Cardinale Antonelli sulla crisi del Matrimonio ed Eucaristia

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Caterina63
00martedì 16 giugno 2015 13:36
    

> Sinodo. Il doppio grido d’allarme del cardinale Antonelli
Ha presieduto per cinque anni il pontificio consiglio per la famiglia. La comunione ai divorziati risposati, avverte, segnerebbe non solo lo svilimento dell’eucaristia ma anche la fine del sacramento del matrimonio

8.6.2015


di Sandro Magister




ROMA, 12 giugno 2015 – Il cardinale Ennio Antonelli, 78 anni, è un'autorità in materia. È stato presidente per cinque anni del pontificio consiglio per la famiglia e ha organizzato i due incontri mondiali che hanno preceduto il prossimo di Philadelphia: a Città del Messico nel 2009 e a Milano nel 2012.

Ha anche accumulato una notevole esperienza pastorale. È stato arcivescovo prima di Perugia e poi di Firenze, oltre che segretario per sei anni della conferenza episcopale italiana. Appartiene al movimento dei Focolari.

Non ha preso parte alla prima sessione del sinodo sulla famiglia tenuta lo scorso ottobre. Ma partecipa attivamente alla discussione in corso, come prova il libro che ha pubblicato in questi giorni:

E. Antonelli, "Crisi del matrimonio ed eucaristia", Edizioni Ares, Milano, 2015, pp. 72, euro 7,00.

È un libro speciale. Agile, di poche pagine, si legge d'un fiato. È introdotto da una prefazione di un altro cardinale esperto in materia, Elio Sgreccia, già presidente della pontificia accademia per la vita.

Il sito web del pontificio consiglio per la famiglia l'ha messo in rete integralmente e in tre lingue, in italiano, in inglese e in spagnolo:

> Crisi del matrimonio ed eucaristia


Qui di seguito se ne offrono alcuni brani d'assaggio.

In essi il cardinale Antonelli ripropone con amabile fermezza e realismo pratico la dottrina e la pastorale vigenti in materia di matrimonio.

E mette in evidenza le conseguenze insostenibili alla quali si arriverebbe con taluni cambiamenti oggi proposti ai vari livelli della Chiesa.

__________



DA: "CRISI DEL MATRIMONIO ED EUCARISTIA"

di Ennio Antonelli



ANCHE AI CONVIVENTI OMOSESSUALI, PERCHÉ NO?

Oltre che ai divorziati risposati, la posizione pastorale finora vigente dà indicazioni analoghe anche riguardo ai conviventi senza alcun vincolo istituzionale e ai cattolici sposati solo civilmente. 

Il trattamento riservato a essi è praticamente lo stesso: non ammissione ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, accoglienza nella vita ecclesiale, vicinanza rispettosa e personalizzata per conoscere concretamente le singole persone, orientarle e accompagnarle verso una possibile regolarizzazione.

Ora, alcuni ipotizzano l’ammissione all’eucaristia ai soli divorziati risposati civilmente, lasciando esclusi i conviventi di fatto, i conviventi registrati, i conviventi omosessuali.

Personalmente ritengo che questa ultima limitazione sia poco realistica, perché i conviventi sono molto più numerosi dei divorziati risposati. Per la pressione sociale e per la logica interna delle cose finiranno senz’altro per prevalere le opinioni orientate verso un più largo permissivismo.


L'EUCARISTIA RIDOTTA A GESTO DI CORTESIA

È vero che l’eucaristia è necessaria per la salvezza, ma ciò non significa che di fatto si salvano solo quelli che ricevono questo sacramento. Un cristiano non cattolico o addirittura un credente di altra religione non battezzato potrebbe essere spiritualmente più unito a Dio di un cattolico praticante e tuttavia non può venire ammesso alla comunione eucaristica, perché non è in piena comunione visibile con la Chiesa.

L’eucaristia è vertice e fonte della comunione spirituale e visibile. Anche la visibilità è essenziale, in quanto la Chiesa è sacramento generale della salvezza e segno pubblico di Cristo salvatore nel mondo. Ma, purtroppo, i divorziati risposati e gli altri conviventi irregolari si trovano in una situazione oggettiva e pubblica di grave contrasto con il Vangelo e con la dottrina della Chiesa.

Nell’odierno contesto culturale di relativismo c’è il rischio di banalizzare l’eucaristia e ridurla a un rito di socializzazione. È già successo che persone neppure battezzate si siano accostate alla mensa, pensando di fare un gesto di cortesia, o che persone non credenti abbiano reclamato il diritto di comunicarsi in occasione di nozze o di funerali, semplicemente in segno di solidarietà con gli amici.


PEGGIO CHE NELLE CHIESE D'ORIENTE

Si vorrebbe concedere l’eucarestia ai divorziati risposati affermando l’indissolubilità del primo matrimonio e non riconoscendo la seconda unione come un vero e proprio matrimonio, in modo da evitare la bigamia.

Questa posizione è diversa da quella delle Chiese orientali che concedono ai divorziati risposati civilmente un secondo (e terzo) matrimonio canonico, sia pure connotato in senso penitenziale. Anzi, per certi aspetti, appare più pericolosa, in quanto conduce logicamente ad ammettere il lecito esercizio della sessualità genitale fuori del matrimonio, anche perché i conviventi sono molto più numerosi dei divorziati risposati.

I più pessimisti prevedono che si finirà per ritenere eticamente lecite le convivenze prematrimoniali, le convivenze di fatto registrate e non registrate, i rapporti sessuali occasionali, e forse le convivenze omosessuali e perfino il poliamore e la polifamiglia.


TRA BENE E MALE NON C'È GRADUALITÀ

È senz’altro auspicabile che nella pastorale si assuma un atteggiamento costruttivo, cercando di "cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze" (Relatio Synodi, n. 41).

Certamente anche le unioni illegittime contengono autentici valori umani (per esempio l’affetto, l’aiuto reciproco, l’impegno condiviso verso i figli), perché il male è sempre mescolato al bene e non esiste mai allo stato puro. Tuttavia bisogna evitare di presentare tali unioni in se stesse come valori imperfetti, mentre si tratta di gravi disordini. 

La legge della gradualità riguarda solo la responsabilità soggettiva delle persone e non deve essere trasformata in gradualità della legge, presentando il male come bene imperfetto. Tra vero e falso, tra bene e male non c’è gradualità. Mentre si astiene dal giudicare le coscienze, che solo Dio vede, e accompagna con rispetto e pazienza i passi verso il bene possibile, la Chiesa non deve cessare di insegnare la verità oggettiva del bene e del male.

La legge della gradualità serve a discernere le coscienze, non a classificare come più o meno buone le azioni da compiere e tantomeno a elevare il male alla dignità di bene imperfetto.

Riguardo ai divorziati risposati e ai conviventi, lungi dal favorire le proposte innovative, tale legge serve in definitiva a confermare la prassi pastorale tradizionale.


NIENTE PERDONO SENZA CONVERSIONE

L’ammissione dei divorziati risposati e dei conviventi alla mensa eucaristica comporta una separazione tra misericordia e conversione che non sembra in sintonia con il Vangelo.

Questo sarebbe l’unico caso di perdono senza conversione. Dio concede sempre il perdono; ma lo riceve solo chi è umile, si riconosce peccatore e si impegna a cambiar vita.

