesta differenza, si venga meno “a ciò che il Vangelo ci chiede”, può paragonarsi ad uno dei misteri detti di “primo grado”, ossia inesplicabili anche dopo averne conosciuto l’esistenza. E’ doveroso tener conto della differenza tra sacro e profano per non contaminare la celebrazione eucaristica con qualcosa che la contraddica; ma non si vede come, impedendo una tale contaminazione, venga tacitata un’esigenza evangelica.


Analizzato il “perché epesegetico” in ognuna delle sue spiegazioni, si rimane  letteralmente a bocca asciutta: quel “perché” avrebbe dovuto far capire la ragione per la quale l’Eucaristia “è il più laico dei sacramenti”:  avrebbe pertanto dovuto spiegare la natura laica dei sette sacramenti e metter ben in evidenza il massimo di tale laicità nel sacramento eucaristico. Ma di quant’era lecito aspettarsi da un “perché epesegetico”, e di quanto anzi esso stesso prometteva, neanche una parola. Quelle profferite con l’empito d’una cascata inarrestabile, si perdono in  un pelago d’asserti o di pensieri insostenibili e perfino assurdi; e senza mai entrar in argomento.
Se fosse di manica larga, il lettore stesso potrebbe forse tentare d’individuar un riferimento alla laicità dei sacramenti, nonché alla sua massima esponenza eucaristica, nell’asserito contrasto fra l’Eucaristia ed il dualismo sacro-profano. Se infatti l’Eucaristia è incompatibile con tale dualismo, tenuto conto dell’insistenza sul concetto di “vita reale” e sulla sua continuità dentro e fuori del  tempio, parrebbe logico dedurne non solo l’annullamento del dualismo ad opera dell’Eucaristia, ma anche il carattere profano, o comunque non sacro di essa. E da tale carattere risalire alla sua laicità. Se non che laicità non è profanità e pertanto il problema, anche a chi è di manica larga ed è disposto a concedere anche più del possibile, si ripropone.  In prim’istanza, infatti, occorre specificare la nozione di laico/laicità.


2 – Sul significato del termine –
Ho accennato alla violenza cui non di rado le parole vengon sottoposte.  Poche, però,  ne han subita tanta quanta la parola laico. Risalendo alla sua origine, nulla essa oggi presenta di ciò che la caratterizzò al suo primo apparire. Sì, in parte, questa è la sorte di tutte le parole; l’uso le modifica e talvolta si stenta a riconoscere nel significato attuale quello originario. E tuttavia di esso rimane sempre qualcosa, che l’analisi del linguaggio riesce a rintracciare. Laico è l’eccezione.
Ho dovuto più volte, per motivi analoghi a quello per il quale sto ora scrivendo, riferirmi a due analisi storiche sul concetto di laico: l’una di J. de la Potterie (5)  e l’altra del sottoscritto (6), non perché sian le uniche, ma perché si completan a vicenda. A correzione dell’idea che laico, ignoto al mondo pagano, sarebbe nato agl’inizi del Cristianesimo, de la Potterie dimostra che già nel 3° sec. a. C. un papiro greco parla di “laikà tethrammèna” e collega il termine laico col mondo agricolo. Taccio su altre testimonianze della grecità precristiana, sostanzialmente concorde nel dare a “laikòs” il significato che si riscontrerà poi nel Thesaurus Græcæ Linguæ (7): popolare, volgare, subalterno, plebeo, addetto ai lavori campestri, non  nobile, non impiegato, non militare né sacerdote.
Col senso di “non sacerdote”, laico entra relativamente presto nel vocabolario protocristiano. Verso il 96 d. C. san Clemente Romano scrive: “Al sommo sacerdote son riservati compiti specifici, ai presbiteri è assegnato un proprio ufficio (alla lettera: posto), ai leviti spettano determinati servizi. L’uomo laico obbedisce (alla lettera: è obbligato) a norme laicali” (8).

