Convegno sul Vaticano II .... tanto per capirci qualcosa....

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Caterina63
00lunedì 10 agosto 2015 21:11

  Convegno sul Vaticano II - 16-18 dicembre 2010 - Testi e interventi





Convegno di Roma sul Concilio. P. Serafino Lanzetta, La recezione teologica del Vaticano II - Status quaestionis

 
Non è il testo integrale della Relazione di p. Lanzetta, ma è più di un semplice estratto, perché mi sembra troppo importante per chi con appassionato interesse sta acquisendo queste autorevoli e approfondite riflessioni.
 
Già durante l'ascolto ed ora, nel ripercorrerlo e meditarlo con gioia e gratitudine, questo lavoro mi ha aperto molti nuovi 'usci' e piste di riflessione per meglio comprendere e inquadrare le complesse e tormentate vicende di pensiero e d'azione che hanno attraversato la nostra Chiesa nell'ultimo cinquantennio. Lo ritengo una tappa ineludibile per il proseguimento del percorso, così bene sintetizzato dalle parole di p. Lanzetta: «Il nostro convegno non è chiuso con la fine dei lavori. Anzi ora si apre il dibattito, che ci auguriamo possa essere proficuo per una presa sul serio di tutte le problematiche legate al Concilio Vaticano II. Ne parliamo perché si dilegui finalmente quella coltre di silenzio irrispettoso, che spesso ha affossato la fede in nome del Concilio. Vogliamo riscoprire la fede e così il vero Concilio: ciò che veramente quest’assise guidata dallo Spirito Santo voleva essere per il bene della Chiesa. Solo questo abbiamo a cuore».

Il Vaticano II: un concilio e i teologi

Senza dubbio i teologi ebbero al Concilio Vaticano II un ruolo notevolissimo. Battista Mondin asserisce questo dato con forte rilievo:
«A far emergere i teologi in tutta la loro grandezza fu il Concilio, del quale essi furono i principali artefici e protagonisti. La loro presenza al Vaticano II fu massiccia. I periti ufficiali e privati erano più di duecento. Come i Vescovi anche i teologi provenivano da tutte le parti del mondo, e questo contribuì a dare al pensiero “teologico” del Concilio quella cattolicità che gli consentì di superare gli orizzonti ristretti della teologia curiale. L’apporto dei teologi ai lavori del Concilio fu sostanziale, costante e decisivo: i loro pareri furono continuamente ascoltati e le loro proposte accolte. A loro fu affidata la stesura di tutti i testi conciliari che poi furono approvati dai padri. In definitiva si può dire che la teologia del Vaticano II è quella dei teologi che vi hanno partecipato (Parente, Colombo, Congar, Daniélou, Rahner, Ratzinger, Chenu ecc.) […] Il Concilio rappresenta la felice conclusione del grande rinnovamento che aveva avuto luogo nella teologia cattolica dopo la seconda guerra mondiale».
Per R. Laurentin, il problema fondamentale da risolvere nella teologia post-conciliare, in ragione delle istanze del Concilio è la teologia, atrofizzatasi, in quanto lentamente aveva perso il contatto con le fonti della Rivelazione e con la vita, ed era diventata una collezione di un sistema di tesi.
«Il rimedio – dice – veniva dai teologi stessi che lavoravano accanitamente nell’ombra. Il Vaticano II ha dato un riconoscimento di diritto alle acquisizioni di questa corrente che assume in un solo movimento le fonti rivelate e la realtà vivente della salvezza».
In questa conferenza, ci proponiamo di verificare l’apporto dei teologi al Vaticano II. Escludiamo comunque che il Concilio sia risolvibile nel dato teologico, di elevata enfasi o di critica: il Concilio è magistero della Chiesa. È innegabile però il grande ruolo della teologia al Vaticano II, sia in riferimento ai teologi che furono periti e che guidarono le discussioni e in qualche modo le stesse votazioni, sia per il notevole impatto del Concilio nella ricezione teologica post-conciliare. In questa sede, ci limiteremo ad individuare e a studiare sei posizioni, da noi ritenute tipiche e in qualche modo riaffioranti nelle numerose indagini teologiche sul nostro tema. Non pretendiamo così di esaurire lo status questionis del problema, ma unicamente di offrire dei modelli di riferimento ermeneutico molto rilevanti, nel Concilio e dopo, in modo da poter anche derivare degli elementi-chiave per una nostra riflessione finale. Abbiamo scelto sei posizioni teologiche, in modo che si veda, da un lato l’apporto dei teologi-periti, dall’altro la recezione del dato conciliare.
 
1. Card. Pietro Parente (1891-1986): il Concilio per una Weltanschauung cristiana

In una conferenza tenuta nel 1961 sull’imminente Concilio Ecumenico, Mons. Parente, allora assessore della S. Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, tratteggiò gli auspici del Santo Padre Giovanni XXIII, auspici volti a far risplendere di nuova bellezza il volto della Chiesa e più che di un punto o dell’altro della dottrina e della disciplina, trattavasi di ridare valore e sostanza al vivere umano e cristiano (Disc. 14 nov. 1960). Dopo aver tracciato una veloce panoramica sui 20 Concili Ecumenici precedenti, Mons. Parente si soffermò anche sulle finalità e le prospettive del prossimo Concilio,
«condizionate dalla profonda analisi della realtà del mondo moderno. Una guerra brutale e un dopoguerra snervante hanno seminato negli uomini scetticismo e disprezzo per ogni ideologia o istituzione del passato e un senso avventuroso di novità in tutti i settori dello scibile e della vita. In tal modo è scossa la fiducia nella Chiesa, nella verità, anche rivelata, nella legge morale, nella vecchia struttura sociale. Di questo stato d’animo in subbuglio si è avvantaggiata un’ideologia materialistica concretata in una struttura politico-sociale, in cui i valori spirituali sono sostituiti dalla tecnica […]».
Ad una Weltanschauung materialistica e ateistica, a giudizio di P. Parente, il Concilio avrebbe dovuto opporre una «Weltanschauung cristiana opposta a quella materialistica, perché l’umanità divisa e smarrita riprenda la via del suo vero progresso e del fine supremo, a cui l’ha destinata la Somma Sapienza e il Primo Amore».

In un altro saggio, a vent’anni dalla chiusura dell’assise conciliare, scriverà Parente:
«La causa determinante di un Concilio generalmente è una crisi o della Chiesa o del mondo o di ambedue. Il Vaticano II risponde alle esigenze di una crisi interna alla Chiesa e di una crisi del mondo moderno».
Il Cardinale Parente vede il Vaticano II come approfondimento teologico della dottrina cristiana, precisando che le distorsioni della dottrina del Concilio non sono del Concilio ma di una certa teologia nuova, i cui prodromi sono riconducibili agli anni ’40 del 1900.
Così affronta le dottrine conciliari, che si presterebbero all’equivoco, ma che ad un’interpretazione autentica, sia teologica che magisteriale, rientrano nel loro giusto ordine.

a. Il Vaticano II non avalla il cambiamento della sostanza dei dogmi

I documenti del Concilio non autorizzano e non portano in sé all’affermazione di uno sviluppo dogmatico inteso come mutazione sostanziale del dogma e della fede.
«Ora questa affermazione è arbitraria – dice Parente, in riferimento a questo problematica –, perché il Concilio riafferma tutto il contenuto essenziale della dottrina cristiana fondata sulla Rivelazione divina e maturata per secoli, sotto l’azione dei Padri e dei Teologi, sotto l’azione dello Spirito santo e il controllo vigile del Magistero della Chiesa».
L’identità e la perennità del sacro Deposito sono espresse chiaramente nella Dei Verbum (nn. 7-8). Qui si asserisce l’origine divina della Rivelazione la divina, l’ispirazione dei libri sacri, e la necessità di trasmetterla fedelmente. Il n. 8 di DV parla di un progresso della Rivelazione, richiamandosi a S. Vicenzo di Lerins, citato dal Vaticano I. Così dice DV 8:
«Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio».
Da queste parole, spiega Parente nessun lettore saggio e attento potrebbe ricavarne un’ammissione di una evoluzione intrinseca della verità rivelata e delle stesse formule dogmatiche. Eppure, scrive Parente,
 
«certi Teologi progressisti sostengono che il Vaticano II ha riabilitato l’evoluzione del domma, già condannato al tempo del Modernismo sotto Pio X. […] In conclusione possiamo affermare che le deviazioni post-conciliari sono abusi di lettori disattenti e poco leali, che cercano di giustificare con l’autorità del Concilio i loro errori e le loro incontrollate tendenze. Questo abuso di nota anche per altri punti del Concilio, che a prima vista colpiscono come assoluta novità in contrasto con la Tradizione; ma un’attenta riflessione rimette le cose a posto».
b. La singolarità della Religione cattolica
Anche su questo dato il Concilio presenta delle affermazioni che si prestano a discussioni, specialmente di fronte al carattere singolare della religione cattolica, di cui noi in ragione della Rivelazione divina riteniamo che sia l’unica religione salvifica,
«con diritto divino a guadagnare tutta l’umanità al Regno di Dio e al Vangelo che ne è il codice. Questo giusto sentimento determinò nel Medioevo linguaggio, uso e atteggiamenti, che oggi urtano le coscienze; si pensi alla frase “Cattolicesimo religione di Stato”, con la conseguenza che la Chiesa godeva di ogni privilegio, mentre le altre religioni erano “tollerate” senza facoltà di pubblica professione».
Parente, fa notare, che il soggetto della religione è l’uomo cosciente e libero, che ha diritto di pensare e di scegliere autonomamente il proprio credo, salvo il rispetto dell’ordine sociale e della pubblica moralità. Così il Concilio mette in evidenza un dato oggi irrinunciabile che è la libertà religiosa e la libertà di coscienza. «Gli abusi dell’Inquisizione non si possono giustificare solo col ricorso al diritto divino dell’unica Religione vera, senza considerare la psicologia umana, in cui domina la religione e la libertà».

c. La collegialità

Un altro dato, che al dire di Parente desta scandalo tra i conservatori, è la collegialità, la quale «sarebbe una novità disastrosa che colpisce il Primato del Romano Pontefice!». Invece Parente, che questo tema lo conosceva molto bene, in quanto anche relatore in sede di Commissione dottrinale risponde semplicemente col dire che essa nel suo senso più genuino fu voluta dallo stesso Cristo che fondò il Collegio apostolico con Pietro e gli altri apostoli come membri, i quali partecipano, subordinatamente a Pietro, tutta la Sacra Potestà di Cristo. Il Primato di Pietro non è un dispotismo ma un primato paterno d’amore e di realizzazione della comunione. Il Sacro Romano Impero con la figura di un Imperatore che impersonava tutto il potere del mondo occidentale influì certamente sulla Chiesa, creando una sorta di assolutismo del Romano Pontefice. Questa ecclesiologia, alquanto mortificata durò fino a Pio XII, che nella Mystici corporis, richiamava l’autentica natura della Chiesa e la sua compagine soprannaturale. Il Vaticano II, mentre confermò la dottrina del Vaticano I sull’infallibilità del Pontefice, ne ammorbidì l’assolutismo – per una ragione teologica – facendo luce sulla dottrina della collegialità, richiamando direttamente il concetto di gerarchia intesa come principio sacro della comunione ecclesiale di tutto il popolo di Dio. In questo modo il Concilio favorisce anche l’approfondimento teologico del ruolo dei laici nella Chiesa e la loro partecipazione liturgico-sacramentale alla vita e alla missione della Chiesa, in ragione del loro sacerdozio comune. Così il Vaticano II, richiamandosi direttamente all’esempio di Cristo, mette in luce il concetto di servizio dell’Autorità per edificare la comunione di tutte le membra.

d. Ecumenismo e missionarietà
Il Concilio sul piano ecumenico e missionario tiene ferma la dottrina dell’unicità della Chiesa di Cristo che è la Chiesa Cattolica. Al contempo, però, richiama la necessità di non condannare e rigettare i fratelli da essa separati ma ad instaurare un dialogo con loro al fine di edificare l’unità di tutti i cristiani nell’unica Chiesa. I separati appartengono a Cristo, sono anch’essi sue membra (anche se non in modo pieno).
«Pertanto non solo la S. Sede, ma ogni Chiesa particolare, ogni cristiano deve sentire il dovere, anzi il bisogno, di partecipare al movimento ecumenico e missionario per guadagnare tutti alla vera Fede e al Cuore di Cristo».
Il Concilio voleva essere una fucina di responsabilità missionaria per i fratelli da salvare. Un gesto divino per una Chiesa più viva e più consapevole della sua missione unica e santificatrice per realizzare nel mondo il Regno di Dio

2. Karl Rahner (1904-1984): il Concilio, «l’inizio dell’inizio»
K. Rahner fu un teologo molto influente in tutto il ‘900 teologico ed ebbe un ruolo di grande importanza nel Concilio. Prima, nel 1961, fu nominato solo consultore della Commissione della disciplina e dei sacramenti, poi durante il Concilio fu perito e teologo del Card. König.
Nella conferenza di Rahner tenuta in occasione della solenne cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II nell’Herkules-Saal a Monaco di Baviera (12 dicembre 1965), Rahner anzitutto esalta il ruolo del «consiglio episcopale» e dice:
«è […] difficile prevedere se oggi il principio sinodale-collegiale della Chiesa assumerà anche in futuro esattamente la figura concreta di questo o di precedenti concili, trovando in essa la sua efficace realizzazione, o se invece il consiglio episcopale di recente istituzione riuscirà, qualora non si limiti ad un’azione puramente consultiva, a fare proprie le funzioni e le forme, tanto complesse da non essere quasi ormai più tecnicamente controllabili, dei concili del passato, diventando, nella sua essenza teologica, un vero e proprio concilio, tenuto anzi con frequenza maggiore».
Così Rahner chiarisce anche il suo pensiero teologico del Concilio in relazione alla fede:
«Fu un concilio tenuto nella libertà e nell’amore. Certo in quella libertà che in tutti i Padri si sapeva legata all’inviolabile credo a Dio, a Cristo, alla sua grazia e con ciò ai dogmi che la Chiesa ha fino ad oggi proclamati perennemente validi e, nello stesso tempo, storicamente evolventisi nella concezione della fede. Fu però un concilio nella libertà».
Libertà è per Rahner la capacità che il Concilio ha dato a tutti di sostenere la propria tesi e di arrivare così all’unità (ai consensi) ma nel rispetto della libertà, e tutto questo considerando il Concilio «alla luce della storia dello spirito». Infatti,
«Dappertutto, persino nel campo della teologia, si può ai giorni nostri avere la deprimente impressione che la libertà non abbia la sufficiente consistenza e che ogni opera grande di pensiero e di azione si debba conquistare con la forza».
Rahner riconosce che il primato della libertà teologica dovette trionfare sulle scelte già determinate e sugli stessi schemi e risultati delle commissioni preparatorie. Si volle un concilio ecumenico che Rahner definisce «della liturgia e delle missioni».I temi che stavano più a cuore al Concilio, dopo un’attenta cernita, sono elencati dal Nostro in questo modo:
«[…] il principio sinodale della Chiesa, l’importanza dell’elemento carismatico in essa, la comunità locale come Chiesa, la possibilità di salvezza dei non cristiani, la “gerarchia” di importanza anche tra le verità definite, la Scrittura al cui servizio stanno la Chiesa e il suo magistero, il sacerdozio universale, il pluralismo delle varie teologie con pari diritto all’interno dell’unica Chiesa, la personale libertà di fede, l’importanza e l’esistenza di una teologia storico-critica, la infondatezza di una teoria secondo la quale esisterebbero nella Chiesa una morale ed una santità di pregio diverso collocate su due piani differenti, il rilievo dato al servizio di Dio nella parola, ecc.».
Ciò che ha fatto il Concilio rimane per Rahner solo «l’inizio dell’inizio». Questo inizio dell’inizio, che è letto da Rahner anche come «nuovo cominciamento» della Chiesa, è inteso da Rahner in questo modo:
«che Cristo e la Chiesa incontrino veramente il tempo di oggi e di domani. Dunque inizio dell’inizio per una Chiesa della grazia di Dio liberamente concessa, per una Chiesa del nostro Signore e Salvatore, del Verbo di Dio, della fratellanza, della speranza, della carità umile […]».
Resta tutto da fare in una Chiesa che col Concilio ha voluto dare un nuovo inizio. Resta da trasformare in forma concreta le direttive sulla liturgia, da istituire i diaconi permanenti, da riformare il Codice di Diritto Canonico, iniziare il dialogo ecumenico con coraggio e speranza, il dialogo con l’ateismo e con il bisogno impellente di fede nel mondo di oggi, ecc. C’è bisogno, però, più d’ogni altra cosa di «una teologia degna del Vaticano II e degli impegni da esso indicati», affinché diventi più dinamica e più acuta per penetrare le profondità di Dio e del tempo. Rahner così si fa promotore anche delle nuove esigenze che attenderanno al teologia post-conciliare:
«[…] parlare di Dio e del suo essere al centro dell’esistenza umana con parole realmente comprensibili agli uomini di oggi e di domani; annunciare Cristo nella visione evolutiva che si ha oggi del mondo, di modo che la parola dell’uomo-Dio, dell’incarnazione del Logos eterno in Gesù di Nazareth, non risuoni come un mito al quale non è più possibile prestare seriamente fede; determinare il rapporto tra i progetti e le ideologie dell’uomo circa il suo futuro e l’escatologia cristiana; impedire, nell’eschaton della redenzione già avvenuta, che l’uomo ricada nella condizione interiore di colui che era vissuto nell’AT, nel continuo timore cioè di restare, dopo la morte, lontano dal Dio della vita; capire come l’amore a Dio e al prossimo formino sempre, ma presto anche in maniera affatto nuova, una assoluta unità […]».
Pertanto anche i compiti che attendono la Chiesa sono diversi. Il prossimo futuro, infatti,
«non domanderà alla Chiesa la precisione particolareggiata dei suoi ordinamenti costituzionali, la strutturazione più attraente della liturgia, nemmeno, in primo luogo, dottrine di più precisa distinzione nella teologia della controversia di fronte alla dottrina dei non-cattolici, né un governo più o meno perfetto della curia romana. Il prossimo futuro domanderà invece se la Chiesa è in grado di testimoniare la vicinanza, che guida e appaga, di quel mistero ineffabile al quale diamo il nome di Dio […]».
Sempre alla luce di questa libertà che è come il cuore della teologia di Rahner, bisogna leggere la sua riformulazione della teologia pastorale, intesa come teologia della prassi, teologia anche politica e perciò «principio organizzativo intrinseco ed estrinseco di tutta la teologia». La pastorale in quanto scienza della ragion pratica, ovvero della libertà, ha una priorità rispetto al dogma. Scrive Rahner:
«Se si riconosce alla ragione pratica (ragione non emozionalità o arbitrio, al quale viene dato il nome di libertà!) una priorità, per il fatto che essa è la sussistenza riflessa di quell’azione che significa salvezza e che si concepisce solo e totalmente in se stessa, non in base a qualcos’altro, allora si può conferire alla T.P., intesa come la rappresentante dell’autoriflessione di questa ragion pratica nella chiesa, una priorità nella teologia globale. Questo non dovrebbe in sé meravigliare. Si dovrà pur riconoscere all’amore libero (e alla speranza) una certa proprietà nei confronti della fede dogmatica».