Invece il clima di relativismo e soggettivismo etico-religioso, che oggi si respira, favorisce l’autogiustificazione, particolarmente in ambito affettivo e sessuale. Si tende a sminuire la propria responsabilità, attribuendo gli eventuali fallimenti ai condizionamenti sociali. È facile inoltre attribuire la colpa del fallimento all’altro coniuge e proclamare la propria innocenza.

Non si deve però tacere il fatto che, se la colpa del fallimento può qualche volta essere di uno solo, almeno la responsabilità della nuova unione (illegittima) è di ambedue i conviventi ed è questa soprattutto che, finché perdura, impedisce l’accesso all’eucaristia.

Non ha fondamento teologico la tendenza a considerare positivamente la seconda unione e a circoscrivere il peccato alla sola precedente separazione. Non basta fare penitenza per questa soltanto. Occorre cambiare vita.


INDISSOLUBILITÀ ADDIO

Di solito i favorevoli alla comunione eucaristica dei divorziati risposati e dei conviventi affermano che non si mette in discussione l’indissolubilità del matrimonio.

Ma, al di là delle loro intenzioni, stante l’incoerenza dottrinale tra l’ammissione di queste persone all’eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio, si finirà per negare nella prassi concreta ciò che si continuerà ad affermare teoricamente in linea di principio, rischiando di ridurre il matrimonio indissolubile a un ideale, bello forse, ma realizzabile solo da alcuni fortunati.

Istruttiva al riguardo è la prassi pastorale sviluppatasi nelle Chiese orientali ortodosse.

Esse nella dottrina affermano l’indissolubilità del matrimonio cristiano. Tuttavia nella loro prassi si sono progressivamente moltiplicati i motivi di scioglimento del precedente matrimonio e di concessione di un secondo (o terzo) matrimonio. Inoltre sono diventati numerosissimi i richiedenti. Ormai chiunque presenta un documento di divorzio civile ottiene anche dall’autorità ecclesiastica l’autorizzazione al nuovo matrimonio, senza neppure dover passare attraverso un’indagine e valutazione canonica della causa.

È prevedibile che anche la comunione eucaristica dei divorziati risposati e dei conviventi diventi rapidamente un fatto generalizzato. Allora non avrà più molto senso parlare di indissolubilità del matrimonio e perderà rilevanza pratica la stessa celebrazione del sacramento del matrimonio.




Caterina63
00martedì 16 giugno 2015 13:39
  il testo integrale



Crisi del Matrimonio ed Eucarestia

 

 

1. Premessa.

Il tema «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo» fa pensare che la prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo (4-25 ottobre 2015) intenda soprattutto proporre positivamente la bellezza e l’efficacia evangelizzatrice della famiglia cristiana. Da parte mia sono fermamente convinto che oggi la principale urgenza pastorale sia la formazione di famiglie cristiane esemplari, in grado di manifestare concretamente che il matrimonio cristiano è bello e possibile da realizzare. Sono esse che possono annunciare il vangelo della famiglia, «non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia» (Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 14).

A mio parere, in un contesto culturale post cristiano come il nostro, gli impegni di pastorale familiare, su cui la Chiesa a tutti i livelli dovrebbe concentrare le sue energie, sono i seguenti:

a. L’educazione teorica e pratica dei ragazzi e dei giovani all’amore cristiano, inteso come dono di sé agli altri e come comunione nel rispetto delle differenze;

b. La seria preparazione dei fidanzati al matrimonio, perché sia valido e fruttuoso, mediante itinerari commisurati alle diverse situazioni spirituali, culturali, sociali;

c. La formazione permanente dei coniugi, specialmente delle coppie giovani, mediante incontri periodici, inseriti progettualmente nei programmi pastorali annuali, animati da figure ministeriali idonee (per esempio coppie di sposi preparate), valorizzando piccole comunità, movimenti, associazioni.

Ciò premesso, vengo all’argomento, difficile e anch’esso importante, sul quale intendo offrire un mio contributo di riflessione in preparazione alla prossima Assemblea Sinodale: la possibilità di ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati e i conviventi.

Il mio discorso cerca di attenersi ai due saggi e doverosi atteggiamenti, opportunamente suggeriti da Papa Francesco: parresia e umiltà, esprimere con franchezza il proprio pensiero e ascoltare gli altri con rispetto e disponibilità a lasciarsi correggere e completare. Solo così ci si arricchisce reciprocamente e si procede insieme verso la verità e il bene.

I temi principali che entreranno nella mia riflessione sono i seguenti: la coerenza e la perfettibilità della prassi pastorale autorizzata finora; la varietà delle proposte di cambiamento e le obiezioni contro di esse; l’incapacità della cosiddetta legge di gradualità a suggerire criteri generali per l’ammissione dei divorziati risposati e dei conviventi all’Eucaristia; il punto fermo dell’indissolubilità del matrimonio cristiano; l’oblatività dell’amore in relazione alla validità del matrimonio; l’autenticità evangelica per la fecondità missionaria. Mi permetto di richiamare l’attenzione specialmente sui numeri 4, 5, 6, 9.

 

2. La posizione dottrinale e disciplinare finora vigente

Il matrimonio sacramentale, rato e consumato, è indissolubile per volontà di Cristo. La divisione dei coniugi è contro la sua volontà. La nuova unione di un coniuge separato è illegittima e costituisce un perdurante disordine moralmente grave; crea una situazione che contraddice oggettivamente l’alleanza nunziale di Cristo con la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. Perciò i divorziati risposati non possono essere ammessi alla comunione eucaristica, innanzitutto per un motivo teologico e poi per un motivo di ordine pastorale. «La Chiesa ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio» (san Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 84).

L’esclusione dalla comunione eucaristica permane per tutto il tempo che dura la convivenza coniugale illegittima. «Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1650).
Questa esclusione non discrimina i divorziati risposati rispetto ad altre situazioni di grave disordine oggettivo e di scandalo pubblico.
Chi ha l’abitudine di bestemmiare deve impegnarsi seriamente a correggersi; chi ha commesso un furto deve restituire; chi ha danneggiato il prossimo materialmente o moralmente, deve riparare. Senza impegno concreto di conversione, non ci sono assoluzione sacramentale e ammissione all’Eucaristia. Non devono essere ammessi tutti coloro che «perseverano con ostinazione in un peccato grave manifesto» (CIC, 915). Non sembra possibile fare un’eccezione per i divorziati risposati che non si impegnano a cambiare forma di vita o separandosi o rinunciando ai rapporti sessuali.

Esclusione dalla comunione eucaristica non significa esclusione dalla Chiesa, ma solo comunione incompleta con essa. I divorziati risposati rimangono membri della Chiesa; possono e devono partecipare alla sua vita e alle sue attività. D’altra parte gli altri credenti e soprattutto i pastori devono accoglierli con amore, rispetto e sollecitudine, coinvolgendoli nella vita ecclesiale, incoraggiandoli a compiere il bene con generosità e ad avere fiducia nella misericordia di Dio. «Aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio.
La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza… Con ferma fiducia essa crede che, anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore e in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità» (san Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio,84).