Una prima osservazione, di non secondaria importanza: mentre nell’uso coevo in ambito giudaico ed ellenistico laico indica per lo più una cosa (pane, via, tassa, lavoro), con Clemente è detto anche d’una persona. Da allora per la Chiesa sarà sempre così, con una particolarità: la parola non si limiterà a designar una persona, ma anche la sua condizione di battezzato, se pur non elevato ai gradi dell’Ordine sacro. Le testimonianze patristiche, con particolare riferimento a Tertulliano, san Gerolamo e sant’Agostino, e quelle letterarie greco-romane, sulle quali ha insistito la ricerca altamente specializzata di Schrijnen, Mohrmann, Pagliaro e Belardi, Boscherini ed altri, hanno agevolato alla Chiesa l’acquisizione pacifica del concetto di laico nel suo duplice senso, positivo (un battezzato) e negativo (non ordinato, “nullum in clero ordinem adeptus”). Un tale concetto, inoltre, ha riscattato per sempre il laico dal senso deteriore che qualificava la parola in origine e nelle sue rare apparizioni letterarie precristiane (9).
Che in tal senso si tratti d’un cristianismo indiretto, ovvero d’una parola già esistente nella letteratura ellenistica e cristianizzata dall’uso letterario e liturgico dei cristiani, è probabile; certo è che non si tratta d’un cristianismo diretto, ovvero d’un lemma creato “ex novo” dal gergo cristiano. E certo è pure che, nonostante le vicende non sempre trasparenti dell’uso, laico ha mantenuto nella Chiesa e per la Chiesa il suo concetto positivo e negativo. Perfino quando, dopo il Laterano II del 1139, si ufficializzò la prima deformazione del concetto, riservando culto e cultura ai chierici e riducendo il laico a cristiano semplice, illetterato, clericodipendente, inabile ad esser introdotto nella “gerarchia sacra” che ha il governo e la guida della Chiesa. Qualcuno, tuttavia, va oltre il dato storico oggettivo, rimproverando alla Chiesa d’aver tenuto i laici in una umiliante posizione di subalternità e non manca chi rievoca un testo di Bonifacio VIII (10) secondo il quale da sempre i laici sarebbero stati una iattura per la vita ecclesiale. Pur concedendo che quelle parole segnalano la mentalità del momento, esasperatamente clericale, si dimentica ch’esse riguardano i laici vogliosi di spadroneggiare nella Chiesa assumendosi compiti non di loro pertinenza.

La deformazione ultima del concetto è storia relativamente recente, frutto d’un diffuso clima di rivendicazione, non di rado consonante con la terminologia politica del revanscismo più acceso. Nel tentativo d’emancipar il laico dalla tutela clericale, si è finito col sostener una caricatura della figura laicale, per avere staccato il lemma da ogni parentale con quello delle origini. Oggi non son più soltanto preti e teologi c. d. d’avanguardia, ma politici e politologi, sociologi e sindacalisti, giornalisti ignoti o d’alto rango che spoglian il lemma del suo senso originario e l’usano in senso diametralmente opposto. Gli vien negata la sacertà che gli è propria, come conseguente al sacramento della rinascita, il quale d’un semplice uomo fa un rinato alla grazia e membro del Corpo mistico di Cristo. Oggi, per riprender l’espressione inizialmente incontrata, si misura la realtà laicale col metro della “vita reale”. E tutto diventa laico, anche ciò che né è né potrà mai esser tale. La Costituzione diventa laica, e laici lo Stato, il Parlamento, i ministri, i partiti, le leggi. Si è talmente ingarbugliato il concetto di laico che nella laicità si riconosce il vertice della maturità cristiana. Come a dire: tanto più si è cristiani, quanto meno si è coerenti al battesimo e partecipi alla vita del Corpo mistico. Per tacere di quelle espressioni, ormai idiomatiche, ricorrenti un giorno sì e l’altro pure sulla bocca dei “guru” di nuova estrazione: “Parlo da laico, lo dico anche se laico, fermo restando il mio credo laico…”, e via di questo passo, quasi lasciando intendere che dietro la professione di tanta laicità, si celi un vero e proprio ateismo non confessato.

3 – Conclusione  –
Non pensavo, nonostante che ormai da cinquant’anni  pastori e teologi procedan a briglia sciolta e ci abbian abituato a manomissioni pressoché quotidiane della Fede cattolica, che si potesse arrivar ad una manomissione tale qual è quella che ha provocato questa mess’a punto. Sapevo che nell’ultimo cinquantennio si son cancellati i confini tra sacro e profano all’unico scopo di negare le più elementari forme di sacertà e tutto inglobar in una visione naturalistica del creaturale, emancipandolo dal dualismo tutto medievale fra spirito e materia, sacro e profano, utopia e “vita reale”. Sapevo pure che alla deformazione concettuale di laico ha concorso, negli ultimi tempi, un’interpretazione tutta protestante dell’incarnazione del Verbo: essa avrebbe creato una relazione nuova tra Dio ed il mondo, abolendo le contrapposizioni metafisiche, fra le quali quella del naturale e del soprannatrurale, del sacro e del profano. Sapevo, dunque, della nuova figura di laico che si fa emergere dall’accennata abolizione: almeno in teoria, si vorrebbe una Chiesa, anzi un mondo senza gerarchie, o quanto meno senza gerarchie per divino mandato, una Chiesa ed un mondo di laici, elevati dall’incarnazione a partner di Dio per la costruzione d’una nuova realtà, una nuova giustizia, una nuova santità: a misura di laico. Non sapevo, però, che i sette sacramenti sarebbero stati ridotti a pura cifra laicale e che, di essa, il vertice apparterrebbe al mistero eucaristico. Né immaginavo che tutto ciò sarebbe stato ammannito alla semplicità del buon popolo di Dio da un settimanale cattolico regionale, sotto la diretta responsabilità dei vescovi d’un’intera regione.

