DOSSIER di Agenzia Fides sulla CLAUSURA

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Caterina63
00martedì 29 giugno 2010 22:41
Agenzia FIDES – 10 agosto 2009


DOSSIER FIDES www.fides.org



LA CLAUSURA




“Il luogo dove c’è la purezza di chi ha dedicato la propria vita a Gesù Cristo, dove si ammira il silenzio, dove la Sacra Liturgia si celebra con gioia partecipata e adorazione”: intervista a Don Vincenzo Macera, Parroco della Chiesa San Giuseppe Lavoratore, a Formia
“Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente” (San Paolo, Lettera ai Filippesi 1,3-5)

Il Cardinale Franc Rodè, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica: “Guardarsi dal pericolo dell’attivismo”

“Il Signore conosce la mia nullità”: intervista a Madre Scolastica Mastrocola, Abbadessa del Monastero di Santa Scolastica di Cassino

La prima cosa che vorrei sottolineare è che abbiamo tutti più o meno l’illusione della libertà; vedo bene questo in tutte le persone che incontriamo e anche nei giovani monaci che entrano.
Si pensa di essere liberi in misura che si approfondisce la vita spirituale e ci si rende conto che si è tutti più o meno schiavi di qualcosa.

E’ Cristo che è venuto per liberarci, liberarci attraverso la sua croce ed è venuto ad invitarci ad una alleanza un’amicizia con Dio alla quale tutti gli uomini hanno la possibilità di rispondere liberamente. La vita monastica è un modo di rispondere a questa chiamata a questa vocazione di intimità con Lui.
La vita monastica, contrariamente a quello che si potrebbe credere, è si una scuola per servire Dio e in realtà scuola di liberazione. Ci si libera di tutti i legami. I legami più forti che ci tengono legati alla terra e che ci impediscono di unirci a Dio.
E’ dunque veramente liberamente, molto liberamente che un monaco è portato a consacrarsi completamente a Dio e questa libertà è assolutamente indispensabile perché possa perseverare fino alla fine.
Perchè la vita monastica è una lotta spirituale che dura tutta la vita, una buona lotta per unirsi definitivamente, completamente, perfettamente nella carità a Dio e a tutti i nostri fratelli.

(Dom Louis Marie de Geyer d’Orth, Abbazia St. Madeleine, Le Barroux,
tratto da www.diopaceodominio.it)
Il luogo dove c’è la purezza di chi ha dedicato la propria vita a Gesù Cristo, dove si ammira il silenzio, dove la Sacra Liturgia si celebra con gioia partecipata e adorazione: intervista a Don Vincenzo Macera, Parroco della Chiesa San Giuseppe Lavoratore, a Formia

“E’ un ambiente piccolo, dove vivono undici suore, tutte bengalesi. Spesso i missionari portano la gente a fare incontri con le monache, a confrontarsi, a pregare con loro. E’ una presenza, un richiamo, una testimonianza di grande fede, che dà la misura di quanto sia necessario contemplare il Mistero, come ha affermato Benedetto XVI”. Questo racconta Don Vincenzo Macera, Parroco della Chiesa San Giuseppe Lavoratore, a Formia, che dal 26 gennaio al 12 febbraio 2009, ha visitato il Monastero delle Suore Clarisse di Santa Chiara a Dinajpur, in Bangladesh, inaugurato il 16 maggio 2008. “La caratteristica di queste Suore Clarisse Adoratrici è quella di vivere la povertà più assoluta e di avere l’adorazione perpetua ininterrotta”, aggiunge Don Vincenzo.

Era già stato in Bangladesh?
Sì, ventotto anni fa. Ora sono tornato per finalità missionarie e per verificare la mia vocazione sacerdotale.

Come ha trovato il paese a distanza di tanti anni?

Come sa, il Bangladesh è un paese quasi interamente mussulmano e i cattolici rappresentano una piccolissima minoranza rispetto ai 150 milioni di abitanti. Già questa è una grande difficoltà che incontra l’evangelizzazione, pur tenendo presente che i missionari che ho incontrato sono aperti e attenti al dialogo con il mondo mussulmano. Bisogna anche tenere presente che il Bangladesh è uno dei paesi più poveri del mondo e la situazione non è cambiata rispetto al mio primo viaggio, anche se ho notato che accanto a situazioni d’indigenza, di povertà estrema, c’è tanta gente che si dà da fare, che vuole costruire situazioni di sviluppo.

Si è recato in Bangladesh anche per finalità missionarie, diceva…

Sì, perché insieme ad un ingegnere laico italiano curiamo nel paese un piccolo progetto di accompagnamento allo studio per i ragazzi, che prevede il pagamento delle spese per lo studio per 5-6anni, nella Diocesi di Dinajpur , a nord. Una goccia nell’oceano e Non si tratta di adozioni e rappresenta solo un piccolo sostegno all’opera dei missionari che è veramente formidabile. Sono stato in un lebbrosario, a Taigal, sempre nel nord del paese, dove sono state di recente inaugurate una scuola nuova ed una Chiesa nuova, che si fonda sul lavoro dei catechisti.

