Dio è giudice e giusto, ma anche padre misericordioso

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Caterina63
00mercoledì 26 agosto 2009 18:31
Dal blog di Padre Scalese:

Giustizia e misericordia di Dio

Un fedele lettore, Stefano Costa, mi ha scritto sottoponendomi una questione di non poco conto:


«Le scrivo per esporle un dubbio, che mi assilla ormai da tempo, riguardo alla giustizia divina (e qui traggo spunto dal suo post del 5 agosto 2009, circa “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”): davvero Dio “vendica” i peccati degli uomini castigando i peccatori, nel tempo e/o nell’eternità?

Io sono convinto di sí: anzi, a quanto ne so io, che Dio, giusto remuneratore, premi i buoni e punisca i malvagi dovrebbe essere verità di fede... Eppure, spesso mi sono sentito dire, anche da sacerdoti di cui ho grande stima, cose come queste:

“Dio non punisce il peccato con una qualche pena temporale o eterna. Dio è la bontà stessa: come potrebbe infliggere delle pene all’uomo peccatore? No, è l’uomo stesso che si punisce, subendo le conseguenze dei suoi errori, e l’inferno — se mai qualcuno vi si trova — l’inferno non è altro che l’esclusione, l’autoesclusione dall’amore divino. Dunque l’inferno non è una punizione inflitta da Dio. Dio non punisce”.

Insomma, non è Dio che punisce e manda all’Inferno, ma siamo noi ad auto-punirci e ad auto-relegarci all’Inferno. Beninteso, sono d’accordo con l’affermazione che il peccato danneggia il peccatore, ma non penso che i castighi divini si riducano a questo. Trovo che questa dottrina sia in contraddizione con innumerevoli passi della Scrittura (ad es. 2 Sam 12, 13-15; il diluvio universale; Sodoma e Gomorra; le piaghe d’Egitto; l’episodio di Anania e Saffira negli Atti, ecc...); che dire poi delle fiamme dell’Inferno? Anche quelle sono auto-inflitte?

Infine, riporto un paio di testi sulla questione.

I. Il primo è tratto dalla “Somma di Teologia Dogmatica” di padre Casali:

“TESI: Dio è infinitamente giusto.

È DI FEDE

La Tesi è contro Hermes che nega a Dio il diritto di dare pene vendicative.

SPIEGAZIONE. Giustizia, in senso stretto significa dare a ciascuno il suo. Con questo significato si chiama giustizia commutativa. È logico che la giustizia commutativa non è applicabile a Dio, poiché è Lui che dà tutto e non è debitore a nessuno. La giustizia che la Rivelazione attribuisce a Dio è la giustizia distributiva, che è quella con cui il capo di una comunità distribuisce uffici e doveri, premi e pene. In Dio c’è questa giustizia, sia nel dare una ricompensa (giustizia rimunerativa), sia nel dare castighi (giustizia vendicativa)”.

II. Il secondo è tratto dalla costituzione apostolica “Indulgentiarum doctrina” di S. S. Paolo VI, pontefice a lei tanto caro:

“2. È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene infinite [faccio notare che nella traduzione pubblicata sul sito della Santa Sede c’è un evidente errore: non si tratta di pene “infinite”, ma “inflitte”; N.d.R.] dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà. Ogni peccato, infatti, causa una perturbazione nell’ordine universale, che Dio ha disposto nella sua ineffabile sapienza ed infinita carità, e la distruzione di beni immensi sia nei confronti dello stesso peccatore che nei confronti della comunità umana. Il peccato, poi, è apparso sempre alla coscienza di ogni cristiano non soltanto come trasgressione della legge divina, ma anche, sebbene non sempre in maniera diretta ed aperta, come disprezzo e misconoscenza dell’amicizia personale tra Dio e l’uomo. Cosí come è pure apparso vera ed inestimabile offesa di Dio, anzi ingrata ripulsa dell’amore di Dio offerto agli uomini in Cristo, che ha chiamato amici e non servi i suoi discepoli.