Poiché non riesco ad immaginare la loro connivenza, per concludere osservo che tali vescovi fanno ciò che fanno le stelle d’un famoso romanzo: stanno a guardare.
                                                            Brunero Gherardini    


NOTE

1
- “Toscana oggi”, Settimanale regionale d’informazione, 32 – 18 sett. 2011, p. 3.    
2 - Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, par. 1322-1419, p. 345-367.
3 - In essa “opus nostræ Redemptionis exercetur”, Missale Romanum, e Sacrosanctum Concilium 1/b.
4 -   Ibid., 48: “…sed per ritus et preces…sacram actionem  conscie, pie et actuose  participant”. Né si dimentichi che il battezzato è “consacrato a Dio” (Lumen gentium 44/c); che il Concilio è ripetutamente definito “Sacra – vel sacrosancta Synodus” e la stessa Scrittura è abitualmente detta “sacra” oppure “Sacræ Paginæ”. Lo stesso lemma “profano”, che il linguaggio usa in senso contrapposto a “sacro” fin ad esprimere l’offesa o la contaminazione del sacro con il verbo profanare, in origine aveva un indiretto legame col sacro, significando ciò che o chi sta davanti al “fanum”, ossia al tempio.
5 -   DE LA POTTERIE J., L’origine et le sens primitif du mot “laïc”, in « Nouvelle Revue Théologique » 80 (1958) 840-852.
6 -   GHERARDINI B., Il Laico. Per una definizione dell’identità laicale, ed. Quadrivium, Genova.
7 -   Di H. STEPHAN, riveduto ed ampliato da K. B. Hase e dai due Dindorff, Parigi 1942-1946, vol. 5, c. 40. Cf DE LA POTTERIE, cit. p. 842-843.
8 -   S. CLEMENTE .,  Ad Corinthios 1, in FUNK I, p. 150.
9 -   In Handbuch theolog. Grundbegriff., a c. di H. Fries, 2.vol. Monaco 1963, p. 8, Y. CONGAR scrive: “Ein sowohl im Prophan-Griechisch als auch in dem der Septuaginta seit dem 3. Jh. v. C. bezeugter   Gebrauch hatte dem Wort  den Sinn von unqualifizierter Masse, niederen Volk, in Ablehnung von seinen Führern gegeben…“. 
10 -   Bolla “Clericis laicos” del 25.II.1296: “Clericis laicos infestos oppido tradit antiquitas”.



settembre 2011

AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI
al Sommario i Frutti del Concilio


Caterina63
00venerdì 17 agosto 2012 23:20

[SM=g1740733] Dieci regole per comunicare la fede

 

Proviamo a convincere senza voler sconfiggere. Chi vuole comunicare l’esperienza cristiana deve conoscere la fede che desidera trasmettere e deve conoscere anche le regole del gioco della comunicazione pubblica


di Juan Manuel Mora *

 

Comunicare la fede è un problema antico, presente nel corso dei duemila anni di vita della comunità cristiana, che si è sempre considerata messaggera di una novella che le è stata rivelata e che è degna di essere comunicata. È un problema antico, ma è anche un tema di scottante attualità. Da Paolo VI fino a Benedetto XVI, i Papi non hanno smesso di sottolineare la necessità di migliorare il modo di comunicare la fede.

Spesso, questo problema si trova in relazione con la «nuova evangelizzazione». In questo contesto, Giovanni Paolo II affermò che la comunicazione della fede deve essere nuova «nel suo ardore, nei metodi e nuova nelle espressioni». Qui facciamo riferimento in particolare alla novità dei metodi.

Ci sono fattori esterni che ostacolano la diffusione del messaggio cristiano, sui quali è difficile incidere. Però è possibile fare progressi con altri fattori che sono alla nostra portata. In questo senso, chi vuole comunicare l’esperienza cristiana deve conoscere la fede che desidera trasmettere e deve conoscere anche le regole del gioco della comunicazione pubblica.

Partendo, da un lato, dai documenti ecclesiali più rilevanti e, dall’altro, dalla bibliografia essenziale nell’ambito della comunicazione istituzionale, articolerò le mie riflessioni in una serie di principi. I primi si riferiscono al messaggio che si vuole diffondere; i successivi, alla persona che comunica; e gli ultimi, al modo di trasmettere questo messaggio tra l’opinione pubblica.

1. Prima di tutto, il messaggio deve essere positivo. Il pubblico presta attenzione a informazioni di ogni genere e prende nota delle proteste e delle critiche. Ma asseconda soprattutto progetti, proposte e cause positive.

