Don Angelo De Donatis del Presbiterio Romano che predica gli Esercizi Spirituali al Papa

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Caterina63
00giovedì 17 ottobre 2013 17:22

Il Papa ad Albano Laziale dal 9 al 14 marzo per gli esercizi spirituali della Quaresima



Papa Francesco si trasferirà con la Curia Romana dalla sera di domenica del 9 marzo prossimo fino al venerdì successivo, 14 marzo, nella cittadina romana di Albano Laziale, per gli esercizi spirituali della Quaresima.

Il luogo scelto per il soggiorno è la “Casa Divin Maestro” dei Paolini. Le meditazioni saranno tenute da don Angelo De Donatis, del clero di Roma. Lo scopo – comunica la Segreteria di Stato – è di poter risiedere in modo riservato e silenzioso, lontano dagli uffici del lavoro abituale, per potersi dedicare con maggiore raccoglimento agli Esercizi Spirituali.




del sito Radio Vaticana 



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Monsignor Angelo De Donatis. Nato a Casarano in provincia di Lecce, è sacerdote incardinato a Roma. Dopo un periodo di attività pastorale nelle Parrocchie, è stato nominato Direttore Spirituale presso il Seminario Romano. E’ stato un impegno che gli ha permesso di conoscere e condurre tanti giovani alla consacrazione a Dio nel Sacerdozio, nonché alla Vita Religiosa. Da alcuni anni è Parroco di San  Marco al Campidoglio, piccola Parrocchia al Centro di Roma che ha trasformato in un Centro di Spiritualità, attento a tutte le realtà circostanti.

L’attività di don Angelo si rivolge alla formazione di Sacerdoti, curando particolarmente quelli giovani; si presta per giornate di ritiro a Sacerdoti, Religiose e Religiosi, a Corsi di Esercizi, guidate con la sapienza della Parola e della Dottrina dei Padri della Chiesa. E’ un ottimo coadiutore dell’U.S.M.I. Nazionale, prestandosi per il “Trimestre sabbatico” nel quale, quest’anno, terrà anche gli Esercizi Spirituali. Continua è la sua opera di guida per molti sacerdoti e religiose nella direzione spirituale.



Per comprendere chi è Don Angelo De Donatis, invitiamo a leggere gli Esercizi Spirituali che tenne nel 2009..... 


 
Mons. Angelo De Donatis de donatis

Consacrati nella verità, di Angelo De Donatis

Esercizi spirituali tenuti ai presbiteri della Diocesi di Roma, Sacrofano, 16-20 novembre 2009. Il testo è stato tratto direttamente dalla registrazione e non è stato rivisto dall’autore. Anche la sistemazione redazionale è nostra e ha il solo scopo di facilitare la lettura on-line.

La redazione di Presbiterio Romano  

 

La prima cosa che mi viene da dire è che siamo qui per scoprire cosa Dio vuole dire a ciascuno di noi. Al primo posto non c’è né la guida che conduce gli Esercizi, né ciascuno di noi, ma Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La prima indicazione biblica che possiamo usare per entrare in questa esperienza spirituale è Is 55,11, un versetto soltanto, ma importante, perché questo versetto  ci dice

Così sarà della Parola uscita dalla mia bocca, non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’avevo mandata.

Dobbiamo entrare con fede in questo versetto. Se siamo venuti agli esercizi con questo desiderio della Parola, non ritorneremo alla nostra vita quotidiana senza sentirne il beneficio. Sentiamo il cuore veramente bisognoso di questa Parola perché la nostra vita diventi conforme a quello che ci sarà donato. Cosa sono gli esercizi spirituali? Sono tempo di grazia speciale per ciascuno di noi, sono un dono, e l’augurio che ci possiamo fare è quello di lasciarci sorprendere da Dio, lasciare che la nostra vita ancora si sorprenda. Chiediamo a Lui la grazia di saper ascoltare soprattutto con l’orecchio interno, ascoltare la Parola, non noi stessi, prendere seriamente quello che ascolto e cercare di trovare dei collegamenti con la vita personale, cercare dei legami tra quello che ascolto e la mia storia personale. Non partiamo dalla nostra vita, ma dalla Parola, con il desiderio di scoprire cosa il Signore vuole dire alla mia vita. Gli esercizi allora includono tre aspetti:

Praticare il raccoglimento: è una cosa necessaria, non mi lascio disturbare da nessun’altra cosa tranne che da quello che mi viene offerto, occorre mantenere una concentrazione sulla proposta. Devo meditare sui brani che mi vengono proposti, non su altro. Tante volte c’è la tentazione di portarsi dietro qualche cosa per recuperare qualche lettura, ma è bene rimanere sulla proposta che viene fatta, perché c’è un filo rosso da seguire e se voglio trovarlo non posso distrarmi, è necessario rimanere sui testi che mi vengono proposti e questo mi aiuterà anche a rinnovare alcune cose della mia vita.

Ascoltare: il raccoglimento serve per ascoltare, tra le tante voci che abitano il nostro cuore, quella voce, la Sua, per entrare in dialogo con Lui. Il raccoglimento ha l’obiettivo di ascoltare profondamente, che poi è obbedire, è un ascolto fatto con cuore di figli.

Dialogare personalmente con Dio: è la conversazione interiore, è la preghiera e la preghiera è la consapevolezza che nessuno di noi è solo, non siamo soli. Il Papa lo ripete spesso nelle sue catechesi o nella lectio divina, siamo in compagnia. Riconosco di essere con qualcuno in questa vita, percepisco di essere alla presenza di Dio e di essere profondamente amato da Lui. Allora tutto diventa preghiera.

Il significato spirituale di questi giorni

Sapere lo scopo di questi giorni ci aiuta a non dimenticare il perché siamo qui. Certo ognuno di noi ha dei motivi personali per cui è venuto, però c’è anche qualcosa che “ritorna” negli esercizi. Prima di tutto il significato spirituale degli esercizi è riscoprire in una nuova luce il Dio personale, perché è sempre una nuova scoperta della sua Persona. Lui veramente è l’unico Assoluto, è la meta di ogni persona, poi lo vedremo successivamente, è il senso della vita dell’uomo. Un altro significato spirituale è riconoscere il bisogno di liberarmi da me stesso, saper riconoscere la mia schiavitù, il mio egoismo. Il terzo significato spirituale è lasciarmi convertire, sono qui principalmente per convertirmi, non importa se mi piace o non mi piace, l’importante è il desiderio di un cambiamento, che ci sia questo desiderio di un cambiamento, di una novità di vita. Conversione non è solo perdere o morire, è trovare un’alternativa migliore, perché se c’è una morte c’è anche una resurrezione. Da questo nascerà poi una profonda gratitudine a Dio, proprio per la sua azione in noi. Allora il primo esercizio che vi consiglio di fare questa mattina è semplicissimo, scrivere poche righe per rispondere a questa domanda: “Perché sono venuto qui? Perché voglio vivere questi esercizi spirituali?”