Che aiuto danno le Suore di clausura che ha conosciuto ai missionari?

L’aiuto più grande. Nelle loro adorazioni pregano incessantementre per sacerdoti e religiosi dedicati all'apostolato diretto, di cui si sentono collaboratrici autentiche. Vivendo per Gesù Cristo, ci ricordano che la fonte di ogni azione è il Signore e che, per convertire il cuore, è necessario che il Signore intervenga. L’incontro con loro mi è rimasto nel cuore, perché con loro s’impara a crescere nella dimensione del servizio.

Che cos’è per lei la clausura?

Sono stato a Roma, per molti anni, confessore delle monache Agostiniane dei Santi Quattro Coronati: sono state per me una scoperta straordinaria. La clausura è il luogo dove c’è la purezza di chi ha dedicato la propria vita a Gesù Cristo, dove si ammira il silenzio, dove la Sacra Liturgia si celebra con gioia partecipata e adorazione.


Il 2 febbraio 2008, Festa della Presentazione del Signore al Tempio e XIII Giornata della Vita Consacrata, il Card. Franc Rodé, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, ha presieduto nella Basilica Vaticana la Celebrazione Eucaristica per i Membri degli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica.

Nella sua omelia, intitolata “Testimoni della grande speranza”, il Cardinale Rodè ha tra l’altro affermato:
“Il Santo Padre ricorda esplicitamente come la suprema libertà, che la speranza cristiana infonde nel credente, si è in modo particolare rivelata nel martirio, ma anche in tutti coloro che, durante la storia, hanno rinunciato a tutto per seguire Cristo, «a partire dai monaci dell’antichità fino a Francesco di Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l’amore di Cristo» (SS 8). Il Papa, poi, aggiunge: «per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una ‘prova’ che le cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza» (SS 8).

Le persone alle quali il Papa fa riferimento siamo noi consacrati. Siamo noi ad essere chiamati ad una testimonianza visibile e credibile della “grande speranza” di cui la Chiesa è portatrice e di cui gli uomini hanno bisogno per non restare imprigionati nel proprio piccolo orizzonte e rassegnarsi, alla fine, al fallimento della morte”.

Il Cardinale ha aggiunto: “Il periodo di difficoltà che sta attraversando la vita consacrata non ci può far dimenticare che, dopo Gesù, l’incomprensione, la debolezza, l’emarginazione e la morte stessa, diventano luoghi in cui fermenta la vita. Sono questi i momenti in cui siamo chiamati a rendere più trasparenti gli atteggiamenti che costituiscono le strutture portanti della sequela evangelica: la fiducia in Dio e il dono di sé. È nella prova che siamo chiamati a rendere più evidente la scelta radicale che abbiamo fatto. Già Giovanni Paolo II aveva ricordato «che a ciascuno è richiesto non tanto il successo, quanto l’impegno della fedeltà... La sconfitta della vita consacrata, non sta nel declino numerico, ma nel venir meno dell’adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione» (VC 63).

Per il resto sappiamo che «la Chiesa non può assolutamente rinunciare alla via consacrata» (VC 105) e al suo «insostituibile contributo alla trasfigurazione del mondo» (VC 110), perché, come diceva Paolo VI, è la missione stessa della Chiesa che verrebbe ad essere compromessa (ET 3). Già Santa Teresa, edotta dallo stesso Signore e pur prendendo atto che gli Istituti non erano affatto fiorenti, aveva scritto: «Che sarebbe del mondo se non vi fossero i religiosi?» (Vita 32, 1i). Benedetto XVI, riportando un pensiero di San Bernardo e di un antico scrittore ecclesiastico sulla responsabilità dei monaci per l’intero organismo della Chiesa, afferma: «Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli il mondo perirebbe» (SS 15). Il Concilio, a sua volta, ha solennemente affermato che la vita consacrata «appartiene irremovibilmente (inconcusse) alla vita e alla santità della Chiesa» (LG 44 ).

Questo significa, aggiunge Giovanni Paolo II, che essa «non potrà, mai mancare alla Chiesa come un suo elemento irrinunciabile e qualificante» (VC 29). Per questo la vocazione alla vita consacrata... nonostante le sue rinunce e le sue prove, ed anzi in forza di esse, è cammino “di luce”, sul quale veglia lo sguardo del Redentore: “Alzatevi e non temete” (VC 40).

