De Spiritu et littera. Dal libro Senso religioso, peccato originale, concupiscenza, fede in sant’Agostino

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 14:47

Dal libro Senso religioso, peccato originale, fede in sant’Agostino

Sulla concupiscenza.
Il desiderio cattivo e il desiderio buono


Appunti dalle lezioni di don Giacomo Tantardini alla Libera Università San Pio V di Roma, anno 2000-2001


di don Giacomo Tantardini

 

<I>Senso religioso, peccato originale, fede in sant’Agostino</I>, don Giacomo Tantardini

Senso religioso, peccato originale, fede in sant’Agostino, don Giacomo Tantardini

 

Nel De Spiritu et littera Agostino chiama l’attrattiva della grazia concupiscenza buona1.

Il termine concupiscenza cristianamente indica che la dinamica umana è ferita dal peccato. Anche la dimensione più alta della dinamica umana, il senso religioso, che è la sintesi dello spirito umano, è ferito. «La concupiscenza [questa è una definizione del Concilio di Trento] nei battezzati non è peccato, ma dal peccato nasce e al peccato inclina»2. Non la dinamica umana così come è uscita dalle mani del Creatore, ma le dinamiche umane, dopo il peccato originale, sono ferite dalpeccato e tendono a corrompersi nei vizi. Così che dalla considerazione degli stessi vizi (vitia) si possono intravvedere le tendenze buone originarie (appetitus)3. Questo termine, concupiscenza, è uno dei termini che gli stessi apostoli usano. Lo si trova nelle lettere di Paolo (per esempio Rm 7, 7), nelle lettere di Pietro (2Pt 1, 4), nella lettera di Giacomo (Gc 1, 14-15) e nelle lettere di Giovanni (1Gv 2, 16).

L’alternativa a questo impulso può essere solo una concupiscenza buona, più evidente e corrispondente al cuore che non la concupiscenza dovuta alla ferita del peccato originale. Se non fosse più evidente e corrispondente al cuore non ci sarebbe reale motivo per diventare e rimanere cristiani.

Oggi leggeremo due brani del De Spiritu et littera.

 

 

De Spiritu et littera 4, 6

 

«Doctrina quippe illa qua mandatum accipimus continenter recteque vivendi / Quella dottrina dalla quale riceviamo il comandamento di vivere sobriamente e piamente [sobriamente e piamente per usare due termini di Paolo nella lettera a Tito (Tt 2, 12)] / littera est occidens nisi adsit vivificans Spiritus / è lettera che uccide se non è presente lo Spirito che dona la vita». Questa è come la sintesi di tutto quello che Agostino scrive nel De Spiritu et littera. Quella dottrina – potremmo tradurre la dottrina della fede e della morale evidentemente buona – è lettera che uccide se non è presente, se non viene donato lo Spirito che dà la vita.

«[...] Nam hoc ideo elegit Apostolus generale quiddam, quo cuncta complexus est, tamquam haec esset vox legis ab omni peccato prohibentis, quod ait: “Non concupisces” [Agostino sta commentando la Lettera ai Romani, in particolare il capitolo 7]; / [...] Ecco perché l’apostolo ha scelto [come espressione della dottrina] il comandamento più generale, nel quale ha riassunto tutti i comandamenti, come se fosse questa la voce della legge che proibisce ogni peccato; cioè il comandamento che dice: “non desiderare”; / neque enim illum peccatum nisi concupiscendo committitur / e infatti nessun peccato si commette se non attraverso il desiderio». Nessun peccato viene commesso se non attraverso il desiderio. L’inizio del peccato è sempre e solo il desiderio.Come dice Gesù quando, parlando del sesto comandamento «Non commettere adulterio», afferma: «Ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla / iam moechatus est eam in corde suo / ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5, 27).

Questo non per una rigidezza più grande rispetto alla legge di Mosè4, ma perché così sia evidente che occorre un altro desiderio per vincere il peccato. Se il peccato inizia dal desiderio, occorre qualcosa che sia al livello del desiderio, occorre qualcosa che desti, con un’attrattiva più grande, un desiderio buono. Se il peccato avviene nel cuore col desiderare, per non commettere peccati occorre un’attrattiva buona che attinga al cuore, al desiderio. Così proprio quella che sembra l’affermazione moralmente più esigente di Gesù, è l’affermazione più antimoralistica che esiste. Per cui è così evidente, per esperienza, che il peccato si compie quando, tentati dal diavolo, non si domanda. Non si compie dopo, si compie lì. Quando uno non domanda, ha già deciso in cuore suo il peccato, ha già compiuto il peccato. La domanda destata dalla grazia, infatti, non può peccare (cfr. 1Gv 3, 6. 9. 22).

«Neque enim ullum peccatum nisi concupiscendo commititur. / Nessun peccato infatti avviene se non attraverso il desiderio. / Proinde quae hoc praecipit bona et laudabilis lex est. / Dunque quella legge che comanda di non desiderare è buona e lodevole. / Sed ubi sanctus non adiuvat Spiritus inspirans pro concupiscentia mala concupiscentiam bonam / Ma dove non aiuta lo Spirito Santo ispirando invece del desiderio cattivo un desiderio buono, / hoc est caritatem diffundens in cordibus nostris / cioè diffondendo la carità nei nostri cuori [la carità è questa concupiscenza buona. Caritàcioè un’attrattiva che unisce. Delectatio è l’attrattiva e dilectio è l’unità cui l’attrattiva porta. Questa è la carità. L’attrattiva Gesù. La carità è l’attrattiva di quella presenza fino all’adesione a quella presenza, l’attrattiva fino all’abbraccio5], profecto illa lex, quamvis bona, auget prohibendo desiderium malum / senza dubbio quella legge, sebbene buona, aumenta, con la proibizione, il desiderio cattivo». La legge, evidentemente buona, aumenta di fatto il desiderio cattivo. Dicendo “non desiderare la donna d’altri”, questo comando buono aumenta nell’uomo il desiderio della donna d’altri.