La posizione dottrinale e pastorale della Familiaris Consortio è stata confermata dalla Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI, a 26 anni di distanza, senza variazioni di rilievo (n. 29). Qualche indicazione aggiuntiva si trova invece in un altro testo di san Giovanni Paolo II, Reconciliatio et poenitentia, di poco posteriore alla medesima Familiaris Consortio, alla quale fa un esplicito riferimento. Il Papa parla dei cristiani che si vengono a trovare in situazioni «particolarmente delicate e quasi inestricabili», ponendo tra di essi i divorziati risposati e quanti «convivono irregolarmente». Nei loro confronti bisogna attenersi a due principi complementari, «il principio della compassione e della misericordia» e «il principio della verità e della coerenza». Alla luce di essi si può camminare verso «una piena riconciliazione nell’ora che solo la Provvidenza conosce». «Basandosi su questi due principi complementari, la Chiesa non può che invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però quelle dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste» (san Giovanni Paolo II, Reconciliatio et Poenitentia, 34).

Chi dunque si impegna seriamente in un cammino di vita cristiana riceverà prima o poi la grazia della piena conversione e riconciliazione in modo da poter ricevere i sacramenti o almeno la grazia di raggiungere la salvezza eterna al termine della vita terrena. In questa prospettiva si armonizzano la ferma fiducia nella misericordia e il rispetto della verità.

Secondo il medesimo documento, il cammino che prepara la piena riconciliazione comprende anche «la ripetizione frequente di atti di fede, di speranza, di carità, di dolore il più possibile perfetti» (Ivi). Sono atti intimi che solo Dio può vedere e giudicare. Forse non giungono a quella perfezione che occorre per ottenere la giustificazione del peccatore, ma servono almeno a prepararla. Qualcosa di analogo si deve dire riguardo alla cosiddetta comunione spirituale. Con questo nome si indica innanzitutto la partecipazione alla vita divina che è frutto della comunione sacramentale eucaristica. Ma tale significato non rientra nel nostro argomento, perché stiamo considerando ciò che avviene nei casi in cui manca il sacramento. Allora si chiama comunione spirituale il desiderio di ricevere l’Eucaristia o da parte di un giusto che non può riceverla per una circostanza accidentale o da parte di un peccatore che si trova impedito da una situazione di vita incompatibile con essa. Il primo mediante il desiderio riceve un aumento di grazia santificante; il secondo riceve un aiuto che lo prepara alla piena conversione e alla giustificazione. In ambedue i casi il desiderio dell’Eucaristia è buono e idoneo per intensificare il rapporto con il Signore.

La posizione pastorale finora vigente che ho presentato si riferisce soprattutto ai divorziati risposati; ma la Familiaris Consortio dà indicazioni analoghe anche riguardo ai conviventi senza alcun vincolo istituzionale (FC 81) e ai cattolici sposati solo civilmente (FC 82). Sebbene la loro situazione eticamente disordinata sia per certi aspetti più grave, il trattamento riservato a essi è praticamente lo stesso: non ammissione ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, accoglienza nella vita ecclesiale, vicinanza rispettosa e personalizzata per conoscere concretamente le singole persone, orientarle e accompagnarle verso una possibile regolarizzazione.


Caterina63
00martedì 16 giugno 2015 13:41


  3. Perfettibilità della prassi vigente

L’attuale posizione dottrinale e disciplinare della Chiesa nei confronti dei divorziati risposati e dei conviventi è coerente e solidamente fondata nella Scrittura e nella Tradizione. Tuttavia nei confronti di essa c’è un diffuso malessere. Molte coppie irregolari percepiscono l’esclusione dalla comunione eucaristica come un’esclusione totale dalla Chiesa. Si sentono respinte dalla Chiesa e non avvertono più la vicinanza misericordiosa di Dio. Sono tentate di uscire dalla comunità ecclesiale e di perdere la fede.

È ovvio che il primo rimedio debba consistere nell’attuare con maggiore impegno le sagge indicazioni del Magistero. Ma c’è anche chi propone di aggiungere modalità più concrete e specifiche di attenzione alle coppie irregolari, in modo da conferire maggiore risalto e visibilità alla loro appartenenza ecclesiale e sostenere più efficacemente la loro vita spirituale. Si potrebbero affidare con maggiore larghezza ai divorziati risposati alcuni compiti ecclesiali finora vietati, almeno quando non lo sconsiglino inderogabili esigenze di esemplarità. Si potrebbero creare per essi (e anche per i conviventi) celebrazioni mirate al loro progresso spirituale. Si potrebbe sostituire con un gesto di benedizione la loro mancata ammissione all’Eucaristia, come a volte si fa con i cristiani non cattolici.

La proposta più impegnativa riguarda l’istituzione di uno specifico itinerario, finalizzato a discernere e compiere sempre meglio la volontà di Dio nella propria vita: un cammino personale e in piccole comunità, di riflessione e dialogo, preghiera e ascolto della Parola, impegno ecclesiale, familiare e sociale, servizio caritativo; un cammino prolungato nel tempo, fino al superamento della situazione incompatibile con l’Eucaristia o addirittura fino al termine della vita terrena, tenendo desta la fiducia nella misericordia di Dio e la speranza della vita eterna. Queste e altre analoghe proposte hanno aspetti sicuramente positivi; ma comportano anche il rischio di umiliare le persone e di emarginarle in una categoria a sé stante. Esigono in ogni caso prudenza, rispetto, delicata attenzione.

All’attuale prassi pastorale della Chiesa molti rimproverano che, escludendo in modo generalizzato tutte le coppie irregolari dalla comunione eucaristica, non terrebbe conto in misura sufficiente della cosiddetta legge della gradualità, enunciata peraltro con chiarezza dal Magistero stesso (cfr san Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 34). Ci si domanda se non sia possibile fare delle eccezioni, almeno in alcuni limitati casi particolari. Riprenderò tra poco la riflessione sull’argomento, che ora lascio sospeso.

 

4. Le proposte innovative

Un deciso cambiamento pastorale è fortemente caldeggiato dai media; è largamente atteso dall’opinione pubblica e anche da molti cattolici, laici e chierici. La recente Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi (5-19 ottobre 2014) ne ha fatto oggetto di un vivace dibattito.

«In ordine a un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa svelare loro la divina pedagogia della grazia nelle loro vite e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro [...] Si è riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia [...] Va ancora approfondita la questione, tenendo ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti, dato che l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate da diversi fattori psichici oppure sociali» (Relatio Synodi, nn. 25 e 52).

Il cambiamento pastorale è ispirato dal desiderio di rendere la Chiesa più accogliente e attraente verso tante persone ferite dalla crisi del matrimonio, largamente diffusa nella società contemporanea, testimoniando in modo concreto la misericordia di Dio verso di loro e verso tutti, riconoscendo i valori positivi presenti anche nelle convivenze irregolari, presentando il vangelo come un dono più che come un obbligo.