Il Cardinale ha concluso il suo intervento, affermando: “Lasciando tutto per seguire Cristo, voi consacrati e consacrate, in modo particolare, siete chiamati a diventare parabola concreta e profezia esistenziale dell’impotente onnipotenza di un «amore eterno ed infinito che tocca le radici dell’essere» e conquista le persone (VC 18b), dimostrazione e prova della «preminente grandezza della virtù di Cristo regnante e della infinita potenza dello Spirito Santo mirabilmente operante» (LG 44c). La Chiesa ha costante bisogno di questi testimoni, perché il messaggio che annuncia la certezza assoluta dell’amore che salva sia reso “visibile”. I consacrati, proprio perché hanno scelto Dio come loro unica eredità e spendono la vita a cercarne il volto, rendono palese testimonianza della grande speranza e diventano ministri della speranza degli altri (cfr. VC, 34).
La testi
monianza profetica della vita consacrata e, forse, la più necessaria per la Chiesa di oggi, è proprio quella di proclamare il primato assoluto dell’amore di Dio e, insieme, mantenere vivo e visibile il desiderio dell’incontro definitivo con Lui. Un desiderio che esprime il dinamismo più intimo della Chiesa-Sposa che cerca il suo Signore e, allo stesso tempo, dà la misura del suo amore e della sua fedeltà. S. Paolo scrive: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù. Dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio» (Col 3,1). Egli non fa una esortazione, esprime piuttosto una constatazione: chi è risorto, cerca le cose di lassù. Il segno che si è entrati nella vita nuova e la si vive è tenere viva come una fiamma la “grande speranza”. Ebbene, sono i consacrati che, in forza delle loro rinunce radicali per “vivere di Dio solo”, sono chiamati non solo a tenere accesa questa fiamma, ma anche a renderla manifesta. È un servizio che la Chiesa si aspetta da loro e di cui i cristiani, continuamente assillati dalle preoccupazioni di questo mondo, hanno particolarmente bisogno per non rischiare di disperdersi e restare prigionieri di beni che periscono”.

“Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente” (San Paolo, Lettera ai Filippesi 1,3-5)

Quello stesso giorno, a conclusione della celebrazione eucaristica, Benedetto XVI ha detto queste parole: “Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente” (Fil 1,3-5): con queste parole di San Paolo, nel contesto dell’Anno Paolino, il Papa si è rivolto ai religiosi ed alle religiose raccolti nella Basilica di San Pietro, ricordando che “in questo saluto, indirizzato alla comunità cristiana di Filippi, Paolo esprime il ricordo affettuoso che egli conserva di quanti vivono personalmente il Vangelo e si impegnano a trasmetterlo, unendo alla cura della vita interiore la fatica della missione apostolica”.

Il Santo Padre ha proseguito: “nella tradizione della Chiesa, san Paolo è stato sempre riconosciuto padre e maestro di quanti, chiamati dal Signore, hanno fatto la scelta di un’incondizionata dedizione a Lui e al suo Vangelo. Diversi Istituti religiosi prendono da san Paolo il nome e da lui attingono un’ispirazione carismatica specifica. Si può dire che per tutti i consacrati e le consacrate egli ripete un invito schietto e affettuoso: ‘Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo’ (1 Cor 11,1)… imitarlo nel seguire Gesù, carissimi, è via privilegiata per corrispondere fino in fondo alla vostra vocazione di speciale consacrazione nella Chiesa.”
Dalla stessa voce di San Paolo infatti “possiamo conoscere uno stile di vita che esprime la sostanza della vita consacrata ispirata ai consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza” ha sottolineato il Papa, che ha spiegato: “Nella vita di povertà egli vede la garanzia di un annuncio del Vangelo realizzato in totale gratuità, mentre esprime, allo stesso tempo, la concreta solidarietà verso i fratelli nel bisogno… Paolo è anche un apostolo che, accogliendo la chiamata di Dio alla castità, ha donato il cuore al Signore in maniera indivisa, per poter servire con ancor più grande libertà e dedizione i suoi fratelli… Quanto poi all’obbedienza, basti notare che il compimento della volontà di Dio e l’ ‘assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese’ ne hanno animato, plasmato e consumato l’esistenza, resa sacrificio gradito a Dio”.

Un altro aspetto fondamentale della vita consacrata di Paolo sottolineato dal Papa è quello della missione: “Egli è tutto di Gesù per essere, come Gesù, di tutti; anzi, per essere Gesù per tutti… A lui, così strettamente unito alla persona di Cristo, riconosciamo una profonda capacità di coniugare vita spirituale e azione missionaria; in lui le due dimensioni si richiamano reciprocamente. E così, possiamo dire che egli appartiene a quella schiera di "mistici costruttori", la cui esistenza è insieme contemplativa ed attiva, aperta su Dio e sui fratelli per svolgere un efficace servizio al Vangelo”.