3. È necessario, allora, per la piena remissione e riparazione dei peccati non solo che l’amicizia di Dio venga ristabilita con una sincera conversione della mente e che sia riparata l’offesa arrecata alla sua sapienza e bontà, ma anche che tutti i beni sia personali che sociali o dello stesso ordine universale, diminuiti o distrutti dal peccato, siano pienamente reintegrati o con la volontaria riparazione che non sarà senza pena o con l’accettazione delle pene stabilite dalla giusta e santissima sapienza di Dio, attraverso le quali risplendano in tutto il mondo la santità e lo splendore della sua gloria. Inoltre l’esistenza e la gravità delle pene fanno comprendere l’insipienza e la malizia del peccato e le sue cattive conseguenze”.

Mi sembra che la dottrina contenuta in questi testi e le affermazioni che ho riportato sopra siano inconciliabili: mi sbaglio? Mi sta sfuggendo qualcosa?».




Egregio Signor Costa, la spiegazione dataLe dai sacerdoti, a parte l’inciso (che riprende l’idea attribuita a Hans Urs von Balthassar, secondo cui l’inferno esiste, ma si spera che sia vuoto), non è una loro personale trovata, ma è l’attuale insegnamento ufficiale della Chiesa. Se prendiamo infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica vi troviamo scritto esattamente quanto ripetuto piú o meno fedelmente da molti di noi sacerdoti:

«Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “inferno”» (n. 1033).

Ritroviamo lo stesso insegnamento nel Compendio del medesimo Catechismo:

«Come si concilia l’esistenza dell’inferno con l’infinita bontà di Dio?
Dio, pur volendo “che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3:9), tuttavia, avendo creato l’uomo libero e responsabile, rispetta le sue decisioni. Pertanto, è l’uomo stesso che, in piena autonomia, si esclude volontariamente dalla comunione con Dio se, fino al momento della propria morte, persiste nel peccato mortale, rifiutando l’amore misericordioso di Dio» (n. 213).

Come si concilia tale insegnamento con gli esempi biblici e i testi da Lei riportati? Beh, penso che ci sia una importante distinzione da fare: sia i castighi narrati nella Scrittura sia la citazione di Paolo VI (il testo di Padre Casali ha un carattere piú generale) si riferiscono a “pene temporali”; mentre, quando parliamo di “inferno”, ci stiamo riferendo alla “pena eterna”. Penso che sia evidente a tutti la differenza: non possiamo mettere sullo stesso piano una punizione temporanea e un castigo eterno.

Ciò che fa problema alla nostra mentalità, e a cui il Catechismo cerca di dare una spiegazione, è come conciliare l’inferno con l’infinita bontà di Dio. Le pene temporali non pongono lo stesso problema, perché possono essere facilmente spiegate in altro modo. Per esempio, gli esegeti ci insegnano che i castighi di cui parla la Bibbia vanno considerati come un’espressione della pedagogia di Dio nei confronti del suo popolo. Anche i genitori, quando dànno punizioni, non lo fanno in applicazione della “giustizia vendicativa”, ma semplicemente per educare i loro figli. Lei capisce bene che tale ragionamento non si può applicare all’inferno.

Mi sembra che Paolo VI, nella Indulgentiarum doctrina, esponga in maniera molto esauriente l’insegnamento tradizionale della Chiesa in proposito. Purtroppo, ho l’impressione che tale insegnamento non sia stato ripreso con la stessa completezza dal Catechismo:

«Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa [= le indulgenze] bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la “pena eterna” del peccato. D’altra parte, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiú, sia dopo la morte, nello stato chiamato Purgatorio. Tale purificazione libera dalla cosiddetta “pena temporale” del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall’esterno, bensí come derivanti dalla natura stessa del peccato. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, cosí che non sussista piú alcuna pena» (n. 1472).

«Il perdono del peccato e la restaurazione della comunione con Dio comportano la remissione delle pene eterne del peccato. Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell’“uomo vecchio” e a rivestire “l’uomo nuovo”» (n. 1473).