E Agostino suggerisce l’esempio dell’impeto delle acque. Quando le acque corrono verso un’unica direzione, se si mette qualcosa che impedisce alle acque di correre, una volta che hanno travolto questo impedimento, esse corrono con più violenza e con più massa.

«[...] Nescio quo enim modo hoc ipsum, quod concupiscitur, fit iocundius, dum vetatur. / [...] Io non so perché capita che si desideri con più piacere una cosa proprio quando viene vietata. / Et hoc est quod fallit peccatum per mandatum / Ed è per questo che il peccato seduce attraverso il comandamento [proprio per il fatto che la legge buona dice di non desiderare la donna d’altri, il peccato usa di questa legge buona per aumentare il desiderio, per sedurre] / et per illud occidit, / e attraverso esso uccide, / cum accedit etiam praevaricatio quae nulla est ubi lex non est / perché vi si aggiunge anche la trasgressione, che non ci sarebbe se non ci fosse la legge». Quindi la legge aggiunge al peccato anche il fatto di essere una trasgressione. Non solo si compie una cosa cattiva, ma si disubbidisce alla legge. Si trasgredisce la legge, mentre la trasgressione non ci sarebbe se non ci fosse la legge.


Ma la frase centrale di questo brano è: «Sed ubi sanctus non adiuvat Spiritus inspirans pro concupiscentia mala / Ma dove non aiuta lo Spirito Santo ispirando, invece del desiderio cattivo, / concupiscentiam bonam... / un desiderio buono...». Inspirans vuol dire che tocca la sorgente del cuore lì dove il desiderio nasce. È tutto qui. Occorre un’attrattiva che attinga dove il desiderio nasce. E questo si può solo domandare6. Altrimenti si può apparire giusti davanti agli uomini, ma non davanti a Dio che scruta i cuori. Perché anche se uno non va contro nessun comandamento, Dio che scruta i cuori sa che preferirebbe, nel suo cuore, come desiderio, andare contro il comandamento. Soltanto che circostanze – che sono comunque strumento del disegno del Signore – gli impediscono o non favoriscono il soddisfare quello che come desiderio preferirebbe (cfr. De Spiritu et littera 8, 13-14). Se il peccato si compie al livello del desiderio, l’alternativa al peccato non può che essere un’attrattiva che tocca il cuore lì dove il desiderio nasce. L’alternativa può essere solo un’attrattiva buona invece dell’impulso cattivo. Questa attrattiva buona si chiama anche carità. La carità (dilectio) compiel’attrattiva (delectatio) nell’abbraccio, nell’unità (cfr. 1Cor 6, 17).

 

 



[SM=g1740758]
Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 14:49

De Spiritu et littera 12, 19-20

 

La legge, che è buona e lodevole, è usata dal peccato per aumentare il desiderio cattivo. Nella Lettera ai Romani, in particolare al capitolo 7, Paolo descrive questa dinamica. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo sintetizza così: «La forza del peccato è la legge» (1Cor 15, 56). Ma il brano che leggiamo ora è come più attuale. Non solo la legge di Dio, ma la conoscenza della verità, e la conoscenza stessa di Dio, di fatto, storicamente, è lettera che uccide, conduce alla morte.
Diventa lettera che uccide senza questa delectatio (attrattiva). Per suggerire questo, Agostino legge il primo capitolo della Lettera ai Romani. Ed è stata una sorpresa anche per me, quest’estate. Avevo letto tante volte il primo capitolo della Lettera ai Romani. Eppure è proprio vero che, spesso, quando uno crede di sapere già una cosa, non si accorge che essa è diversa da come crede di sapere. Ho sempre detto che Paolo dice che sono inescusabili gli uomini che non riconoscono l’esistenza del Creatore. Paolo non dice propriamente questo.

«Quia enim commendaverat pietatem fidei /Poiché infatti aveva lodato la pietà della fede [è bellissimo questo: la pietas della fede. Che cos’è la pietas della fede? Agostino ha imparato da Ambrogio che «il dovere più grande è ringraziare»7.

Non esiste dovere più grande di questo: rendere grazie] / qua Deo iustificati grati esse debemus, / per la quale dobbiamo essere grati a Dio perché per essa ci ha resi giusti, / velut contrarium quod detestaremur subinferens / introducendo ciò che si deve detestare come contrario [Paolo] dice: / “Revelatur enim”, inquit, “ira Dei de caelo / “L’ira di Dio si rivela dal cielo / super omnem impietatem et iniustitiam hominum eorum / contro ogni empietà e ogni ingiustizia di quegli uomini / qui veritatem in iniquitate detinent, / che soffocano [ovvero imprigionano: detinent può indicare soffocare o imprigionare] la verità nell’iniquità [conoscendo la verità, la soffocano, la imprigionano nell’iniquità. Come conoscono la verità?] / quia quod notum est Dei manifestum est in illis, / perché quello che di Dio si può conoscere a loro è manifesto, / Deus enim illis manifestavit” / Dio stesso lo ha loro manifestato”».