Le proposte più autorevoli non mettono in discussione l’indissolubilità del matrimonio cristiano. Anzi affermano che dovrebbero professarla gli stessi divorziati risposati, ammettendo di aver peccato con la rottura della precedente unione coniugale, domandando perdono e sottomettendosi alla penitenza. Non si considera la seconda unione come un matrimonio naturale, perché per i battezzati uno solo è il matrimonio valido, quello sacramentale. Tantomeno la si considera come un secondo matrimonio canonico, perché, rimanendo indissolubile il primo, si avrebbe una bigamia. Si preferisce per lo più parlare di unione imperfetta, quasi matrimoniale, o di vita comune, basata su alcuni valori umani e cristiani (per esempio l’affetto, la tenerezza, l’aiuto reciproco, la cura dei figli). Alcuni però parlano apertamente di secondo matrimonio naturale, non sacramentale, o di matrimonio civile. In sintesi, al di là delle variazioni terminologiche, si ritiene che la seconda unione sia compatibile con l’indissolubilità della prima, almeno in certi casi; anzi, che debba essere apprezzata come un bene da tutelare, rinunciando ad esigere sia la separazione sia la continenza sessuale, che sarebbe eccessivamente gravosa e difficile.

Nell’Assemblea straordinaria del 2014, quella parte dei padri sinodali che si è mostrata favorevole al cambiamento ha ammesso come accettabile solo «un’accoglienza non generalizzata alla mensa eucaristica, in alcune situazioni particolari e a condizioni ben precise» (Relatio Synodi, 52). Ai divorziati risposati la comunione eucaristica sarebbe da concedere solo nei casi irreversibili, dopo che sono stati soddisfatti gli obblighi derivanti dal primo matrimonio e una volta compiuto un cammino penitenziale disciplinato dal vescovo.

Quanto agli esperti, alcuni ipotizzano l’ammissione parziale all’Eucaristia, solo in circostanze particolari, assai significative per la vita personale o familiare, oppure una sola volta all’anno, a Pasqua. Alcuni poi affermano che la nuova disciplina dovrebbe rimanere circoscritta ai soli divorziati risposati civilmente, lasciando esclusi i conviventi di fatto, i conviventi registrati, i conviventi omosessuali.

Personalmente ritengo che questa ultima limitazione sia poco realistica, perché i conviventi sono molto più numerosi dei divorziati risposati. Per la pressione sociale e per la logica interna delle cose finiranno senz’altro per prevalere le opinioni orientate verso un più largo permissivismo.

 

5. Obiezioni contro l’ammissione dei conviventi irregolari all’Eucaristia.

Autorevoli pastori e qualificati esperti hanno sollevato contro le proposte innovative, che rivoluzionano la prassi della Chiesa, varie obiezioni degne della massima attenzione.

a. Non va sottovalutato il rischio di compromettere la credibilità del Magistero del Papa, che anche recentemente con san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ha escluso ripetutamente e fermamente la possibilità di ammettere ai sacramenti i risposati e i conviventi. Con quella del Papa, viene indebolita anche l’autorità di tutto l’episcopato cattolico, che per secoli ha condiviso la stessa posizione.

b. Accoglienza ecclesiale verso i divorziati risposati e più in generale verso i conviventi irregolari non significa necessariamente accoglienza eucaristica. È vero che l’Eucaristia è necessaria per la salvezza, ma ciò non significa che di fatto si salvano solo quelli che ricevono questo sacramento. Anche la Chiesa è necessaria per la salvezza, ma ciò non significa che di fatto si salvano solo quelli che appartengono ad essa in modo visibile.

L’Eucaristia è l’espressione suprema della comunione con Cristo, per la santificazione dei singoli cristiani e per l’edificazione della Chiesa. È vero che tutti abbiamo dei difetti e non siamo degni di ricevere il Santissimo Sacramento; ma ci sono difetti e difetti; c’è indegnità e indegnità. «Chiunque mangia o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore [...] mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11, 27.29). Costantemente la Chiesa ha insegnato che il peccato mortale esclude dalla comunione eucaristica e deve essere rimesso mediante il sacramento della penitenza (cfr per esempio Concilio di Trento, DH 1647; 1641; Catechismo della Chiesa Cattolica 1415).

Inoltre l’ammissione alla comunione eucaristica non è solo una questione di santificazione individuale. Un cristiano non cattolico o addirittura un credente di altra religione non battezzato, potrebbe essere spiritualmente più unito a Dio di un cattolico praticante e tuttavia non può venire ammesso alla comunione eucaristica, perché non è in piena comunione visibile con la Chiesa.

L’Eucaristia è vertice e fonte della comunione spirituale e visibile. Anche la visibilità è essenziale, in quanto la Chiesa è sacramento generale della salvezza e segno pubblico di Cristo Salvatore nel mondo. Ma, purtroppo, i divorziati risposati e gli altri conviventi irregolari si trovano in una situazione oggettiva e pubblica di grave contrasto con il vangelo e con la dottrina della Chiesa.

Nell’odierno contesto culturale di relativismo c’è il rischio di banalizzare l’Eucaristia e ridurla a un rito di socializzazione. È già successo che persone neppure battezzate si siano accostate alla mensa, pensando di fare un gesto di cortesia, o che persone non credenti abbiano reclamato il diritto di comunicarsi in occasione di nozze o di funerali, semplicemente in segno di solidarietà con gli amici.

c. Si vorrebbe concedere l’eucarestia ai divorziati risposati affermando l’indissolubilità del primo matrimonio e non riconoscendo la seconda unione come un vero e proprio matrimonio (in modo da evitare la bigamia). Questa posizione è diversa da quella delle Chiese Orientali che concedono ai divorziati risposati civilmente un secondo (e terzo) matrimonio canonico, sia pure connotato in senso penitenziale. Anzi, per certi aspetti, appare più pericolosa, in quanto conduce logicamente ad ammettere il lecito esercizio della sessualità genitale fuori del matrimonio, anche perché i conviventi sono molto più numerosi dei divorziati risposati. I più pessimisti prevedono che si finirà per ritenere eticamente lecite le convivenze prematrimoniali, le convivenze di fatto registrate e non registrate, i rapporti sessuali occasionali, e forse le convivenze omosessuali e perfino il poliamore e la polifamiglia.

d. È senz’altro auspicabile che nella pastorale si assuma un atteggiamento costruttivo, cercando di «cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze» (Relatio Synodi, n. 41). Certamente anche le unioni illegittime contengono autentici valori umani (ad esempio, l’affetto, l’aiuto reciproco, l’impegno condiviso verso i figli), perché il male è sempre mescolato al bene e non esiste mai allo stato puro. Tuttavia bisogna evitare di presentare tali unioni in se stesse come valori imperfetti, mentre si tratta di gravi disordini. «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio» (1Cor 6, 9-10).

La legge della gradualità riguarda solo la responsabilità soggettiva delle persone e non deve essere trasformata in gradualità della legge, presentando il male come bene imperfetto. Tra vero e falso, tra bene e male non c’è gradualità. Mentre si astiene dal giudicare le coscienze, che solo Dio vede, e accompagna con rispetto e pazienza i passi verso il bene possibile, la Chiesa non deve cessare di insegnare la verità oggettiva del bene e del male, mostrando che tutti i comandamenti della legge divina sono esigenze dell’amore autentico (cfr Gal 5, 14; Rom 13, 8-10) e che l’amore, sostenuto dalla grazia dello Spirito Santo, può osservare i comandamenti e perfino andare oltre.
Perciò la castità, anche se difficile, è possibile a tutti, secondo la loro condizione: agli sposati, ai celibi, ai divorziati risposati. Questi ultimi, anche se per necessità dei figli o propria non interrompono la vita comune, possono almeno ricevere la grazia e la forza di praticare la continenza sessuale, vivendo una relazione di amicizia e di aiuto reciproco ‘come fratello e sorella’ e rinunciando ad avere i rapporti sessuali, i quali invece sono propri del matrimonio e caratterizzano l’amore coniugale (cf. san Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 84).

e. L’ammissione dei divorziati risposati e dei conviventi alla mensa eucaristica comporta una separazione tra misericordia e conversione, che non sembra in sintonia con il vangelo.