Come si vede, nessun riferimento alla giustizia e alla necessità di reintegrare l’ordine perturbato dal peccato. Mi sembra invece piú equilibrata la descrizione, che il Catechismo fa, delle pene inflitte dalla legittima autorità pubblica (e che, secondo me, si potrebbe applicare, mutatis mutandis, anche alle pene inflitte da Dio):

«La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole» (n. 2266).

Come si spiega tale incertezza? Beh, penso che dobbiamo ammettere che, pur rimanendo identica la dottrina, sia possibile, nel corso dei secoli, che la Chiesa affronti gli stessi problemi da diversi punti di vista, e sottolinei ora un aspetto ora un altro, secondo i bisogni del tempo in cui si trova a vivere.

Che l’approccio odierno della teologia sia diverso da quello di un tempo, appare evidente. Basta confrontare il testo di Padre Casali, che risente di un certo modo di fare teologia (basato soprattutto sul ragionamento filosofico), con il Catechismo, che preferisce invece partire dalla Scrittura. Quando, per esempio, nella Bibbia si parla di “giustizia di Dio”, non ci si riferisce a nessuna delle forme della giustizia elencate dalla filosofia scolastica (commutativa, distributiva, remunerativa, vendicativa), ma alla sua “giustizia salvifica”. Il Concilio di Trento direbbe: «justitia, non qua Deus justus est, sed qua nos justos facit», vale a dire non la giustizia per cui Dio è giusto in sé stesso, ma quella per cui egli ci rende giusti (= ci giustifica, ci salva). Praticamente, tale giustizia di Dio, si identifica con la sua misericordia (ciò non esclude però che Dio sia infinitamente giusto anche nel senso come noi intendiamo comunemente la giustizia).

Che poi ogni tempo abbia la sua sensibilità, non può essere negato. Nel passato si preferiva presentare Dio come un giusto giudice, oggi si preferisce descriverlo come padre misericordioso. Non si tratta di una contraddizione, ma semplicemente di una diversa accentuazione, di un diverso punto di vista; i due aspetti sono entrambi veri; se si vuole, complementari. Spesso si dimentica che in Dio tutti gli attributi si identificano: in lui non può esserci contraddizione fra la giustizia e la misericordia (cosa che ben compresero i santi, come per esempio Santa Teresa, secondo la quale Dio non sarebbe davvero giusto, se non fosse misericordioso). Se è vero che in Dio (quoad se) non può esistere contraddizione e in lui tutti gli attributi si identificano, è altrettanto vero che da parte nostra (quoad nos) è bene continuare a distinguere, perché non possiamo comprendere con un unico atto mentale l’infinita giustizia e l’infinita misericordia di Dio. Per cui è opportuno affiancare sempre, come fa Paolo VI, giustizia e misericordia, e ricordare, oltre all’amore infinito di Dio, «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2:4), anche la sua giustizia, che tende a reintegrare l’ordine universale perturbato dal peccato.

Rimane però il fatto, innegabile, che oggi si preferisce parlare di misericordia, piuttosto che di giustizia: non sarà un “segno dei tempi”? non sarà che, forse, oggi il mondo ha bisogno soprattutto di misericordia? Al tempo del giansenismo, che tanto insisteva sulla trascendenza divina e sull’abisso che separa Dio dall’uomo, incapace di avvicinarsi a lui, si diffuse nella Chiesa la devozione al sacratissimo Cuore di Gesú. Ai nostri giorni Santa Faustina ha promosso la devozione alla Divina Misericordia e Giovanni Paolo II se ne è fatto apostolo (sono convinto che Papa Wojtyla verrà ricordato nella storia non per lo “spirito di Assisi”, ma per questo, che considero il suo maggior merito: aver dischiuso all’umanità il mistero della Divina Misericordia). Non credo che si tratti di un caso. Evidentemente è proprio questo ciò di cui oggi il mondo ha piú bisogno: non tanto di temere un Dio giusto, ma confidare in un Dio misericordioso. E confidare nella misericordia di Dio non nega certo la sua giustizia; semmai, la esalta.