3. René Laurentin: un Concilio tra limiti, ambiguità e speranze
Un altro testimone scelto per verificare l’impatto del Vaticano II negli immediati anni post-conciliari, è il mariologo francese R. Laurentin, prima membro della Commissione preparatoria del Concilio e poi perito dei lavori conciliari. Un anno dopo la chiusura del Concilio, Laurentin traccia un bilancio dell’eredità pastorale e dottrinale lasciata ai posteri dal Concilio. Questi, nota un paradosso:
«Il Vaticano II, Concilio pastorale, è diventato paradossalmente il Concilio di un rinnovamento dottrinale. I teologi vi hanno trovato un’udienza senza precedenti. “Concilio degli esperti si è detto fin dalla prima sessione, con una nota critica giustificata per ciò che c’era di eccessivo: ma il fatto aveva una sua giustificazione».
La giustificazione ravvisata da Laurentin, in una necessaria revisione della teologia e in un suo aggiornamento, si amplia nel suo bilancio, fino a mettere in evidenza, i limiti del Concilio, i silenzi e le indecisioni, le incompletezze e le ambiguità e finalmente i compiti che spettano alla Chiesa post-conciliare. Tra i limiti, Laurentin ravvisa soprattutto le mancate decisioni in materie scottanti come:

1) i matrimoni misti: ....
2) La regolamentazione delle nascite, ...
3) Il problema del celibato dei sacerdoti, .....
[...]

Di qui Laurentin arriva al dato più scottante, con parresia e parole chiare, delle «incompletezze e ambiguità» di alcuni documenti conciliari. Quest’ambiguità è al dire di Laurentin, «quella della vita in via di sviluppo» che però «non toccano il Concilio ma costituiscono un rischio per molti cristiani»
Tra queste bisogna annoverare:
1) l’ambiguità dell’ecumenismo segnalata anche da O. Cullmann: «Quando ritorneremo nelle nostre file, dovremo combattere, soprattutto tra i laici la falsa sentimentalità ecumenica». Per Laurentin questa ambiguità non è del Vaticano II ma è «uno dei rischi della sua rapida espansione post-conciliare. Bisogna anche mettere sull’avviso contro un trionfalismo ecumenico […]
2) Un’altra ambiguità è l’aggiornamento, anche denunciato da Cullmann. Alcuni, infatti, lo leggono come adattamento al mondo moderno, mentre il Concilio vuole rischiarare l’attività umana con la luce del Vangelo. I rischi, afferma il Nostro, «sono legati all’ambiguità del termine “mondo”, che ha formato oggetto di esame da parte del Concilio».
3) Oltre a queste due, c’è n’è un’altra«che ha toccato il Concilio stesso: quella legata al termine “pastorale”». Riportiamo una citazione più lunga, per lasciare a Laurentin descrivere questo punto, che anche a nostro giudizio, riveste un nodo storico e teologico molto serio:
«Questo aggettivo (pastorale) lanciato da Giovanni XXIII ebbe fortuna. Esso risponde indubbiamente ad un’intuizione profonda: il bisogno di restaurare il legame tra vita e verità, tra dottrina e salvezza. Il suo uso però restò vago e prammatico nel corso della prima sessione. Ma con la seconda sessione alcuni caddero nell’errore di considerare il termine “pastorale” come contrario a “dottrinale”; così la “collegialità” gerarchica e l’amore matrimoniale appartenevano al campo “pastorale”, non a quello “dottrinale”. Si voleva trovare in tal modo una via di soluzione alle opposte tendenze: il campo pastorale sfuggiva all’esigenza di rigore proprio della dottrina: sarebbero bastati termini e parole approssimative. Fin dall’inizio della sessione il cardinale Silva si meravigliò che tale principio avesse trovato posto perfino nella spiegazione ufficiale degli emendamenti dello Schema 13. La rottura tra teologia e vita fu una delle deficienze più gravi di questi ultimi secoli. Sarebbe illusione voler rimediare a questo fatto, creando un tipo di vita zeppo di dottrina: illusione più dannosa della prima».
A parere di Laurentin, il Vaticano II è posto tra Scilla e Cariddi: tra il timore di affrontare i problemi e gli abusi della libertà; la libertà di ricerca proclamata dal Concilio ha sempre con sé i suoi rischi. Si è parlato molto delle vessazioni subite da teologi progressisti, meno invece si è parlato del proliferare di cripto-eresie di destra e di sinistra, come i funghi che si scoprono a volte nelle parti più oscure. Infatti, «se le restrizioni e le chiusure suscitano segrete rivolte, anche la libertà mal compresa può sprigionare forze negative: la superficialità, l’eresia, lo scandalo». Pertanto, dice Laurentin, «il Vaticano II, che è un concilio di ritorno alle fonti, deve conservare il contatto con tutta la Tradizione». Ci sono degli aggiornamenti, certo, ma sono stati letti e fatti alla luce dell’apertura a Dio e del desiderio di arrivare al mondo, prendendo atto dei mutamenti così accelerati che lo segnavano. La Chiesa ha riconosciuto l’autonomia dei valori terrestri e l’autenticità del progresso umano. Così, «il Vaticano II, senza abbandonare l’esigenza di assoluto che ispirava il Sillabo, ne ha superato lo spirito di sfiducia e la rigidità».
 
Certo se dal Concilio la Chiesa è uscita perdendo un certo tipo di sicurezza, ha sviluppato il senso della ricerca, liberandosi anche dal verbalismo. Ha ritrovato il senso dell’essenziale, ovvero il disegno del Padre. Ha infine ritrovato posto il “grande sconosciuto”, lo Spirito Santo, che a dire di Laurentin, mentre era stato riconosciuto nei primi secoli per la sua preminenza nella Chiesa, aveva poi perso la sua importanza fino ad essere dimenticato. Il Vaticano II, «apparirà – a giudizio del mariologo francese –, davanti alla storia, come prima tappa della riscoperta dello Spirito Santo».
 
L’avvenire della Chiesa, dunque, dovrà essere segnato dalla messa in atto di queste iniziative pastorali-dogmatiche, in modo da avere realmente una Chiesa post-conciliare, di cui Laurentin disegna il modello, nel vescovo post-conciliare, il laico, il sacerdote, e infine la teologia post-conciliare, ancora ai primi balbetti ma promettente data la mole di rinnovamento proposta dal Concilio. Così il Concilio deve essere come una “creazione continuata”, cercando di stabilire con UR 12 quell’ordine o gerarchia delle verità in ragione al loro rapporto col fondamento della fede e mettendo meglio in evidenza il suggerimento proposto inizialmente da Giovanni XXIII, di distinguere tra “sostanza” e “formulazione” della dottrina della fede, ma non trattato né dal Pontefice né dal Concilio. In chiusura, per il mariologo francese, tutto il Concilio è, per così dire, nel post-concilio.

4. Hans Küng: il Concilio via alla riunificazione

Küng rappresenta per i lavori conciliari e per la sua emblematica posizione di rottura, un autore molto interessante, la cui disamina mette in evidenza la portata di un’ermeneutica che, quando separata dal contesto vivente della Chiesa, ovvero isolata in un lavoro solitario del teologo, porta ad una necessaria rottura con il Soggetto-Chiesa. Küng ha ormai celebrato questa rottura con la Chiesa, in ragione, a suo modo di vedere, soprattutto dei tradimenti del Concilio da parte dello stesso Magistero.
 
Küng ebbe un ruolo molto importante al Concilio come perito e poi come teologo per l’applicazione del post-concilio. Uno dei temi da lui più approfonditi e visto come speranza per una vera unità della Chiesa con i protestanti è stato quello ecumenico. È interessante riportare la testimonianza del Card. W. Kasper, che fu suo assistente alla cattedra di teologia fondamentale:
«All’inizio c’erano molte cose che affascinavano di Hans Küng: il suo modo giovanile e fresco di porsi, la sua visione spontanea e non convenzionale della chiesa e anche molte idee riformatrici. Il suo libro Concilio e riunificazione, divenuto rapidamente un bestseller, dava espressione alle attese che molti riponevano nel Concilio; esso divenne anche una sorta di catalizzatore, sul quale molti spiriti si dividevano. Anche il mio maestro Geiselmann corrugava la fronte».
Un tema fontale ed imprescindibile per capire anche la posizione ecumenica molto speranzosa quanto frettolosa di Küng, è quello della Tradizione della Chiesa, nel contesto della discussione che fu affrontata nella Commissione dottrinale per la formazione dello Schema che porterà alla promulgazione poi della Dei Verbum, schema che aveva evitato di riproporre il problema della duplicità delle fonti della Rivelazione. Un autorevole studioso del problema, che le tesi di Küng presuppongono, è J. R. Geiselmann. Questi sosteneva, riprendendo il tema tridentino e l’accusa di Lutero alla Tradizione (accusa piuttosto al ministero nella Chiesa), che il Concilio Vaticano II abbandonò la tesi del partim (parte della rivelazione contenuta nelle Scritture e parte nella Tradizione) per accontentarsi della sua particella et. Da qui Geiselmann deriva che l’idea della duplicità delle fonti della Rivelazione fu abbandonata dal Vaticano II o per lo meno non espressamente definita. Così deriva la sua idea, secondo cui, in fondo anche un cattolico può approdare senza problemi alla concezione della sufficienza materiale della Scrittura (tutte le verità rivelate sono contenute nella Scrittura) e che sempre come cattolico si può sostenere che la Scrittura ci consegna in maniera sufficiente la Tradizione. In questo modo però scompare il concetto cattolico di Tradizione come canale della Rivelazione e conoscibilità della stessa insieme alla Scrittura. Si può subito immaginare l’esultanza e i consensi che una tale tesi riscontrò tra coloro che si affaticavano per un sereno dialogo col protestantesimo, offrendo possibilità del tutto nuove ad un nuovo incontro tra cattolici e cristiani evangelici in particolare. Tra i Padri conciliari si segnalò particolarmente il Card. Döpfner, che in Concilio disse che la Sacra Scrittura e la Sacra Teologia non erano da venerare con la medesima pietà.
 
Küng si era messo in questa scia; rinuncerà in modo sempre più marcato al concetto cattolico di Tradizione, considerando gli interventi della Chiesa semplicemente come un riflesso di un determinato momento storico, e così svuoterà dall’interno il contenuto normativo della Tradizione. Questo suo incedere teologico, inaugurerà un nuovo modo di prospettare il movimento ecumenico, quale chiamata all’unità: imperativo del Vaticano II.
 
Questo modo nuovo ad esempio si vede già nel suo libro – che al dire del Card. Kasper fu un vero bestseller in questo senso, che trascese di molto anche le aspettative di Geiselmann –, sul Concilio e l’unità (della Chiesa?): qui il rinnovamento del Concilio è visto come chiamata all’unità (sottotitolo suggeritogli da K. Barth). Küng si chiede: «Come possiamo incontrarci cattolici e protestanti»? E risponde indicando la via inaugurata da Giovanni XXIII, ovvero quella del «rinnovamento interno della Chiesa in vista del ritorno all’unità». Questo per Küng significa: «Non un semplice, inefficace richiamo a rientrare nell’unità della nostra Chiesa»; «Non semplicemente conversioni individuali»; «Non soltanto una riforma morale», perché la divisione della Chiesa non appartiene all’ordine dei vizi capitali e quindi ai vizi eterni dell’umanità, ma siccome è avvenuta storicamente «[…] può quindi – ben diversamente dai vizi capitali – aver fine con la grazia di Dio». Ecco dunque che per Küng il rinnovamento deve avvenire nella Chiesa cattolica, che partendo dalla sua essenza originaria (come diceva Barth), attui poi il vero spirito del Vangelo. E così sintetizza in modo emblematico il suo pensiero riguardante questo necessario rinnovamento:
«La protesta dei protestanti contro la Chiesa cattolica deve, nella misura in cui essa possa essere giustificata, poter perdere il suo oggetto, per opera della Chiesa cattolica stessa. La Chiesa cattolica, è vero, in quanto Chiesa di uomini e di uomini peccatori, rimane sino alla fine dei tempi Ecclesia reformanda».
Così Küng in definitiva vede il suo programma di rinnovamento: la Riforma protestante è quella giusta ed umana aspirazione alla riforma, che dà alla Chiesa cattolica il modello di un vero ritorno al Vangelo, e noi cattolici ritornando al Vangelo, in questa logica storico/storicista della riforma, ritorniamo all’unità con i protestanti. Ma si potrebbe chiedere: un’unità dove? In quale Chiesa? Di quale unità, in fondo, Küng sta parlando? Col passare degli anni, però, dagli osanna entusiasti a Giovanni XXIII, come traspare nella prefazione di questo libro, che lo animava a galoppare l’onda del rinnovamento conciliare e del nuovo ecumenismo,, passerà ad una contestazione qualificata del Magistero, e accuserà la Chiesa di aver tradito il Concilio.