Questo sarebbe l’unico caso di perdono senza conversione. La misericordia di Dio opera la conversione dei peccatori: non solo li libera dalla pena, ma li guarisce dalla colpa; non ha nulla a che fare con la tolleranza. Da parte sua Dio concede sempre il perdono; ma lo riceve solo chi è umile, si riconosce peccatore e si impegna a cambiar vita. Invece il clima di relativismo e soggettivismo etico-religioso, che oggi si respira, favorisce l’autogiustificazione, particolarmente in ambito affettivo e sessuale. Il bene è ciò che si sente come gratificante e rispondente ai propri desideri istintivi. Onestà e rettitudine d’animo è la cosiddetta autenticità, intesa come spontaneità.
D’altra parte si tende a sminuire la propria responsabilità, attribuendo gli eventuali fallimenti ai condizionamenti sociali. Si diffonde l’opinione che, se i matrimoni falliscono, la responsabilità principale non è degli stessi coniugi, ma delle condizioni economiche e lavorative, della mobilità professionale, delle esigenze di carriera, insomma della società. È facile inoltre attribuire la colpa del fallimento all’altro coniuge e proclamare la propria innocenza. Non si deve però tacere il fatto che, se la colpa del fallimento può qualche volta essere di uno solo, almeno la responsabilità della nuova unione (illegittima) è di ambedue i conviventi ed è questa soprattutto che, finché perdura, impedisce l’accesso all’Eucaristia.

Non ha fondamento teologico la tendenza a considerare positivamente la seconda unione e a circoscrivere il peccato alla sola precedente separazione. Non basta fare penitenza per questa soltanto. Occorre cambiare vita.

f. Di solito i favorevoli alla comunione eucaristica dei divorziati risposati e dei conviventi affermano che non si mette in discussione l’indissolubilità del matrimonio. Ma, al di là delle loro intenzioni, stante l’incoerenza dottrinale tra l’ammissione di queste persone all’Eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio, si finirà per negare nella prassi concreta ciò che si continuerà ad affermare teoricamente in linea di principio, rischiando di ridurre il matrimonio indissolubile a un ideale, bello forse, ma realizzabile solo da alcuni fortunati.

Istruttiva al riguardo è la prassi pastorale sviluppatasi nelle Chiese Orientali Ortodosse. Esse nella dottrina affermano l’indissolubilità del matrimonio cristiano. Tuttavia nella loro prassi si sono progressivamente moltiplicati i motivi di scioglimento del precedente matrimonio e di concessione di un secondo (o terzo) matrimonio. Inoltre sono diventati numerosissimi i richiedenti. Ormai chiunque presenta un documento di divorzio civile ottiene anche dall’autorità ecclesiastica l’autorizzazione al nuovo matrimonio, senza neppure dover passare attraverso un’indagine e valutazione canonica della causa. È prevedibile che anche la comunione eucaristica dei divorziati risposati e dei conviventi diventi rapidamente un fatto generalizzato. Allora non avrà più molto senso parlare di indissolubilità del matrimonio e perderà rilevanza pratica la stessa celebrazione del sacramento del matrimonio.

 








Caterina63
00martedì 16 giugno 2015 13:42

  6. Verità e responsabilità.

Secondo la Relatio Synodi la questione dell’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia deve essere studiata alla luce della distinzione tra situazione oggettiva di peccato e responsabilità personale, che può essere attenuata o annullata da molteplici fattori interni ed esterni (cfr Relatio, n. 52).

Il Magistero della Chiesa insegna che c’è distinzione tra la verità oggettiva del bene morale e la responsabilità soggettiva delle persone, tra la legge e la coscienza, tra il disordine e il peccato. Riconosce che nella responsabilità personale esiste una legge della gradualità, mentre nella verità del bene e del male non esiste una gradualità della legge.

«L’uomo chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno con le sue numerose libere scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita» (san Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 34).

La capacità soggettiva di conoscere, apprezzare e volere il bene è propria di ognuno e viene condizionata da molti fattori interni ed esterni. «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate dall’ignoranza, dalla inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735).

Di solito la responsabilità si sviluppa progressivamente. Invece non si può «guardare alla legge solo come a un puro ideale da raggiungere in futuro»; non si può parlare di gradualità della legge «come se ci fossero vari gradi e varie forme di precetto nella legge divina per uomini e situazioni diverse» (san Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 34); la norma morale obbliga tutti e sempre; non deve essere considerata «come un ideale che deve poi essere adattato» alle concrete possibilità dell’uomo (Idem, Veritatis Splendor, 103). Non è graduale l’obbligo di fare il bene, ma è graduale la capacità di farlo.

Per evocare la distinzione tra la verità oggettiva della vita cristiana secondo il vangelo e la responsabilità soggettiva delle persone, san Giovanni Paolo II ha coniato una suggestiva immagine che ha ripetuto varie volte a partire dal discorso tenuto a Kinshasa il 3 maggio 1980. Il Papa era solito raccomandare ai pastori della Chiesa di non abbassare la montagna, ma aiutare i credenti a salirla con il loro passo. Da parte loro, i fedeli non devono rinunciare a salire verso la vetta; devono sinceramente cercare il bene e la volontà di Dio. Solo all’interno di questo atteggiamento fondamentale si può sviluppare un cammino positivo di conversione e di crescita, nonostante che i singoli passi siano brevi e a volte perfino devianti. «È richiesta una conversione continua, permanente, che, pur esigendo l’interiore distacco da ogni male e l’adesione al bene nella sua pienezza, si attua però concretamente in passi che conducono sempre oltre» (Idem, Familiaris Consortio, 9).

Papa Francesco usa un tono diverso, più appassionato, ma in sostanza procede sulla stessa linea. «Senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. Ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura, bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 44).

Nella prospettiva della legge della gradualità si comprende come ci possa essere una coscienza buona e retta anche in presenza di una situazione oggettiva di peccato, di un comportamento gravemente erroneo e disordinato. Ci può essere chi ignora semplicemente che un certo comportamento è male; chi sa che teoricamente è un male ma personalmente non lo ritiene tale; chi pur riconoscendolo come male non è abbastanza libero per evitarlo. Solo Dio vede il cuore delle persone e giudica direttamente la loro responsabilità morale. La Chiesa può soltanto fare un discernimento, in quanto l’atteggiamento interiore si manifesta, sia pure in modo parziale, attraverso le parole, le azioni, le abitudini, gli stili di vita. Il suo primo compito è quello di insegnare la verità oggettiva, valida per tutti, e in base a essa regolare la vita cristiana, personale e comunitaria. Quanto ai singoli fedeli, ha il dovere di accompagnarli pazientemente al bene che è possibile a essi, illuminando le loro situazioni di vita, urgendo il perseverante cammino di conversione e di crescita, rispettando la libertà delle coscienze, affidando la fragilità umana alla misericordia infinita di Dio.