Infine, citando la recente Istruzione su Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, Benedetto XVI ha auspicato che l’Anno Paolino alimenti ancor più nei consacrati “il proposito di accogliere la testimonianza di san Paolo, meditando ogni giorno la Parola di Dio con la pratica fedele della lectio divina… Egli vi aiuti inoltre a realizzare il vostro servizio apostolico nella e con la Chiesa con uno spirito di comunione senza riserve, facendo dono agli altri dei propri carismi, e testimoniando in primo luogo il carisma più grande che è la carità”.

Il Cardinale Franc Rodè, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica: “Guardarsi dal pericolo dell’attivismo”.

Secondo le stime ufficiali più aggiornate – diffuse nel novembre 2008, in concomitanza della plenaria della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, oggi la presenza dei monaci nel tessuto ecclesiale parla di oltre 12.800 monaci residenti in 905 monasteri. In media, le comunità maschili sono composte in media da 15 religiosi, prevalentemente collocate in ambiente cittadino, con un coinvolgimento nell’attività pastorale della Chiesa locale. Le monache sono circa 48.500, distribuite in 3520 monasteri, due terzi dei quali situati in Europa.
Il cardinale Franc Rodé, prefetto della Congregazione, intervenendo all’inaugurazione della plenaria, ha detto – ha riferito Radio Vaticana - che la vita monastica attraversa oggi “un’ora di grande difficoltà, un’ora non di decadenza spirituale, ma di povertà e di debolezza”, con comunità “che si avviano dolorosamente verso una diminuzione e anche una fine”.

Tuttavia, ha affermato, proprio per la loro capacità di forte attrazione verso le cose dello spirito, le comunità monastiche conservano una grande responsabilità e da esse la Chiesa attende “una testimonianza limpida e forte della presenza di Dio e della sua vicinanza che è amore per ogni essere umano”.
Il Cardinale prefetto ha sviluppato in tre punti la sua riflessione: vivere il celibato e la vita comune in modo radicale, guardarsi dal pericolo dell’attivismo, prestare attenzione alla formazione per ritrovare una teologia sapienziale.

Riguardo al pericolo dell’attivismo, il cardinale Rodé ha stigmatizzato un “grande rischio” dell’attuale vita monastica: quello, ha rilevato, “di una certa febbre della missione, di una tentazione di visibilità e sovraesposizione, magari animate dalle migliori intenzioni, ma pericolose – ha osservato - per quella gratuità e quella semplicità che è autentico stile cristiano e che aiuta a comprendere la ‘follia della croce’ assunta da chi nulla antepone all’amore di Cristo”. Dunque, ha concluso, nonostante le difficoltà se il monachesimo “resta fedele” alla sua vocazione di “cercare Dio in Cristo Gesù”, può “giungere a far sgorgare dalla vita la celebrazione, in modo che la fede celebrata sia forza alla trasmissione della fede e la fede vissuta sia traccia di umanizzazione e di cultura autentica”.


(continua il Dossier)


Caterina63
00martedì 29 giugno 2010 22:42
“Il Signore conosce la mia nullità”: intervista a Madre Scolastica Mastrocola, Abbadessa del Monastero di Santa Scolastica di Cassino, in provincia di Frosinone.

Reverenda Madre, che cos’è per lei il Monastero?

Il Monastero è, prima di tutto, il luogo d’incontro con Dio. Nel Monastero, il Signore è al centro di tutto e di tutti in ogni attimo di vita. Infatti, all’aspirante che bussa alla porta per entrare nella comunità, si chiede se “cerca veramente Dio”.

San Benedetto, più profondamente, dice che questo non avviene se Dio non ci avesse cercati per primo, attraverso il Suo amore gratuito. Quindi, l’atteggiamento della monaca è quello dell’ascolto: la Santa Regola inizia “Ascolta, o Figlio…” e questo richiamo riecheggia in altre forme in tutta la Santa Regola.
Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del tuo maestro e piega l’orecchio del tuo cuore, accogli volentieri l’esortazione di un padre pieno d’affetto e mettila concretamente in pratica, perché attraverso la fatica dell’obbedienza tu possa ritornare a colui dal quale ti eri allontanato per l’inerzia della disobbedienza.
A te, dunque, chiunque tu sia, si rivolge ora la mia parola: a te che, rinunciando alle tue volontà, per militare per Cristo Signore, vero re, prendi su di te le potenti e gloriose armi dell’obbedienza. Regola di Benedetto, Prologo I

Quali sono le caratteristiche della vita monastica?

Ve n’è una, essenziale: l’allontanamento dal mondo, perché tutta la vita della singola persona e della comunità sia fasciata di silenzio. La solitudine, quindi, proprio per favorire al massimo l’ascolto di Dio e il colloquio ininterrotto con Lui.

Lo Spirito Santo non abita volentieri dove ci sono folle, assembramenti di persone, contese e liti: anzi lo Spirito Santo ha come dimora sua propria la solitudine. Del resto anche il nostro Signore e Salvatore, quando voleva pregare, si ritirava da solo sulla montagna – come sta scritto – e là pregava per tutta la notte (Mt 14,23; Lc 6,12). Di giorno stava con i discepoli, di notte rivolgeva al Padre la sua preghiera per noi.