Giovanni Paolo II afferma, nell’enciclica Familiaris consortio, che la morale è un cammino verso la felicità e non una serie di proibizioni. Quest’idea è stata ripetuta spesso da Benedetto XVI, in modi diversi: Dio ci dà tutto e non ci toglie nulla; l’insegnamento della Chiesa non è un codice di limitazioni, ma una luce che si riceve in libertà. Il messaggio cristiano deve essere trasmesso per quello che è: un sì immenso all’uomo, alla donna, alla vita, alla libertà, alla pace, allo sviluppo, alle virtù. Per trasmetterlo in modo adeguato agli altri, bisogna prima capire e sperimentare la fede in questo modo positivo.

Acquistano particolare valore in questo contesto alcune parole del cardinale Ratzinger: «La forza con cui la verità si impone deve essere la gioia, che è la sua espressione più chiara. Sulla gioia dovrebbero puntare i cristiani e nella gioia dovrebbero conoscere il mondo». La comunicazione attraverso l’irradiazione della gioia è il più positivo dei progetti.

2. In secondo luogo, il messaggio deve essere rilevante. Significativo per chi ascolta, non soltanto per chi parla. Tommaso d’Aquino afferma che ci sono due tipi di comunicazione: la locutio, un fluire di parole che non interessano in assoluto a coloro che ascoltano; e l’illuminatio, che consiste nel dire qualcosa che apre la mente e il cuore degli interlocutori su un aspetto che veramente li riguarda.

Comunicare la fede non è discutere per avere la meglio, ma dialogare per convincere. Il desiderio di convincere senza sconfiggere influenza profondamente l’atteggiamento di chi comunica. L’ascolto si trasforma in qualcosa di fondamentale: permette di sapere che cosa interessa, che cosa preoccupa l’interlocutore. Di conoscere le sue domande prima di proporre le risposte. Il contrario della rilevanza è l’autoreferenzialità: limitarsi a parlare di sé non è una buona base per il dialogo.

3. In terzo luogo, il messaggio deve essere chiaro. La comunicazione non è prima di tutto ciò che spiega colui che parla, ma ciò che il destinatario comprende. Accade in tutti i campi del sapere (scienza, tecnologia, economia): per comunicare è necessario evitare la complessità argomentativa e l’oscurità del linguaggio. Anche in materia religiosa conviene cercare argomenti chiari e parole semplici. In questo senso, bisognerebbe rivendicare il valore della retorica, della letteratura, delle metafore, del cinema, della pubblicità, delle immagini, dei simboli, per trasmettere il messaggio cristiano.

A volte, quando la comunicazione non funziona, si attribuisce la responsabilità al ricevente: si considerano gli altri incapaci di capire. Bisognerebbe, invece, fare l’opposto: sforzarsi di essere ogni volta più chiari, fino ad arrivare all’obiettivo che si desidera. Passiamo adesso ai principi relativi alla persona che comunica.

4. Perché un destinatario accetti un messaggio, la persona o l’organizzazione che lo propone deve meritare credibilità. Dato che la credibilità si fonda sulla veridicità e sull’integrità morale, la menzogna e il sospetto annullano alla base il processo di comunicazione. La perdita di credibilità è una delle conseguenze più serie di alcune crisi che si sono verificate in questi anni.

5. Il secondo principio è l’empatia. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra le persone, non un meccanismo anonimo di diffusione di idee. Il Vangelo si rivolge a persone: politici ed elettori, giornalisti e lettori. Persone con il loro punto di vista, i propri sentimenti ed emozioni. Quando si parla con freddezza, si fa più grande la distanza che separa dall’interlocutore. Una scrittrice africana ha affermato che la maturità di una persona sta nella sua capacità di scoprire che può «ferire» gli altri, e operare di conseguenza. La nostra società è piena di cuori spezzati e di intelligenze rose dal dubbio. Bisogna avvicinarsi con delicatezza al dolore fisico e al dolore morale. L’empatia non implica rinunciare alle proprie convinzioni, ma mettersi al posto dell’altro. Nella società attuale, le risposte che convincono sono quelle piene di coscienza e di umanità.

6. Il terzo principio relativo alla persona che comunica è la cortesia. L’esperienza dimostra che nei dibattiti pubblici è abitudine insultarsi e squalificarsi a vicenda. In questo ambito, se non si cura la forma, si corre il rischio che la proposta cristiana sia vista come uno fra i tanti atteggiamenti radicali. A rischio di sembrare ingenuo, penso che convenga prendere le distanze da questa impostazione. La chiarezza non è incompatibile con la gentilezza.

Con la gentilezza si può dialogare, senza gentilezza, il fallimento è assicurato in anticipo: chi era fazioso prima della discussione, continuerà a esserlo poi; e chi era contrario raramente cambierà atteggiamento. Ricordo un cartello collocato all’entrata di un pub vicino al castello di Windsor, nel Regno Unito. Diceva, più o meno: «In questo locale sono benvenuti i gentiluomini. E un gentiluomo è tale prima di bere la birra e anche dopo». Potremmo aggiungere: un gentiluomo è tale quando gli danno ragione e quando non gliela danno.