Caterina63
00lunedì 10 agosto 2015 21:12


  5. Card. Leo Scheffczyk (1920-2005): aspetti della Chiesa nella crisi
Leo Scheffczyk, dogmatico tedesco, amico e collega di J. Ratzinger, elevato alla porpora cardinalizia per i meriti teologici, è un testimone della teologia di non poco conto, in ragione – come gli riconosce J. Ratzinger nella presentazione alla sua opera italiana che esamineremo –, della «sua conoscenza straordinaria delle fonti, del suo sguardo acuto per i problemi e i compiti del presente, come anche della sua profonda fedeltà, radicata nella fede, al Magistero».
Per Scheffczyk il problema della crisi post-conciliare è riconducibile ad una crisi ecclesiologica, ovvero ad una ricerca sulla “Chiesa” ritenuta per diverse ragioni già esaurita, in un’epoca di forte irrazionalismo del post-moderno che contiene in sé gli elementi del post-cristiano. Così,
«ignorando questa situazione – scrive – e considerando la fraternizzazione avventata e non critica del cristianesimo con lo spirito del tempo, è facile prevedere che anche all’interno della chiesa si introducano le tendenze dell’irrazionalismo postmoderno, quali una religiosità vaga e una presunzione gnostica, coinvolgendola così nell’intreccio della “lieve cospirazione”».
Queste riflessioni sono formulate dall’autore,
«nel bel mezzo di un fermento rivoluzionario, alla comprensione di ciò che nella chiesa è permanente […]. Il possibile rischio è che in un prossimo futuro possano ritornare attuali le tragiche parole dell’epoca dei disordini ariani: “Geme l’orbe terrestre e si meraviglia di essere divenuto ariano”. Tutti i cristiani veramente preoccupati per la Chiesa dovrebbero trovare nel Concilio Vaticano II un punto d’incontro».
Scheffczyk, nel suo saggio sugli Aspetti della Chiesa nella crisiPer la scelta di un Concilio autentico, come suonerebbe una traduzione più letterale del suo volume sugli aspetti della crisi post-conciliare, si concentra sul tema “Chiesa”, tratteggiando una teologia rinnovata alla luce del Vaticano II ma senza tradire o adulterare il dato dogmatico acquisito dalla Tradizione e dalla precedente riflessione teologica. La crisi è per Scheffczyk una crisi della Chiesa in quanto mistero. Può sembrare strano, dato l’accento ecclesiologico posto nello sviluppo post-conciliare, eppure il vero nodo teologico è riconducibile, per il nostro cardinale, allo smarrimento di un concetto metafisico di partecipazione del mistero-Chiesa. Le passioni antiecclesiali della fine dell’‘800 e del ‘900, provocate in gran parte dal protestantesimo liberale, quali le rivendicazioni di democratizzazione, di abbandono dell’autorità, di libertà dai dogmi, di liberalità e di parità – quasi tutte accolte dalla Chiesa evangelica – continuano a sfidare il concetto cattolico di Chiesa. Per il protestantesimo un dato è certo, dice il Nostro: «Si può reagire alla crisi non con cambiamenti esteriori, bensì solo attraverso un mutamento interiore del nucleo di fede». E così i dissidi interni al protestantesimo e il calo esteriore sono molto più estesi e perniciosi di quelli presenti nella Chiesa cattolica. In ambito cattolico, invece, dice Scheffczyk ,
«la vera cesura nello sviluppo della coscienza della chiesa ha avuto luogo dopo il Concilio Vaticano II, alle cui legittime aspirazioni di riforma si sovrapposero tendenze di una ristrutturazione pensata in altri termini. Esse si ripercuotono oggi sia nell’ambito evangelico che in quello cattolico e si rendono visibili in primo luogo negli aspetti esteriori».
Un dato però è certo: la dottrina ecclesiologica del Vaticano II è da leggersi come progresso e continuità. La Lumen gentium designa la Chiesa come mysterium, ricollegandosi così chiaramente alla Tradizione. La Chiesa è mistero del Dio Unitrino, diventando in Lui segno della vita divina tra gli uomini. Di qui si passa ad un’altra definizione della Chiesa: «La Chiesa è sacramento, definizione questa ancorata alla Tradizione, ma trasportata qui in una nuova dimensione». Lumen gentium 1 dice che la Chiesa è «in Cristo come il sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». Questa formula, fa notare Scheffczyk, con la quale la Chiesa è designata come «l’indissolubile sacramento dell’unità» è presente già in Cipriano di Cartagine († 258), secondo il quale la formula è da riferirsi
«all’unità interna della chiesa e significa soprattutto l’unità con il legittimo vescovo. Per questo coloro che non sono inclusi in questa unità sono “al di fuori della Chiesa”. Rivolgendosi agli eretici, Cipriano sottolinea in questo contesto che l’unità con la chiesa è necessaria per la salvezza delle anime».
Così Scheffczyk, fa notare che, nonostante il Concilio non citi la formula classica di Cipriano «al di fuori della Chiesa non c’è salvezza», tuttavia permane nel Vaticano II la stessa immagine di Chiesa, in cui si evidenziano i tratti sacramentali dell’unicità, della necessità di salvezza e della pienezza di salvezza in Cristo e nello Spirito Santo. Questa è «l’unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica» (LG 8).

Questo concetto di Chiesa-sacramento permette al Concilio di passare adagio dal sacramento Cristo al sacramento Chiesa, la cui radice cristologica più profonda è
«l’immagine del corpo di Cristo. […] Pio XII riconobbe in esso la “definizione più significativa e più divina della sostanza della Chiesa”. Anche il Concilio Vaticano II tiene in grande stima questa immagine, quando considera la chiesa “per una non debole analogia… paragonata al mistero del Verbo incarnato” (LG 8)».
In questo modo il Concilio non porta nessuna innovazione formale nel pensiero ecclesiale. Ha dato solo ad un’idea biblica e fondata nella Tradizione, un ulteriore riconoscimento. Infatti già il Vaticano I aveva definito la Chiesa come «il segno innalzato tra i popoli», facendo riferimento ad Is 11,12. Quindi «riconoscendo alla chiesa questo suo carattere di segno si garantisce la diversità tra Cristo e la chiesa e si riconosce quest’ultima come realtà che esiste a partire dalla sua relazione con Cristo». La Chiesa è «di fronte» a Cristo e non si identifica con Lui. Il rapporto giusto Cristo-Chiesa è fondamentale per capire anche la portata salvifica di Cristo nella Chiesa e sempre attraverso la Chiesa. Cristo ha fondato la sua Chiesa e la conserva nell’essere. È presente nella sua Chiesa ma la sua presenza non «si esaurisce nella Chiesa, ma resta al di sopra: Cristo abita nella chiesa e ne è superiore allo stesso tempo; la Chiesa è compresa da Cristo, mentre essa non lo può contenere in modo completo». In questo senso la Chiesa è sempre strumento e organo di Cristo.

Accanto al concetto di «sacramento», il Concilio utilizza anche il concetto di «popolo» per designare la Chiesa. Questa immagine profondamente biblica, esprime il dato secondo cui la Chiesa è una comunione vivente di fratelli e sorelle esprimendo la sua natura comunionale, dinamica e storica. Certamente la missione di questo popolo di Dio non è di ordine politico o sociale, ma dice Gaudium et spes 42 «il fine […] che le ha prefisso (Cristo) è di ordine religioso». Non sono mancate però le interpretazioni politiche e sociali di questo lemma Chiesa-popolo. Principiando dall’odierno concetto di popolo come emerso dal Romanticismo, lo si è collegato allo spirito del popolo, alla sovranità popolare, al popolo come forza primitiva che determina il diritto e gli usi. Così qualcuno ha gridato: «noi siamo il popolo», «wir sind die Kirche». Ma, nota Scheffczyk,
«il Concilio non offre alcun fondamento a questa interpretazione, poiché esso comprende nell’immagine del popolo la comunità sacramentale del “corpo di Cristo”, che è composto non solo di “popolo”, bensì di un capo e di un organismo sacramentale composto di membra. Nel frattempo, nell’era postconciliare, in cui si vorrebbe proseguire il concilio solo secondo il suo “spirito”, senza attenersi al senso e al contenuto espressi da esso, il concetto di “Popolo di Dio” è stato ripetutamente mal compreso e interpretato secondo un modello democratico».
Un altro concetto centrale dell’ecclesiologia conciliare è il concetto di communio, purtroppo anch’esso divenuto equivoco e contraddittorio nel post-concilio. Questo non svaluta però il suo retto significato attribuitogli dal Vaticano II, secondo il quale, «sono incorporati veramente nella società della Chiesa coloro che… sono congiunti a Cristo mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione» (LG 14). Qui la comunione è nel suo insieme trinitaria e gerarchica (ha cioè un’origine sacra) e perciò è una comunione gerarchica o una gerarchia per la comunione della Chiesa.

Infine, Leo Scheffczyk, appura la continuità della Tradizione in altri due dati dell’ecclesiologia conciliare: il fatto che la Chiesa Cattolica sia l’unica Chiesa di Cristo e il fatto che fuori della Chiesa non c’è salvezza. Si tratta di due problemi diversi, uno ecumenico e l’altro riguardante il dialogo interreligioso.
 
Il Vaticano II non parla mai di una restaurazione dell’unità della Chiesa, ma solo dei cristiani. Se si dovesse restaurare l’unità della Chiesa in sé, significherebbe che Cristo ha ritirato, per così dire, da essa la sua incarnazione e smentirebbe la sua promessa di restare in essa fino alla fine dei tempi. Il problema più delicato che è stato posto è come mai il Concilio per designare l’unica vera Chiesa si sia richiamato al concetto di sussistenza: la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica (cf. LG 8) e non che essa è la Chiesa cattolica. Qui si vede l’apertura teologica al concetto di ecumenismo e si vuole radicarlo in una teologia degli elementa Ecclesiae. Ci sono certamente elementi ecclesiali presenti anche in altre comunità cristiane o Chiesa particolari separate da Roma, ma dice Scheffczyk,
«“ecclesialità” non è ancora “chiesa”, come (per fare un esempio) le caratteristiche e le connotazioni particolari di un popolo non formano ancora uno Stato, anche se per uno Stato esse rivestono un grande significato».
È da pensare, perciò, in modo corretto l’unità e la molteplicità, il mistero della Chiesa universale (precedente in modo ontologico e cronologico) e quello delle Chiese particolari. L’unità della Chiesa precede la molteplicità: è la sua misura e il suo scopo. La molteplicità, infatti, «non coinvolge l’essenza, bensì le modalità esteriori; non la sostanza, bensì la forma, non la verità bensì la sua espressione (come la teologia e la devozione) […]».
 
L’altro dato importante, ma anch’esso fortemente e volutamente frainteso è il dialogo interreligioso e la salvezza dei non cristiani che non può realizzarsi se non nella Chiesa e mediante la Chiesa. Anzitutto Scheffczyk appura che la dottrina del Concilio non rinnega l’assioma classico di origine patristica secondo cui «al di fuori della Chiesa non vi è salvezza», che del resto è comprensibile solo a partire dalle condizioni storiche del periodo in cui ha avuto origine. Sin da Origine e Cipriano, fa notare Scheffczyk, era diretto contro le divisioni e le lacerazioni della Chiesa e si voleva contestare alle Chiese particolari il diritto di presentarsi come organizzazioni salvifiche accanto all’unica vera Chiesa. Però, dice il Nostro,
«persino nei Padri della chiesa, giudici rigorosi, che sostennero questo principio non mancano accenni ai “santi nascosti” del paganesimo e alle possibilità di salvezza dei non cristiani, poiché la grazia viene offerta ad ogni uomo e ogni uomo di buona volontà può riconoscerla».
Anche un altro dato è da tener ben presente: il fatto che la Chiesa abbia condannato la frase giansenistica secondo cui «fuori della Chiesa non c’è grazia». Quindi dice Scheffczyk,
«la chiesa […] anche ripetendo fino a ieri il principio tradizionale, non contesta in alcun modo la possibilità di salvezza per coloro che ne sono al di fuori, così come essa, d’altro canto (è importante osservare questo), non garantisce al singolo cristiano la salvezza sulla base della sua appartenenza alla chiesa».
Pertanto non è il Concilio ad avallare le nuove interpretazioni secondo cui tutte le religioni, essendo fatti obiettivi, sarebbero vie di salvezza e basterebbe che ognuno si sforzasse di essere ciò che è: un bravo musulmano, un bravo induista, ecc. Ad esempio Küng, vuole che le religioni si impegnino «alla ricerca comune della verità». è vero che il Concilio,
«non chiarisce le difficili questioni riguardanti il rapporto del cristianesimo con le altre religioni. Ma vi è una decisione fondamentale le cui conseguenze è bene osservare. […] con l’avvenimento di Cristo è oggettivamente successo qualcosa (comprensibile solo nella fede del cristiano), che equivale a una critica fondamentale, ad un aumento e (sia in senso negativo che positivo) a un’“abolizione” delle religioni nella pienezza di Cristo» E poiché i raggi di verità presenti in qualche modo nelle religioni, «sono ora raccolti nella chiesa donata da Cristo, l’azione del donare la grazia al di fuori della chiesa non avviene senza la chiesa e neppure al di fuori di essa. La chiesa rimane il sacramento universale di salvezza dal quale proviene la grazia e verso cui la grazia si dirige».
6. La Scuola bolognese: il Concilio come “evento storico”

Un grande ruolo nell’ermeneutica e nella recezione del Concilio ha svolto la Scuola di Bologna, fondata da G. Dossetti con la creazione di un Istituto di Scienze Religiose, guidato da G. Alberigo, direttore della poderosa Storia del Concilio Vaticano II, raccolta in 5 volumi. Opera di respiro internazionale, i cui criteri ermeneutici del Concilio sono riconducibili anzitutto alla storicità stessa del Concilio, categoria che permette di vedere il Vaticano II come “evento” con una grande partecipazione e amplificazione mass-mediatica. Dalla storicità si coglie bene poi l’impronta pastorale-ecumenica fontale dell’evento conciliare e questo permette in definitiva di esaminare in maniera trasversale, con una notevole opera di cesello, anche gli aspetti più reconditi del Concilio. Questi aspetti non si esauriscono nella celebrazione dell’evento in quanto tale, ma in ragione di uno spirito, il Concilio si può leggere come una legge della “conciliarità” – tema dominante nella lettura bolognese dell’ermeneutica conciliare – sempre presente, in modo che il Vaticano II sia anche in futuro quello che voleva essere nel passato. Questo ad esempio lo vediamo nella disamina storica che fa Alberigo a quarant’anni dalla celebrazione del Vaticano II e al termine della pubblicazione dei 5 volumi della storia del Vaticano II. Scrive Alberigo: «La storicizzazione del Vaticano II apre la possibilità di una “svolta ermeneutica”». Alberigo, nota anche che «non è improprio ritenere i movimenti della prima metà del XX secolo (liturgico, ecumenico, biblico, per la promozione del laicato) un autentico “preconcilio”. Come all’opposto, ha avuto effetti “ritardanti” la diffidenza post-modernista nei confronti della ricerca teologica».
 
Comunque la lettura del Vaticano II come evento è necessaria per superare il momento problematico della celebrazione dell’evento e della sua recezione, della diatriba tra dottrina e pastorale. Scrive sempre Alberigo nell’introduzione al primo volume della Storia del Vaticano II:
«Attardarsi in una visione del concilio come la somma di centinaia di pagine di conclusioni – frequentemente prolisse, talora caduche – ha sinora frenato la percezione del suo significato più fecondo di impulso alla comunità dei credenti a accettare il confronto inquietante con la Parola di Dio e con il mistero della storia degli uomini… È sempre più attuale riconoscere la priorità dell’evento conciliare anche rispetto alle sue decisioni, che non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso. La carica di rinnovamento, l’ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con l’Evangelo, l’attenzione fraterna verso tutti gli uomini, che hanno caratterizzato il Vaticano II, non sono aspetti folkloristici o comunque marginali e transeunti. Al contrario, questo è lo spirito dell’evento conciliare, al quale la sana e corretta ermeneutica delle sue decisioni non può che fare riferimento».
Il post-concilio deve essere il momento della storicizzazione del Concilio, la quale si risolve operando appunto «una storicizzazione del Vaticano II non per allontanarlo, relegandolo nel passato, ma per agevolare il superamento della fase controversistica della sua recezione da parte delle Chiese». Ciò sarà possibile solo nella misura in cui si farà affiorare «lo spirito e la dialettica che hanno caratterizzato l’assemblea». Questa disamina, al dire di Alberigo, è interessante perché fa emergere «un gap, tra l’evento conciliare come fatto collettivo e le decisioni finali dall’assemblea». Questo ancora una volta sottolinea che «l’evento conciliare sia irriducibile alcorpus, pure molto ampio delle decisioni: la collegialità conciliare ha avuto una densità molto maggiore di quella enunciata in Lumen gentium. Le costituzioni e i decreti non rispecchiano tutte le virtualità che si sono espresse durante la vita del Concilio». Così si apre la possibilità di una ricerca trasversale che porti
«alla luce la presenza ricorrente e spesso determinante dei fattori cruciali dello spirito conciliare: il rinnovamento liturgico ed ecclesiologico, al di là dei limiti delle due costituzioni corrispondenti; l’ansia ecumenica, più ricca ed articolata di quanto non dica il decreto Unitatis redintegratio; la riscoperta della Parola di Dio, che non emerge solo da Dei Verbum; l’irrinunciabilità della libertà religiosa, che i padri conciliari hanno progressivamente acquisito, anzitutto come dimensione del loro statuto cristiano».
Per la Scuola bolognese, il criterio della pastoralità del Concilio è indispensabile per distinguere un livello delle forme contingenti e storiche e un livello dei principi di fede, senza tuttavia che i due livelli appaiano in discontinuità tra loro, per il fatto che il lavoro del teologo e del magistero prende l’avvio da quello dello storico e l’apparente storicità contingente delle forme pastorali, sarebbe suffragata da un lato dalla gerarchia delle verità di UR 11 e dall’altro da un nucleo dottrinale che nel suo interno rimane comunque lo stesso pur nel divenire frammentario. La fede qui è subordinata alla storia; altrettanto le dichiarazioni del magistero, ormai non più proponibili come condanne ma, le stesse condanne di prima, superabili in ragione della loro storicità e della nuova pastoralità.
 