Le unioni illegittime dei divorziati risposati e dei conviventi sono fatti pubblici e manifesti. La Chiesa le disapprova come situazioni oggettive di peccato. Se le approvasse quasi fossero il bene che al momento è possibile per essi, devierebbe dalla legge della gradualità alla gradualità della legge, condannata da san Giovanni Paolo II.

Ciò che è male non può diventare il bene attualmente possibile. Il rubare di meno non diventa mai lecito neppure per chi era abituato a rubare molto; il bestemmiare raramente non diventa mai lecito neppure per chi era abituato a bestemmiare spesso. Così neppure un’unione coniugale illegittima può essere resa moralmente buona dalle condizioni previste dai sostenitori dell’Eucaristia ai divorziati risposati (situazione irreversibile, adempimento dei precedenti obblighi, matrimonio civile, compimento di un itinerario penitenziale per espiare l’infedeltà al primo matrimonio, autentici valori umani vissuti nella seconda unione).

Poiché le unioni illegittime sono fatti pubblici e manifesti, la Chiesa non può neppure trincerarsi nel silenzio e nella tolleranza. È costretta a intervenire per disapprovare apertamente tali situazioni oggettive di peccato.

Tuttavia è possibile che i conviventi soggettivamente non siano pienamente responsabili, a motivo dei condizionamenti esistenziali e culturali, psichici e sociali. È possibile perfino che siano in grazia di Dio e abbiano le disposizioni interiori necessarie per ricevere l’Eucaristia. Tutto questo però non si può presumere; deve essere verificato con un attento discernimento secondo la legge della gradualità. Bisogna discernere se i conviventi sono davvero decisi a salire verso la vetta della montagna, che per essi è la perfetta continenza sessuale. Solo se c’è questo impegno sincero di conversione, eventuali passi falsi, eventuali ricadute nei rapporti sessuali possono comportare una responsabilità attenuata. Il necessario aiuto per la difficile salita può venire dall’accompagnamento personalizzato e dalla partecipazione concreta alla vita della Chiesa secondo le indicazioni di Familiaris Consortio e Sacramentum Caritatis, integrate prossimamente dalle future Conclusioni del Sinodo e dall’insegnamento di Papa Francesco.

La legge della gradualità è preziosa per l’accompagnamento personalizzato delle singole persone. Non è possibile ricavare da essa criteri generali per ammettere all’Eucaristia quelli che vivono in situazioni irregolari, a meno che non si faccia confusione con la inaccettabile gradualità della legge. Altro infatti è discernere la responsabilità soggettiva e altro individuare il bene oggettivo possibile alle singole persone. Altro è impegnare le persone a superare progressivamente la loro situazione irregolare, tendendo seriamente alla continenza perfetta, e altro è orientarli a rimanere nella unione illegittima, indicando a quali condizioni possa diventare il bene a essi possibile. La legge della gradualità serve a discernere le coscienze, non a classificare come più o meno buone le azioni da compiere e tantomeno a elevare il male alla dignità di bene imperfetto.

Riguardo ai divorziati risposati e ai conviventi, lungi dal favorire le proposte innovative, serve in definitiva a confermare la prassi pastorale tradizionale.

La responsabilità soggettiva degli eventuali atti disordinati è più o meno attenuata solo in coloro che tendono seriamente alla piena continenza e si impegnano a vivere ‘come fratello e sorella’, sebbene a volte, non potendo per necessità interrompere la convivenza e trovandosi nell’occasione prossima di peccato, vengano meno al loro impegno.

L’atteggiamento abituale, necessario per attenuare la responsabilità personale, è sostanzialmente lo stesso che, secondo San Giovanni Paolo II, consente di ricevere la riconciliazione sacramentale e la comunione eucaristica. “La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi” (Familiaris Consortio, 84).









Caterina63
00martedì 16 giugno 2015 13:43

  7. Indissolubilità del matrimonio sacramentale.

L’indissolubilità è il caposaldo intorno al quale ruota tutta la questione pastorale dell’ammissione delle coppie illegittime alla comunione eucaristica. Per coerenza con l’indissolubilità, la prassi tradizionale non concede tale ammissione. Pensando invece a una possibile compatibilità, le proposte innovative più autorevoli sono aperte a una limitata ammissione, in certi casi e a certe condizioni. Purtroppo però ci sono anche teologi che da vari punti di vista e con diversi metodi interpretativi giungono a mettere in discussione la stessa indissolubilità. Ovviamente qui non è possibile sviluppare uno studio approfondito dell’argomento. Mi sembra però opportuno richiamare alcune linee orientative.

Nella Chiesa cattolica la prassi pastorale deve essere coerente con la dottrina della fede, della quale il fondamento posto una volta per sempre è la Sacra Scrittura e il principale criterio ermeneutico è l’insegnamento del Papa e dei vescovi in comunione con lui. La verità può emergere gradualmente nella coscienza ecclesiale, illuminata dallo Spirito Santo, fino a essere a volte insegnata in modo infallibile. L’autentico sviluppo dottrinale avviene considerando prospettive ed elaborando sintesi sempre nuove, ma nella coerenza con le precedenti prese di posizione definitive. Né immobilismo né rottura, ma fedeltà creativa.

L’insegnamento di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio e sulla parità tra uomo e donna era rivoluzionario e sconcertante rispetto al giudaismo del suo tempo (cfr Mt 5, 31-32; 19, 3-10; Mc 10, 2-12; 1Cor 7, 2-5, 10-11, 39). Secondo la legge di Mosè, al marito era consentito ripudiare la moglie, dandole un libello liberatorio, perché potesse eventualmente risposarsi. Gesù rifiuta decisamente il divorzio, rifacendosi al di là della legge mosaica al progetto originario di Dio creatore. Vede il matrimonio come un dono divino irrevocabile che crea un legame indissolubile e quindi un imperativo categorico: «L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mt 19, 6; Mc 10, 9). L’unità è dono e dovere; è grazia e perciò anche impegno realizzabile. L’eventuale nuova unione dopo la separazione viene condannata come adulterio, perché il precedente matrimonio rimane come vincolo sempre valido: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e, se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio» (Mc 10, 11-12). Anche nel caso che avvenga una separazione, si è obbligati a evitare una nuova unione, che sarebbe illegittima: «Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie» (1Cor 7, 10-11).

A molti devoti Israeliti doveva apparire scandaloso che Gesù qualificasse come adulterio ciò che la legge di Mosè consentiva. Ma anche al di là dei confini del mondo ebraico la posizione di Gesù sul divorzio si contrapponeva alla prassi accettata comunemente dai popoli antichi, come del resto viene accettata ancora oggi. È comprensibile che l’insegnamento evangelico abbia incontrato e continui a incontrare forti difficoltà.

Una prima attenuazione della rigida proibizione del divorzio sarebbe stata introdotta già dall’evangelista Matteo, inserendo nelle parole di Gesù l’inciso «eccetto il caso di impudicizia (porneia)» (Mt 5, 32; 19, 9). Ma di questo testo sono possibili varie interpretazioni e i cattolici devono evitare quelle incompatibili con la dottrina della Chiesa. Poiché il termine porneia sembra indicare una situazione prolungata più che un atto episodico di adulterio (per il quale esiste la parola moicheia), si può ritenere che l’eccezione si riferisca alle unioni illegittime, cioè ai matrimoni proibiti dalla legge mosaica e perciò non validi (cfr Lv 18, 6-18; At 15, 29).