E qui c’è una delle frasi più note di Paolo: «“Invisibilia enim eius / Infatti le sue perfezioni invisibili / a creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta, conspiciuntur / si possono vedere con l’intelligenza, dalla creazione del mondo, attraverso le cose che Lui ha fatto [l’intelligenza dell’uomo attraverso le creature può riconoscere l’esistenza dell’invisibile Creatore. Questo è dogma di fede8] / sempiterna quoque virtus eius ac divinitas, / e anche la sua eterna potenza e la sua divinità [attraverso le cose che ha creato, l’intelligenza umana può riconoscere il Mistero eterno che crea. Può riconoscere il Tu che crea], / ut sint inexcusabiles / così che essi sono inescusabili / quia cognoscentes Deum non ut Deum glorificaverunt aut gratias egerunt” / perché, conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria come Dio, non gli hanno reso grazie”».

Paolo non parla degli atei, non parla di coloro che non ammettono l’esistenza di Dio. Sono inescusabili coloro che, conoscendo Dio, non gli rendono grazie. Quindi non Lo riconoscono come Dio dal momento che non gli rendono grazie. Perché non si conosce veramente se non nella gratitudine. Un essere vivente e personale non si conosce veramente se non perché si è grati che ci sia, che sia per noi. Non si conosce se non rende lieti che sia per noi. Al di fuori della letizia che sia per noi, e quindi al di fuori della gratitudine, non si conosce veramente9;

«“sed evanuerunt in cogitationibus suis. / e sono impazziti nei loro pensieri [non gli atei, non i nichilisti, non i cinici. Ma coloro che ammettono l’esistenza di Dio]. / Et obscuratum est insipiens cor eorum, / E il loro cuore insipiente è diventato tenebroso / dicentes se esse sapientes stulti facti sunt” / e poiché si sono dichiarati sapienti sono diventati stolti”». Siccome sono teisti, cioè ammettono Dio, si ritengono sapienti rispetto agli altri. Anche in questo caso vale la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr. Lc 18, 9-14).



[SM=g1740758]

Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 14:50

E, concludendo, Paolo sembra anticipare l’accenno di Agostino circa i platonici. I platonici, con tutto il loro parlare di Dio, «pensano che occorra offrire onori di riti sacri e di sacrifici ai demoni»10; «“et mutaverunt gloriam incorruptibilis Dei in similitudinem imaginis corruptibilis hominis et volucrum et quadrupedum e serpentium” / “e hanno cambiato la gloria del Dio incorruttibile con immagini dell’uomo corruttibile, di uccelli, di animali e di rettili”».

Così san Paolo. Qui comincia il commento di Agostino. «Vide quemadmodum non eos dixerit veritatis ignaros / Vedi come ha detto non che hanno ignorato la verità [non sono ignari della verità questi uomini inescusabili], / sed quod veritatem in iniquitate detinuerint. / ma che hanno soffocato la verità nell’iniquità. / Et quia occurrebat animo ut quaereretur unde illis esse potuerit cognitio veritatis / E siccome si affacciava all’animo la domanda da dove a loro potesse essere venuta la conoscenza della verità, / quibus Deus legem non dederat, / loro ai quali Dio non aveva dato la legge [che non avevano ricevuto la legge, cioè che non avevano la rivelazione storica], / neque hoc tacuit unde habere potuerint: / [l’apostolo] non ha taciuto da dove questi uomini poterono avere la conoscenza della verità: / per visibilia namque creaturae / attraverso le cose visibili della creazione [questo è il realismo di Paolo. La verità comunque si conosce sempre e solo attraverso le cose visibili della creazione, attraverso la realtà creata] / pervenisse eos dixit ad intelligentiam invisibilium Creatoris, / essi pervennero, ha detto, all’intelligenza delle perfezioni invisibili del Creatore, / quoniam revera sic magna ingenia quaerere perstiterunt sic invenire potuerunt / poiché in realtà i grandi ingegni, perseverando nel cercare, riuscirono a trovare». Qui è molto bello, perché Agostino ha compassione della loro perseveranza nel cercare.

Quando si dichiarano sapienti da sé stessi, allora diventano inescusabili. Ma il loro tentativo commuove. Questa perseveranza nel cercare è stata l’espressione poetica anche di questi ultimi secoli. Leopardi per esempio ha perseverato nel cercare, Pavese ha perseverato nel cercare. In alcuni momenti hanno intuito. E quindi li chiama magna ingenia / di intelligenza grande. Le domande del pastore errante dell’Asia sono le domande del cuore di ogni uomo e sono una cosa commovente11. Così è umano, quando un bimbo nasce e quando una persona muore, domandarsi se c’è qualcosa per cui val la pena vivere e morire.

«Ubi ergo impietas? /Allora dov’è l’empietà? / “Quia” videlicet “cum cognovissent Deum, non sicut Deum glorificaverunt aut gratias egerunt / [qui ripete le parole di Paolo, Rm 1, 21] “Perché, avendo conosciuto Dio, non Lo hanno glorificato come Dio e non gli hanno reso grazie, / sed evenuerunt in cogitationibus suis”/ ma hanno vaneggiato nei loro pensieri”». Non è innanzitutto un problema di incoerenza morale il non renderGli grazie. Il non renderGli grazie vuol dire non riconoscerLo come Dio. Vuol dire non accorgersi che Lo si riconosce in quanto è Lui che nella creazione si rivela. L’iniziativa è del Mistero12. Quando invece uno si vanta di arrivare lui a comprendere Dio, ciò di cui parla non è Dio, è altro da Dio13. Il non renderGli grazie non è innanzitutto una questione di incoerenza morale. Il rendere grazie è all’origine della possibilità stessa di riconoscere l’esistenza del Mistero come Mistero. Lo si può riconoscere nello stupore. Anche a livello creaturale, Lo si riconosce per stupore. Lo si riconosce perché Lui nella creazione si manifesta. Nella bellezza della creazione si manifesta14. La bellezza pur fragile delle cose create lascia intravvedere il Creatore, è testimonianza del Creatore15. Quindi il renderGli grazie non è innanzitutto una conseguenza morale. Non Lo si riconosce come Mistero se non rendendo grazie. Diventa una proiezione di sé, non è il Mistero che si rivela nella realtà creata, se non Gli si rende grazie. Se è una proiezione di sé, dalla religione possono nascere pazzie e violenze grandi16.