Se vogliamo utilizzare la parola di oggi, il vangelo che la Chiesa ci consegna in questa giornata, potremmo utilizzare la domanda che Gesù fa al cieco: “Che cosa vuoi che io faccia per te?” Mettiamo per iscritto questa risposta perché ci aiuterà poi, alla fine degli esercizi, a vedere come il Signore ha risposto a quello che gli abbiamo chiesto. Credo che sia importante, tutte le volte che iniziamo un’esperienza di questo tipo, mettere a fuoco questo desiderio: “Perché sono venuto? Cosa voglio vivere in questi esercizi? Cosa mi aspetto? Perché sono qui?”. Tenere fisso lo scopo è importante e poi partiamo da Is 55,11 come vi ho suggerito.

Vorrei dire ancora una parola sul significato spirituale di questi giorni, sul bisogno di liberarmi da me stesso. Chi ha fatto qualche volta gli esercizi con me, quando era in Seminario, si ricorda che insisto sempre su questa dimensione. Credo che l’esperienza degli esercizi spirituali sia data per prendere una certa distanza da quello che noi viviamo. Distanza soprattutto da noi stessi, perché bene o male, più o meno, viviamo troppo appiccicati a noi stessi, siamo troppo presenti a noi stessi, costantemente presenti, siamo preoccupati della nostra immagine, siamo anche preoccupati dei nostri sentimenti, delle nostre emozioni, dei nostri affetti. Allora bisogna prendere le distanze da queste cose. E ancora questo ci aiuta a prendere la distanza dal piccolo mondo in cui noi viviamo, perché per quanto grande sia è sempre piccolo, è fatto delle nostre conoscenze, dei nostri rapporti, delle nostre cose, e per quanto possa essere vero, soddisfacente o tormentoso, è sempre un piccolo mondo. Occorre cercare un respiro un po’ più grande, un orizzonte più aperto, ecco come posso liberarmi da un certo egoismo anche personale. Se vogliamo dare ancora qualche altro contenuto alla parola distanza, io direi che quando si fanno gli esercizi bisogna anche saper prendere la distanza dal proprio passato. Il Signore ci aiuta in questo, perché per Lui la distanza dal proprio passato ha un nome molto bello, si chiama perdono, questo significa saper prendere la distanza dal proprio passato, il passato per noi è innanzitutto perdono, è una realtà perdonata, sanata, è una realtà redenta. Non posso pensare il mio passato in maniera diversa. Ancora, dobbiamo prendere la distanza dal presente e questo anche ha un nome molto bello, si chiama eternità. Il presente non è la nostra condizione, non lo è mai, non è la condizione eterna, anche se il presente è il luogo della nostra salvezza, è il momento in cui io  incontro Dio, ma non è il nostro posto definitivo, e allora il presente lo devo vivere così, non posso dimenticare l’eternità, perché in quel caso dimentico tutto. Dobbiamo prendere distanza anche dal futuro, soprattutto dal futuro immaginato, cioè dall’immagine di quello che noi dovremmo essere, che potremmo essere, che certamente saremo e, soprattutto, la distanza dalle paure che il futuro ci causa. Perché ci dà tanto desiderio, ma anche tanta paura, e la paura nasce dall’estrema preoccupazione di se stessi. Quando dobbiamo difendere qualcosa di noi, allora abbiamo paura. Se non dobbiamo difendere più niente di noi, la paura non c’è. Athenagoras, alla fine della sua vita, diceva:

La guerra più dura è la guerra contro se stessi.
Bisogna arrivare a disarmarsi.
Ho perseguito questa guerra per anni, ed è stata terribile.
Ma sono stato disarmato.
Non ho più paura di niente, perché l’amore caccia il timore.

Sono disarmato della volontà di aver ragione,
di giustificarmi squalificando gli altri.
Non sono più sulle difensive,
gelosamente abbarbicato alle mie ricchezze.
Accolgo e condivido.
Non ci tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti.
Se uno me ne presenta di migliori, o anche di non migliori, ma buoni, accetto senza rammaricarmene.
Ho rinunciato al comparativo.
Ciò che è buono, vero e reale è sempre per me il migliore.

Ecco perché non ho più paura.
Quando non si ha più nulla, non si ha più paura.
Se ci si disarma, se ci si spossessa,
ci si apre al Dio-Uomo che fa nuove tutte le cose,
allora Egli cancella il cattivo passato
e ci rende un tempo nuovo in cui tutto è possibile.

Il futuro ci crea paura perché abbiamo un bene da conservare e non una vita da donare, abbiamo a volte paura di perdere questa vita, abbiamo così paura che poi finiamo con il perderci e allora la parola da usare riguardo al futuro è fiducia. Dio è fedele e la fiducia nasce dalla fedeltà di Dio, di Dio Padre. Queste tre parole possono aiutarci a ri-concepire il nostro vissuto: perdono, eternità, fiducia. Proviamo a ripensarci con queste tre chiavi e poi chiediamo al Signore la grazia di saper prendere la distanza da quello che pensiamo di noi stessi, distanza dai giudizi, sia quando sono depressivi, perché abbiamo dei momenti in cui proviamo pensieri e giudizi depressivi, ma anche distanza dai momenti di esaltazione, dove invece noi siamo capaci di tutto, in cui sono gli altri che non ci amano, ci giudicano, ci osservano. Tutto questo significa distanziarsi dai bilanci, dai resoconti, dai decreti personali. E qual è il risultato di questa impostazione? Avere una dimensione umile di noi stessi, sentirci veramente più provvisori. Noi siamo una realtà in costruzione, anche se a volte non lo vogliamo, se ci fa male pensarci così, la realtà è questa, noi siamo un cantiere aperto, dove si lavora continuamente. La nostra vita è così, abbiamo solo una garanzia, quella di essere amati dal Padre. Concludendo questa piccola introduzione direi soprattutto di chiedere al Signore la distanza dai nostri amori, se così si può dire, da tutto il bisogno di affetto, perché è quello che abbiamo più presente. C’è una voragine mai colmata ed è causa di tanti dolori, sia nostri che altrui. Sappiamo quanto questa dimensione sia impegnativa nella nostra vita. Cosa vuol dire prendere un po’ di distanza dal bisogno di affetto? Potremmo interpretarlo come non vedersi solo come persone che hanno il diritto di essere amate, e cominciare a vedere come noi amiamo, come riusciamo a stare nel momento in cui ci sembra di non essere amati, come rimaniamo, come riusciamo a vivere quel momento, come gestiamo la solitudine. Prendere le distanze non significa rinnegare questo bisogno, perché sappiamo che è impossibile, non possiamo farlo, ma riuscire a dare una misura, non è quindi questione di negare, ma di ridimensionare, dare una proporzione, tutto sommato si tratta di mettere ordine in questa dimensione della nostra vita. Dare una misura, mettere ordine, sono termini fondamentali nella vita spirituale, la letteratura monastica è piena di questi discorsi, ma vale per ogni cristiano, per ogni battezzato.