7. Vediamo infine alcuni principi che si riferiscono al modo di comunicare. Il primo è la professionalità. La Gaudium et spes ricorda che ogni attività umana ha la sua propria natura che bisogna scoprire, applicare e rispettare. Ogni campo del sapere ha la sua metodologia; ogni attività, le sue norme; e ogni professione, la sua logica.

L’evangelizzazione non si produrrà fuori dalle realtà umane, ma dentro: i politici, gli imprenditori, i giornalisti, i professori, gli sceneggiatori, i sindacalisti, sono coloro che possono introdurre pratiche migliori nei rispettivi ambiti. San Josemaría Escrivá ricordava che è ogni professionista, coinvolto nel proprio lavoro, che deve trovare le proposte e le soluzioni adeguate. Se si tratta di un dibattito parlamentare, con argomenti politici; se è un dibattito medico, con argomenti scientifici; e così via. Questo principio si applica alle attività di comunicazione, che stanno conoscendo uno sviluppo straordinario negli ultimi anni, sia per la crescente qualità delle forme narrative, sia per i tipi di pubblico di volta in volta più ampio e per la partecipazione cittadina ogni giorno più attiva.

8. Il secondo principio potrebbe definirsi della trasversalità. La professionalità è imprescindibile quando in un dibattito pesano le convinzioni religiose. La trasversalità, quando pesano le convinzioni politiche. A questo punto, vale la pena menzionare la situazione italiana. Nel fare la dichiarazione dei redditi, più dell’ottanta per cento degli italiani mette una croce nel riquadro corrispondente alla Chiesa, perché desidera appoggiare economicamente le sue attività. Ciò vuol dire che la Chiesa merita la fiducia di una grande maggioranza dei cittadini, non soltanto di coloro che si riconoscono in una tendenza politica.

9. Il terzo principio relativo al modo di comunicare è la gradualità. Le tendenze sociali hanno una vita complessa: nascono, crescono, si sviluppano, cambiano e muoiono. Di conseguenza, la comunicazione di idee ha molto a che vedere con la «coltivazione»: seminare, irrigare, potare, tagliare, attendere, prima di raccogliere.

Il fenomeno della secolarizzazione si è andato consolidando negli ultimi secoli. Processi di così lunga gestazione non si risolvono in anni, mesi o settimane. Il cardinale Ratzinger spiegava che la nostra visione del mondo suole seguire un paradigma «maschile», in cui l’importante è l’azione, l’efficacia, la programmazione e la rapidità. E concludeva che conviene dare più spazio a un paradigma «femminile», perché la donna sa che tutto ciò che ha a che vedere con la vita richiede attesa, ha bisogno di pazienza. Il contrario di questo principio sono la fretta e l’agire a breve termine che portano all’impazienza e molte volte anche allo scoraggiamento, perché è impossibile raggiungere obiettivi di una certa entità a breve termine.

10. A questi nove principi bisognerebbe aggiungerne un altro che tocca tutti gli aspetti citati: il messaggio, la persona che comunica e il modo di comunicare. Il principio della carità.

Alcuni autori hanno sottolineato come, nei primi secoli, la Chiesa si diffondesse in modo molto rapido perché era una comunità accogliente, in cui era possibile vivere un’esperienza di amore e di libertà. I cattolici trattavano il prossimo con carità, curavano i bambini, i poveri, gli anziani, gli infermi. Tutto questo rappresentò un’irresistibile calamita.

La carità è il contenuto, il metodo e lo stile della comunicazione della fede; la carità fa diventare il messaggio cristiano positivo, rilevante e attraente; conferisce credibilità, empatia e gentilezza alle persone che comunicano; ed è la forza che permette di agire in modo paziente, coinvolgente e aperto.

Perché anche il mondo in cui viviamo è sempre più spesso un mondo duro e freddo, nel quale molte persone si sentono escluse e maltrattate e sperano di avere un po’ di luce e di calore. In questo mondo, il grande argomento dei cattolici è la carità. Grazie alla carità, l’evangelizzazione è, sempre e veramente, nuova.

 

* Università di Navarra (Spagna)

FONTE: Osservatore Romano, 21/08/2011





[SM=g1740758]

Caterina63
00domenica 24 novembre 2013 23:55

Chiesa dove vai «senza disciplina, senza unità nella devozione e nel rito, senza educazione nei suoi chierici, senza vita sacerdotale tra i suoi Vescovi e i suoi preti, senza presa sulle coscienze popolari, incredula ai misteri, insensibile al mondo invisibile» ?

 

"Siamo ancora cattolici o che cosa siamo diventati?" (Gnocchi e Palmaro)

 


Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro tornano sulle colonne de “il Foglio” di oggi con un nuovo articolo, un bellissimo articolo che fa nuovamente riflettere e fa esclamare al lettore: «È vero, è proprio così!». Non si tratta di dire tradizionalisti o non tradizionalisti, progressisti o non progressisti, conservatori o non conservatori; occorre andare al nocciolo della questione e chiedersi: siamo ancora cattolici o che cosa siamo diventati?
 