Pastoralità, poi, è in un certo modo, sinonimo di ecumenicità. Infatti, a dire di C. Theobald,
«i rappresentanti del segretariato per l’unità, il card. Bea, mons. Smedt e mons. Volk, che la momento cristallizzano l’opinione di tutti coloro che si oppongono agli schemi preparatori, colgono il legame interno tra la forma pastorale e la forma ecumenica dei documenti conciliari da comporre».
La visione pastorale della Scuola bolognese che riesce a saldare in unità l’evento con la dottrina, ovvero il dato di fede con la sua comunicabilità è riconducibile, crediamo, a questa espressione di Theobald:
«[…] si tratta veramente, nel rapporto tra tradizione e Scrittura, di un problema di verità o di punti contenuti nel “deposito”? La dottrina non è piuttosto un modo di porre, in contesti diversi, delle condizioni perché all’interno della tradizione stessa l’evento cherigmatico o pastorale possa avvenire realmente e in tutte le sue dimensioni? È sicuramente a questo che aveva mirato Giovanni XXIII parlando della “forma pastorale della dottrina o del magistero”».
Sul versante della storicità del Vaticano II si colloca anche B. Forte. Questi definisce il Vaticano II «il Concilio della storia», nel senso che,
«il Vaticano II ha avviato una “storia del Concilio”, un itinerario di ricezione attraverso il quale la promessa risuonata nell’evento conciliare potesse prender corpo nella vita degli uomini».
In questo modo il Vaticano II assume la «storia nell’autocoscienza della fede», mettendola in rapporto alla verità. Il documento più importante del Vaticano II è per Forte la Dei Verbum,
«il più incisivo contributo che la riflessione magisteriale abbia dato al problema della mediazione storica della rivelazione. Il superamento della dottrina delle due fonti, Scrittura e Tradizione, in quella dell’unica traditio Verbi ex fide in fidem, che ha il suo momento normativo nella parola registrata nel testo sacro, ma che vive in permanente novità di racconto e di interpretazione sotto l’azione dello Spirito Santo nel tempo…».
Sulla linea della pastoralità intesa come storicità, si colloca pure il vescovo testimone del Concilio, uno di più giovani partecipanti al Vaticano II, L. Bettazzi. Proprio in ragione della pastoralità del Concilio, si può superare, in qualche modo, quella discontinuità provocata, invece, dai precedenti concili in quanto dogmatici. Il Vaticano II sarebbe sempre attuale/storico perché pastorale.

Rilievi conclusivi

A questo punto del nostro itinerario teologico, che ci ha portato a verificare alcune posizioni sul Concilio Vaticano II, da noi scelte perché ritenute alquanto esemplari, possiamo ora ricavare dallo studio d’insieme del problema alcuni elementi-chiave. Questi elementi, a nostro giudizio, sottolineano, da un lato la complessità del dato teologico che si presenta nel suo insieme quale “Concilio Vaticano II”, dall’altro, riescono a far emergere i nodi delle problematiche che via via si sono presentate, riassumibili in tre posizioni: 1) Il Vaticano II è intrinsecamente compromesso? 2) Il Vaticano II nasconde una carenza metafisica fondamentale? 3) Gli asserti teologico-fondamentali quali chiavi per interpretare il Concilio.





Caterina63
00lunedì 10 agosto 2015 21:13

  1. Il Vaticano II è un “testo compromesso”?

Il tema si fa alquanto delicato e scottante, anche se abbiamo visto che anche Laurentin non ha timore di denunciare le imprecisioni dei documenti del Concilio. Un caso alquanto singolare e certamente privo di sospetti è quello di O. H. Pesch che – a dire il vero in modo alquanto pungente e sarcastico – accusa il Concilio di essere un testo compromesso: «Non di rado – dice – in casi estremi si ha a che fare con “il compromesso del pluralismo contraddittorio”». Per pluralismo contraddittorio Pesch intende ad esempio il fatto che, gli schemi, molto spesso, erano formulati come un do ut des: se accetti il mio testo io approvo il tuo. Questo si presenta nelle votazioni in sede di Commissione, per quanto riguarda, ad esempio, la collegialità episcopale: prima si fanno delle grosse aperture, poi per una minoranza conservatrice, si fanno dei passi indietro, moltiplicando i riferimenti alla potestas del Romano Pontefice: questo lo si appura, al dire di Pesch, soprattutto nel risultato finale.
 
A Pesch, su questo dato, risponde P. Hünermann, che critica questa posizione estrema per il fatto che i documenti del Concilio non sono da vedere come documenti di una costituzione umana e civile. La possibilità di parlare di “pluralismo contraddittorio” applicata a Lumen gentium, esisterebbe «solo se si partisse da un testo conciliare che possedesse, a motivo del genere, la forma di giudizio o di legge». Per Hünermann, in linea con l’idea della Scuola di Bologna, bisogna valutare rettamente il genere dei testi del Concilio soprattutto nel loro processo ricettivo, tenendo conto della genesi e dello svolgimento del Concilio. Il Vaticano II, infatti, si inserisce nella tradizione di Trento e del Vaticano I, ma a differenza di questi, non fa delimitazioni in termini di definizioni. Il senso del Vaticano II, di natura pastorale, è da vedersi soprattutto nella volontà dei Pontefici, e in particolare nel lavoro della prima sessione. Questo faciliterà il fatto che si recepisca «il corpus dei testi del Vaticano II come norma durevole. Solo se il testo del Concilio non adempie a delle funzioni una volta e basta, ma lo si consulta continuamente per i problemi del momento e per la loro elaborazione, allora veramente si afferma il suo carattere». Per Hünermann, comunque, «si potrà indicare il genere dei testi del concilio Vaticano II come “costituzione della vita ecclesiale di fede” o, in breve, come “costituente della fede”».
 
Così, ci chiediamo, si risolverebbe il problema del “pluralismo contraddittorio”? Crediamo di no, per il fatto che i documenti di un concilio in genere non costituiscono la fede, la esprimono, la definiscono in modo solenne. Potrebbero costituirla solo in un ambito dogmaticamente pastorale, visto da un’angolatura storica come vuole la Scuola bolognese. Ma il Concilio non fu questo, né vorrebbe esserlo.
 
Crediamo, anche, che un certo pluralismo contraddittorio appaia ed era inevitabile per diverse ragioni, innervate però tutte nella mancanza di chiarezza dei confini tra ciò che è pastorale e ciò che è dogmatico. Le due dimensioni dell’unica teologia sono equivalenti? Si distinguono? L’una è subordinata all’altra? Pertanto, non si potrebbe dare una risposta esaustiva alla domanda formulata e neppure si potrebbe verificare a livello teologico la continuità/discontinuità delle dottrine del Concilio con la Tradizione della Chiesa, senza richiamarsi ad altri due livelli, che indicheremo di seguito.

2. Il Vaticano II come problema metafisico: un problema di sostanza e di forma?
Il problema “Vaticano II”, più che un “pluralismo contraddittorio”, è quello di una non chiara precisazione della sua natura e di conseguenza del tenore dei suoi documenti, nella cui ottica, sono da leggere le cosiddette “aperture” o meglio approfondimenti teologico-magisteriali. Se rimane fermo che la natura del Concilio è pastorale (non nel senso storicista inteso da Rahner: attingere i presupposti teologici dalla prassi e dalla scienze profane, ma nel senso teologico inteso dal Magistero) e che il tenore del Magistero è autentico ordinario, infallibile solo nella misura in cui reitera i dati già definiti o definitive tenenda della Tradizione, allora i miglioramenti e gli approfondimenti del Concilio, che potrebbero dar adito anche a dei regressi a causa della rottura teologica, sono da verificare alla luce del sano metodo teologico. La teologia che illumina il Magistero dovrebbe verificare lo status di questi approfondimenti e fornire al Magistero un criterio per un pronunciamento (magari anche ordinario) volto a dissipare tutti gli equivoci accumulatisi. Il Magistero in tal modo, potrebbe dire in modo autorevole che solo la continuità è l’ermeneutica giusta da applicare al Concilio e che le innovazioni sono da leggersi in questa continuità della Tradizione, le cui discontinuità non sono dogmatiche (nel senso che feriscano il dogma o lo cambino; più che altro lo spiegano o tentano di spiegarlo) ma teologiche. Nel Vaticano II come rapporto diadico di “concilio-mistero” non si insinua il modernismo. Sarebbe blasfemo il solo pensarlo. Questo magari era presente in alcuni periti e teologi, ma il Concilio è cattolico, convocato e approvato dal Romano Pontefice, i suoi documenti rimangono, natura sui, un insegnamento magisteriale obbligante.

3. Alcuni principi teologico-fondamentali nel Vaticano II

Per ultimo, è necessario individuare alcuni principi, che potremmo definire teologico-fondamentali, enunciati dal Concilio, dalla cui applicazione e lettura, dipende, in gran parte, la visione d’insieme del Vaticano II, come Concilio (evento/celebrazione solenne) e, di conseguenza, la giusta/errata interpretazione delle dottrine conciliari. A nostro giudizio, questi principi potrebbero essere riassunti in tre: 3.1 pastoralità/aggiornamento; 3.2 la distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione; 3.3 il principio “gerarchia delle verità”. Esaminiamoli brevemente, per sottolinearne la cogenza, auspicando il conforto di altri studi di approfondimento.

3.1 La pastoralità del Concilio intesa come aggiornamento e viceversa
Nell’intenzione di Giovanni XXIII il Concilio doveva provocare un aggiornamento, inteso come apertura al mondo e quindi come modo per dire al mondo, hic et nunc la fede della Chiesa. Si volle un modo pastorale d’approccio per far sì che si scegliessero i mezzi più adeguati ed anche il linguaggio della modernità, quando necessario, per parlare all’uomo di oggi, profondamente diverso da quello del Vaticano I, per le nuove condizioni storiche e anche teologiche. Al Concilio si intrecciano e si ingarbugliano due livelli: la fede doveva progredire, ma il Concilio non voleva assumere un carattere dogmatico, perché sarebbe stato anacronistico. Il progresso doveva essere visto come un aggiornamento ma l’aggiornamento non doveva essere dogmatico (come definizione di nuovi dogmi) bensì pastorale ma riguardante propriamente la dottrina. Era chiaro che si arrivasse all’aggiornamento della dottrina: una pastorale ha come cuore la dottrina, ma il Concilio voleva procedere in modo pastorale, ovvero con un magistero ordinario autentico. Lasciando in una sorta di wavering generale i lemmi implicati, e utilizzando nel complesso un linguaggio piuttosto discorsivo e non metafisico, presto “pastorale” è divenuto per Rahner il metro della teologia in quanto tale, sicché sussumendo da un’antropologia profana e da una rivelazione intesa come storia le categorie teologiche, la teologia stessa, nel suo insieme diventa pastorale, e la pastorale non deriverà più dalla teoria teologica, bensì dalla prassi. Qui il mondo con la sua concupiscenza entra nella dogmatica e la trasforma.

3.2. La distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione (sostanza e forma?)
Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura dell’11 ottobre 1962 aveva detto:
«Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto».
Il Pontefice qui invita la teologia a distinguere tra sostanza della fede e suo rivestimento; tra sostanza e forma esteriore o apparente. Si tratta di un problema di linguaggio? Il pontefice ci dice che bisogna adottare una nuova filosofia del linguaggio per superare il momento fatidico dell’in sé e di ciò che viene espresso, passando per le maglie di un forte soggettivismo di colui che dice e quindi già di una sua interpretazione? Crediamo che Giovanni XXIII non si riferisse ad un problema di linguaggio, ma in modo molto semplice volesse dire a tutti che la sostanza della fede non cambia, ma può esser meglio adattato ai tempi il linguaggio per comunicare la fede. Infatti UR 11 dirà:
«[…] la fede cattolica va spiegata, con maggior profondità ed esattezza, con un modo di esposizione e un linguaggio che possano essere compresi anche dai fratelli separati».
La teologia stava già da tempo coniando un nuovo linguaggio, accantonando per lo più quello metafisico-scolastico, per fare posto a quello più moderno, che diventerà poi, in alcuni teologi, l’adottare una filosofia esistenzialista e fenomenica. Questo principio, dunque, si è prestato a svariate letture, anche contraddittorie: da una teologia rinnovata basata sulle fonti del sapere rivelato, ad una teologia rinnovata, diventata pluralista in ragione del pluralismo filosofico, ebbra nel recepire il dato della modernità e senza troppe remore circa la sua fedeltà alla Rivelazione di Dio. Gran parte della teologia è divenuta un’antropologia. La Chiesa si è mondanizzata, secolarizzata. Sembra strano, ma il grimaldello è stato in gran parte la teologia: quella che in larga misura ha fatto il Concilio.

3.3. La gerarchia delle verità (UR 11) o piuttosto analogia delle verità?
Qui si entra in un discorso molto delicato. Il principio della gerarchia delle verità è enunciato da UR 11 che dice:
«Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana».
Il testo, letto nel contesto teologico ormai acquisito da così lungo tempo, si protende più verso un’analogia delle verità che verso una subordinazione di alcune verità ad altre fino a farle scomparire. Le verità rivelate hanno tutte pari dignità perché ci sono dette per la nostra salvezza e tutte promanano dall’unico Autore, Dio. Gerarchia o ordine, dovrebbe essere qui letto nel suo senso etimologico originario come origine sacra delle verità da Dio e nel loro rapporto analogico col fondamento della fede che è lo stesso Dio rivelantesi come verità, distinguendo tra fides qua e fides quem. A nessuno che legge il Concilio nella Chiesa e in linea con la sua Tradizione, verrebbe in mente di strumentalizzare le verità di fede, riconoscendone alcune – normalmente quelle che non piacciono al teologo – inferiori e di secondaria importanza rispetto ad altre. Questo però è stato fatto. Si pensi ad esempio ad H. Küng che vede in questo principio il punto di partenza per un dialogo ecumenico volto non più al ritorno dei fratelli separati nell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ma ad una conversione di tutti principiando dal dato storico inequivocabile di una giusta e motivata istanza portata dalla Riforma: quella di una spiritualizzazione e conversione della Chiesa. Un mero andare verso gli altri. Anche la Scuola bolognese vede in questo principio il punto di partenza per una mentalità veramente “conciliare”, che metta tutti insieme, diventata presto un programma politico, o forse già lo era.
 
Come si deve leggere dunque il principio della gerarchizzazione delle verità? Siamo al punto di partenza. Ma questo evidenzia che, se non si fa una lettura vera e teologica, nel senso alto di questa parola, di questi principi-primi del Vaticano II, tutto il resto facilmente risulta falsato. Risulterebbe, pertanto, veramente utile per i fedeli e per i teologi, un documento (metafisico) dogmatico del Magistero, per spiegare la retta origine e la retta interpretazione di questi principi, così da orientare poi il Popolo di Dio e i maestri della fede in primis, in una lettura corretta del Concilio, facendo vedere, in modo autentico, che l’unica ermeneutica giusta, che porta frutti, è quella della continuità e del progresso nella verità dell’unica Traditio Ecclesiae. È vero che il Magistero si è già pronunciato per dirimere i vari errori di interpretazione attestatisi, talvolta, proprio sui temi a cui abbiamo fatto riferimento. Questo però ancora non risolve il problema, per il fatto che, col prevalere di una certa visione di “conciliarità”, facilmente si è passati, in larga parte, ad un “neo-conciliarismo”: ci si continua ad appellare al Concilio e si dimentica, scorrettamente appunto, che il Magistero non si è congelato col Concilio. Il Papa è al di sopra del Concilio e pertanto solo lui può indicare in modo definitivamente dirimente quale è la giusta ermeneutica del Vaticano II.

p. Serafino M. Lanzetta, FI





Caterina63
00lunedì 10 agosto 2015 21:15

Convegno sul Vaticano II. Mons. Athanasius Schneider, Il primato del culto di Dio come fondamento di ogni vera teologia pastorale

 
Proseguiamo nell'analisi delle relazioni del Convegno di Roma sul concilio. Quella ora proposta è di Mons. Shneider, che è stata in questi giorni ripresa con ampio risalto anche da Sandro Magister , che la connota come "la richiesta di un nuovo Sillabo per il XXI secolo.