Caterina63
00giovedì 17 ottobre 2013 17:24

II Incontro

 

Rimanere nella logica del dono

 

Il primo testo che prendiamo per la preghiera di oggi pomeriggio è Gen 22,1-19 e possiamo dare alla nostra riflessione il titolo “Rimanere nella logica del dono”. 

 

Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: "Abramo!". Rispose: "Eccomi!". Riprese: "Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò".

Abramo si alzò di buon mattino, sellò l'asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l'olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi: "Fermatevi qui con l'asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi". Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: "Padre mio!". Rispose: "Eccomi, figlio mio". Riprese: "Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?". Abramo rispose: "Dio stesso si provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!". Proseguirono tutti e due insieme.

Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l'altare, collocò la legna, legò suo figlio Isacco e lo depose sull'altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l'angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: "Abramo, Abramo!". Rispose: "Eccomi!". L'angelo disse: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito". Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo "Il Signore vede"; perciò oggi si dice: "Sul monte il Signore si fa vedere".

L'angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: "Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce".Abramo tornò dai suoi servi; insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abramo abitò a Bersabea.

 

Credo che sia importante oggi sottolineare prima di tutto questo tema della prova. Dio mise alla prova Abramo, perché senza la prova non si matura nella vita, nella vita spirituale, nella vita di fede, non c’è una crescita. L’amore, per poter maturare, ha bisogno di essere messo alla prova. La prova ti mette sempre davanti ad una scelta, a un momento in cui sei chiamato a rinnovare il tuo sì, il tuo eccomi. Dicevano gli antichi padri del deserto: “Elimina le prove e nessuno più si salva”, quindi la prova, ripeto, fa maturare l’amore, lo rende più profondo, più maturo, più vero. E qui la prova concerne senza dubbio Isacco, ma Isacco è il dono che Dio ha fatto ad Abramo, quel dono che ha portato a compimento la promessa che Dio ha fatto, per cui ancora di più credo che la prova tocchi il rapporto che Abramo intrattiene con questo figlio che gli è stato donato. La prova va a toccare proprio la relazione con questo figlio e, grazie a questa prova, Dio lascia ad Abramo la possibilità reale di compiere una scelta di libertà. Abramo potrà tenere questo figlio come un regalo che gli appartiene, potrà fare il sacrificio a Dio in altro modo, ma tenere questo figlio che gli assicura una vecchiaia tranquilla, è il suo futuro, ormai lo può considerare suo, oppure potrà comprendere l’ordine di Dio in un altro senso, nel senso più profondo, molto più esigente, cioè offrendo questo figlio amato, venuto dopo tanta attesa, Abramo testimonierà che considera questo figlio non come una cosa di cui è proprietario, ma come qualcosa che lui ha ricevuto in dono, che non c’è un possesso, la prova tocca la relazione nei confronti di questo dono che lui ha ricevuto. Se prende suo figlio e lo offre, questo figlio rimarrà dono di Dio, se non lo offre manifesterà che lui si è impossessato del dono, che è diventato sua proprietà. Abramo testimonia proprio questo, si è fidato di Dio, ha sempre avuto fiducia in Dio, non ha mai dubitato del suo amore, tanto è vero che lui sa, nel profondo del cuore che Dio non potrà chiedergli la morte di suo figlio, ci sono dei particolari che sono interessantissimi, avete notato quando lui dice ai servi:

 

"Fermatevi qui con l'asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi".

 

Lui nella sua vita ha avuto una fiducia immensa nell’amore di Dio e proprio in questo atteggiamento di fiducia va fino in fondo, anche in questa offerta, in questa apertura di cuore, non vuole impossessarsi del dono. La prova ha rivelato ciò che doveva essere messo in luce, cioè l’atteggiamento di fondo di Abramo nei confronti di un dono che avrebbe potuto tenersi offrendo il sacrificio a Dio in un altro modo e sceglie invece di offrire a Dio il figlio ricevuto proprio da Lui permettendo a questo figlio di diventare quel dono ridonato che è segno dell’alleanza, della reciproca relazione. In altri termini lui doveva arrivare a questa libertà piena nei confronti di Dio. Rifiutando, dicendo di no, avrebbe stabilito che quel figlio era suo e non di quel padre che invece è Dio, perché rifiutare di offrire significa stabilire una proprietà. Se pensiamo alla nostra vita, credo che tutti quanti facciamo un po’ fatica a riconoscere il dono, o, meglio, noi lo conosciamo come dono, ma nel momento in cui passa dalle mani del padre alle mie mani, non è più dono, ma lo considero mia proprietà. Purtroppo succede, evidentemente c’è un senso di dominio, di possesso che ci porta a relazionarci così, sia verso le persone, sia verso le cose a volte. Quindi riconosco che è dono, ma nel momento del passaggio non lo riconosco più come tale, l’ho fatto diventare mia proprietà. Provate a far dire a una madre che il figlio che ha portato in seno è un dono e continua a essere dono, per cui quando viene richiesto questo figlio deve essere facile ridonarlo. Difficile per una madre questo, invece spesso si sente dire: “È mio figlio!”. Proprio ieri ero a pranzo con alcuni sacerdoti e ci si raccontava di come abbiamo vissuto la vocazione e qualcuno diceva: “Ho fatto tanta fatica a far capire ai miei che questa era la mia strada”. Quando ho seguito dei giovani mi è capitato di vedere genitori catechisti che si opponevano in un modo tremendo alla scelta del figlio, addirittura il papà di una ragazza si ammalò gravemente di fronte alla scelta della figlia, che dopo essersi laureata in medicina decise di entrare in un ordine religioso. Ci sono possessi che uccidono, che tolgono la vita, quella vita che è stata data viene tolta con questa dimensione della proprietà, del possesso. Il dono invece è una dimensione stabile, non è il nome di un passaggio, il nome di un momento, ma è il vero nome delle cose della mia vita, è il nome di me stesso, non la caratteristica di un momento. Noi non siamo proprietari di niente e non siamo proprietà di nessuno, perché anche noi siamo dono del Padre e restiamo dono, persino la signoria di Gesù Cristo, alla quale vogliamo appartenere, il Regno, è tale solo se siamo dinanzi a Dio con questo atteggiamento, donati dal Padre al Figlio. È il Padre che dona noi al Figlio, noi siamo coloro che sono stati posti nelle mani del Figlio ed Egli non perde nessuno di quelli che Lui gli ha dato (Gv 17), siamo stati dati dal Padre. E Dio insiste a dire “il tuo unico figlio”. C’è un midrash molto bello su questo, delicatissimo:

 

Il Santo disse: “Prendi tuo figlio”, Abramo rispose: “Tuo figlio? Ma io ho due figli”. Il Santo disse: “Prendi il tuo unico figlio”. Abramo rispose: “Ma uno è l’unico figlio per sua madre e quello è l’unico figlio per sua madre”. Ismaele è unico figlio di Agar e Isacco è figlio unico di Sara. Il Santo disse: “Quello che ami!” Abramo rispose: “Ma Signore del mondo, c’è forse un limite negli affetti più intimi?” Io li amo entrambi. Il Santo disse: “Prendi Isacco”.

 

Dio insiste a dire “il tuo unico figlio”, proprio perché Abramo deve purificare questo rapporto, la sua volontà. Su questo aspetto possiamo fare una prima riflessione partendo dal testo e fermandoci in preghiera, vedendo come noi viviamo il dono, se siamo capaci di rimanere nella logica del dono in maniera permanente. Naturalmente c’è da chiedersi come sia possibile, quale sia la dimensione spirituale che ci aiuta a rimanere in questa logica e qui dovremo riscoprire qual è il nostro atteggiamento davanti a Dio, come ci poniamo davanti a Lui. Partendo da una semplice preghiera che faceva S. Francesco: “Signore, fammi capire chi sei tu, rivelami chi sono io”, perché noi siamo davanti a Dio come creature, questo non possiamo dimenticarlo. Ognuno di noi deve mantenere questo atteggiamento di umiltà autentica. La vera umiltà, fondata teologicamente, nasce dal modo con cui io mi pongo davanti a Dio. Nella celebrazione eucaristica, tutta la parte iniziale è un aiuto a riflettere su questo, pensiamo al “Signore pietà”, pensiamo al Gloria, o alla colletta, metterci davanti a Dio che è Signore. Noi questo termine lo applichiamo a tutti, ma il Signore è uno solo, è Dio. Lui è il Kyrios, il Signore.

 

Comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio (1Pt 1,17)

 

Forse quello che Abramo ci consegna ancora oggi è proprio questo, il santo timore di Dio, è una cosa che va riscoperta continuamente, c’è una soggezione totale nei confronti di Dio. Sono veramente e autenticamente figlio davanti a Lui. Abramo vive questa logica del dono perché non ha mai interrotto, nella sua vita, questa dimensione del vivere alla presenza di Dio, con una fiducia, ma anche con un timore, con il santo timore di Dio. Sicuramente questo è qualcosa che va recuperato, perché ci mette nella situazione giusta della figliolanza, perché la volontà di Dio la si compie con cuore di figli, senza paura, perché non è una volontà cieca alla quale devo obbedire come se mi schiacciasse, ma una volontà d’amore che io compio perché rimango in un’obbedienza da figlio, non da schiavo. Dice S. Giovanni:

 

Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre (Gv 8,35)

 

Ma il figlio che conserva l’atteggiamento di autentica sottomissione nel senso che usa Maria “sono la serva del Signore”, non come qualcosa che ci schiaccia, ma perché è il nostro posto. Riprendiamo le parole del Gloria: “Noi ti lodiamo, ti adoriamo, ti benediciamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa”, oppure in tre parole il Te Deum racchiude l’atteggiamento giusto nei confronti di Dio, perché siamo davanti a Dio “Padre di immensa maestà”. L’altro giorno una persona, pensando alla messa dei bambini, mi diceva: “Stiamo tribolando perché è diventata una fiera, non riusciamo a trasmettere ai piccoli il senso del ritrovarsi alla presenza di Dio”. Non è facile, però è da recuperare. Pensiamo ai riti introduttori, ma anche a come l’architettura aveva pensato queste cose, perché davanti alla basilica paleocristiana c’era il quadrilatero che aveva una grande importanza. Al centro di questo cortile c’era una fontana perché si segnava il passaggio da un fuori a un dentro, da un chiasso, da una distrazione, da una dissipazione a un mettersi alla presenza del Signore. Anche la costruzione stessa delle basiliche aveva questo senso, penso a S. Marco evangelista, dove mi trovo io, dove del quadrilatero è rimasto un atrio, della fontana è rimasto poco, ma i simboli sono rimasti forti, c’è il passaggio da un fuori a un dentro, dal traffico della strada, dagli affari personali, al ritrovarsi alla presenza di Dio. Credo che sia importante anche ripensare al simbolismo della processione di introito, che non è semplicemente decorativa, è qualcosa che ci dice che la nostra vita è finalizzata a Dio, lo è totalmente. Purtroppo, come sempre succede, la parte pratica sopprime il grande significato del simbolo, allora le sagrestie sono state fatte vicino all’altare perché se si dimentica qualcosa è facile recuperarlo, però dovremmo tornare a curare questo aspetto, che visivamente rappresenta come si va verso l’altare dove c’è l’agnello immolato da cui scaturisce la vita e tutta la nostra vita è orientata a Lui e, se la nostra vita è orientata a Lui, dovremmo tenere stretta una verità che è fondamentale, che tutto concorre al bene per coloro che amano Dio. Anche le cose che vanno secondo i miei gusti, il posto che sto occupando, il ministero che sto vivendo, oppure le cose che la Provvidenza mi fa vivere, ma che mi fanno fare fatica, tutto concorre al bene, non devo temere. Se il fine è la gloria di Dio, questa verità mi accompagna ogni giorno e tutto è relativo, non c’è niente di assoluto. Tutte le cose che sto vivendo sono strumentali perché io possa arrivare all’unione con Dio, al fine per cui sono stato creato. Quando noi capovolgiamo questo nella nostra vita si verifica un grande disordine, quando consideriamo le cose come assoluto e non come strumentali, quando si sviluppa un attaccamento anche a quello che stiamo vivendo non c’è più la relazione giusta tra me e Dio e non vivo tutto come grazia, come dono. Rimanere nella logica del dono, saper avere sempre le mani aperte, perché tutto è per la gloria di Dio, la mia salvezza, la salvezza degli altri, questo è gloria di Dio. È una riflessione che può sembrare scontata, ma non lo è, perché a volte perdiamo tutto questo nel vissuto della nostra vita. La grazia da chiedere oggi è proprio questa, che ognuno di noi rimanga permanentemente nella logica del dono. Vi ricordate la meravigliosa preghiera che S. Ignazio fa fare alla fine degli Esercizi spirituali, la Contemplatio ad amorem?