Quanto ai Padri della Chiesa, occorre ricordare che è normativo per i cattolici solo il loro consenso generale. In materia di divorzio, essi ammettono che in certi casi la separazione dei coniugi è lecita, anzi a volte perfino obbligatoria; mai però ritengono lecita una nuova unione e, se ne parlano, la condannano come adulterina. A riguardo, a parte alcuni testi di incerta interpretazione, c’è una sola eccezione sicura, il cosiddetto Ambrosiaster che concede ai separati di risposarsi.

Quanto al Canone 8° del Concilio Ecumenico di Nicea, il quale fa obbligo ai Novaziani «di rimanere in comunione con chi si è sposato due volte e con chi è venuto meno durante la persecuzione» (DH 127), è da ritenere che si riferisca ai vedovi risposati e non ai divorziati risposati.

I Novaziani infatti estendevano ai laici la proibizione, valida per il clero (cfr 1Tim 3, 2.12; Tito 1, 6), di risposarsi in caso di vedovanza e si ponevano in aperto contrasto con la Scrittura che invece autorizzava le nuove nozze dei laici vedovi (cfr 1Cor 7, 8-9, 28-40; Rom 7, 2-3); quindi erano eretici nella dottrina e non solo rigoristi nella prassi pastorale. Lo si deduce da varie testimonianze, tra le quali questa di sant’Agostino: «La tua vedovanza non è una condanna per le seconde nozze e per chi le contragga. Di questa dottrina (negatrice) si fecero grandi specialmente le eresie dei Montanisti e dei Novaziani [...] non lasciarti fuorviare dalla sana dottrina da nessuna argomentazione, dotta o indotta che sia. Non esagerare i meriti della tua vedovanza tanto da condannare negli altri, come male, ciò che male non è» (La dignità dello stato vedovile 4, 6), cioè le seconde nozze dei vedovi.

Se la documentazione frammentaria, che possediamo riguardo al primo millennio, a volte non consente di interpretare con certezza i testi, le situazioni e gli episodi, invece nel secondo millennio la dottrina dell’indissolubilità si è chiarita e precisata definitivamente nella coscienza ecclesiale, configurandosi in questi termini: il matrimonio sacramentale, rato e consumato, espressione compiuta dell’unione sponsale di Cristo con la Chiesa, non può essere sciolto né per volontà dei coniugi, né per intervento dell’autorità ecclesiale o di qualsiasi altra autorità umana, ma solo dalla morte.

I momenti principali del coerente sviluppo dottrinale sono stati il Concilio di Firenze (DH 1327), il Concilio di Trento (DH 1805; 1807), l’enciclica Casti Connubii di Pio XI (DH 3712), il Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 48; 49), l’esortazione apostolica Familiaris Consortio di san Giovanni Paolo II (nn. 13; 19; 20).

Il Concilio di Trento ha definito direttamente che il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per eresia, difficoltà di coabitazione, assenza intenzionale del coniuge (Can. 5). Inoltre ha definito che la Chiesa non sbaglia quando insegna che neppure per adulterio si può sciogliere il matrimonio e procedere a una nuova unione legittima e non adulterina (Can. 7).

Con questa formula indiretta il Concilio ha voluto approvare, come conforme al vangelo, la dottrina e la prassi della Chiesa cattolica e, per non provocare agitazioni, ha voluto evitare sia di condannare che di approvare la prassi delle Chiese ortodosse che, pur ammettendo l’intrinseca indissolubilità del matrimonio, ritengono che possa essere sciolto dal vescovo con la concessione delle seconde o anche delle terze nozze. Successivamente però i Papi sono intervenuti molte volte per correggere la prassi orientale (Clemente VIII, Urbano VIII, Benedetto XIV, Pio VII, Gregorio XVI, beato Pio IX), finché Pio XI ha risolutamente dichiarato che la facoltà di sciogliere il vincolo coniugale «non potrà mai cadere per nessun motivo nel matrimonio cristiano rato e consumato. In questo infatti, come il vincolo coniugale ottiene la piena perfezione, così risplende per volontà di Dio la massima fermezza e indissolubilità, tale da non potersi sciogliere per nessuna autorità umana [...] il matrimonio dei cristiani, infatti, secondo la testimonianza dell’Apostolo, rappresenta quell’unione perfettissima che sussiste fra Cristo e la Chiesa [...] , la quale unione, finché vivrà Cristo e la Chiesa per Lui, non potrà mai sciogliersi da separazione alcuna» (DH 3712).

Correttamente san Giovanni Paolo II, nel Discorso del 21 gennaio 2000 al Tribunale della Rota Romana, concludeva che il matrimonio rato e consumato non può essere sciolto neppure per intervento del Papa.

«Né la Scrittura né la Tradizione conoscono una facoltà del Romano Pontefice per lo scioglimento del matrimonio rato e consumato; anzi, la prassi costante della Chiesa dimostra la consapevolezza sicura della Tradizione che una tale potestà non esiste. Le forti espressioni dei Romani Pontefici sono soltanto l'eco fedele e l'interpretazione autentica della convinzione permanente della Chiesa. Emerge quindi con chiarezza che la non estensione della potestà del Romano Pontefice ai matrimoni sacramentali rati e consumati è insegnata dal Magistero della Chiesa come dottrina da tenersi definitivamente, anche se essa non è stata dichiarata in forma solenne mediante un atto definitorio. Tale dottrina infatti è stata esplicitamente proposta dai Romani Pontefici in termini categorici, in modo costante e in un arco di tempo sufficientemente lungo. Essa è stata fatta propria e insegnata da tutti i vescovi in comunione con la Sede di Pietro nella consapevolezza che deve essere sempre mantenuta e accettata dai fedeli. In questo senso è stata riproposta dal Catechismo della Chiesa Cattolica. Si tratta d'altronde di una dottrina confermata dalla prassi plurisecolare della Chiesa, mantenuta con piena fedeltà e con eroismo, a volte anche di fronte a gravi pressioni dei potenti di questo mondo».

L’affermazione è chiarissima: l’indissolubilità assoluta del matrimonio sacramentale rato e consumato, sebbene non sia stata proclamata con una formale definizione dogmatica, tuttavia è insegnata dal magistero ordinario, anch’esso infallibile, appartiene alla fede della Chiesa e perciò i cattolici non possono metterla in discussione.








Caterina63
00martedì 16 giugno 2015 13:44

  8. Amore, indissolubilità, validità

L’indissolubilità conserva tutto il suo significato e la sua urgenza anche all’interno di una visione personalista del matrimonio, come è quella proposta dal Concilio Vaticano II. «L'intima comunità di vita e d'amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dall'alleanza dei coniugi, vale a dire dall'irrevocabile consenso personale… In vista del bene dei coniugi, della prole e anche della società, questo legame sacro non dipende dall'arbitrio dell'uomo. Perché è Dio stesso l'autore del matrimonio, dotato di molteplici valori e fini… Per la sua stessa natura l'istituto del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento… Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l'indissolubile unità» (Gaudium et Spes, 48).