«Eorum proprie vanitas morbus est / Vaneggiare [impazzire] è propriamente la loro malattia [la malattia di chi pure conosce la verità] , / qui se ipsos seducunt / in quanto ingannano sé stessi / dum videntur sibi aliquid esse cum nihil sint [cfr. Gal 6, 3] / [questa è la frase che dice tutto] perché si credono qualcosa, mentre non sono niente». Si credono talmente qualcosa che, in un’altra opera, Agostino dice che sicreano Dio17. Quel Dio che affermano è una creatura loro, non è il Mistero che si manifesta. Si credono talmente qualcosa che creano loro Dio. Non riconoscono quell’originale dipendenza, non hanno quella reverentia cui accenna anche Tacito18.

«Denique hoc tumore superbiae sese obumbrantes / Poi ottenebrando sé stessi con questo cancro della superbia, / cuius pedem sibi non venire deprecatur sanctus ille cantator qui dixit: “In lumine tuo videbimus lumen”, / dal cui piede il salmista aveva pregato di non essere raggiunto quando disse: “Nella tua luce vedremo la luce” [Ps 35, 10] [per quanto riguarda la conoscenza naturale di Dio, il versetto del salmo «Nella tua luce vedremo la luce» vuol dire semplicemente che le creature in quanto creature sono testimonianza del Creatore. La creatura visibile è segno, lascia intravvedere l’esistenza del Creatore invisibile], / ab ipso lumine incommutabilis veritatis aversi sunt “et obscuratum est insipiens cor eorum”. / da questa luce della verità che non muta si sono allontanati [si sono allontanati da questo stupore creaturale] “e il loro cuore insipiente è diventato tenebra”. / Non enim sapiens cor quamvis cognovissent Deum / Un cuore dunque che non è sapiente, benché abbiano conosciuto Dio, / sed insipiens potius, / ma piuttosto insipiente, / quia non sicut Deum glorificaverunt aut gratias egerunt / perché non hanno a Lui dato gloria come Dio e reso grazie». Quindi non Lo hanno riconosciuto come Dio. Ciò di cui parlano è un idolo cioè un’immagine loro, una proiezione di sé.

«“Dixit” enim “homini: Ecce pietas est sapientia” [Gb 28, 28]. / Infatti “disse all’uomo: la sapienza è la pietà”. / Ac per hoc “dicentes se esse sapientes”, quod non aliter intellegendum est nisi hoc ipsum sibi tribuentes, “stulti facti sunt” [Rm 1, 22]. / E per questo, “dicendo di essere sapienti”, cosa che non si può intendere diversamente se non nel senso che si sono attribuiti ciò da loro stessi, “sono diventati stolti”. / Iam quae sequuntur quid opus est dicere? / Che bisogno c’è di aggiungere ormai altre cose? / Per hanc quippe impietatem illi homines – illi, inquam, homines, qui per creaturam Creatorem cognoscere potuerunt – / Attraverso questa empietà, quegli uomini – quegli uomini, dico, che hanno potuto conoscere il Creatore attraverso la realtà creata – / quo prolapsi, cum Deus superbis resistit, atque ubi demersi sint, / dove siano caduti, perché Dio resiste ai superbi, e dove siano affondati, / melius ipsius epistolae consequentia docent / le parti che seguono di questa stessa lettera [la Lettera ai Romani] lo dicono meglio / quam hic commemoratur a nobis / di quanto possiamo ricordarlo ora noi». Questi uomini hanno ammesso l’esistenza di Dio, ma non gli hanno reso grazie e si sono attribuiti loro da loro stessi di essere sapienti, come se fosse una loro bravura arrivare a conoscere l’esistenza del Creatore.

«[...]Non in eo nos divinitus adiuvari ad operandam iustitiam quod legem Deus dedit plenam bonis sanctisque praeceptis, / [...] Noi non siamo aiutati da Dio nell’operare la giustizia [nel fare il bene] dal fatto che Dio ha dato una legge piena di santi e buoni comandamenti, / sed quod ipsa voluntas nostra, sine qua operari bonum non possumus, adiuvetur et erigatur impertito spiritu gratiae / ma dal fatto che la nostra stessa volontà, senza la quale non possiamo fare il bene, è aiutata ed è destata dal dono dello Spirito della grazia». È buona la legge. Ma la legge non può destare la volontà di compiere quel bene che indica. Anzi la legge di per sé conferma e stimola il desiderio cattivo. Dio aiuta e desta la volontà a fare il bene attraverso il suo dono, il dono della sua grazia;