In effetti, Mons. Athanasius Schneider, dopo un lungo e articolato excursus di taglio teologico pastorale sulle "luci del Concilio" - che si collocano in quel livello, citato da Mons. Gherardini, nel quale il concilio riprende le verità già definite - ha affermato che la 'rottura' si manifesta nella svolta antropocentrica e nel campo Liturgico, mentre nella Sacrosantum Concilium non ce n'è traccia, ed è individuabile nel chiasso ermeneutico delle applicazioni contrastanti e nei gruppi eterodossi. In conclusione, egli ha invocato un "sillabo" con valore dottrinale, con completamenti e correzioni autorevoli in campo liturgico e pastorale. Ma, prima di questo, tutta la sua trattazione è una sintesi mirabile e magistrale della missione e della realtà della Chiesa, operata riprendendo e tracciando il filo conduttore fornito dai testi selezionati del Concilio stesso e dei pronunciamenti dei Papi, seguendone il filo aureo attraverso citazioni puntuali e rivelative; il che non toglie valore alla invocazione conclusiva, evidentemente mossa dagli effetti, ormai sotto gli occhi di tutti, delle applicazioni sconsiderate che hanno vanificato quel vero spirito che animava i papi del Concilio e certamente la pars maior et sanior dei Padri Conciliari.
Segue il testo della relazione:
____________________
Proposte per una corretta lettura del Concilio Vaticano IIIl primato del culto di Dio come fondamento di ogni vera teologia pastorale. Conferenza tenuta a Roma il 17 dicembre 2010. L'autore è vescovo ausiliare di Karaganda 
di Athanasius Schneider

I. Il fondamento teologico della teologia pastorale

Per parlare correttamente della teoria e della prassi pastorale è necessario prima essere consapevole del loro fondamento e del loro scopo teologico. Lo scopo della Chiesa è lo stesso scopo dell’Incarnazione: “propter nostram salutem”. Così la fede e la preghiera della Chiesa s’esprime: “Qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de caelis et incarnatus est et homo factus est”. Questa salvezza significa la salvezza dell’anima per la vita eterna. In ciò consiste anche la finalità di tutto l’ordinamento giuridico e pastorale della Chiesa, come ci dice l’ultimo canone del Codice del Diritto Canonico: “prae oculis habita salute animarum, quae in Ecclesia suprema semper lex esse debet” (can. 1752).

Il contenuto della salvezza dell’anima umana consiste nella santità, nel rinnovo e anzi nella perfezione dell’originaria dignità umana in Cristo. Dio ha creato l’uomo secondo Sua immagine e Sua somiglianza (cfr. Gen 1, 26) e quest’opera è mirabile, come dice la Chiesa nella liturgia: “Deus, qui humanae substantiae dignitatem mirabiliter condidisti”. Ma ancora più mirabile è il rinnovo e il perfezionamento di questa immagine avvenuto per l’opera della redenzione: “mirabilius reformasti”. Il rinnovo, la perfezione nuova, la santità consiste nell’inimmaginabile grazia della partecipazione dell’uomo alla natura Divina stessa: “Divinitatis esse consortes”. Questa partecipazione alla natura divina significa essere figli addottivi di Dio, essere figli nell’Unico Figlio, Gesù Cristo.

Gesù Cristo, l’unico Figlio di Dio secondo la natura, si è fatto per Sua vera Incarnazione il primogenito tra molti fratelli: “primogenitus in multis fratribus” (Rm 8, 29). Per mezzo del Suo sacrificio redentore Cristo offre all’uomo la grazia della vita Divina. La stessa vita Divina nel mistero della Santissima Trinità è presente nell’umanità del Figlio di Dio: “in Ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter”, in Lui tutta la divinità abita corporalmente (Col 2, 9). Cristo incarnato è pieno di grazia e di verità (cfr. Gv 1, 14). Lo Spirito Santo distribuisce da questa fonte di vita Divina per mezzo della Chiesa, che è il Corpo Mistico di Cristo, nella liturgia dei sacramenti, la grazia della filiazione Divina e tutte le altre grazie di santità necessarie. Così si può meglio capire ciò che ha insegnato il Concilio Vaticano II: “Liturgia est culmen ad quod actio Ecclesiae tendit et simul fons unde omnis eius virtus emanat” (Sacrosanctum Concilium, n. 10). “La liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore” (Sacrosanctum Concilium, n. 10).

II. Un vademecum pastorale del Concilio Vaticano II

Nel contesto del discorso circa il primato del culto e dell’adorazione che si devono rendere a Dio, il Concilio ci presenta nella Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium una solida sintesi di una sana e teologicamente valida teologia pastorale, una sorta di vademecum pastorale con le seguenti sette caratteristiche: “la Chiesa annunzia il messaggio della salvezza a coloro che ancora non credono, affinché tutti gli uomini conoscano l'unico vero Dio e il suo inviato, Gesù Cristo, e cambino la loro condotta facendo penitenza [cfr. Gv 17, 3; Lc 24, 17; At 2, 38]. Ai credenti poi essa ha sempre il dovere di predicare la fede e la penitenza; deve inoltre disporli ai sacramenti, insegnar loro ad osservare tutto ciò che Cristo ha comandato [cfr. Mt 28, 20], ed incitarli a tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato, per manifestare attraverso queste opere che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo mondo, sono tuttavia la luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini” (ibid., 9).

Da questa breve sintesi fornitaci dal Concilio possiamo stabilire le seguenti sette note essenziali di teoria e prassi pastorale.
  1. Il dovere di annunciare il Vangelo a tutti i non credenti (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

    Tale annuncio deve essere esplicito, cioè la fede in Gesù Cristo alla quale si arriva per mezzo della grazia della conversione e della penitenza. Quindi non vi è spazio per una teoria e una prassi di cosiddetto “cristianesimo anonimo”; non c’è nessuna ammissione di vie di salvezza alternative alla via di Cristo: Cristo è l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini. Questo è ciò che il Concilio insegna nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, dicendo: “questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza” (n. 14). Al punto n. 8 di questa stessa costituzione dogmatica, il Concilio dice: “Unicus Mediator Christus” (cfr. anche ibid., n. 28). Gli uomini salvati nell’eternità lo sono per l’accettazione nella loro vita terrena dei meriti dell’unico Mediatore Gesù Cristo (cfr. ibid., n. 49). Il Concilio Vaticano II istruisce riportando la seguente citazione del Concilio Tridentino: “per Filium eius Iesum Christum, Dominum nostrum, qui solus noster Redemptor et Salvator est” (ibid., n. 50). Nella Dichiarazione sulla libertà religiosa il Concilio insegna che ogni uomo è redento da Cristo Salvatore ed è chiamato alla filiazione Divina che può ricevere soltanto per mezzo della grazia della fede (cfr. Dignitatis humanae, n. 10).

    Papa Paolo VI nel suo discorso per l’apertura della seconda sessione del Concilio nell’anno 1963 così insegnava: “Gesù Cristo è l’unico e il sommo Maestro e Pastore, e l’unico Mediatore fra Dio e gli uomini” (Sacrosanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum II. Constitutiones, Decreta, Declarationes, Città del Vaticano 1966, p. 905). Lo stesso Papa ripeteva al Concilio l’anno seguente: “Gesù Cristo è l’unico Mediatore e Redentore” (ibd., p. 989). L’insegnamento del Concilio così prosegue: “E poiché chi non crede è già condannato, è evidente che le parole di Cristo sono insieme parole di condanna e di grazia, di morte e di vita” (Ad gentes, n. 8). L’attività missionaria è un sacro dovere della Chiesa, poiché è la volontà di Dio stesso che ribadisce la necessità della fede in Cristo e del battesimo per la salvezza eterna (cf. ibid., n. 7).
  2. Il dovere di predicare ai fedeli la fede (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

    Il compito primario della Chiesa consiste nel preoccuparsi che la fede dei fedeli cresca e sia protetta dal pericolo dell’errore: ciò significa quindi prendersi cura della purezza, della completezza e della vitalità della fede. Già nel discorso per l’apertura del Concilio Vaticano II il Beato Papa Giovanni XXIII dichiarava inequivocabilmente, in un modo ancora più efficace, come il principale dovere del Concilio fosse la protezione e la promozione della dottrina della fede: “ut sacrum christianae doctrinae depositum efficaciore ratione custodiatur atque proponatur” (loc. cit., p. 861). Il Beato Pontefice prosegue sostenendo come, nell’esercizio di questo suo dovere nel nostro tempo, la Chiesa non debba mai distogliere i propri occhi dal sacro patrimonio della verità, ricevuto dalla Tradizione. Il Concilio deve trasmettere la dottrina cattolica integra, senza diminuirla e senza distorcerla: “integram, non imminutam, non detortam tradere vult doctrinam catholicam”. Papa Giovanni molto realisticamente osserva come ciò non sia a tutti gradito. E’ quindi necessario, dice il Papa, che l’intera dottrina cristiana sia accolta nei nostri giorni da parte di tutti, e ciò senza tralasciare alcuna sua parte: “oportet ut universa doctrina christiana, nulla parte inde detracta, his temporibus nostris ob omnibus accipiatur” (ibd., 864).

    Nell’accettare e promuovere l’intera dottrina della fede deve essere seguito un modo accurato quanto alla forma e ai concetti, e ciò sull’esempio del Concilio di Trento e del Concilio Vaticano I, secondo quanto ribadisce Papa Giovanni XXIII. Nella Dichiarazione sulla libertà religiosa il Concilio ammonisce i fedeli perché “s'adoperino a diffondere la luce della vita con ogni fiducia e con fortezza apostolica, fino all'effusione del sangue” (Dignitatis humanae, n. 14). Inoltre essi hanno “il dovere grave di conoscere pienamente la verità rivelata, di annunciarla fedelmente e di difenderla con fierezza” (ibd.). Nella Costituzione pastoraleGaudium et Spes, il Concilio esorta: “Amore e amabilità non devono in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi è l'amore stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la verità che salva” (n. 28). Papa Paolo VI nel discorso per l’apertura della seconda sessione del Concilio Vaticano II affermava: “Il fondamento del rinnovamento della Chiesa deve essere uno studio più impegnativo ed una promozione più ricca della verità Divina” (cfr. loc. cit., p. 913).

    Nel Decreto sull’apostolato dei fedeli laici il Concilio si esprime in questi termini: “In questo nostro tempo si diffondono gravissimi errori che cercano di abbattere dalle fondamenta la religione, l'ordine morale e la stessa società umana” (Apostolicam actuositatem, n. 6). Nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes il Concilio costatava come già a quel tempo si divulgassero gravi errori morali ed esortava tutti i cristiani a difendere e promuovere la dignità naturale e l'altissimo valore sacro dello stato matrimoniale (cfr. n. 47). Il Concilio nello stesso documento riprova i costumi immorali in relazione al matrimonio e alla virtù della castità, dicendo che la dignità del matrimonio e della famiglia “è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni. Per di più l'amore coniugale è molto spesso profanato dall'egoismo, dall'edonismo e da pratiche illecite contro la fecondità. Inoltre le odierne condizioni economiche, socio-psicologiche e civili portano turbamenti non lievi nella vita familiare” (ibid.). Il Concilio dà un insegnamento inequivocabile sulla castità matrimoniale: “I figli della Chiesa nel regolare la procreazione non potranno seguire strade che sono condannate dal Magistero nella spiegazione della legge divina (cfr. Pio XI, Casti Connubii). Del resto, tutti sappiamo che la vita dell'uomo e il compito di trasmetterla non sono limitati agli orizzonti di questo mondo e non vi trovano né la loro piena dimensione, né il loro pieno senso, ma riguardano il destino eterno degli uomini” (ibid., n. 51).

    Nel Decreto sull’attività missionaria il Concilio esorta perché sia esclusa ogni forma di indifferentismo, di sincretismo, di confusionismo (Ad Gentes, n. 15). Nella costituzioneGaudium et Spes il Concilio rigetta un umanesimo puramente terrestre e antireligioso (cfr. n. 56). Lo stesso documento conciliare parla di un umanesimo ateista che non soltanto minaccia la fede, ma persino esercita un’influenza negativa e globalizzante su tutte le sfere della vita sociale: “Moltitudini crescenti praticamente si staccano dalla religione. A differenza dei tempi passati, negare Dio o la religione o farne praticamente a meno, non è più un fatto insolito e individuale. Oggi infatti non raramente un tale comportamento viene presentato come esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di umanesimo. Tutto questo in molti paesi non si manifesta solo a livello filosofico, ma invade in misura notevolissima il campo delle lettere, delle arti, dell'interpretazione delle scienze umane e della storia, anzi la stessa legislazione: di qui il disorientamento di molti” (ibid., n. 7).

    Papa Paolo VI nella sua omelia in occasione dell’ultima sessione pubblica del Concilio Vaticano II afferma che il Concilio propone agli uomini del nostro tempo una dottrina teocentrica e teologica sulla natura umana e sul mondo (cfr. loc. cit., pp. 1064-1065). Nell’omelia tenuta nella settima sessione pubblica del Concilio Vaticano II, il 28 ottobre 1965, Papa Paolo VI spiega che, nonostante la generale indole pastorale del Concilio, esso intende proporre la perenne ed autentica dottrina della Chiesa, escludendo il relativismo dottrinale; il Concilio compie un’opera “che non storicizza, non relativizza alle metamorfosi della cultura profana la natura della Chiesa sempre eguale e fedele a se stessa, quale Cristo la volle e la autentica tradizione la perfezionò, ma la rende meglio idonea a svolgere nelle rinnovate condizioni dell’umana società la sua benefica missione” (loc. cit., pp. 1039-1040).

    Nel discorso tenuto il medesimo anno 1965, in occasione dell’ottava sessione pubblica del Concilio, Papa Paolo VI critica il comportamento di coloro i quali interpretano scorrettamente e abusivamente l’intenzione del Beato Papa Giovanni XXIII circa l’adattamento pastorale della Chiesa alle nuove necessità del nostro tempo (“l’aggiornamento”). Inoltre il Papa propone lo spirito del Concilio a questo riguardo e mette tutti in guardia contro il relativismo dottrinale e giuridico, affermando che Papa Giovanni XXIII “a questa programmatica parola non voleva certamente attribuire il significato che qualcuno tenta di darle, quasi essa consenta di «relativizzare» secondo lo spirito del mondo ogni cosa nella Chiesa, dogmi, leggi, strutture, tradizioni, mentre fu così vivo e fermo in lui il senso della stabilità dottrinale e strutturale della Chiesa da farne cardine del suo pensiero e della sua opera. Aggiornamento vorrà dire d’ora innanzi per noi penetrazione sapiente dello spirito del celebrato Concilio e applicazione fedele delle sue norme, felicemente e santamente emanate” (loc. cit., pp. 1053-1054). Nel testo originale latino Paolo VI non usa la parola “aggiornamento”, ma la parola “accomodatio”. La famosa espressione “aggiornamento” del Beato Giovanni XXIII è divenuta ormai leggendaria. Nella sua intenzione originale questa espressione non ha nulla a che vedere con un relativismo dottrinale, giuridico o liturgico.

    Il nuovo e benevolo atteggiamento pastorale di paziente comprensione e di dialogo con la società fuori della Chiesa, non comporta un relativismo dottrinale. Papa Paolo VI difende il Concilio da una tale possibile accusa nella citata omelia durante la settima sessione pubblica: “Questo atteggiamento... è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo. Noi non crediamo che questo malanno si debba ad esso imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni” (loc. cit., p. 1067). Paolo VI difende qui soltanto le vere e profonde intenzioni e le autentiche manifestazioni del Concilio, non entrando nel merito delle persone.

    Il Concilio rigetta espressamente ogni tipo di sincretismo religioso nell’attività missionaria ed esige che le tradizioni particolari dei popoli vengano illuminate dalla luce del Vangelo, lasciando intatto il primato della cattedra di Pietro (cfr. Ad Gentes, n. 22).







 

Caterina63
00lunedì 10 agosto 2015 21:17

  1. Il dovere di predicare ai fedeli la penitenza (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

    Non si può parlare di una vera dottrina e prassi pastorale senza l’elemento essenziale della penitenza nella vita della Chiesa e dei fedeli. Ogni vero rinnovamento della Chiesa nella storia si effettuava con lo spirito e la prassi della penitenza cristiana. Nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium n. 8, si afferma che la Chiesa deve avanzare continuamente sul cammino della penitenza e del rinnovamento. Poi si dice che i fedeli devono vincere in se stessi il regno del peccato con l'abnegazione di sé e con la vita santa (cfr. ibid., n. 36). Nell’attività missionaria i figli della Chiesa non devono arrossire dello scandalo della croce (cfr. Ad Gentes, n. 24).