A che scopo dico tutto ciò? Perché alcuni fratelli dicono spesso: “Se rimango nel cenobio, non ho la possibilità di pregare da solo!”. Forse che il Signore congedava i suoi discepoli? No, restava comunque con i suoi discepoli; ma quando voleva pregare più intensamente si ritirava da solo in disparte.
Anche noi dunque se vogliamo pregare più di quanto si faccia in comune, andiamo in cella, andiamo nei campi, andiamo nei luoghi deserti! Possiamo beneficiare sia delle virtù della vita fraterna che della solitudine. (Girolamo, Omelie su Marco I, I2)

Che cos’è l’obbedienza?

Ci si obbedisce scambievolmente. L’obbedienza è lo strumento quotidiano di fare la volontà di Dio, utilizzando l’altro. Ecco che, allora, ogni cosa umana, ogni attrito umano, si copre di Divino, perché diviene il momento della perpetua redenzione nella gestualità quotidiana.
Nell’esercizio continuo di annullare il nostro ego, facciamo posto nella nostra anima alla Bellezza dell’Altissimo.

Cosa ci può essere di più dolce, di più piacevole e di più gradito del vivere come discepoli obbedienti secondo gli ordini ricevuti e senza far niente secondo la propria volontà? Questa è la vera sottomissione; questa è la vita beata; questa è la lotta a un tempo piena di dolori e, per così dire, senza dolore: piena di dolori per colui che è ancora dominato dalle proprie volontà, e senza dolore per colui che ha già reciso la volontà propria, che sarà anche libero di dire con l’Apostolo: ‘Non sono più io che vivo, ma vive in me Cristo’ (Gal 2,20). Poiché, infatti, non vive più secondo la propria volontà, grazie alla mediazione dell’igumeno ‘vive per Dio’ (Rm 6, I0), e ‘riflettendo a viso scoperto, come in uno specchio, la gloria del Signore’, viene trasformato ‘in quella stessa immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo del Signore (Cor 2-3, I8), come sta scritto. Una persona del genere è distaccata dalle preoccupazioni del mondo e non ha paura della morte: egli trascorre una vita senza dolore né turbamento, dedicandosi con tutto se stesso e interamente a Dio.

Chi invece si appoggia sulle proprie volontà, e di conseguenza mutila le leggi della sottomissione, agendo di propria volontà e compiacendosi di se stesso, conduce una vita penosa, ‘catturato dal diavolo per compiere la sua volontà’ (Tm 2-2, 26). E se anche sembra digiunare, vegliare o compiere qualche altra opera buona, ciò non ha alcun valore, poiché ‘tutto quello che non viene dalla fede è peccato’ (Rm I4, 23), e quello che non avviene secondo la regola comune è proprio di colui che lo compie ed estraneo all’autentica pietà. (Teodoro Studita, Piccole catechesi I04)

Quanto tempo viene dedicato al colloquio intimo e comunitario con Dio?

Il colloquio con Dio, come dicevo, è ininterrotto. Alcune ore del giorno, quelle più feconde, sono dedicate alla Lectio Divina. Essa è la lettura comunitaria o personale della Parola di Dio, che poi, in realtà, accompagna tutta la giornata: il coro, nel refettorio, durante il lavoro.

Viveva con me in monastero un fratello di nome Antonio, che ogni giorno anelava alla gioie della patria celeste con lacrime abbondanti: quando meditava le parole della Sacra Scrittura, non vi ricercava le parole della scienza, ma il pianto della compunzione, affinché la sua mente ne fosse risvegliata e infiammata e, abbandonando le realtà terrene, si elevasse attraverso la contemplazione verso la patria celeste. (Gregorio Magno, Dialoghi IV, 49,2)

Che valore ha per la vita monacale la Parola di Dio?

La Parola di Dio è il cibo principale della vita monastica, che poi viene ruminato e assimilato interiormente in ciascuna di noi; fa germogliare la preghiera-colloquio con Dio fino alla vetta più alta della contemplazione, se la grazia di Dio trova un’anima attenta e generosa.

La via migliore per arrivare a scoprire il proprio dovere è la meditazione delle Scritture ispirate da Dio. In esse, infatti, si possono trovare anche dei suggerimenti per le azioni e ci vengono trasmesse per iscritto le vite degli uomini beati, quali immagini viventi della vita secondo Dio, a noi proposte perché ne imitiamo le buone azioni. Ciascuno, dunque, soffermandosi su ciò in cui si sente carente, può trovare, come in un ospedale pubblico, il farmaco adatto alla propria malattia. (Basilio di Cesarea, Lettere 2,3)

Che cos’è per voi la Liturgia delle Ore?