«sine quo adiutorio / e senza questo aiuto / doctrina illa littera est occidens. / quella dottrina [il sapere che Dio esiste e il conoscere la legge di Dio] è lettera che uccide. / Quia reos potius praevaricationis tenet quam iustificat impios. / Perché la dottrina rende i peccatori anche prevaricatori, piuttosto che rendere gli empi giusti. / Nam sicut illis per creaturam cognitoribus Creatoris ea ipsa cognitio nihil profuit ad salutem, / Infatti come per coloro che hanno conosciuto il Creatore attraverso la realtà creata, quella stessa conoscenza non è servita nulla alla salvezza, / “quia cognoscentes Deum non sicut Deum glorificaverunt aut gratias egerunt dicentes se esse sapientes” [Rm 1, 21], / “perché, conoscendo Dio, non hanno reso gloria e grazie a Lui come Dio, anzi [attribuendoa sé questa conoscenza di Dio] si sono detti sapienti”, / ita eos qui per legem Dei cognoscunt quemadmodum sit homini vivendum / così quelli che attraverso la legge di Dio conoscono in che modo l’uomo debba comportarsi, / non iustificat ipsa cognitio / questa stessa conoscenza non li rende giusti / “quia suam iustitiam volentes constituere iustitiae Dei non sunt subiecti” [Rm 10, 3] / “perché, volendo stabilire la propria giustizia, non sono sottomessi alla giustizia che viene da Dio”».

Ho letto questi due brani non solo per i suggerimenti d’intelligenza circa le condizioni attuali della Chiesa e del mondo. Li ho letti perché si comprenda a che livello debba agire l’attrattiva della grazia perché noi possiamo operare il bene. Ad un livello che non è in mano nostra. Il nostro desiderio, che è la cosa più povera e più nostra che abbiamo, non è in mano nostra. Il nostro desiderio, che sorge dal cuore, non è peccato, ma ferito dal peccato decade e alla lunga al peccato conduce. Allora occorre un’altra cosa, un’altra attrattiva, un altro stupore che desti e sorregga il desiderio, che desti e sorregga la volontà. Come quando i primi correvano dietro a Francesco. O meglio – come Dante suggerisce in modo mirabile – correvano dietro all’attrattiva cui Francesco correva dietro19. Per questo bisogna domandare di essere misericordiosi. Non si può che essere misericordiosi20. Infatti se l’esperienza di questa attrattiva (l’esperienza di questo correre dietro) non è stata così presente nella vita, e se la memoria di questa attrattiva non si rinnova nel presente21 (e se non si rinnova nel presente, il passato non è memoria, anzi può diventare bestemmia), non si può agire bene22. È letterale: «senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5)23. Niente. Niente vuol dire che neppure il destarsi del desiderio è in mano nostra, che non si può comandare al desiderio. Occorre un’altra attrattiva che desti il desiderio. Un’altra cosa, più bella. Se uno ha sperimentato il correr dietro a questa concupiscenza più bella, sa di che cosa si tratta24. E allora, nonostante i tradimenti, è facile riprendersi, perché occorre un odio diabolico per non riconoscere che è più bella. E così, riconoscendo che è più bella,anche solo da lontano, piangere per questa cosa più bella.

Volevo accennare a un brano di sant’Ambrogio nell’Antico Breviario Ambrosiano25. Ambrogio evidenzia di più non solo che la legge è buona, ma il fatto che, quando uno incontra la grazia, si accorge che la legge tutta accenna alla grazia del Signore26. È bellissimo. Ambrogio aggiunge che «[la legge] tyrannicis mundi istius potestatibus [...] inclusa cohibetur / è tenuta rinchiusa in un carcere dalle potenze tiranniche di questo mondo». Perché la legge, che è buona, è tenuta in carcere? «Quo minus lucem dominicae resurrectionis effunderet / perché non faccia risplendere la luce della risurrezione del Signore». La legge è già un riflesso della risurrezione del Signore. Quindi lo stupore creaturale, lo stupore di fronte alle cose belle e buone, se rimane originario stupore, se non è attribuito a sé, se rimane apertura e attesa creaturale, come quella di un bambino27, rimanda alla risurrezione del Signore. In Ambrogio, da questo punto di vista, la positività della legge è come più evidenziata.

 




[SM=g1740758]  seguono le Note

Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 14:51

Note

1 Agostino, De Spiritu et littera 4, 6.

2 Cfr. Concilio di Trento, decreto De peccato originali, can. V (Denzinger 1515).

3 Agostino, De vera religione 39, 72: «Quid igitur restat, unde non possit anima recordari primam pulchritudinem quam reliquit, quando de ipsis suis vitiis potest? Ita enim Sapientia Dei pertendit usque in finem fortiter. Ita per hanc summus ille artifex opera sua in unum finem decoris ordinata contexuit. Ita illa bonitas a summo ad extremum nulli pulchritudini, quae ab ipso solo esse posset, invidit; ut nemo ab ipsa veritate deiciatur, qui non excipiatur ab aliqua effigie veritatis»; cfr. N. Cipriani, Lo schema dei tria vitia ( voluptas, superbia, curiositas) nel De vera religione: antropologia soggiacente e fonti, in Augustinianum 38 (1998), pp. 157-195.

4 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I-II q. 107 a. 4: «Sed contra est quod dicitur Matth. XI, “venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis”. Quod exponens Hilarius dicit, “legis difficultatibus laborantes, et peccatis saeculi oneratos, ad se advocat”. Et postmodum de iugo Evangelii subdit, “iugum enim meum suave est, et onus meum leve”. Ergo lex nova est levior quam vetus».