    Si può capire meglio il vero spirito di questi insegnamenti conciliari circa la necessità della penitenza se si considera il fatto che, in vista dell’imminente apertura del Concilio, il Beato Papa Giovanni XXIII il 1 luglio 1962, festa del Preziosissimo Sangue, dedicò una propria Enciclica sulla necessità della penitenza dal titolo “Paenitentiam agere”. Si trattava di un pressante invito al mondo cattolico ed un’esortazione ad una più intensa preghiera ed ad una penitenza propiziatrice di Grazie sul concilio imminente. Il Papa indicava il pensiero e la prassi della Chiesa come pure l’esempio dei precedenti concili, ribadendo la necessità della penitenza interna ed esterna come cooperazione alla divina redenzione. Concretamente Papa Giovanni XXIII raccomandava nelle singole diocesi una funzione penitenziale propiziatoria, spiegando come “con le opere di misericordia e di penitenza tutti i fedeli cerchino di propiziare Dio onnipotente e di implorare da lui quel vero rinnovamento dello spirito cristiano, che è uno degli scopi precipui del concilio” (n. II, 2). Il Papa prosegue dicendo: “Infatti, giustamente osservava il Nostro predecessore Pio XI di venerata memoria: «La preghiera e la penitenza sono i due mezzi messi a disposizione da Dio nella nostra età per ricondurre ad Esso la misera umanità qua e là errante senza guida; sono essi che tolgono via e riparano la causa prima e principale di ogni sconvolgimento, cioè la ribellione dell'uomo a Dio» (Litt. enc. Caritate Christi compulsi)” (ibd.). Giovanni XXIII rivolgeva la seguente ardente esortazione ai vescovi: “Venerabili fratelli, adoperatevi senza indugio con ogni mezzo che è in vostro potere, affinché i cristiani affidati alle vostre cure purifichino il loro spirito con la penitenza e si accendano a maggior fervore di pietà” (n. II, 3).

    Lo spirito di penitenza e di espiazione deve sempre animare ogni vero rinnovamento della Chiesa, quale Papa Giovanni XXIII auspicava che venisse prodotto dal Concilio Vaticano II. Questo atteggiamento protegge la Chiesa dallo spirito di attivismo terreno. Così il Papa insegnava nella fine della sua enciclica: ”Tutto il popolo cristiano, in ossequio alla Nostra esortazione, dedicandosi più intensamente alla preghiera e alla pratica della mortificazione, offrirà un mirabile e commovente spettacolo di quello spirito di fede, che deve animare indistintamente ogni figlio della Chiesa. Ciò non mancherà di scuotere salutarmente anche l'animo di coloro che, eccessivamente preoccupati e distratti dalle cose terrene, si sono lasciati andare alla trascuranza dei loro doveri religiosi” (ibid.). Nelle seguenti parole si può cogliere quel vero spirito che animava il papa del Concilio e certamente la pars maior et sanior dei Padri Conciliari: “Bisogna che i cristiani reagiscano con la fortezza dei martiri e dei santi, che sempre hanno illustrato la chiesa cattolica. In tal modo tutti potranno contribuire, secondo il loro stato particolare, alla migliore riuscita del Concilio Ecumenico Vaticano II, che deve appunto portare a un rifiorimento della vita cristiana” (ibid., n. II, 2).
  2. Il dovere di disporre i fedeli ai sacramenti (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

    Il Concilio nella costituzione dogmatica Lumen Gentium insegna che i sacramenti sono i mezzi principali per mezzo dei quali tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore alla perfezione della santità (cfr. n. 11). Il fine principale dei sacramenti consiste, secondo la Sacrosanctum Concilium n. 59, nella santificazione degli uomini, nell’edificazione del Corpo Mistico di Cristo e nel culto che si rende a Dio. Raramente durante la storia della Chiesa il Magistero supremo ha tanto insistito sull’importanza e sulla centralità della sacra liturgia, e particolarmente del Sacrificio Eucaristico, come ha invece fatto il Concilio Vaticano II. Il fatto che il primo documento del Concilio ad essere discusso ed approvato fosse dedicato alla liturgia, cioè al culto Divino, è significativo e manifesta questo chiaro messaggio del primato di Dio: Dio e il culto d’adorazione che la Chiesa rende a Lui, devono occupare il primo posto in tutta la vita e attività della Chiesa. La Sacrosanctum Concilium ci insegna: “Sacra Liturgia est precipue cultus divinae maiestatis” (n. 33), e per questo il culto della maestà divina deve essere il culmine di tutta l’attività della Chiesa: “Liturgia est culmen ad quod actio Ecclesiae tendit et simul fons unde omnis eius virus emanat” (n. 10).

    La sacra liturgia è primariamente e necessariamente la vera fonte dello spirito cristiano, dice il decreto sulla formazione sacerdotale (cfr. Optatam Totius, n. 16). La finalità di tutti i sacramenti si trova a sua volta nel mistero eucaristico, sostiene il Decreto sul ministero e la vita dei sacerdoti citando san Tommaso d’Aquino: “Eucharistia est omnium sacramentorum finis” (Summa theol. III, q. 73, a.3 c) e aggiunge: “In Sanctissima enim Eucharistia totum bonum spirituale Ecclesiae continetur” (cfr. S. Thomas, Summa theol., III, q. 65, a. 3, ad 1), (cfr. Presbyterorum Ordinis, n. 5). Dice ancora lo stesso documento che l’Eucaristia è la fonte e il culmine di tutta l’evangelizzazione, quindi a maggior ragione l’Eucaristia è la fonte ed il culmine di tutta la vita pastorale della Chiesa. Nella Sacrosanctum Concilium troviamo questa sintesi: “Particolarmente dall’Eucaristia deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini e quella glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa” (n. 10).
  3. Il dovere di insegnare ai fedeli tutti i comandamenti di Dio (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

    Un altro elemento dell’attività pastorale è questo: “la Chiesa deve insegnare ai fedeli tutto ciò che Cristo ha comandato” (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9). I Pastori della Chiesa hanno quindi il dovere di insegnare le leggi ed i comandamenti Divini in tutta loro integrità. Nella Dichiarazione sulla libertà religiosa il Concilio afferma: “la legge divina, che è eterna, oggettiva e universale, è la norma suprema della vita umana e deve ordinare, dirigere e governare tutte le vie della comunità umana” (cf. Dignitatis Humanae, n. 3). La Costituzione pastorale Gaudium et Spes sostiene: “L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato” (cfr. n. 16). Lo stesso documento pastorale afferma: “i coniugi cristiani siano consapevoli che non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che sia conforme alla legge divina stessa; e siano docili al magistero della Chiesa, che interpreta in modo autentico quella legge alla luce del Vangelo” (cf. Gaudium et Spes, n. 50).

    Il Concilio prosegue affermando: “la dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo” (cfr. ibid., n. 43). Tale errore è divenuto ancora più manifesto negli ultimi anni in cui si osserva il fenomeno di persone che pur professandosi cattoliche, nello stesso tempo appoggiano leggi contrarie alle legge naturale e alla legge Divina e contraddicono apertamente il Magistero della Chiesa. Come risuonano attuali queste parole del Concilio: “Non si crei perciò un'opposizione artificiale tra le attività professionali e sociali da una parte, e la vita religiosa dall'altra” (Gaudium et Spes, n. 43). La vita morale, domestica, professionale, scientifica, sociale deve essere guidata dalla fede e in tal modo ordinata alla gloria di Dio (cfr. ibd.). Costatiamo di nuovo in questi insegnamenti del Concilio l’importanza del primato della volontà di Dio e della Sua gloria nella vita di ogni fedele e di tutta la Chiesa. Il Concilio afferma questo non soltanto in un documento sulla liturgia, ma nel documento pastorale per eccellenza: la Costituzione pastorale “Gaudium et Spes”.
  4. Il dovere di promuovere l’apostolato dei fedeli laici (cfr. Sacrosanctum Concilium, n.9)

    Un altro punto essenziale della vita pastorale è questo: “la Chiesa deve incitare i fedeli a tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato” (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9). In questo punto risiede il gran contributo storico del Concilio Vaticano II alla valorizzazione della dignità e del ruolo specifico dei fedeli laici nella vita e nell’attività della Chiesa. Si può dire che esso è uno sviluppo organico ed un coronamento del magistero di Papa Pio XI circa la questione dei fedeli laici. La Costituzione dogmatica Lumen Gentium ci presenta una formidabile sintesi sulla questione dei fedeli laici nella Chiesa e nel mondo con un solido fondamento teologico ed una chiara indicazione pastorale, dicendo: “Inoltre i laici risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo. Per l'economia stessa della salvezza imparino i fedeli a ben distinguere tra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto membri della Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della società umana. Cerchino di metterli in armonia fra loro, ricordandosi che in ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana, poiché nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al comando di Dio. Nel nostro tempo è sommamente necessario che questa distinzione e questa armonia risplendano nel modo più chiaro possibile nella maniera di agire dei fedeli, affinché la missione della Chiesa possa più pienamente rispondere alle particolari condizioni del mondo moderno. Come infatti si deve riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri principi, così a ragione è rigettata l’infausta dottrina che pretende di costruire la società senza alcuna considerazione per la religione e impugna ed elimina la libertà religiosa dei cittadini” (n. 36).

    Qui il Concilio condanna il laicismo, senza utilizzare la parola, citando Leone XIII (Encicl.Immortale Dei, 1° nov. 1885: ASS 18 (1885), pp. 166ss. Idem, Encicl. Sapientiae Christianae, 10 genn. 1890: ASS 22 (1889-90), pp. 397ss. Pio XII, Disc. Alla vostra filiale, 23 marzo 1958: AAS 50 (1958), p. 220), diceva che: “la legittima sana laicità dello Stato è uno dei principi della dottrina cattolica” (ibid.). Il Papa continuava, dicendo: “la vita dei singoli, la vita delle famiglie, la vita delle grandi e piccole collettività, sarà alimentata dalla dottrina di Gesù Cristo, che è amore di Dio e, in Dio, amore del prossimo”. Questa dottrina trova negli elementi essenziali un’eco chiara sia nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa sia nella Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II.

    Sulla vocazione propria dei laici il Concilio dice: “è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (Lumen Gentium, n. 31). Nel decreto sull’apostolato dei laici il Concilio parla dell’idolatria delle cose temporali a causa di un'eccessiva fiducia nel progresso delle scienze naturali e della tecnica (cf. Apostolicam Actuositatem, n. 7). Il Concilio prosegue affermando che la vita matrimoniale e familiare è l'esercizio e la scuola per eccellenza dell’apostolato dei laici (Lumen Gentium, n. 35). Infatti, la vita matrimoniale e familiare è il luogo, dove la religione cristiana permea tutta l'organizzazione della vita e ogni giorno più la trasforma. La famiglia cristiana proclama ad alta voce allo stesso tempo le virtù presenti del regno di Dio e la speranza della vita beata. Così, col suo esempio e con la sua testimonianza, accusa il mondo di peccato e illumina quelli che cercano la verità (ibd.). Possiamo costatare oggi, come attuale è questa espressione del Concilio: la famiglia cristiana e cattolica è una viva accusa del mondo, accusando il mondo di peccato.

    La forma peculiare dell’apostolato dei laici consiste nella testimonianza della vita di fede, di speranza e di carità: si esclude quindi un apostolato di attivismo e di interessi terreni. Possiamo individuare nel decreto sui laici un breve vademecum dell’apostolo laico, dove il Concilio insegna che la forma interna dell’apostolo laico deve essere la conformazione al Cristo sofferente e che la finalità del suo apostolato è la salvezza eterna degli uomini nel mondo. Il Concilio dice: “Si ricordino tutti che, con il culto pubblico e la preghiera, con la penitenza e la spontanea accettazione delle fatiche e delle pene della vita, con cui si conformano a Cristo sofferente (cfr. 2 Cor 4,10; Col 1,24), essi possono raggiungere tutti gli uomini e contribuire alla salvezza di tutto il mondo” (Apostolicam Actuositatem, n. 16). Spesso l’apostolo laico a causa della sua fedeltà a Cristo, mette in pericolo persino la sua vita, dice il Concilio (cfr. ibd., n.17).
  5. Il dovere di promuovere la vocazione di tutti alla santità (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9)

    L’ultima nota essenziale dell’attività pastorale della Chiesa consiste nel promuovere la vocazione di tutti alla santità, dicendo che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo mondo, devono essere tuttavia la luce del mondo (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 9). Più specificamente il Concilio tratta questo tema nel capitolo quinto della Costituzione dogmatica Lumen Gentium, nn. 39 – 42: “De universali vocatione ad sanctitatem in Ecclesia”. In ciò si può vedere il contributo veramente storico, più specifico e proprio del Concilio Vaticano II. La santità consiste in fondo nell’imitazione di Cristo, di Cristo povero e umile, di Cristo che porta la Croce, dice la Costituzione Lumen Gentium, n. 41. L’imitazione di Cristo attinge il suo culmine nel martirio, nella testimonianza coraggiosa di Cristo davanti agli uomini (cfr. ibid., n. 42). Il Concilio dice: “Tutti devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa” (ibid.).

III. L’autentica intenzione e finalità del Concilio Vaticano II

Per una corretta lettura dei testi del Concilio Vaticano II bisogna tener conto anche della caratteristica specifica del tempo in cui esso si è svolto. Nell’omelia di Papa Paolo VI, durante l’ultima congregazione generale del Concilio Vaticano II il 7 dicembre 1965, il Pontefice dà la seguente descrizione del periodo storico in cui si celebrava il Concilio Vaticano II: “Il tempo in cui esso si è compiuto, un tempo che ognuno riconosce come rivolto alla conquista del regno della terra piuttosto che al regno dei cieli, un tempo in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico, un tempo in cui l’atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente, un tempo in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società, un tempo, inoltre, nel quale le espressioni dello spirito raggiungono vertici d’irrazionalità e di desolazione, un tempo, infine, che registra anche nelle grandi religioni etniche del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate. In questo tempo si è celebrato il nostro Concilio a onore di Dio” (loc, cit., pp. 1063-1064).

Secondo un’espressione del Beato Papa Giovanni XXIII nel discorso tenuto in occasione dell’ultima congregazione generale della prima sessione del Concilio, il 7 dicembre 1962, l’unica finalità del Concilio e l’unica speranza e fiducia del Papa e dei Padri Conciliari consiste in questo: “Far conoscere sempre più agli uomini del nostro tempo il Vangelo di Cristo, farlo praticare di buon animo e farlo penetrare incisivamente in ogni aspetto della civiltà” (loc. cit., pp. 881-882). Può esistere un principio e un metodo pastorale più autentico e più cattolico di questo?

Nel discorso per la chiusura della prima sessione del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1962, Papa Giovanni XXIII così presentava la vera finalità del Concilio e i suoi desiderati frutti spirituali: “Perché la Santa Chiesa, ferma nella fede, rinsaldata nella speranza e più ardente nella carità, fiorisca di un nuovo e giovanile vigore, e, munita di leggi sacrosante, sia più efficiente e più risoluta nell’ampliare il Regno di Cristo” (Lettera autografa Ai Vescovi della Germania dell’11 gennaio 1962)... Allora il Regno di Cristo sulla terra sarà dilatato da una nuova crescita. Allora nel mondo risuonerà più alto e più soave il lieto annunzio dell’umana Redenzione, dal quale vengono confermati i supremi diritti di Dio Onnipotente, i vincoli di carità fraterna tra gli uomini, la pace che è stata promessa su questa terra agli uomini di buona volontà” (loc. cit., p. 891). Secondo l’intenzione e il desiderio del santo pontefice Giovanni XXIII il Concilio Vaticano II deve fortemente contribuire al seguente fine: “che nell’intera famiglia umana crescano abbondantissimi i frutti della fede, della speranza e della carità”. In questo consiste, secondo le parole di Giovanni XXIII, la singolare importanza e dignità del Concilio (cf. ibid.).

IV. La sfida d’interpretazioni contrastanti

Per un’interpretazione corretta è necessario tenere conto dell’intenzione manifestata negli stessi documenti conciliari e nelle parole specifiche dei Papi conciliari Giovanni XXIII e Paolo VI. Infine è necessario scoprire il filo conduttore di tutta l’opera del Concilio, che è la salus animarum, cioè l’intenzione pastorale. Questa, a sua volta, dipende ed è subordinata alla promozione del culto Divino e della gloria di Dio, cioè dipende dal primato di Dio. Questo primato di Dio nella vita ed in tutta l’attività della Chiesa è manifestato inequivocabilmente dal fatto che la costituzione sulla liturgia occupa intenzionalmente e cronologicamente il primo posto nella vasta opera del Concilio. Le sette note essenziali di una teoria e prassi pastorale si trovano esattamente nella costituzione che tratta del culto di Dio e della santificazione degli uomini, al n. 9 della Sacrosanctum Concilium, ed esse sono:
  1. L’urgenza di predicare Cristo ai non credenti perché si convertano.
  2. La cura massima circa la predicazione della dottrina della fede.
  3. Il ruolo essenziale della penitenza nella vita della Chiesa.
  4. I sacramenti come mezzi principali della salvezza e santificazione, dove l’Eucaristia occupa il posto centrale e culminante.
  5. L’integrità della dottrina morale.
  6. L’apostolato dei fedeli laici nella Chiesa e nella società umana.
  7. La vocazione universale alla santità.
La caratteristica della rottura nell’interpretazione dei testi conciliari si manifesta in modo più stereotipato e diffuso nella tesi di una svolta antropocentrica, secolarizzante o naturalistica del Concilio Vaticano II riguardo alla tradizione ecclesiale precedente. Una delle manifestazioni più note di una tale interpretazione sbagliata è stata, p.e., la cosiddetta Teologia della Liberazione e la sua susseguente devastante prassi pastorale. Quale contrasto vi sia tra questa Teologia della Liberazione e la sua prassi ed il Concilio, appare evidente dal seguente insegnamento conciliare: “la missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d'ordine politico, economico o sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è d'ordine religioso” (cfr. Gaudium et Spes, 42). Dice poi lo stesso documento, che la natura e la missione della Chiesa non sono legate ad alcun particolare sistema politico, economico o sociale (cfr. ibid.). La Costituzione Gaudium et Spes cita le seguenti parole di Pio XII.: “Il suo Divino Fondatore, Gesù Cristo, non ha conferito alla Chiesa nessun mandato né fissato alcun fine d’ordine culturale. Lo scopo che il Cristo le assegna è strettamente religioso. La Chiesa deve condurre gli uomini a Dio, perché si donino a lui senza riserva. La Chiesa non può perdere mai di vista questo fine strettamente religioso, soprannaturale. Il senso di ogni sua attività, fino all’ultimo canone del suo Codice, non può che riferirsi ad esso direttamente o indirettamente” (Pio XII, Discorso a cultori di storia e di arte, 9 marzo 1956: AAS 48 (1956), p. 212).