 

"Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: di tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta".

 

 Ignazio usa il verbo “ridonare” perché aveva capito pienamente quello di cui oggi stiamo parlando e non usa il verbo “donare” come fa Pascal sbagliando, perché non è possibile, perché io non sono proprietario, ma destinatario dei doni, e non posso dire “ti dono”, ma solo “io ti ridono tutto”. S. Francesco usa un altro verbo che racchiude in pieno questa riflessione, quando dice che noi siamo chiamati a “restituire”. Noi dobbiamo restituire. Ecco a cosa la Parola oggi ci richiama. Dio è Padre, ma è anche Signore, è l’unico Signore e non posso sostituirlo con altri, l’unico assoluto è Lui. Su questo ci sono altri brani che possiamo rivedere, che ci ricordano i peccati originali come incapacità di vivere nella logica del dono. Li possiamo ripercorrere, sono delle tappe che ci dicono che c’è proprio questa incapacità. Pensiamo al peccato di Adamo ed Eva, in Gen 3, al peccato di Caino, al peccato di Babele e poi riprendiamo questa risposta di Abramo alla logica del peccato. Vivere nel dono, questo ci ricorda Abramo.

Dopo che ci siamo fermati sui testi può esservi utile rispondere ad alcune domande che possono essere delle piste per fare una revisione di vita su questo tema tanto importante.

Vorrei introdurre la prima meditazione con alcune osservazioni sulla metodologia da seguire per la preghiera, su come impostarla, perché da questo dipenderà la fecondità di queste giornate. Dicevamo che la preghiera è la risposta a Dio che mi parla, dobbiamo entrare in dialogo con Lui. Tante volte noi pensiamo di stare davanti a Dio, di parlare con Lui, ma parliamo con noi stessi e a volte questo ci accade perché non curiamo bene il momento della preghiera. Volevo ricordarvi solo quello che dice S. Ignazio sulla preghiera di discernimento perché mi sembra quella più opportuna in un contesto di esercizi spirituali. È un modo di pregare che ci educa a stare alla presenza di Dio nella ricerca della sua volontà. Questo modo di pregare ci aiuta a capire che cosa Dio mi ha detto nella preghiera. Tante volte io mi chiedo: “Se una persona mi incontrasse dopo un tempo di preghiera e mi chiedesse cosa mi ha detto Dio nella preghiera, cosa potrei rispondere?”. Vi ricordo alcune piccole cose:

 

Dopo aver dato i punti come stiamo facendo, scegliere il luogo  e la posizione della preghiera, una cosa semplicissima, ma importante. Perché è tutta la mia persona che deve essere messa in gioco. Quando decido dove fare la preghiera, se andare in cappella oppure rimanere nella stanza, oppure andare in giardino, sto già orientando la mia attenzione verso la preghiera e questo è fondamentale. Dov’è la mia attenzione, là ci sono io. Questo è il primo punto, dove farò la preghiera. Se per esempio penso di andare a passeggiare devo stabilire dove, in quale parte del giardino, perché ogni spazio nuovo è una distrazione e non mi aiuta. S. Giovanni della Croce elimina ogni rumore perché dice che tutto può essere motivo di distrazione. Devo scegliere sempre lo stesso posto, più è ripetitiva quella mia azione, meglio pregherò, non dimentichiamo che la regola principale della liturgia cristiana è la ripetizione. Anche la posizione del corpo dice qualcosa, ognuno sa cosa lo aiuta meglio a lasciarsi coinvolgere totalmente in quella esperienza spirituale.

 

La seconda piccola importante regola è mettere a fuoco quello che si vuole nella preghiera e metterlo per iscritto, rispondere a questa semplice domanda: “Dove vado, cosa desidero?”. Ed è utile chiedere una cosa sola, come dice S. Ignazio, mettere a fuoco la grazia di cui ho bisogno, una cosa concreta, che sento importante per me. Nella vita spirituale scrivere è molto più efficace del pensare e del parlare, mi aiuta a oggettivare e a mantenere l’attenzione su quello che chiedo.

 

Terzo punto è quello che S. Ignazio chiama la preghiera assoluta, quella che mi pone nell’atteggiamento di consegnarmi al Signore per accogliere quello che vuole donarmi. “Signore, se per il mio rapporto con te, è meglio che tu non risponda a quello che ti chiedo, si fatta la tua volontà, non la mia”. Devo distaccarmi dal mio desiderio, questo perché nella preghiera spesso noi cerchiamo interessi soggettivi e allora con questa preghiera assoluta non ci fermiamo su quello che desideriamo, ma ci lasciamo liberare dai nostri interessi soggettivi, si impara veramente a stare davanti a Dio con una disponibilità piena. Io non so cosa il Signore può riservare a ognuno di noi durante questi giorni, però anche mi fosse riservata solo aridità va bene, accetto anche questo, non importa, mi fido di Lui.

 

Il quarto punto è il cuore della preghiera. Qui si tratta di prendere la Scrittura come Parola di Dio quale è, essere coscienti che la Parola di Dio è intrisa di Spirito Santo e poi iniziare a leggere, leggere tante volte quanto è necessario. La lettura spirituale inizia quando non c’è più alcuna curiosità intellettuale, quando non devo più cercare niente, non c’è più soddisfazione affettiva. Leggo un brano fino a quando non c’è più nulla di nuovo e allora inizia davvero la lettura spirituale, la Parola si svela a quel lettore che la legge con amore, come l’amore tra l’amato e l’amata del Ct perché è Parola di Dio che si rivela quando trova un cuore disponibile ad accoglierla. Noi sappiamo che il modo moralistico di leggere la Bibbia ci chiude alla Parola, perché la Parola è una persona, e questa Persona non si rivelerà fino a quando non trova qualcuno che glielo permetta. Si tratta quindi di leggere molte volte per cominciare a scaldare il cuore e fermarsi su qualche punto che diventa più caldo, più importante, più interessante. Poi comincio a ripetere la Parola che mi ha toccato, qui ci vogliono almeno quaranta minuti di ripetizione a bassa voce e poi devo chiedermi non cosa significhi ciò che sto ripetendo, ma di chi è quello che sto ripetendo, chi me lo sta dicendo. Quando arrivo a questo punto lo scopo di questo esercizio è lasciare che gradualmente nasca un atteggiamento di dialogo con la Parola, non solo ragiono con la Parola, ma lascio sgorgare la relazione con il Tu di Dio.