I sentimenti buoni non sono sinonimo di cattolicità. Essere cattolici significa avere una dottrina e seguirla, unire in un unico corpo lex credendi e lex orandi, significa pensare da cattolico, parlare da cattolico, agire da cattolico… altrimenti non si è cattolici, si è qualcos’altro. Nessuno è obbligato ad essere cattolico, ma nessuno può dire di essere cattolico se, concretamente, non lo è. Oggi anche un ateo o un agnostico può affermare tranquillamente, senza battere ciglio: «sono d’accordo con il Papa», un tempo una cosa simile non sarebbe mai accaduta.
 
Il pericolo per la Chiesa della nostra epoca è quello di essere troppo asservita ai parametri del mondo, ai parametri dei poteri governativi e statali. Siamo di fronte al pericolo di una Chiesa sguarnita, indifesa, soggetta ai venti esterni «senza disciplina, senza unità nella devozione e nel rito, senza educazione nei suoi chierici, senza vita sacerdotale tra i suoi Vescovi e i suoi preti, senza presa sulle coscienze popolari, incredula ai misteri, insensibile al mondo invisibile» (C. Lovera di Castiglione, Il Movimento di Oxford, Morcelliana, Brescia 1935, p. 191).

Il Movimento di Oxford fu quel movimento di pensiero inglese diretto ed elaborato dal Cardinale Newman, attraverso il quale questo geniale professore smascherò, in maniera sublime, gli errori della chiesa anglicana, dalla quale si separò per abbracciare la Chiesa di Roma.  Fu studiando le eresie dei primi secoli, fu studiando i Padri della Chiesa che Newman comprese che ciò che era accaduto nel XVI secolo con il Protestantesimo non era altro che l’antico errore: ci si separava dalla dottrina e dal rito sacro di Roma e si inventavano cose nuove. «Lo scopersi quasi con terrore; c’era una somiglianza spaventosa – tanto più spaventosa in quanto così silente e priva di passione – fra le morte reliquie del passato e la cronaca febbrile del presente.

L’ombra del quinto secolo gravava sul sedicesimo. Era come se uno spirito sorgesse dalle torbide acque del vecchio mondo con la figura e i lineamenti del mondo nuovo. La Chiesa, allora come ora, poteva apparire dura e perentoria, risoluta, autoritaria e implacabile; e gli eretici erano sfuggenti, mutevoli, riservati ed infidi; sempre pronti a adulare il potere civile in accordo fra loro soltanto con l’aiuto di esso, e il potere civile mirava sempre nuove annessioni, cercando di togliere di mezzo l’invisibile e sostituendo l’opportunità alla fede» (J.H. Newman,  Apologia pro vita sua, Jaca Book, Milano 19952, p. 144-145).
 
Dopo il Concilio Vaticano II i tradizionalisti sono stati considerati duri, perentori, risoluti, autoritari, implacabili… soltanto perché non volevano e non vogliono che all’amata Chiesa venga sottratta la sua reale e originaria identità, quella che la Tradizione ha trasmesso.
 
Molti pastori della Chiesa che sono senza misericordia contro coloro che vogliono vivere cattolicamente, sono poi morbidissimi e tolleranti nei confronti dei peccati, anche quelli mortali: è indubbio che il primo problema, oggi, non è più quello di perseguire la vita soprannaturale e di avere come primo obiettivo quello della salvezza delle anime, ma di inseguire ciò che il mondo afferma, propone e talvolta, con le leggi, impone ai popoli (pensiamo, per esempio, a quella terribile battaglia contro l’aborto, che "C"attolici come Mario Palmaro conducono con determinazione e risolutezza).
Oggi è il tempo della grande tentazione per la Chiesa.
 
Divisione e confusione regnano nel mondo e i valori di Dio, di patria e di famiglia sono stati scalzati per dare spazio ad una pianificazione materialista e individualista, in una sfrenata rincorsa dell’uomo al piacere, che porterà l’uomo stesso a schiantarsi contro se stesso, autodistruggendosi. «La norma del diritto moderno», affermava il Terziario francescano Attilio Mordini (1923-1966), che ha affrontato coraggiosamente i problemi del nostro tempo nel solco vivo della tradizione cristiana «è l’uomo, ma l’uomo non è definibile; l’uomo non può essere oggetto, e solo come immagine di Dio può sostanziarsi quale presenza di eternità nel tempo e nel mondo» (Il Tempio del Cristianesimo. Per una retorica della storia, il Cerchio, Rimini 2006, p. 153).