Un’interpretazione di rottura di peso dottrinalmente più leggero si manifestava nel campo pastorale-liturgico. Si può menzionare a tal proposito il calo del carattere sacro e sublime della liturgia e l’introduzione di elementi gestuali più antropocentrici. Questo fenomeno si evidenzia in tre pratiche liturgiche assai note e diffuse nella quasi totalità delle parrocchie dell’orbe cattolico: la scomparsa quasi totale dell’uso della lingua latina, la ricezione del Corpo Eucaristico di Cristo direttamente sulla mano e in piedi e la celebrazione del Sacrificio Eucaristico nella modalità di un cerchio chiuso in cui sacerdote e popolo continuamente si guardano vicendevolmente in faccia. Questo modo di pregare, cioè il non essere rivolti tutti nella medesima direzione, che è un’espressione corporale e simbolica più naturale rispetto alla verità di essere tutti spiritualmente rivolti a Dio nel culto pubblico, contraddice la pratica che Gesù stesso e Suoi Apostoli hanno osservano nella preghiera pubblica sia nel tempio sia nella sinagoga. Contraddice inoltre la testimonianza unanime dei Padri e di tutta la tradizione posteriore della Chiesa orientale ed occidentale. Queste tre pratiche pastorali e liturgiche di clamorosa rottura con la legge della preghiera mantenuta dalle generazioni dei fedeli cattolici durante almeno un millennio, non trovano nessun appoggio nei testi conciliari, anzi piuttosto contraddicono sia un testo specifico del Concilio (sulla lingua latina cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 36 § 1; 54), sia la "mens", la vera intenzione dei Padri conciliari, come lo si può verificare nei Atti del Concilio.

Nel chiasso ermeneutico delle interpretazioni contrastanti e nella confusione d’applicazioni pastorali e liturgiche, appare come unico interprete autentico dei testi conciliari il Concilio stesso unitamente al Papa. Si potrebbe porre un’analogia con il clima ermeneutico confuso dei primi secoli della Chiesa, provocato da interpretazioni bibliche e dottrinali arbitrarie da parte di gruppi eteredossi. Nella sua famosa opera "De praescriptione haereticorum" Tertulliano poteva contrapporre agli eretici di diverso orientamento il fatto che solamente la Chiesa possiede la "praescriptio", cioè soltanto la Chiesa è la proprietaria legittima della fede, della parola di Dio e della tradizione. Con questo nelle dispute sulla vera interpretazione la Chiesa può respingere gli eretici "a limine fori". Soltanto la Chiesa può dire, secondo Tertuliano: “Ego sum heres Apostolorum” (Praescr., 37, 3). Parlando analogicamente, soltanto il Magistero supremo del Papa o di un possibile futuro Concilio Ecumenico potrà dire: “Ego sum heres Concilii Vaticani II”.

Nei decenni scorsi esistevano, e finora esistono, raggruppamenti all’interno della Chiesa che operano un enorme abuso del carattere pastorale del Concilio e dei suoi testi, scritti secondo questa intenzione pastorale, giacché il Concilio non voleva presentare propri insegnamenti definitivi o irreformabili. Dalla stessa natura pastorale dei testi del Concilio s’evidenzia che i suoi testi sono di principio aperti a completamenti ed ad ulteriori precisazioni dottrinali. Tenendo conto dell’ormai pluridecennale esperienza delle interpretazioni dottrinalmente e pastoralmente sbagliate e contrarie alla continuità bimillenaria della dottrina e della preghiera della fede, sorge la necessità e l’urgenza di un intervento specifico ed autorevole del Magistero pontificio per un’interpretazione autentica dei testi conciliari con completamenti e precisazioni dottrinali; una specie di "Syllabus errorum circa interpretationem Concilii Vaticani II". C’è bisogno di un nuovo Sillabo, questa volta diretto non tanto contro gli errori provenienti al di fuori dalla Chiesa, ma contro gli errori diffusi dentro della Chiesa da parte dei sostenitori della tesi della discontinuità e della rottura con sua applicazione dottrinale, liturgica e pastorale. Un tale Sillabo dovrebbe costare di due parti: la parte che segnala gli errori e la parte positiva con delle proposizioni di chiarimento, completamento e precisazione dottrinale.

S’evidenziano due raggruppamenti che sostengono la teoria della rottura. Uno di questo raggruppamento tenta di protestantizzare dottrinalmente, liturgicamente e pastoralmente la vita della Chiesa. Dal lato opposto ci sono quei gruppi tradizionalisti che, a nome della tradizione, rigettano il Concilio e si sottraggono alla sottomissione al supremo vivente Magistero della Chiesa, al visibile Capo della Chiesa, il Vicario di Cristo sulla terra, sottomettendosi per ora soltanto al Capo invisibile della Chiesa, aspettando dei tempi migliori.

Papa Paolo VI così spiegava durante il Concilio il significato del vero rinnovamento della Chiesa: “Noi pensiamo che su questa linea debba svilupparsi la psicologia nuova della Chiesa: clero e fedeli troveranno un magnifico lavoro spirituale da svolgere per il rinnovamento della vita e dell’azione secondo Cristo Signore; ed a questo lavoro Noi invitiamo i Nostri Fratelli ed i Nostri Figli: coloro che amano Cristo e la Chiesa siano con noi nel professare più chiaramente il senso della verità, proprio della tradizione dottrinale che Cristo e gli Apostoli inaugurarono; e con esso il senso della disciplina ecclesiastica e dell’unione profonda e cordiale, che tutti ci fa fidenti e solidali, come membra d’un medesimo corpo” (Paolo VI, Discorso nell’ottava sessione pubblica del Concilio Vaticano II, il 18 novembre 1965, loc. cit., p. 1054).

Papa Paolo VI, spiegando la mens del Concilio, affermava nel discorso durante l’ottava sessione pubblica: “Affinché tutti siano confortati in questo rinnovamento spirituale proponiamo alla Chiesa di ricordare piamente le parole e gli esempi degli ultimi due Nostri Predecessori, Pio XII e Giovanni XXIII, a cui la Chiesa medesima e il mondo tanto sono debitori; e disponiamo a tal fine che siano canonicamente iniziati i processi di beatificazione di quegli eccelsi e piissimi e a Noi carissimi Sommi Pontefici. Sarà così assecondato il desiderio, che per l’uno e per l’altro è stato in tal senso espresso da innumerevoli voci; sarà così assicurato alla storia il patrimonio della loro eredità spirituale; sarà evitato che alcun altro motivo, che non sia il culto della vera santità e cioè la gloria di Dio e l’edificazione della sua Chiesa, ricomponga le loro autentiche e care figure per la nostra venerazione e per quella dei secoli futuri” (Paolo VI, Allocuzione nell’ottava sessione pubblica del Concilio Vaticano II, 18 novembre 1965, loc. cit., p. 1054).

C’erano in sostanza due impedimenti perché la vera intenzione del Concilio e il suo magistero potessero portare abbondanti e durevoli frutti. L’uno si trovava fuori della Chiesa, nel violento processo di rivoluzione culturale e sociale degli anni ’60, che come ogni forte fenomeno sociale penetrava dentro la Chiesa contagiando con il suo spirito di rottura vasti ambiti di persone e d’istituzioni. L’altro impedimento si manifestava nella mancanza di sapienti e allo stesso tempo di intrepidi Pastori della Chiesa che fossero pronti a difendere la purezza e l’integrità della fede e della vita liturgica e pastorale, non lasciandosi influenzare né dalla lode né dal timore (“nec laudibus, nec timore”).

Già il Concilio di Trento affermava in uno dei suoi ultimi decreti sulla riforma generale della Chiesa: “il santo sinodo, scosso dai tanti gravissimi mali che travagliano la Chiesa, non può non ricordare che la cosa più necessaria alla Chiesa di Dio è ... scegliere pastori ottimi e idonei; a maggior ragione, in quanto il signore nostro Gesù Cristo chiederà conto del sangue di quelle pecore che dovessero perire a causa del cattivo governo di pastori negligenti e immemori del loro dovere” (Sessio XXIV, Decretum de reformatione, can. 1). Il Concilio prosegue: “Quanto a tutti coloro che per qualunque ragione hanno da parte della Santa Sede qualche diritto per intervenire nella promozione dei futuri prelati o a quelli che vi prendono parte in altro modo... il santo Concilio li esorta e li ammonisce perché si ricordino anzitutto che essi non possono fare nulla di più utile per la gloria di Dio e la salvezza dei popoli, che impegnarsi a scegliere pastori buoni e idonei a governare la Chiesa” (ibid.).

C’è dunque davvero bisogno di un Sillabo conciliare con valore dottrinale ed inoltre c’è il bisogno dell’aumento del numero di Pastori santi, coraggiosi e profondamente radicati nella tradizione della Chiesa, privi di ogni specie di mentalità di rottura sia in campo dottrinale, sia in campo liturgico. Infatti, questi due elementi costituiscono l’indispensabile condizione affinché la confusione dottrinale, liturgica e pastorale diminuisca notevolmente e l’opera pastorale del Concilio Vaticano II possa portare molti e durevoli frutti nello spirito della tradizione, che ci collega con lo spirito che regnava in ogni tempo, dappertutto ed in tutti veri figli della Chiesa cattolica, che è l’unica e la vera Chiesa di Dio sulla terra.

Roma, 17 dicembre 2010
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"Concilio Ecumenico Vaticano II. Un Concilio pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica".

Convegno di studi sul Concilio Vaticano II per una sua giusta ermeneutica alla luce della Tradizione della Chiesa, organizzato dal Seminario Teologico "Immacolata Mediatrice" dei Francescani dell'Immacolata.

Istituto Maria SS. Bambina, via Paolo VI 21, Roma, 16-18 dicembre 2010.

 




 

Caterina63
00giovedì 27 agosto 2015 12:54
 INVITIAMO i nostri lettori e Visitatori a meditare sulla bella intervista rilasciata da mons. Nicola Bux al Blog amico: "Scuola Ecclesia Mater".

Ecco un breve passo di Don Bux:

La Chiesa è attraversata da una crisi di fede, che genera confusione e, come ho già detto mesi fa, porta all’affermazione di un pensiero non cattolico. Senonché, Gesù ha detto che chi è sapiente, sa estrarre dal tesoro cose nuove e cose antiche (cfr. Mt 13, 52). L’idea di una nuova Chiesa, ha attraversato la storia: dagli gnostici ai catari, da Gioacchino da Fiore a Lutero, da Giansenio agli attuali novatori. 
Il pensiero di sant’Agostino ha portato a coniare il detto: Novum Testamentum in Vetere latet, Vetum Testamentum in Novo patet (il Nuovo Testamento è adombrato nell’Antico, e questo trova compimento nel Nuovo): È difficile applicare questo al Vaticano II rispetto ai venti concili che l’hanno preceduto? Appare ragionevole chi sostiene che con questo concilio abbiamo una nuova visione di Chiesa? La Chiesa del Signore è sempre la stessa

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buona lettura

http://www.scuolaecclesiamater.org/2015/08/nuova-intervista-esclusiva-di-don.html 


mercoledì 26 agosto 2015

Nuova intervista esclusiva di don Nicola Bux su liturgia, motu proprio Summorum Pontificum, matrimonio e divorziati risposati

Dopo una prima intervista concessaci lo scorso marzo, don Nicola Bux, che ringraziamo, ce ne ha concessa un’altra sui temi oggi più dibattuti riguardo all’applicazione del m.p.Summorum Pontificum e su quelle che saranno le problematiche all’attenzione del prossimo Sinodo ordinario, in ottobre, sulla famiglia.
Caro don Nicola, ti ringrazio di aver concesso al nostro blog una tua nuova breve intervista.Permettimi di cominciare, entrando subito nel vivo.

1. Si è sostenuto che il m.p. del 2007 del papa Benedetto XVI, Summorum Pontificum, mirasse alla pacificazione liturgica tra gli amanti del rito antico e quelli del rito nato a seguito delle riforme di papa Montini. Si è però obiettato che tale atto del papa-teologo, in verità, non abbia portato ad alcuna pacificazione, ma anzi abbia generato o, secondo alcune visioni accentuato, pure da un punto di vista pastorale, delle fratture esistenti nelle comunità ecclesiali, anche all’interno di una stessa parrocchia! In effetti, talora si è lamentato che una diversa celebrazione, compiuta peraltro pure in giorni diversi, non faciliti l’unità pastorale. Basti pensare, ad es., ad alcune feste e ricorrenze liturgiche che sono celebrate in giorni diversi nel rito antico e nel rito riformato. Ecco, come giudichi ad otto anni dalla sua entrata in vigore il m.p. papale? Può farci un bilancio? Davvero è riuscito nel suo intendimento di pacificazione liturgica? E come coniugare, da un punto di vista pastorale, l’unità se si celebrano le feste – o per lo meno alcune feste – in giorni diversi?


R. L’atto benedettiano, a ben leggere, postula il reciproco arricchimento tra le due forme – come egli tecnicamente le ha definite – dell’unico rito romano: pertanto, potremmo definirlo un atto aperto allo sviluppo, com’è giusto che sia ogni intervento riformatore. Lo stesso Ratzinger aveva auspicato, da cardinale, nuovi prefazi e i nuovi santi in calendario. Il messale romano ha sempre conosciuto tali progressive integrazioni. È paradossale che gli attuali sostenitori della riforma paolina siano diventati così ‘reazionari’ da sostenerne l’intangibilità. Ne parlo perché convinto della opportunità della riforma liturgica, non di taluni epigoni che qui e là ha raggiunto. Ogni studioso della liturgia conosce le tappe del suo sviluppo organico nella storia: il punto è proprio sull’“organico”. 
La Sacrosanctum Concilium sostiene che le forme nuove devono scaturire da quelle esistenti ed essere con quelle coerenti (23). Proprio su questo punto, però, i sostenitori del messale tridentino hanno da ridire: davvero la Messa del Novus Ordo è in continuità con quella precedente? La struttura evidentemente è la medesima: due parti, parola ed eucaristia, con due premesse – l’introduzione penitenziale e l’offertorio (abbastanza falcidiato, confrontandolo con quello bizantino) – , uno sviluppo, costituito dai riti di Comunione, e la conclusione con la benedizione e il congedo. D’altro lato, come detto per l’offertorio, più che per la semplificazione avvenuta, questa parte, come le altre, sopportano spesso l’insulto della cosiddetta creatività, di cui la costituzione liturgica non parla mai, ma solo di adattamenti a determinate condizioni. Ora, uno sguardo equilibrato, dovrebbe portare gli uni e gli altri ad ammettere una ‘riforma della riforma’: espressione di Joseph Ratzinger, mutuata, credo, dal grande studioso tedesco Klaus Gamber. 
Lo squilibrio è dovuto al fatto che la riforma postconciliare è stata come un pasto frettoloso: perciò non è stata assimilata, e qui e là è rimasta inapplicata o rigettata. Se fosse avvenuto come con le riforme di Pio X e Pio XII, che furono graduali, non sarebbe accaduto. Nel post concilio si lascio spazio alla sperimentazione, ma questa fu preso come definitiva. 
Quanto alla pacificazione, da quello che ha osservato il cardinal Sarah, la situazione non è uniforme: pare che là dove i guasti sian stati maggiori, il m.p. abbia preso più piede – America del Nord, Paesi Bassi, Africa e Asia – mentre dove non è accaduto, la conflittualità è più evidente. Il fatto è che sempre più giovani seminaristi e sacerdoti si interessano al Vetus Ordo e desiderano impararlo: tempo dieci anni, passata questa generazione, ciò sarà più evidente e imponente.Come conciliare i due calendari? Non accade già ora che in una diocesi o in una parrocchia si celebri una memoria o una festa, che non si celebra nell’altra, in quanto titolare o dal grado maggiore? Nelle chiese orientali, che vivono a gomito su uno stesso territorio, la differenza di calendario non è un problema. E poi, non si sostiene nella Chiesa odierna che la diversità è ricchezza e che l’unità non è uniformità? Bisogna studiare di più e avere pazienza, la pazienza dell’amore, come scrive l’Apostolo (cfr. 1 Cor 13,4).