Caterina63
00sabato 21 agosto 2010 21:24
DOMENICA XXI ( C ).
21 domenica del tempo ordinario

“O Padre, che chiami tutti gli uomini per la porta stretta della croce al banchetto pasquale della vita nuova, concedi a noi la forza del tuo Spirito, perché, unendoci al sacrificio del tuo Figlio, gustiamo il frutto della vera libertà e la gioia del tuo regno.”
“Rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.”
“Ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi.”

Is 66,18b-21; Sal 116/117; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30



Alcuni rabbini sostenevano che tutto Israele si sarebbe salvato, e ciò in forza della fedeltà di Dio. Ma altri, più rigorosi, dicevano: «Dio ha creato questo mondo per amore di molti, ma quello futuro per pochi». Nelle scuole di teologia si svolgeva dunque un dibattito. Qualcuno vuole sentire il parere di Gesù. Ma a Gesù non interessa questo dibattito teologico, sterile come molti dibattiti. A Lui non interessa il numero - se pochi o se molti -, ma togliere all'uomo che lo interroga (e a tutti, noi compresi) la falsa sicurezza che può derivare da un'errata concezione dell'appartenenza al Signore. La salvezza non è un fatto scontato per nessuno.

L'immagine utilizzata è molto vivace: la porta è stretta, e molta folla vi si accalca, e la porta resta aperta per poco tempo. Dunque bisogna darsi da fare. Il fatto che la porta sia stretta e che resti aperta per poco tempo non significa che i salvati siano pochi (se pochi o tanti è un segreto di Dio): vuol significare che non c'è tempo da perdere. Il padrone di casa, una volta chiusa la porta e iniziata la festa, non apre più per nessuno, nemmeno per gli amici, e dire «hai mangiato con noi e hai camminato per le nostre strade» non serve. Non basta essere figli di Abramo, occorre la fede di Abramo. Dunque nessuna sicurezza ma vigilanza. Fiducia sì, e anche serenità, ma una serenità che riconosce la propria indegnità, si appoggia all'amore di Dio, e non si vanta di nulla e non giudica nessuno.
Se rileggiamo il brano, ci accorgiamo che Gesù ha capovolto completamente la domanda che gli è stata posta. Non più: sono pochi quelli che si salvano? Bensì: cosa devo fare per non essere escluso dalla salvezza? E difatti Gesù inizia la sua risposta con un imperativo: «Sforzatevi!».

E da una domanda sugli altri («quelli»), si è passati a qualcosa che riguarda se stessi («voi»). L'avvertimento di Cristo termina con una frase che sorprende: «Alcuni degli ultimi saranno primi, alcuni dei primi saranno ultimi». Questo detto afferma con forza e chiarezza che l'annuncio del Vangelo porta con sé il sovvertimento dei vecchi criteri di valutazione. Molti di quelli che si credevano sicuramente ammessi al banchetto, si vedranno esclusi: altri (come ad esempio i pagani) verranno dall'oriente e dall'occidente e saranno ammessi. I criteri di Dio sono diversi da come voi pensate – ricorda Gesù rivolgendosi agli uomini del suo tempo e a noi – e dunque non perdetevi in questioni secondarie, non giudicate la situazione degli altri (saranno ammessi? Saranno esclusi?): datevi da fare per voi stessi.

(don Bruno Maggioni)

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1. L'empietà (asèbeia), l'ingiustizia (adikìa), è il rigetto della legge (anomìa).Tuttavia, attraverso le discussioni di Gesù e dei farisei, si vedono presto di fronte due concezioni di questo disprezzo di Dio. Per i farisei, la pietra di paragone della pietà è la pratica delle prescrizioni legali e delle tradizioni che le Circondano; l'ignoranza in questa materia è già un'empietà (cfr. Gv 7,49). Gesù quindi ha torto di mangiare Con i peccatori (Mi 9, 11par.), di essere loro amico (Mt 11, 19 par.), di entrare in casa loro (LC 19,7). Ma Gesù sa bene che ogni uomo è peccatore e nessuno può dire di essere pio e giusto; il vangelo che egli porta dà appunto ai peccatori una possibilità di penitenza e di salvezza (Lc 5, 32). La pietra di paragone della vera pietà sarà quindi l'atteggiamento adottato nei confronti di questo vangelo.