 

Il Signore darà poi ad ognuno la grazia di cui ha bisogno, fatto questo si tratta poi di fare una preghiera di ringraziamento, fatto con una preghiera semplice, come dice S. Ignazio, con il Padre Nostro, l’Ave Maria oppure un colloquio con un Santo a cui ci siamo affidati. Queste sono le semplici regole che vanno applicate per una preghiera di discernimento, che è quella che caratterizza il percorso degli esercizi spirituali.

Per una verifica della preghiera vi ricordo quanto dice S. Ignazio, posso prendere un foglio, lo divido in due parti e scrivo da una parte i pensieri e dall’altra i sentimenti, per visualizzare quale sentimento è venuto fuori in relazione ad ogni pensiero, oppure, al contrario, quale pensiero è stato suscitato in me dal sentimento che ho provato. Questo mi aiuta a capire cosa la preghiera ha prodotto dentro la mia vita. A volte anche le distrazioni sono importanti, perché, come dice sempre S. Ignazio, una distrazione può essere il modo con il quale Dio vuole dirmi qualcosa di importante.



Caterina63
00giovedì 17 ottobre 2013 17:26

III Incontro

Oggi cerchiamo di vedere come l’Eucarestia per noi è il luogo dell’educazione del cuore e lo faremo questa mattina con un brano del vangelo di Marco e poi nel pomeriggio leggendo lo stesso episodio nel vangelo di Giovanni. Il testo è Mc 6,30-44

Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un pò». Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte.

Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i discepoli dicendo: «Questo luogo è solitario ed è ormai tardi; congedali perciò, in modo che, andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare». Ma egli rispose: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andar noi a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». Ma egli replicò loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». E accertatisi, riferirono: «Cinque pani e due pesci». Allora ordinò loro di farli mettere tutti a sedere, a gruppi, sull'erba verde. E sedettero tutti a gruppi e gruppetti di cento e di cinquanta. Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai discepoli perché li distribuissero; e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono e si sfamarono, e portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e anche dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.

Quello dei pani è l’unico segno di Gesù narrato da tutti gli evangelisti, compreso Giovanni. Marco e Matteo ci tramandano un duplice racconto: dopo aver spezzato il pane per i cinquemila, nel brano che abbiamo ascoltato, Gesù ripete il gesto per i quattromila, in Mc 6 e 8 e in Mt 14 e 15 abbiamo gli stessi racconti. Comprendiamo allora l’importanza  di questo episodio nella storia di Gesù, è il segno che più di altri rivela il suo volto e rivela che il Regno di Dio entra nella storia e nello stesso tempo manifesta  quale deve essere l’identità del discepolo, che accogliendo la rivelazione del Signore desidera veramente conformare a lui tutta la propria vita. Tutti e due i racconti di Marco si inseriscono in una sezione del vangelo che abitualmente è chiamata “dei pani”, che si apre con il racconto della prima moltiplicazione per concludersi con la guarigione del cieco di Betsaida, subito prima che Pietro risponda alla domanda di Gesù: “E voi, chi dite che io sia?”. È quindi una sezione nella quale in modo più stringente Marco interroga il suo lettore sulla vera identità di Gesù e conduce colui che lo ascolta, con Pietro, a dare una prima risposta, anche se è ancora una risposta incompleta, ambigua. In queste pagine Marco ricorre continuamente a termini e a immagini relativi al pane, al mangiare, al saziarsi. Gesù fa del pane un simbolo per rivelare la sua identità e il senso della sua missione. Nello stesso tempo il pane manifesta questa incomprensione crescente da parte dei discepoli. L’evangelista dice che “i discepoli non avevano capito il fatto dei pani essendo il loro cuore indurito” e, al capitolo 8, nonostante  sia già avvenuta la prima moltiplicazione, non sanno come fare per sfamare tanta gente, cioè la loro durezza raggiunge proprio il culmine subito dopo, quando  sulla barca con Gesù ricevono questo rimprovero severo:

"Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito?” Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?

Quel rimprovero che Gesù aveva fatto a quelli di fuori, in Mc 4,11-12

"A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché

guardino, sì, ma non vedano,

ascoltino, sì, ma non comprendano,

perché non si convertano e venga loro perdonato".

raggiunge ora quelli che sono dentro, i discepoli, incapaci di capire. Qui si tratta proprio di un fraintendimento radicale, perché si lamentano di aver dimenticato il pane e di non avere che un pane solo, ma quello che hanno dimenticato è un’altra cosa, è che il solo pane, quello che sfama per sempre la nostra fame è Gesù. Quanto maggiori sono i segni che Gesù offre, tanto più grande è l’incomprensione da parte dei discepoli, che sono ciechi e sordi, quindi è significativo che in questa sezione Marco racconti la guarigione di un sordomuto e di un cieco. Come Gesù guarisce questi infermi, guarirà anche la sordità e la cecità dei discepoli e allora la lingua di Pietro si scioglierà fino a confessare “tu sei il Cristo”, anche se per Pietro, come per il cieco, sarà graduale questo riconoscimento. Il cieco dapprima vede gli uomini come alberi che camminano, così anche Pietro gradualmente arriverà ad intuire qualcosa del mistero di Gesù. È sempre il mistero del pane, questa è la vera identità che viene svelata proprio da un pane spezzato, segno della vita di Gesù, donata per la salvezza di tutti.