A Treviri, secondo la Tradizione, si custodisce la veste inconsutile del Salvatore, quella che i soldati si giocarono a dadi al momento della crocifissione: «Ora la tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo» (Gv 19, 23). Ecco, la Chiesa è chiamata a custodire fedelmente, «da cima a fondo», il tesoro consegnato da Cristo agli Apostoli e non può cedere alle lusinghe: aver tolto dal sito Internet vaticano l’intervista di Papa Francesco ad Eugenio Scalfari è la dimostrazione che questa Chiesa è fragile, vulnerabile, in balia proprio delle tentazioni.

Cristina Siccardi





MATRIMONI GAY: COME I CATTOLICI PERDERANNO
QUESTA BATTAGLIA
IN DIECI PASSI
By Basta bugie.

Con le leggi sull'omofobia l'uomo viene demolito un pezzo alla volta nel trionfale plauso dei nemici della Chiesa

Omofobia. Il Parlamento italiano sta per approvare una legge che persegue con sanzioni specifiche le condotte che rientrano in questa nuova categoria concettuale. Ma che cosa significa essere omofobi? In realtà, nessuno può dirlo con precisione, perché l'omofobia è un'invenzione ideologica. È una trovata da codice penale sovietico, che permetterà a pubblici ministeri e giudici di perseguire le condotte più diverse, nel trionfo più grottesco della giurisprudenza creativa.

L'OMOFOBIA COME CATEGORIA DELL'ASSURDO

L'omofobia presuppone che il mondo sia fatto da eterosessuali e da omosessuali, oltre che da altre categorie eventualmente definibili con riferimento alla sfera sessuale. Ma già il concetto di eterosessualità è fasullo: infatti, quando uomo e donna compiono atti sessuali sono semplicemente persone normali. Il resto è anormalità. Una volta accettata la categoria giuridica dell'omofobia, questa affermazione non potrà più essere fatta pubblicamente senza rischiare di essere perseguiti dalla magistratura. La stessa cosa può dirsi di un professore o di una maestra che insegnino ai loro alunni che i rapporti fra persone dello stesso sesso non sono normali, o che avere due padri o due madri è dannoso per i figli. Una denuncia penale penderà come una spada di Damocle anche sulla testa di qualunque sacerdote o catechista che definisca gli atti omosessuali un peccato contro natura, e dunque peccato "che grida vendetta al cospetto di Dio". 
L'omofobia è una categoria dell'assurdo.

Se una persona viene aggredita o insultata, l'ordinamento giuridico prevede già sanzioni, applicabili a tutti in base al principio di eguaglianza. Inventarsi nuove pene per il caso in cui la vittima sia omosessuale (o dichiari di esserlo, perché poi come si può verificarlo?) significa inaugurare una potenziale infinita proliferazione di categorie a protezione rafforzata da parte dell'ordinamento penale. Si potrebbero ipotizzare leggi per punire più severamente la "grassofobia", per tutelare gli obesi dalle prese in giro di colleghi e compagni di scuola; oppure la "tabaccofobia", per difendere i fumatori da chi li discrimina per le loro condotte polmonari; o ancora, la "calvofobia", per porre fine all'indegna discriminazione delle persone con pochi capelli. Come si vede, non esiste un limite a questa demenziale gara di proliferazione dei diritti civili.


GENDER, MATRIMONI OMO E ADOZIONI GAY
Una nazione che introduce nelle sue leggi la categoria dell'omofobia accetta inevitabilmente l'ideologia del gender. Che cosa significa questo? Secondo la teoria del gender, il sesso di una persona non è un fatto che discende inesorabilmente dalla natura – si nasce uomo, oppure donna, e tertium non datur – ma ogni individuo sceglie, e non una volta per tutte, se vuole essere uomo o donna, a prescindere dal suo corpo e dalla genetica.
L'omofobia certifica per via giuridica la distruzione del sesso come identità naturale, trasformandolo in una scelta individuale arbitraria. Sarò uomo o donna così come può decidere di mangiare marmellata di pesche o di ciliegie. L'uomo letteralmente "si fa da sé", portando a compimento il progetto di devastazione antropologica e sociale iniziato dai pensatori illuministi e rivoluzionari come Rousseau. Progetto che si riassume nella ribellione totale a Dio, che culmina nel rigettare i vincoli sessuali imposti dal corpo e dai suoi organi. E che si fa beffe del progetto divino sull'uomo "crescete e moltiplicatevi". 
Deve essere chiaro fin da subito che, una volta fatta una legge sull'omofobia, qualunque essa sia, il passaggio successivo automatico sarà una legge sui matrimoni gay. E in seguito non mancherà la legalizzazione delle adozioni di coppie omosessuali e l'accesso delle medesime alla fecondazione artificiale.