E’ il culmine della Lectio Divina: quello che si chiama Opus Dei per eccellenza (= Liturgia delle Ore). Questa scandisce tutto il corso della giornata e della notte, dove la Parola di Dio non solo viene ascoltata, ma celebrata e cantata (i Salmi), in unione col coro delle consorelle “davanti agli Angeli e in cospetto della Divinità”.

Nella tua preghiera, non usare parole sofisticate, perché spesso il balbettio semplice e ripetitivo dei bambini è riuscito a intenerire il loro Padre che è nei cieli (Mt 6, 9).
Non affannarti a parlare molto quando preghi (Mt 6, 7), perché la tua mente non si disperda nella ricerca delle parole.
Una sola parola da parte del pubblicano bastò a procurargli la misericordia di Dio (Lc I8, I3), e un solo grido di fede salvò il ladrone (Lc 23, 42-43).

L’uso di molte parole nella preghiera spesso disperde la mente e la colma di immagini, mentre la ripetizione di una sola formula spesso la raccoglie.
Quando una parola della tua preghiera ti pervade di dolcezza o di compunzione, rimani in essa, perché in quel momento il nostro angelo custode sta pregando per noi.
(Giovanni Climaco, La scala XXVIII, 8-I0)

E l’Eucaristia che cosa rappresenta per la vita monacale?

E’ il momento più alto e la sintesi di tutto quello che si vive. San Benedetto intuì sin da subito e indicò come sorgente vocazionale monastica non solo il Battesimo, ma anche e specialmente il Mistero che si celebra sull’altare. Infatti, egli vide inclusa nell’offerta di Cristo la donazione totale di sé che la monaca fa nella Professione col triplice Suscipe me, Domine, secundum eloquim tuum…”, cantato davanti all’altare e alla comunità dei fratelli. E’ per questa ragione che la scheda di Professione viene sottoscritta e deposta sulla mensa dell’altare.

Quindi, il carisma monastico non fa uscire il monaco o la monaca dall’esistenza cristiana, ma la radica in maniera più profonda alla realtà battesimale-eucaristica, cioè nel Ministero del Cristo morto e risorto. Insomma, la vita monastica è unita alla Lectio Divina, all’Opus Dei, che hanno il loro culmine nel Mistero eucaristico: ecco l’atmosfera in cui vive la donna-monaca, pura di cuore, alla ricerca di Dio.

Antonio non si distingueva dagli altri né per la sua altezza né per l’imponenza del suo aspetto, ma per la disposizione del suo carattere e la purezza dell’anima. Infatti, poiché la sua anima era in pace, anche il suo comportamento esterno era tranquillo: la gioia del cuore rendeva lieto il suo volto e i movimenti del corpo lasciavano percepire e intuire lo stato interiore della sua anima, come sta scritto: “Quando il cuore è nella gioia, il volto rifiorisce; ma quando il cuore è nella tristezza, il volto si oscura” (Pr I5, I3).
Così Giacobbe comprese che Labano stava meditando qualche insidia, e disse alle donne: “Il volto di vostro padre non è quello di ieri e dell’altro ieri” (Gen 3I, 5); così Samuele riconobbe David (Sam I6, I2): i suoi occhi infatti infondevano gioia e i suoi denti erano bianchi come latte (Gen 49, I”). E così si poteva riconoscere anche Antonio: non era mai turbato, perché la sua anima era in pace; non era mai scuro in volto, perché la sua anima era piena di gioia. (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 67, 5-8)

Le suore di clausura, spesso, sono stigmatizzate come inutili, perché non immerse – si dice – nel “fare” della vita…
Vediamo sorgere, spontaneo, un sorriso sulle labbra della Reverenda Madre.

Le monache hanno sempre gli occhi e gli orecchi e direi tutti i loro sensi tesi e rivolti all’Onnipotente. Questo fa sì che, educate solo a leggere e ad interpretare i testi e gli avvenimenti del passato, impariamo a leggere noi stesse e la comunità che ci circonda, le vicende della Chiesa e del mondo, i “segni dei tempi”, dal punto di vista di Dio e dei veri interessi del regno.
La lunga familiarità acquisita con il pensiero di Dio, presente nella Sua parola e nel Suo grande disegno d’amore che abbraccia ogni evento e ogni persona, fornisce la chiave nuova di lettura di tutta la realtà e questo vuol dire “profezia”, dono eminente, messo in forte risalto da San Gregorio Magno e partecipato anche da ogni vera monaca.

Vivi e considera te stesso come uno straniero rispetto a ognuno dei fratelli della comunità e, a maggior ragione, rispetto alle persone che conosci nel mondo.
Con il cuore contrito e umiliato rotolati ai piedi di tutti i fratelli della comunità, come una persona che scompare nell’ombra, sconosciuta e del tutto inesistente. (Simeone Studita, Discorso ascetico II.I9)

E’ questa la ragione per la quale a chi è solito dialogare con i monaci sembra che questi “leggano” le cose del mondo meglio di chi vive nel mondo?