5 Cfr. Agostino, De Spiritu et littera 3, 5: «Nos autem dicimus humanam voluntatem sic divinitus adiuvari ad faciendam iustitiam, ut praeter quod creatus est homo cum libero arbitrio praeterque doctrinam qua ei praecipitur quemadmodum vivere debeat accipiat Spiritum Sanctum, quo fiat in animo eius delectatio dilectioque summi illius atque incommutabilis boni, quod Deus est, etiam nunc cum per fidem ambulatur, nondum per speciem, ut hac sibi velut arra data gratuiti muneris inardescat inhaerere Creatori atque inflammetur accedere ad participationem illius veri luminis, ut ex illo ei bene sit, a quo habet ut sit».

6 Cfr. Agostino, In Evangelium Ioannis XXVI, 2: «“Nolite murmurare ad invicem”. Tamquam dicens: Scio quare non esuriatis, et istum panem non intellegatis neque quaeratis. “Nolite murmurare ad invicem: nemo potest venire ad me, nisi Pater qui misit me, traxerit eum”. Magna gratiae commendatio! Nemo venit nisi tractus. Quem trahat et quem non trahat, quare illum trahat et illum non trahat, noli velle iudicare, si non vis errare. Semel accipe, et intellege: nondum traheris? Ora ut traharis. Quid hic dicimus, fratres? Si trahimur ad Christum, ergo inviti credimus; ergo violentia adhibetur, non voluntas excitatur. Intrare quisquam ecclesiam potest nolens, accedere ad altare potest nolens, accipere Sacramentum potest nolens: credere non potest nisi volens. Si corpore crederetur, fieret in nolentibus: sed non corpore creditur. Apostolum audi: “Corde creditur ad iustitiam”. Et quid sequitur? “Ore autem confessio fit ad salutem”. De radice cordis surgit ista confessio».

7 Cfr. Ambrogio, De excessu fratris sui Satyri I, 44: «Nullum referenda gratia maius esse officium»; cfr. Ti adoro (del mattino) e Ti adoro (della sera), in Chi prega si salva, 30Giorni, Roma 2001, p. 10.

8 Cfr. Concilio ecumenico Vaticano I, costituzione dogmatica Dei Filius, cap. 2: De revelatione (Denzinger 3004): «Eadem sancta mater Ecclesia tenet et docet, Deum, rerum omnium principium et finem, naturali humanae rationis lumine e rebus creatis certo cognosci posse; “invisibilia enim ipsius, a creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur” [Rm 1, 20]: attamen placuisse eius sapientiae et bonitati, alia eaque supernaturali via se ipsum ac aeterna voluntatis suae decreta humano generi revelare, dicente Apostolo: “Multifariam multisque modis olim Deus loquens patribus in Prophetis: novissime diebus istis locutus est nobis in Filio” [Eb 1,1s; De revelatione, can. 1: «Si quis dixerit, Deum unum et verum, creatorem et Dominum nostrum, per ea quae facta sunt, naturali rationis humanae lumine certo cognosci non posse: anathema sit»]»; cfr. J. Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, Milano 1989, p. 25 e nota 10: «Si può continuare a dire con Tommaso che l’incredulità è innaturale, ma occorre aggiungere nello stesso tempo che l’uomo non può completamente illuminare lo strano crepuscolo circa la questione dell’Eterno, così che Dio deve prendere l’iniziativa di venirgli incontro, deve parlargli se deve aver luogo una vera relazione con Lui [questa è esattamente la dottrina del Vaticano I sulla conoscenza umana di Dio. Cfr. soprattutto il capitolo secondo della costituzione Dei Filius (Denzinger 3004-3007); cfr. nel volume De doctrina Concilii Vaticani Primi, Libreria Editrice Vaticana, 1969, gli apporti di R. Aubert (pp. 46-121) e di G. Paradis (pp. 221-282)]».

9 Cfr. L. Giussani, «Torna a Surriento», in L’autocoscienza del cosmo, Bur, Milano 2000, pp. 213-229; cfr. H. Schlier, Linee fondamentali di una teologia paolina, Queriniana, Brescia 1990, pp. 28-36.

10 Cfr. Agostino, De civitate Dei X, 1, 1: «Sed quia ipsi quoque sive cedentes vanitati errorique populorum sive, ut ait Apostolus, “evanescentes in cogitationibus suis” multos deos colendos ita putaverunt vel putari voluerunt, ut quidam eorum etiam daemonibus divinos honores sacrorum et sacrificiorum deferendos esse censerent».

11 «Spesso quand’io ti miro / star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel confina; / ovver con la mia greggia / seguirmi viaggiando a mano a mano; / e quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? Che vuol dir questa / solitudine immensa? Ed io che sono? / Così meco ragiono...» (cfr. L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, Bur, Milano 1994, p. 11).

12 Cfr. L. Giussani, Un luogo, in 30Giorni, n. 11, novembre 2000, pp. 55-62.

13 Cfr. Agostino, Sermones 52, 6, 16: «Quid ergo dicamus, fratres, de Deo? Si enim quod vis dicere, si cepisti, non est Deus. Si comprehendere potuisti, aliud pro Deocomprehendisti. Si quasi comprehendere potuisti, cogitatione tua te decepisti. Hoc ergo non est, si comprehendisti; si autem hoc est, non comprehendisti. Quid ergo vis loqui, quod comprehendere non potuisti?»; cfr. Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles I, 30, 4: «Non enim de Deo capere possumus quid est, sed quid non est, et qualiter alia se habeant ad ipsum, ut ex supra dictis patet».

14 Cfr. Tommaso d’Aquino, In librum beati Dionysii De divinis nominibus expositio IV, 5: «Unde patet quod ex divina pulchritudine esse omnium derivatur».