CATTOLICI: DIECI MOSSE PER PERDERE

Insomma, gli effetti della legge sull'omofobia sono apocalittici. In Italia, sarebbe stata del tutto normale una reazione durissima del mondo cattolico, della Chiesa, della Conferenza episcopale italiana, delle associazioni e dei movimenti ecclesiali, del principale quotidiano cattolico. E invece tutto tace. Le uniche realtà cattoliche che non hanno taciuto ma si sono meritoriamente battute senza tregua sono state Alleanza Cattolica, con un manifesto di opposizione netto e lucidissimo; i Giuristi per la Vita, con una raccolta di firme e con articoli che hanno agitato le acque chete clericali; la Nuova Bussola on line con una campagna stampa intensa e tenace; il settimanale Tempi, appoggiando la raccolta di firme contro la legge, più altri siti o gruppi organizzati, battaglieri ma piccolini.
Come si spiega questa omissione di soccorso alla verità? Ipotizzo tre cause: 
  1. L'abitudine al compromesso: ormai da anni il mondo cattolico si è abituato a perseguire il male minore piuttosto che il bene e il vero: meglio una legge sull'omofobia cattiva, piuttosto che una pessima.
  2. L'esistenza di una rilevante lobby gay interna al mondo cattolico che lo paralizza su questa come su altre battaglie.
  3. La paura di battersi contro il mondo e di perdere una battaglia politica.
Questa "resa" spiega in fondo come è possibile che l'omosessualità, giudicata come un'anormalità deleteria dalla gran parte dell'opinione pubblica fino a poco tempo fa, improvvisamente sia diventata una condotta non solo lecita ma degna di una tutela giuridica speciale. Facendola diventare perfino più meritoria della tradizionale relazione uomo-donna. Molto ha fatto, è chiaro, il lavoro della lobby gay e il terreno favorevolissimo creatole dai mass media. Tuttavia, va aggiunto che il cattolicesimo si è per così dire "scavato la fossa" con le sue mani, attraverso dieci mosse clamorosamente sbagliate. Eccole:
  1. Il giudizio del cristianesimo sulla condotta omosessuale è indubbiamente molto severo da duemila anni; la prima mossa perdente consiste nell'ammorbidire progressivamente questo giudizio di verità, che per altro nulla toglie all'annuncio del perdono e della redenzione del peccatore, come per ogni altro peccato. 
  2. Tacere che la condotta omosessuale è un peccato. In nome del rispetto dovuto agli altri, e alla complessità delle cause, si conclude che questa condotta è sostanzialmente ingiudicabile. Se ci fate caso, anche i cattolici più rigorosi si sentono in dovere di premettere che "non hanno nulla contro gli omosessuali". Eppure, parlando del nono comandamento, non direbbero mai: "premesso che non ho niente contro gli adulteri". 
  3. Il passo successivo è negare esplicitamente che si tratti di peccato: c'è chi nasce così, e non si può far nulla per cambiare le cose. 
  4. Si abolisce dal proprio linguaggio (prediche, catechesi, conferenze, libri) il termine "contro natura", liquidando così anche l'idea di una natura in senso filosofico. L'unica natura che resta è così quella dei documentari di Piero Angela. 
  5. Si abbandona ogni pretesa di conservare nell'ordinamento giuridico una distinzione di giudizio rispetto all'omosessualità. Per secoli le leggi hanno considerato questo fenomeno come tollerabile, o come del tutto irrilevante sul piano giuridico, ma hanno sempre mantenuto una valutazione implicita negativa verso una condizione che può avere aspetti problematici di rilevanza pubblica. Pensiamo alla possibilità di ricoprire ruoli educativi, o di far parte di comunità organizzate specifiche come l'esercito o un ordine religioso. Distinguo e motivate discriminazioni che nascevano dal riconoscimento del carattere patologico, riconosciuto a livello mondiale fino al 1973, di quella condizione. 
  6. A questo punto dilaga l'effetto "laicità dello stato": siccome l'ordinamento non può dare giudizi etici, deve trattare tutto allo stesso modo; ergo, ogni relazione affettiva ha il medesimo valore morale e sociale; dunque, le leggi tratteranno esattamente allo stesso modo omosessuali ed eterosessuali, ed eventuali categorie ulteriori.
  7. A questo punto, chiunque provi a dire che l'omosessualità è contro natura, o che non vorrebbe un maestro omosessuale, diviene un fuorilegge prima sul piano mediatico (gogna televisiva e giornalistica) e poi sul piano giuridico (leggi sull'omofobia); e qui il mondo cattolico abbandona al loro destino tutti quelli che incappino nella mannaia organizzata dalla nuova omocrazia, liquidandoli come "imprudenti" o "integralisti". 
  8. Arriva dunque la legge sulle unioni gay, e qui il cattolico perdente ostenta soddisfazione perché "si evita di definirli matrimoni". 
  9. Arrivano, ovviamente, i matrimoni gay, e qui il cattolico perdente ostenta ottimismo perché "non sono previste le adozioni gay". 
  10. Arrivano le adozioni gay, e qui il cattolico perdente conclude, soddisfatto, che comunque "la famiglia tiene".
Fonte: Il Timone, ottobre 2013 (n. 126)




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