Accade sovente, è vero. Ma questo, come le dicevo, è un dono grandissimo di Dio. La “profezia”, quando è autentica, fa evitare da una parte l’eccessiva sacralizzazione, cioè l’incapacità di rispettare la legittima autonomia del mondo creato; dall’altra, preserva dall’erroneo dualismo che contrappone il Sacro e il profano, il Cielo e la terra, la Chiesa e il mondo.
Non è senza significato, del resto, il fatto, universalmente riconosciuto, che la cultura benedettina ha stimato, coltivato, salvaguardato i beni di questa terra, dall’economia al lavoro, dalle arti alla cultura, antica e nuova.

Se vivi nel mondo, sforzati di praticare le virtù adatte a chi è nel mondo; ma se sei monaco, distinguiti nelle opere in cui eccellono i monaci. Se però vuoi occuparti sia delle une che delle altre cose, fallirai in entrambe… Il Signore ha lasciato nel mondo coloro che lo servono e che si prendono cura dei suoi figli, e ha scelto per sé coloro che celebrano davanti a lui la sua liturgia. (Isacco di Ninive, Discorsi ascetici 79)

Quali sono le prerogative di una Madre Abbadessa?

Nella mia personale esperienza, mi sento e sono una monaca come le altre, con l’unico obbligo di amare di più ognuna delle mie consorelle, con spirito di servizio. Non mi sento donata a Dio soltanto attraverso la preghiera ascetica, ma sono intimamente convinta di poterlo raggiungere in maniera autentica solo se io stessa mi faccio dono umile alla mia comunità.
Vede, tutte noi viviamo nell’anelito “sibi ivicem e sub caritate”, nell’aprirsi all’amore e nel rapportarsi costantemente molto più agli altri che a se stessi e al proprio giudizio, comodo o tornaconto. Il mio precipuo compito è ascoltare ed accogliere le mie consorelle, perché la “cosa dell’uomo” diventi “cosa di Dio”. Sono umilmente consapevole del fatto che il Signore conosce la mia nullità e vivo nella certezza del Suo amore, che copre ogni mia debolezza con la Sua Infinita Misericordia.

Tutto ciò nutre un’atmosfera di pace interiore che ci lascia intravedere come sarà la Bellezza del Paradiso. Siamo in cammino perenne alla ricerca assetata solo di Lui, perché questo è il motivo di vita di ogni essere umano, che sia sposato intimamente a Dio o che viva da laico.

Vede, il laico non ha il dono infinito di cui immeritatamente godiamo noi ed è per questo che preghiamo, imploriamo e ci uniamo quotidianamente al suo dolore. E’ il medesimo sforzo che compiamo unendoci al dolore delle anime purganti, perché – vede – fin da ora, per noi, non c’è più bisogno delle due dimensioni dello spazio e del tempo, non c’è più terra e cielo. Esiste solo il desiderio d’immergerci in Lui con tutte le anime dell’universo.

Voi, guide e superiori dei monasteri e delle case, a cui sono stati affidati degli uomini… attendete la venuta del Salvatore (Tt 2, I3) e preparate l’esercito in armi davanti a lui. Guardatevi dal dar loro ristoro nelle cose materiali senza concedere loro il nutrimento spirituale, o al contrario dall’insegnare le cose spirituali affliggendoli in quelle materiali, cioè nel cibo e nel vestito, ma fornite loro ugualmente cibi spirituali e materiali, senza dar loro alcuna occasione di negligenza. Che giustizia è mai questa: opprimere di fatica i fratelli mentre noi stessi ce ne stiamo in ozio? Oppure imporre loro un giogo che noi stessi non possiamo portare (At 15, I0)? Leggiamo nell’evangelo: “Con la misura con la quale misurate, vi sarà misurato” (Mt 7, 2). Condividiamo dunque con loro fatica e riposo, e non consideriamo i nostri discepoli come schiavi, né la loro afflizione come una nostra gioia, perché la parola evangelica non abbia rimproverarci insieme ai farisei: “Guai a voi, dottori della legge, che legate pesi insopportabili e li imponete sulle spalle degli uomini, mentre voi non osate toccarli neppure con un dito” (Lc II, 46; Mt 23, 4) (Orsiesi, Testamento 7)

Reverenda Madre, voi guardate la televisione?

Solo per le grandi celebrazioni o trasmissioni che riguardano il Santo Padre, però leggiamo tanti quotidiani. Siamo nel mondo, senza essere del mondo. Conosciamo il mondo e l’amiamo con tutti i suoi mali, perché certe che Dio li consente per un bene superiore…… In Dio tutto è perfetto, ogni Suo disegno diviene un nostro desiderio e compiere la Sua volontà, la nostra gioia.