I discepoli sono sordi e ciechi, non riescono a comprendere, il brano invece si apre con la profondità dello sguardo di Gesù, capace non solo di vedere, ma di intuire il vero bisogno dell’uomo. Nonostante abbia promesso ai discepoli affaticati dalla missione di farli riposare

sbarcando vide molta folla e si commosse per loro perché erano come pecore senza pastore

Qui più che la commozione è la vera compassione, noi sappiamo che il verbo qui riporta a quella dimensione delle viscere materne che nella tradizione biblica sono la vera sede della compassione e, grazie a queste viscere di misericordia, Gesù scorge quello che è un bisogno più nascosto della fame di pane, le folle sono come pecore senza pastore, dunque solitarie, sono disperse, incapaci di formare un gregge. Allora nello sguardo di Gesù si rende presente la stessa cura di Dio, è Dio che si manifesta, quella cura per il suo popolo, quella cura che era stata annunciata dai profeti

“io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare” (Ez 34,15)

oppure

Mosè disse al Signore: «Il Signore, il Dio della vita in ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell'uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore». (Nm 27,15-17)

Dio si rivela come il Signore della vita, perché la nostra esistenza non ha solo fame di pane, noi siamo affamati di altro, di relazioni, di amicizia, di comunione. Quindi da pecore sbandate a gregge unito, perché solo così fiorisce la vita tra di noi. Gesù mostra quale deve essere l’atteggiamento di un vero pastore. Qui i discepoli sono chiamati ad imparare, da un lato a scoprire la sua vera identità, dall’altro ad apprendere da Gesù lo stile con cui servire gli uomini, con cui annunciare il vangelo del Regno. Sono appena tornati con il desiderio di raccontare a Gesù tutto quello che avevano fatto e insegnato, ma ancora il loro atteggiamento manifesta come il cuore sia indurito. Sono ancora tentati di cadere in questa durezza. Quello che Gesù opera deve essere per loro una vera scuola, lui si prende cura della folla, ma si prende cura anche dei suoi amici più intimi, sfama i cinquemila mentre converte il cuore dei Dodici. Proviamo a sottolineare questo primo aspetto nella nostra preghiera.

Ma cosa genera la compassione? Soprattutto il dono della sua Parola: “E si mise a insegnare loro molte cose”. La sua è una parola per i dispersi, una parola che raduna, che consola, una parola che crea legami di solidarietà, che crea comunione. Dio è Padre e tutti gli uomini sono suoi figli, è questo l’annuncio del Regno e tra poco Gesù dividerà il pane fra tutti, ma questo dono sovrabbondante non rimane senza il dono della Parola. Ricordiamo che in un altro deserto, l’accostamento viene spontaneo, nel deserto delle tentazioni Gesù aveva resistito al diavolo, aveva resistito al suo progetto, rifiutando di trasformare le pietre in pane per la propria fame, perché

non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4)

Adesso non esita a donare ciò di cui ha bisogno la fame della gente, ma insieme al pane offre la Parola. Perché solo la Parola può educare l’uomo a riconoscere che i beni della terra sono un dono del Padre di cui non ci si può impossessare, ma doni da condividere nel rendimento di grazie, nella gratuità. Questo sarà il modo con cui Gesù si rapporterà subito dopo con il poco pane a disposizione, non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio, non perché non abbia bisogno di pane, ma perché quello che davvero sazia la fame, non è solo un cibo che riempie il ventre, ma l’atteggiamento stesso con cui se ne nutre. Qui possiamo considerare tanti aspetti, noi sappiamo che il pane può essere comprato o ricevuto, il pane può essere rubato o guadagnato, mangiato in un egoismo solitario oppure condiviso. Quello che nutre profondamente il nostro desiderio è la relazione che stabiliamo tra di noi e naturalmente anche con Dio attraverso un ampio rapporto con i beni della terra. Com’è più gustoso il pane che riceviamo dall’amore di qualcuno, ha un sapore diverso, quando il pane lo riceviamo dall’amore, quando lo condividiamo alla mensa dell’amicizia quel pane è diverso, rispetto a quello conquistato dalle nostre mani o consumato in fretta in solitudine. Se abbiamo fatto l’esperienza di mangiare da soli sappiamo quanto è triste, si può fare, ma non è una cosa bella. Occorre mangiare il pane ascoltando la Parola, perché la Parola ci conduce sempre dentro la bellezza di una relazione, produce la relazione con Dio  in questo caso che si fa nostro pastore,  con gli altri trasformati insieme a noi, da pecore disperse, in un unico gregge. Andando avanti, vediamo come la parola di Gesù nutre con abbondanza il desiderio della folla, che non si stanca di ascoltarlo, è catturata dalla bellezza dell’annuncio. Quando ho pregato con questo brano mi è venuto da chiedermi come sia possibile che la sua Parola consegnata anche a noi nelle Scritture non ci affascini allo stesso modo. Tante volte noi non sentiamo questo fascino, è una domanda che vi lascio aperta. Scende la sera e i discepoli sono i primi  a preoccuparsi

"Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare". Ma egli rispose loro: "Voi stessi date loro da mangiare".

Forse a questo punto anche loro sono stanchi, desiderosi di quel riposo che Gesù aveva promesso, perché molta era la folla che andava e veniva e non avevano neanche il tempo di mangiare, o forse la parola di Gesù sta già trasformando il loro cuore, qualcosa sta avvenendo, inizia la preoccupazione per gli altri, entrano nella compassione stessa di Gesù. La guarigione di un cuore indurito non è qualcosa che avviene in un attimo, ci vuole una lenta e faticosa salita, anche se poi vediamo come, per esempio, Zaccheo cambia repentinamente il suo atteggiamento, però generalmente il cuore indurito si scioglie attraverso delle tappe. Qui la cura dei discepoli è ancora offuscata da un certo disimpegno. Anche se sono entrati un po’ nella compassione di Gesù, la loro frase “congedali”, rivela che sono ancora incapaci di autentica accoglienza. Mentre Gesù accoglie nella compassione delle viscere materne, i discepoli desiderano congedare perché ognuno si arrangi da solo, come può. E qui la pedagogia di Gesù è insistente nei loro confronti, fa compiere uno dopo l’altro tutti i passi di conversione:

"Voi stessi date loro da mangiare”

È il passaggio dal disimpegno al coinvolgimento, è una guarigione iniziale del cuore, chiamato non solo a preoccuparsi, ma a prendersi cura con una responsabilità personale. I discepoli devono capire che devono lasciarsi interpellare in prima persona, rimangono ancora chiusi in una logica vecchia

Gli dissero: "Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?".

Ancora pensano a un pane comprato. Allora c’è il secondo passo di conversione:

Ma egli disse loro: "Quanti pani avete? Andate a vedere".

Quindi devono andare a vedere, non dove andare a comprare il pane, né di quanto dispongono, ma quanto pane hanno da condividere. Dal pane comperato al pane condiviso, ecco la guarigione del cuore. Gesù non vuole semplicemente sfamare la gente, ma compie un segno che riveli come Dio desidera il mondo. Il comprare va sostituito con il condividere, e allora devono cambiare le relazioni, devono cambiare le relazioni tra te e gli altri, tra te e le cose. Giustamente Bruno Maggioni, commentando questo brano, scriveva:

Se anche – paradossalmente – i discepoli avessero comperato col loro denaro il pane da distribuire, avrebbero compiuto un gesto di carità, non un segno che introduce nei rapporti una logica differente.