15 Cfr. Agostino, Sermones 241, 2: «Unde “cognoscentes”? Ex his quae fecit. Interroga pulchritudinem terrae, interroga pulchritudinem maris, interroga pulchritudinem dilatati et diffusi aeris, interroga pulchritudinem coeli, interroga ordinem siderum, interroga solem fulgore suo diem clarificantem, interroga lunam splendore subsequentis noctis tenebras temperantem, interroga animalia quae moventur in aquis, quae morantur in terris, quae volitant in aere; latentes animas, perspicua corpora; visibilia regenda, invisibiles regentes: interroga ista. Respondent tibi omnia: Ecce vide, pulchra sumus. Pulchritudo eorum, confessio eorum».

16 Cfr. rubrica “Spicchi”, Senso religioso e fede/1. Papa: «Quelle forme aberranti del sentimento religioso...» e Senso religioso e fede/2. Ratzinger: «Le patologie religiose che emergono necessariamente quando mancano vere risposte», in 30Giorni, n. 12, dicembre 2000, pp. 34-35.

17 Cfr. Agostino, De gratia et libero arbitrio 19, 40: «Et pelagiani etiam ipsum Deum non ex Deo, sed ex semetipsis habere se dicunt».

18 Cfr. L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, op. cit., p. 32: «Tacito definiva il divino, come era percepito dai Germani del suo tempo, così: “Secretum illud quod sola reverentia vident”, quel quid nascosto (quel “mistero”) che essi intuiscono in un sentimento di soggezione che dà il senso della propria originale dipendenza».

19 Cfr. Dante, Paradiso XI, 76-84: «La lor concordia e i lor lieti sembianti / amore e meraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi. / Tanto che ’l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, li parve esser tardo. / Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! / Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro / dietro allo sposo, sì la Sposa piace»; cfr. L. Giussani, Milano 1954. Cronaca di una nascita, marzo 1979, in Un avvenimento di vita, cioè una storia (introduzione del cardinale Joseph Ratzinger), Edit-Il Sabato, Roma 1993, p. 335: «Il tema che mi è stato assegnato per questa conversazione è: “Colloquio con Comunione e liberazione”. Ma prima di iniziare vorrei fare una premessa importante. Il dialogo con Cl non è un dialogo con me: credo che almeno alcuni tra voi mi abbiano già sentito insistere sul fatto che non si segue una persona ma un’esperienza di vita, che, in quanto fedele all’educazione della Chiesa, è un’esperienza del Signore. A proporla può essere una persona, ma scomparendo questa persona (nei vari modi in cui un uomo può scomparire: non solo la morte, ma anche il suo difetto, il suo male, il suo errore), l’esperienza, se compresa nei suoi fattori di valore, rimane».

20 Cfr. Agostino, Enarrationes in psalmos 143, 7: «De nulla enim re sic vincitur inimicus, quam cum misericordes sumus».

21 Cfr. Indiculus, cap. 3 (Denzinger 241): «Neminem etiam baptismatis gratia renovatum idoneum esse ad superandas diaboli insidias et ad vincendas carnis concupiscentias, nisi per quotidianum adiutorium Dei perseverantiam bonae conservationis acceperit. Quod eiusdem antistitis in eisdem paginis doctrina confirmat, dicens: “Nam quamvis hominem redemisset a praeteritis ille peccatis, tamen sciens iterum posse peccare, ad reparationem sibi, quemadmodum posset illum et post ista corrigere, multa servavit, quotidiana praestans illi remedia, quibus nisi freti confisique nitamur, nullatenus humanos vincere poterimus errores. Necesse est enim, ut quo auxiliante vincimus, eo iterum non adiuvante vincamur”».

22 Cfr. Agostino, De Spiritu et littera 3, 5: «Nam neque liberum arbitrium quidquam nisi ad peccandum valet, si lateat veritatis via; et cum id quod agendum et quo nitendum est coeperit non latere, nisi etiam delectet et ametur, non agitur, non suscipitur, non bene vivitur. Ut autem diligatur, caritas Dei diffunditur in cordibus nostris non per arbitrium liberum, quod surgit ex nobis, sed per Spiritum Sanctum, qui datus est nobis».

23 Cfr. Concilio di Cartagine, De gratia, can. 5 (Denzinger 227): «Item placuit, ut quicumque dixerit, ideo nobis gratiam iustificationis dari, ut, quod facere per liberum iubemur arbitrium, facilius possimus implere per gratiam, tamquam et si gratia non daretur, non quidem facile, sed tamen possimus etiam sine illa implere divina mandata, anathema sit. De fructibus enim mandatorum Dominus loquebatur, ubi non ait: “Sine me difficilius potestis facere”, sed ait: “Sine me nihil potestis facere” (Gv 15, 5)».

24 Cfr. Agostino, Enarrationes in psalmos 118, 17, 3:«Suavitas disci non potest nisi delectet».

25 Antico Breviario Ambrosiano, Dominica III Adventus, ad Matutinum, Homilia sancti Ambrosii episcopi (Expositio in Lucam V).

26 Antico Breviario Ambrosiano, Dominica III Adventus, ad Matutinum, Lectio I: «Prophetavit quidem lex in Exodo baptismatis gratiam per nubem et mare: spiritalem in Agno praenunciavit escam: fontem perennem designavit in petra: remissionem peccatorum in Levitico revelavit: regnum coelorum annunciavit in Psalmis: terram Repromissionis in Iesu Nave manifestissime declaravit».