Ritirarsi dal mondo non significa venirne fuori fisicamente, ma strappare l’anima dal suo attaccamento al corpo e diventare senza città, senza casa, senza proprietà, senza attaccamento agli amici, senza beni privati, senza mezzi di sussistenza, senza affari, senza relazioni, ignari degli insegnamenti umani, pronti a ricevere nel cuore le impronte dell’insegnamento divino. (Basilio di Cesarea, Lettere 2, 2)

Come vive il rapporto familiare, una monaca?

Amiamo i nostri familiari non meno delle persone che vivono nel mondo, ma in maniera diversa. Non sentiamo il bisogno di vederli o il desiderio di tornare nelle nostre case. Il nostro desiderio è di vivere stabilmente nel Monastero. Infatti, la clausura ha il quarto voto: la stabilità, come dice la Regola di San Benedetto (4, 78): “L’officina nella quale possiamo adoperare con impegno tutti questi strumenti sono i recinti del monastero e la stabilità nella comunità”. Qui entriamo per uscire solo per raggiungere l’unica casa che amiamo più di questa: la Casa del Padre.

Teodoro chiese a un fratello anziano riguardo a quel passo dell’evangelo che dice: “Se uno viene a me e non odia suo padre e sua madre” e ciò che segue (Lc I4, 26): “Tu come lo intendi?”. E il fratello gli disse: “La Scrittura ha usato parole molto esigenti, perché arrivassimo ad osservarle almeno in parte. Come potremmo infatti odiare i nostri genitori?”. Diceva così perché visitava spesso i propri genitori ed era incapace di distaccarsi dal modo di pensare della carne (Rm 8,6) pur avendo udito un così autorevole insegnamento. Teodoro allora gli rispose per metterlo alla prova: “E’ dunque questa la vostra fede, o tabennesioti? L’evangelo dice questo, e tu dici quest’altro? Me ne vado di qui, non voglio rimanere! Stavo bene là dov’ero prima: laggiù i padri non hanno mai rinnegato l’evangelo!”. E fece finta di ritirarsi da qualche parte per nascondersi per un po’ di tempo. Il fratello andò da abba Pacomio e lo informò della cosa; e Pacomio gli rispose: “Non sai che è novizio? Su, sbrigati a cercarlo, perché se se ne va di qui per questo motivo, non ne avremo una buona fama”. E così il fratello, dopo averlo trovato, cominciò a fargli molte esortazioni, e Teodoro gli disse: Se vuoi che resti e che veda che quanto dici è vero, confessa davanti al Signore e ai fratelli che obbedirai all’evangelo!”. Ed egli lo fece, e da quel momento non andò più dai suoi genitori. (Vite greche di Pacomio I, 68)

Cos’è la morte per una monaca?

Il sospirato abbraccio con l’Amato. Il compimento della nostra vita. Pensi che quando entriamo in convento, le campane del Monastero suonano a morte e, nella morte, suonano a festa!!!


Tra i monaci non si sentono mai né grida né gemiti strazianti: la loro casa non è contaminata da queste cose sgradevoli, né turbata da tali rumori. Anche tra di loro, certo, si muore, poiché il loro corpo non è immortale; ma essi non considerano la morte come una morte.

Accompagnano chi è morto alla tomba cantando inni, e chiamano quest’atto “processione” e non “funerale”.

E quando viene annunciato che il tale è morto, è grande gioia e grande letizia, o meglio nessuno osa dire che quel tale è morto, ma che è giunto a perfezione. Poi seguono ringraziamenti, lunghe preghiere di lode e manifestazioni di gioia, e ciascuno si augura di avere una tal fine e di terminare così la lotta di questa vita, di riposare dalle fatiche e dai tormenti, e di vedere Cristo. E quando qualcuno si ammala, non ci sono né lacrime, né lamenti, ma di nuovo preghiere: spesso a guarire un malato non sono state le mani dei medici, ma soltanto la fede. E se anche c’è bisogno dei medici, è grande anche in questo caso la loro sapienza e la loro moderazione. Qui non c’è né moglie che si sciolga i capelli, né bambini che si lamentino di essere orfani ancor prima di esserlo, né servi che preghino chi sta esalando l’ultimo respiro di metterli al sicuro affidandoli a qualcuno, ma l’anima, libera da tutto ciò, pensa a una cosa sola nell’ultimo respiro: a come può andarsene in modo da piacere a Dio. (Giovanni Crisostomo, Omelie su Timoteo I4, 5)

(Le citazioni usate a commento dell’intervista sono tratte dal libro edito da Edizioni Qiqajon nel 2009, intitolato “Il cammino del monaco” – La vita monastica secondo la tradizione dei padri, a cura di Luigi d’Ayala Valva)


Dossier a cura di D.Q. - Agenzia Fides 10/08/2009; Direttore Luca de Mata



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