2. Una seconda domanda: si è molto discusso, soprattutto a partire dal m.p. - che ha avuto il merito quantomeno di riportare in auge temi che, forse con sufficienza, si ritenevano esauriti – della c.d. ermeneutica della continuità in ambito liturgico (e non solo). Del resto, uno dei temi cari al pontificato di papa Ratzinger era appunto quello di rileggere i documenti conciliari alla luce della Tradizione bimillenaria della Chiesa, pena una sostanziale incomprensione di quei testi e la conclusione che gli stessi siano in decisa rottura con ciò che la Chiesa ha creduto sempre ed ovunque – secondo la nota affermazione di S. Vincenzo di Lerins. Orbene, ancora oggi c’è chi lamenta come i documenti del Vaticano II debbano, al contrario, leggersi facendosi quasi astrazione dal magistero anteriore e, quindi, tanto per fare un esempio la Sacrosantum Concilium prescindendo dalla Mediator Dei di Pio XII, che pure aveva “preparato la strada” al documento conciliare del 1963. 
E proprio questi “profeti della discontinuità” (se vogliamo chiamarli così) lamentano che tale operazione sia come leggere il Vangelo alla luce dell’Antico Testamento.Tu, don Nicola, condividi questo punto di vista? Cosa risponderesti a questi “profeti della discontinuità”? Possibile che ancor oggi non si riesca a fare una lettura piana e pacifica dei documenti conciliari alla luce della Tradizione della Chiesa, nonostante il magistero di Benedetto XVI? Perché tante resistente? Quali le ragioni, secondo te, di questa non accettazione di tale chiave di lettura? E quali, se esistono, le eventuali soluzioni?


R. La Chiesa è attraversata da una crisi di fede, che genera confusione e, come ho già detto mesi fa, porta all’affermazione di un pensiero non cattolico. Senonché, Gesù ha detto che chi è sapiente, sa estrarre dal tesoro cose nuove e cose antiche (cfr. Mt 13, 52). L’idea di una nuova Chiesa, ha attraversato la storia: dagli gnostici ai catari, da Gioacchino da Fiore a Lutero, da Giansenio agli attuali novatori. Il pensiero di sant’Agostino ha portato a coniare il detto: Novum Testamentum in Vetere latet, Vetum Testamentum in Novo patet (il Nuovo Testamento è adombrato nell’Antico, e questo trova compimento nel Nuovo): È difficile applicare questo al Vaticano II rispetto ai venti concili che l’hanno preceduto? 
Appare ragionevole chi sostiene che con questo concilio abbiamo una nuova visione di Chiesa? La Chiesa del Signore è sempre la stessa, in quanto Egli è lo stesso ieri, oggi e sempre: sarebbe paradossale che così non fosse per il Suo corpo che la Chiesa. 
Il fastidio verso la Tradizione, penso sia dovuto alla non comprensione del fatto che tradere sia un verbo di movimento e significa trasmettere ciò che si è ricevuto, integralmente, come dice Paolo a proposito dell’eucaristia, ma questo deposito, nel frattempo, come tutti i depositi – penso a quelli in banca – ha fruttificato e si è arricchito. Il discorso cosiddetto sull’ermeneutica del Vaticano II, fatto il 22 dicembre 2005, all’esordio del suo pontificato, da Benedetto XVI è talmente chiaro e ragionevole, che solo un pregiudizio impedisce di accettarlo. 
Causa di tale pregiudizio è l’ignoranza, dovuta alla mancanza di studio: se questo ci fosse, ci si accorgerebbe che i documenti del Vaticano II, a parte la maggiore o minora rilevanza di questo o di quello, e di certi passaggi, non enunciano nuove dottrine. Papa Giovanni parlò di aggiornamento: sull’interpretazione di questa parola è stato scritto molto, ma la mente di quell’uomo così tradizionale e così nuovo, impedisce di pensare che desse a quel termine un altro contenuto. Basta leggere il suo Giornale dell’Anima, per trovarlo intriso di quel ‘devozionismo’, tanto vituperato dai novatori. La soluzione è un confronto paziente e senza pregiudizi, come stiamo facendo con un gruppo di amici studiosi.Aggiungo: «La mancanza di chiarezza nel rapporto tra livello dogmatico e livello liturgico, che è rimasta poi anche durante il Concilio, deve forse essere qualificata come il problema centrale della riforma liturgica; in base a questa ipoteca si spiega gran parte dei singoli problemi con i quali, da allora, abbiamo a che fare» (J. RATZINGER, Opera omnia, vol. 11, Teologia della liturgia, V. Forma e contenuto della celebrazione eucaristica, LEV, Città del Vaticano 2010, pp. 414-415). Questa riflessione dell’allora cardinal Joseph Ratzinger appare del tutto coerente con l’argomento alla ribalta della cronaca ecclesiale e non solo – la comunione ai divorziati risposati – per le sue implicazioni dogmatiche e liturgiche, oltre che canoniche e pastorali.


3. Il prossimo ottobre, come noto, si svolgerà in Vaticano il Sinodo ordinario sulla famiglia. Tra i profili, che saranno oggetto di discussione, vi è la questione – sostenuta da diversi prelati, tra i quali il card. Kasper (e non solo lui) – circa l’ammissione dei divorziati risposati al sacramento dell’Eucaristia, sebbene conviventi col nuovo coniuge non certo ut frater et soror. Ora, comprendo che si tratta di una tematica delicata, ma si è proposto di superare – a quanto ci è dato comprendere – il problema dottrinale (giacché la Scrittura afferma, senza mezzi termini, che l’adultero non può ereditare il Regno di Dio! E l’adultero – nell’ottica della Bibbia – non è solo colui che tradisce il proprio coniuge …) insistendo sia dal punto di vista teologico con la distinzione tra divorziato con colpa (a cui sarebbe addebitabile la separazione ed il divorzio) e divorziato senza colpa (che avrebbe subito il divorzio e, quindi, meriterebbe rifarsi una vita) sia dal punto di vista canonico con la modifica delle norme canoniche sul processo di nullità matrimoniale volte ad una “semplificazione” della procedura di nullità (ad es., si parla con insistenza della proposta di abolire la c.d. doppia sentenza conforme). Per modello si è insistito più volte sull’esperienza delle Chiese ortodosse. 
Ora chiedo a te come liturgista di dirci come stiano le cose presso le Chiese ortodosse e cioè se e come avviene, in quell’esperienza, questa riammissione ed eventualmente con quali limiti. Come teologo, quindi, ti chiedo una sorta di giudizio prognostico in merito al Sinodo e se cioè ritieni davvero che la materia su cui s’intenderebbe deliberare sia nella disponibilità dei Padri sinodali e dello stesso Papa.


R. Gli ortodossi non fanno la comunione nel rito delle seconde nozze, in quanto nel rito bizantino del matrimonio non è prevista la comunione, ma solo lo scambio della coppa comune di vino, che non è quello consacrato. Inoltre, tra i cattolici si suol dire che gli ortodossi permettono le seconde nozze, quindi tollerano il divorzio dal primo coniuge: in verità non è proprio così, perché non si tratta dell’istituzione giuridica moderna. La chiesa ortodossa è disposta a tollerare le seconde nozze di persone il cui vincolo matrimoniale sia stato sciolto da essa, non dallo Stato, in base al potere dato da Gesù alla Chiesa di “sciogliere e legare”, e concedendo una seconda opportunità in alcuni casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia divenuto una finzione). È prevista (per quanto scoraggiata) anche la possibilità di un terzo matrimonio. 
Inoltre, la possibilità di accedere alle seconde nozze, nei casi di scioglimento del matrimonio, viene concessa solo al coniuge innocente (v. il mioMito e realtà delle seconde nozze tra gli ortodossi).La verità è che bisogna considerare il matrimonio nel rito ortodosso essenzialmente come una sorta continuazione, rivestita di forme liturgiche, del matrimonio così com’era concepito dal diritto giustinianeo, stante la volontà delle chiese ortodosse – almeno a partire da una certa epoca (un esempio di questo cedimento è rappresentato dalla raccolta del c.d. Nomocanone in 14 titoli redatto dal patriarca di Costantinopoli, Fozio, nell’883) – di vivere in armonia con le autorità civili, ricevendone favori e concessioni, pure a costo di alterare il messaggio evangelico  (v. Cyril Vasil’, Separazione, divorzio, scioglimento del vincolo matrimoniale e seconde nozze. Approcci teologici e pratici delle Chiese ortodosse, in Robert Dodaro (a cura di), Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, Cantagalli, Siena, 2014, pp. 94-95).Le seconde (e terze) nozze, dunque, a differenza del primo matrimonio, sono celebrate con un rito speciale, definito “di tipo penitenziale”, tanto è vero che le preghiere proprie del rito delle seconde nozze non hanno nulla del tono festivo delle preghiere del rito abituale del matrimonio (il primo), giacché «non contengono – è stato opportunamente sottolineato da Andrea Palmieri – invocazioni di prosperità, ma richieste di perdono» e le immagini bibliche ricorrenti evocate in esse - e questo mi sembra significativo - «non sono quelle delle coppie benedette, ma quelle dei peccatori» (Il rito per le seconde nozze nella Chiesa greco-ortodossa, ed. Ecumenica, Bari, 2007, p. 111). 
Tuttavia, il carattere penitenziale non è da intendersi legato  - nota Basilio Petrà – tanto alla celebrazione in se delle seconde nozze, quanto alla debolezza ed alle proclività al peccato dell’essere umano, che non ritiene potercela fare senza ricorrere alle seconde nozze (così in Divorzio e seconde nozze nella tradizione greca. Un’altra via, Cittadella ed., Assisi, 2014, p. 167).Poiché nel rito delle seconde nozze mancava, almeno in antico, il momento dell’incoronazione degli sposi (che la teologia ortodossa ritiene il momento essenziale del matrimonio), le seconde nozze non sono un vero sacramento, ma volendo semplificare al massimo e secondo le categorie teologiche e liturgiche occidentali, per usare la terminologia latina, un sacramentale, che consente ai nuovi sposi di considerare la propria unione come pienamente accettata dalla comunità ecclesiale. 
Il rito delle seconde nozze si applica, significativamente, pure nel caso di sposi rimasti vedovi.La non sacramentalità delle seconde nozze troverebbe conferma, secondo taluni, nella scomparsa della comunione eucaristica dai riti matrimoniali bizantini, sostituita dalla coppa intesa come simbolo della vita comune; ciò appare come un tentativo di ‘desacramentalizzare’ il matrimonio, forse per l’imbarazzo crescente che le seconde e terze nozze inducevano, a motivo della deroga al principio dell’indissolubilità del vincolo, che è direttamente proporzionale al sacramento dell’unità: l’Eucaristia. A tal proposito, il teologo ortodosso Alexander Schmemann ha scritto che, proprio la coppa, elevata a simbolo della vita comune, «mostra la ‘desacramentalizzazione’ del matrimonio ridotto ad una felicità naturale. In passato, questa era raggiunta con la Comunione, la condivisione dell’Eucaristia, sigillo ultimo del compimento del matrimonio in Cristo. Cristo deve essere la vera essenza della vita insieme» (mia traduzione da The Mystery of Love, in For the Life of the World. Sacraments and Orthodoxy, New York 1973, pp. 90-91). Come rimarrebbe in piedi questa ‘essenza’?
Dunque, si tratta di un “qui pro quo”, imputabile alla scarsa o nulla considerazione per la dottrina in ambito cattolico, per cui si è affermata l’opinione, meglio l’eresia, che la Messa senza la Comunione non sia valida. Tutta la preoccupazione della comunione per i divorziati-risposati, che poco ha a che fare con la visione e la prassi orientale, è una conseguenza.La verità è, come nota l’arcivescovo Cyril Vasil’, riprendendo l’osservazione di un altro autore, Pierre L’Huillier, le chiese ortodosse «non hanno praticamente mai elaborato una dottrina chiara dell’indissolubilità del matrimonio», permettendo un certo lassismo, che ha condotto ad un’impropria espansione delle cause legittime di divorzio a paragone di quelle previste dalla più antica normativa canonica orientale (Cyril Vasil’, op. cit., p. 115).In ogni caso, volevo concludere che il sinodo, che si terrà in ottobre, per statuto, non ha prerogative dottrinali, che appartengono solo al papa ed al concilio unito al pontefice.


4. Un’ultima domanda: Mons. Livi, in un recente contributo sul blog Disputationes Theologicae (qui, di recente, la seconda parte del contributo) ha sostenuto che, in fondo alla proposta kasperiana – che sarà oggetto di discussione in sede sinodale – riguardo al tema dei c.d. divorziati risposati ed agli omosessuali, sia possibile ravvisare l’assalto finale del pensiero gnostico-massonico alla Chiesa di Cristo
Ed in vista del Sinodo, è notizia di pochi giorni fa, rilanciata anche dal nostro blog, è in programma a Roma dal 10 al 12 settembre prossimi una conferenza, organizzata dall’associazione liberal International Academy for Marital Spirituality, a cui dovrebbe partecipare, ed anzi dovrebbe introdurre i lavori, il card. Óscar Rodríguez Maradiaga, che è attualmente una delle personalità più vicine al papa e rappresenta un po’ l’ala liberal all’interno dell’assise sinodale. Oltre ovviamente ad altre personalità.
Ecco, condividi l’opinione di Mons. Livi e come ritieni possa coniugarsi l’indivisibile unione di un uomo e di una donna – secondo la nota definizione tomistica dell’unione coniugale come “individua coniunctio maris et feminae” – nel nostro tempo nel quale vi è un’esaltazione della libertà individuale – oserei dire quasi un’ubriacatura – anche da un punto di vista pastorale?


R. Stimo mons. Livi, e non dubito che siamo in presenza della riedizione riveduta e corretta, per dir così, dello gnosticismo che ha sempre combattuto l’Incarnazione del Verbo, caratteristica originale del cristianesimo cattolico. Non so, però, se si tratti dell’assalto finale. Nel primo secolo della nostra èra, sentir parlare della risurrezione della carne, del corpo e dell’anima dell’essere umano, era quanto di più antitetico alla mentalità pagana potesse esserci. 
E se il Cristo fosse una sembianza di Dio? – dissero non pochi cristiani, quando ancora vivevano gli apostoli - è possibile che Dio sia venuto nella carne? E Giovanni dice: “Ogni spirito che confessa Gesù Cristo venuto in carne, è da Dio; e ogni spirito che non confessa Gesù, non è da Dio; ed è quello dell’Anticristo, di cui avete udito che viene e che ora è già nel mondo” (I Gv 4,2-3). Col suo Vangelo l’apostolo testimone oculare, ribatte all’eresia, chiamata docetismo (dal greco dokêin). 
Due secoli dopo si dirà da altri cristiani seguaci del prete Ario: il Cristo è soltanto uomo; altri al contrario ribatteranno, è solo Dio. 
Il dibattito cristologico sembrava concluso nel V secolo col concilio di Calcedonia, in realtà è continuato a fasi alterne fino a Bultmann e ai teologi razionalisti, e quanti altri che hanno distinto e/o separato il “Gesù storico” dal “Gesù della fede”. Ed oggi ancora si ripropone: c’è chi vorrebbe abolirla o ridurla, l’incarnazione e la divinità di Cristo, per dialogare meglio con ebrei e musulmani. A pensare che per sostenere la fede nell’incarnazione, Atanasio più volte è stato in esilio, Cirillo, Ambrogio, Pier Crisologo hanno sopportato scherni, insulti e persecuzioni!L’unione sacramentale tra l’uomo e la donna, secondo l’Apostolo, è un mistero grande in rapporto all’unione tra Cristo e la Chiesa: il mistero-sacramento, che permane grazie all’incarnazione del Verbo: «poiché siamo membra del corpo di Cristo», e in questa luce san Paolo, fa comprendere il passo di Genesi 2,24: «i due saranno una sola carne» (Ef. 5, 30-32). Dunque, il matrimonio, col diventare una sola carne, permette ai coniugi di entrare in quel mistero e di santificarsi. Ecco cosa deve essere messo al centro del prossimo sinodo, se è vero che la sacra liturgia con i santi sacramenti, costituisce la fonte e il culmine della vita spirituale e morale della Chiesa.


Grazie don Nicola ancora una volta per la tua attenzione nei riguardi del nostro blog per questa tua seconda intervista esclusiva.


R. Grazie a voi!

 



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