2. La chiamata degli empi alla salvezza. - Il problema è esattamente lo stesso dopo che Cristo ha consumato il suo sacrificio morendo « per mano degli empi » (Atti 2, 23). Egli è morto « giusto per gli ingiusti » (1 Pt 3, 18), benché abbia voluto « essere annoverato tra i malfattori » (LC 22, 37). È morto per gli empi (Rom 5, 6) affinché questi siano giustificati dalla fede in lui (Rm 4,5). Tali sono i giusti del NT: empi giustificati per grazia. Avendo riconosciuto nel vangelo la chiamata alla salvezza, essi hanno rinunciato all'empietà (Tito 2, 12) per rivolgersi a Cristo.

Ormai i veri empi sono Coloro che rifiutano questo messaggio o lo corrompono: i falsi dottori che turbano i fedeli (2 Tm 2,16; Giuda 4,18; 2 Pt 2, 1 ss; 3,3s) e meritano il nome di anticristi (1 Gv 2,22); gli indifferenti che vivono in un'ignoranza volontaria (2 Pt 3, 5; cfr. Mt 24, 37; Lc 17, 26-30); a più forte ragione le
potenze pagane Che susciteranno contro il Signore l'empio per eccellenza (2 Tes 2, 3. 8).
Questo è il contesto in cui si rivela ormai il mistero dell'empietà. 3. L'ira di Dio sugli empi. - Ora, ancor più che nel VT, il castigo di questa empietà è presentemente una certezza. L'ira di Dio si rivela, inmodo permanente, contro ogni empietà ed ingiustizia umana (Rm 1, 18; cfr. 2, 8); ciò è. tanto più vero nella prospettiva degli ultimi tempi e del giudizio finale. Allora il Signore annienterà
l'empio con lo splendore della sua venuta (2 Tes 2, 8), e tutti coloro che partecipano al mistero della empietà saranno confusi e castigati (Giuda 15; 2 Pt 2, 7). Se il Castigo tarda, è perché Dio porta pazienza per permettere ai malvagi di Convertirsi (2 Pt 2, 9).
A- DARRIEUTORT e P. GRELOT


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ATTALIZZAZIONI

Dio non rinuncerà mai a volerti bene e se per caso lui vede che anche il castigo è utile per convertirti, lo userà. L’autore del brano prosegue e dice: «Guardatevi attorno, cercate di vedere nella comunità chi ha le braccia cadenti e le ginocchia infiacchite, e siate a lui fratello! Incominciate da lui, in modo che il piede non abbia a storpiarsi».
Ci affida gli uni agli altri perché tutti noi possiamo essere quel fratello che comincia ad avere le ginocchia infiacchite e le braccia cadenti. Tu sei con il Signore nella misura che “sei”, non conta niente se tu da anni e anni sei nella Chiesa, hai un posto di responsabilità: non vuol dire che tu sei il primo. Tu sei il primo nella misura che ami!

-Fanno una domanda a Gesù: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Gesù non risponde a quella domanda, è oziosa, senza senso, disimpegnante; il Signore gli dice: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta». Cosa vuol dire? Se tu porti dentro di te ciò che non appartiene al regno, non gliela fai ad entrare; se tu vuoi mantenere tutto il tuo modo umano di ragionare, tutta la tua vanità, il tuo orgoglio, tutto il tuo farti vedere, tutta la tua sicurezza che ti viene dal denaro; se tu vuoi mantenere tutti i tuoi intrallazzi, se tu non vuoi perdere niente di ciò che è dato da una società organizzata in maniera estranea a Dio, tu non gliela fai ad entrare dentro il regno di Dio: la porta è stretta!

Guarda Cristo Signore e il Vangelo e accoglilo con potenza dentro di te. Abbi il gusto di vivere il Vangelo alla lettera: questa è la porta stretta nella quale si entra! Solo attraverso il Vangelo accolto del tutto dentro di te, puoi entrare: tuffati quindi nel Vangelo, perché è la parola defi nitiva, è la salvezza per ogni uomo. È Dio la vera parola!

( don Oreste Benzi)



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