27 Cfr. L. Giussani, In cammino, agosto 1992, in Un avvenimento di vita, cioè una storia, op. cit., p. 488.


Caterina63
00sabato 25 agosto 2012 17:08

«Il Padre Nostro basterebbe da solo alla causa della grazia che noi sosteniamo»


Alle fonti DEL VERO ecumenismo


Brani dal De dono perseverantiae di sant’Agostino


DAL DE DONO PERSEVERANTIAE
7, 15 «[…] Prorsus in hac re non operosas disputationes exspectet Ecclesia: sed attendat quotidianas orationes suas. Orat, ut increduli credant: Deus ergo convertit ad fidem. Orat, ut credentes perseverent: Deus ergo donat perseverantiam usque in finem. Haec Deus facturum se esse praescivit: Ipsa est praedestinatio sanctorum, quos elegit in Christo […]».

Ambrogio battezza Agostino
e il figlio Adeodato, gruppo statuario 
di pietra dipinta (1549), Cattedrale di San Pietro e San Paolo, Troyes, Francia

Ambrogio battezza Agostino e il figlio Adeodato, gruppo statuario di pietra dipinta (1549), Cattedrale di San Pietro e San Paolo, Troyes, Francia

7, 15 «[…] Dunque su questo argomento la Chiesa non deve indugiare in laboriose dispute, ma solo essere attenta alle sue preghiere quotidiane. Essa prega affinché coloro che non hanno la fede credano: dunque è Dio che converte alla fede. Essa prega perché i credenti perseverino: dunque è Dio che dona la perseveranza fino alla fine. Dio ebbe prescienza che Egli avrebbe fatto ciò. Questa prescienza è appunto la predestinazione dei santi, i quali Egli ha eletto in Cristo […]».

22, 60 «[…] Cur enim non potius ita dicitur: Et si qui sunt nondum vocati, pro eis ut vocentur oremus? Fortassis enim sic praedestinati sunt, ut nostris orationibus concedantur, et accipiant eamdem gratiam, qua velint atque efficiantur electi. Deus enim qui omnia quae praedestinavit implevit, ideo et pro inimicis fidei orare nos voluit; ut hinc intellegeremus, quod ipse etiam infidelibus donet ut credant, et volentes ex nolentibus faciat».

22, 60 «[…] Perché infatti non dire piuttosto: E se alcuni non sono stati ancora chiamati, preghiamo per loro affinché vengano chiamati? Può darsi che essi siano predestinati in questo modo: che la loro salvezza sia stata affidata alle nostre preghiere e che essi attraverso le preghiere ricevano la grazia, quella stessa grazia per la quale potranno voler essere eletti e saranno eletti. Dio, infatti, che dà compimento a tutto quello che ha predestinato, ha voluto che noi pregassimo anche per i nemici della fede per questo motivo, per farci comprendere da qui che è proprio Lui a concedere di credere anche a coloro che ancora non credono e a renderli volenti da non volenti».

6, 12-7, 13 «Tutiores vivimus, si totum Deo damus, non autem nos illi ex parte, et nobis ex parte committimus: quod vidit iste venerabilis martyr. Nam cum eumdem locum orationis exponeret, ait post cetera: Quando autem rogamus, ne in tentationem veniamus, admonemur infirmitatis et imbecillitatis nostrae, dum sic rogamus, ne quis se insolenter extollat, ne quis sibi superbe et arroganter aliquid assumat, ne quis aut confessionis aut passionis gloriam suam ducat: cum Dominus ipse humilitatem docens, dixerit: “Vigilate et orate, ne veniatis in tentationem; spiritus quidem promptus est, caro autem infirma” ut dum praecedit humilis et submissa confessio, et datur totum Deo, quidquid suppliciter cum timore Dei petitur, ipsius pietate praestetur (Cipriano, De oratione dominica, 26). Si ergo alia documenta non essent, haec dominica oratio nobis ad causam gratiae, quam defendimus, sola sufficeret: quia nihil nobis reliquit, in quo tamquam in nostro gloriemur. Siquidem et ut non discedamus a Deo, non ostendit dandum esse nisi a Deo, cum poscendum ostendit a Deo. Qui enim non infertur in tentationem, non discedit a Deo».

6, 12-7, 13 «Viviamo più sicuri se diamo tutto a Dio, invece di affidarci in parte a lui e in parte a noi stessi; come vide questo venerabile martire. Infatti, spiegando lo stesso passo della preghiera, dice in seguito: Quando preghiamo di non venire in tentazione, ci viene ricordata la nostra debolezza e insufficienza, mentre preghiamo perché nessuno insuperbisca con insolenza, nessuno, con superbia e arroganza, attribuisca alcunché a se stesso, nessuno consideri come sua propria la gloria della confessione di fede o della passione. Infatti il Signore stesso, insegnando l’umiltà ha detto: “Vegliate e pregate per non venire in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole”; questo vuol dire che se viene prima un’umile e sottomessa confessione e tutto viene dato a Dio, tutto ciò che viene chiesto pregando nel timore del Signore viene donato dalla sua pietà (Cipriano, De oratione dominica, 26). Se anche non ci fossero altre testimonianze, questa orazione del Signore basterebbe da sola alla causa della grazia che noi sosteniamo, perché non ci lascia niente in cui ci possiamo gloriare come se fosse nostro. Anzi, l’orazione dimostra che anche il fatto di non allontanarci dal Signore non viene concesso se non da Dio, proprio col dichiarare che a Dio dev’essere chiesto. Chi infatti non è abbandonato alla tentazione non si allontana da Dio […]».

[SM=g1740733]

Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 11:24.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com