Certamente in questa visione del Concilio il matrimonio non è riducibile a un contratto giuridico; ma non è riducibile neppure a una sintonia affettiva, spontanea e senza legami. Esso è chiaramente delineato come una forma di vita comune plasmata dall’amore coniugale, che per natura sua è ordinato alla procreazione e all’educazione della prole e perciò comporta l’intimità sessuale, la donazione reciproca totalizzante, fedele e indissolubile.

L’apertura ai figli e l’intimità sessuale caratterizzano l’amore coniugale rispetto ad ogni altro amore. Esso include l’amicizia, la collaborazione e la convivenza con le loro molteplici dimensioni, ma tutto orienta e organizza in relazione alla generazione ed educazione della prole. Senza la comune donazione ai figli la relazione reciproca tra i coniugi scade facilmente a ricerca e precaria coincidenza di interessi e gratificazioni egoistiche. Comunque, il fondamentale vincolo coniugale indissolubile, che nessun divorzio può sciogliere, è impersonato dai figli. In vista di esso sorge il vincolo morale e giuridico dell’indissolubilità. Proprio perché chiamati ad essere uniti per sempre nella persona del figlio come padre e madre, i coniugi sono chiamati a rimanere uniti innanzitutto come marito e moglie. In questa prospettiva si intuisce perché l’alleanza coniugale, stabilita con il consenso, venga poi definitivamente perfezionata con il rapporto sessuale. “Questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall’esercizio degli atti che sono propri del matrimonio” (Gaudium et Spes, 49).

La comunione coniugale “si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi” (Gaudium et Spes 49); coinvolge le persone e le loro attività, le anime e i corpi, l’intelligenza, la volontà, l’affettività; è prima dono di Dio e poi impegno dell’uomo, dono di Dio irrevocabile da accogliere in un progetto di vita comune per sempre. I credenti che nel battesimo sono stati inseriti in Cristo come singoli, nel matrimonio vengono inseriti in lui come coppia e chiamati a essere simbolo concreto, rappresentazione e partecipazione, dell’alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa. Il vincolo coniugale, come il carattere battesimale e come ogni altro dono, può essere rifiutato non però annullato. È un dono che urge un dovere e dà la capacità di compierlo.

A proposito viene spontaneo ricordare l’insegnamento di san Giovanni Paolo II sulla praticabilità delle norme date da Dio: «Con i comandamenti il Signore ci dona la possibilità di osservarli» (Veritatis Splendor, 102); «Il credente trova la grazia e la forza di osservare sempre la legge santa di Dio, anche in mezzo alle difficoltà più gravi» (Veritatis Splendor 103). In tale prospettiva l’indissolubilità del matrimonio appare come una vocazione realizzabile nel vissuto concreto: il dono irrevocabile di Dio diventa un vincolo indissolubile, che può e deve essere rispettato.

La visione del matrimonio come comunione di amore coniugale, che viene donata da Dio e vissuta dai coniugi in un corrispondente progetto di vita insieme, ha delle conseguenze riguardo alla validità o nullità della celebrazione nuziale. Per la validità, sembra necessario che l’eros non si riduca alla sola ricerca della gratificazione individuale, ma si integri con il dono di sé all’altro. Solo con l’amore oblativo reciproco si realizza una vera comunione interpersonale, diversa da una precaria coincidenza di egoismi. «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34). Per celebrare validamente il sacramento, che è rappresentazione e partecipazione dell’amore nuziale di Cristo per la Chiesa, appare necessario l’amore coniugale oblativo, almeno come progetto di vita, da parte dei nubendi. Tale amore comprende sia l’affetto, il rispetto e il servizio verso l’altro coniuge, sia l’apertura di ambedue alla procreazione ed educazione dei figli.

Per la valida celebrazione del matrimonio occorre la fede almeno implicita (cfr san Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 68), sulla quale la Terza Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo ha iniziato a riflettere (cfr Relatio, 48). Ritengo però che nell’odierno contesto culturale di individualismo egocentrico debbano essere ugualmente presi in considerazione, in ordine a una eventuale dichiarazione di nullità, il proposito e la capacità di amare in modo oblativo e che prima ancora sia necessario promuovere decisamente una seria educazione dei giovani alla verità dell’amore e un’adeguata preparazione dei fidanzati al matrimonio.

 











Caterina63
00martedì 16 giugno 2015 13:54




9. Per una Chiesa in missione.

In molti Paesi la secolarizzazione sta mettendo in crisi l’appartenenza di massa alla Chiesa. Occorre prendere coscienza della vastità e profondità di questo cambiamento epocale, affrontare con coraggio la sfida dura e pericolosa, guardare avanti con fiducia, senza rimanere impigliati nella nostalgia del passato. Alcuni anni fa il cardinale Joseph Ratzinger ha scritto: «La Chiesa di massa (come era nel passato) può essere qualcosa di bello, ma non è necessariamente l’unico modo di essere della Chiesa. La Chiesa dei primi tre secoli era piccola, senza per questo essere una comunità settaria. Al contrario, non era chiusa in se stessa, ma sentiva una grande responsabilità nei confronti dei poveri, dei malati, nei confronti di tutti» (Joseph Ratzinger, Prima di tutto noi dobbiamo essere missionari).

La Chiesa è chiamata da Gesù Cristo, unico salvatore di tutti gli uomini, a cooperare con lui per la salvezza sia dei cristiani che sono in piena comunione spirituale e visibile, sia dei cristiani che sono in comunione parziale, sia dei credenti che appartengono alle religioni non cristiane, sia dei non credenti che hanno solo un orientamento implicito verso Dio.

Per svolgere efficacemente tale missione salvifica, sebbene anche il numero dei fedeli abbia la sua importanza, senz’altro più importante e necessaria è l’autenticità della comunione ecclesiale nella verità e nell’amore.

Così si esprime a riguardo il Concilio Vaticano II: «Il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l'universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l'umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto a essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo» (Lumen Gentium, 9). La missione è sempre universale, quale che sia la consistenza numerica. La Chiesa coopera con il Cristo Salvatore come segno che accoglie, trasmette e manifesta nel mondo la sua presenza, il suo amore e la sua azione salvifica, come «Sacramento universale di salvezza» (Lumen Gentium, 48).

Sarebbe fuorviante inseguire l’appartenenza numerica, mediante il disimpegno formativo e l’apertura indifferenziata, che concede tutto a tutti, provocando un appiattimento generalizzato verso il basso. È urgente invece una pastorale rivolta a tutti, ma differenziata, curando innanzitutto i pochi, più disponibili, per arrivare attraverso di loro a tutti. «Si è missionari prima di tutto per ciò che si è, come Chiesa che vive profondamente l’unità dell’amore, prima di esserlo per ciò che si dice o si fa» (san Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio, 34).

È necessario accogliere tutti e andare a tutti, ma in modo diverso; è necessario valorizzare con convinzione e perseveranza la devozione popolare, ma è ancora più urgente formare cristiani e famiglie cristiane esemplari, come ho già affermato all’inizio di questo mio scritto. Per illuminare e riscaldare, la prima cosa da fare è accendere il fuoco.

 

 

Cardinale Ennio Antonelli

Presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Famiglia







 

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