Quello che i discepoli hanno è poca cosa, cinque pani e due pesci, cosa è di fronte a questa folla? Ma il vero calcolo non è quanto si possiede, ma se si è disposti a donarlo totalmente. Se si dona tutto, la gente riceve tutto quello di cui ha bisogno, purché questo dare sia un consegnarsi nelle mani del Signore, affidandosi a lui e alla sua grazia, lui sa dividere il pane fra tutti. Anche se chiamiamo questo brano “la moltiplicazione dei pani”, di fatto qui il pane non viene moltiplicato, viene condiviso, diviso con tutti. È la divisione a moltiplicarlo. Allora possiamo fermarci su questi gesti di Gesù, lentamente, rivedendoli uno a uno

Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti.

Gesù non si preoccupa se quello che prende è poco o molto, accoglie quello che noi possiamo consegnargli nella nostra povertà, leva gli occhi al cielo, il suo sguardo entra in comunione con quello del Padre perché  vuole rivelare la vera compassione di Dio per il suo popolo, pronunziò la benedizione, non benedice il pane, ma il Padre, non supplica, non invoca, ma ringrazia, perché non ha dubbi che la volontà del Padre sia amore e sia salvezza per la fame di ogni uomo. Spezzò i pani, nel gesto della condivisione,

li dava ai discepoli perché li distribuissero

Anche i discepoli vengono coinvolti nel modo di vivere e di agire del loro Signore. Il miracolo scaturisce da quell’ultimo verbo “dava” all’imperfetto, cioè l’azione si prolunga fino a quando tutti saranno saziati. Questi passaggi credo che siano importanti, dobbiamo riconsiderarli ripensando al nostro ministero. È chiaro che Gesù compie gli stessi gesti della cena, quando benedicendo e spezzando di nuovo il pane dirà: “Prendete, questo è il mio corpo”. Se si è disposti a condividere tutto, è come se si donasse la propria vita, è questa la conversione che chiediamo in questa terza tappa. Quello che Gesù fa qui diventa profezia di quello che porterà a compimento nella Pasqua, quando la sua vita diventerà pane per la nostra fame di vita eterna. Chiediamo al Signore la grazia di avere questa disponibilità a consegnare noi stessi in quello che doniamo. L’ultima cosa che potrebbe aiutarci per la preghiera è che, prima di dividere il pane, Gesù

E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull'erba verde. E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta.

Erano pecore, disperse, solitarie, senza gregge, la parola di Gesù le ha trasformate in piccole comunità, capaci di condividere lo stesso pane nella vera compagnia della vita. Solo nella condivisione che crea comunità, si può mangiare il pane di Gesù. L’altra cosa: dal condividere il pane, che è Gesù, viene generata la Chiesa. Il dono è così sovrabbondante che

Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.

Il numero dodici evoca il numero delle tribù di Israele, non è un pane solo per i presenti, ma per l’intero popolo di Dio.

Per la vostra preghiera possiamo aggiungere a quanto dicevamo ieri sui riti iniziali della celebrazione eucaristica, la messa come assemblea del popolo di Dio. Non dimentichiamo che la messa è un’assemblea, fondamentalmente è l’assemblea del popolo di Dio, è la famiglia di Dio. La messa non è mai privata, perché è sempre una preghiera pubblica. La salvezza si opera attraverso una comunità, per questo è interessante la conclusione del brano che abbiamo letto. Dio si è riservato di operare la salvezza, sicuramente in piena libertà, per cui può salvare anche fuori della comunità, ma il piano normale di salvezza si attua attraverso la comunità. Nell’Antico Testamento attraverso il popolo di Dio, nel Nuovo Testamento attraverso il vero Israele, quello dello spirito, della promessa, cioè la Chiesa, che è una comunità. Questo è il disegno di Dio, quindi il senso di fraternità, dell’unità, realmente si realizza nella celebrazione eucaristica. Occorre affermare questo aspetto della messa anche esteriormente. Verso l’altare tutta l’assemblea converge, l’assemblea riunita si sente riunita attorno all’unico altare. È importante alla luce di quanto stiamo dicendo la posizione comune, insieme, l’essere in piedi, o in ginocchio, o seduti. Se queste cose non le riprendiamo con le persone, sappiamo che spesso diventano atteggiamenti privati. È una cosa piccola, ma ha un’importanza grande, non ci può essere un individualismo nella celebrazione eucaristica, per cui ognuno assume la posizione che vuole secondo il proprio capriccio, la preghiera comune, il canto comune, perché il canto è espressione di una comunità, è l’espressione che diventa bellezza, è la parola di una comunità espressa in questo senso di bellezza. In questo senso è alimento di senso comunitario, perché noi cantiamo quando i nostri spiriti sono in qualche maniera uniti e il canto nutre, significa questa unione, l’alimenta. Io rimasi sconcertato anni fa quando andai a fare gli esercizi da solo nella comunità di Monteveglio, la comunità di Dossetti, e mi dissero che per sei anni Dossetti aveva impedito alla comunità di cantare perché le persone non erano in sintonia tra di loro, non avevano una comunione di sentimenti. Dovevano decidere che stile prendere come canto per la comunità e c’erano molti contrasti tra di loro e lui bloccò tutto, non li fece più cantare. Il canto non è mai un elemento puramente decorativo, ma è l’espressione, l’alimento di un senso di comunità e questo senso di comunità lo portiamo nella vita. Sarebbe interessante prendere la Lumen Gentium, che inizia proprio con il presentarci la Chiesa come popolo di Dio, il capitolo più bello è proprio il II su questo mistero del Signore che operò la salvezza creandosi, facendosi un popolo suo, una sua famiglia, con la quale strinse un patto. Quando noi celebriamo abbiamo davanti un’assemblea, lui ci ha creati, ci ha redenti, ci ha salvati, il patto lo stringe con noi, ma attraverso l’ingresso in un popolo, famiglia di Dio. Evidentemente una comunità ha bisogno di riunirsi e la sua riunione si chiama assemblea. Questo non ci spersonalizza perché non impedisce i nostri rapporti intimi con Dio, non impedisce i colloqui a tu per tu con lui, ma impedisce il crescere dell’individualismo, dell’egoismo, questo crea la fraternità, perché siamo famiglia di Dio. Questa unità, questa fraternità si esprime in modo particolare nella liturgia e, in modo particolarissimo, nella messa, nella partecipazione consapevole, attiva, più vasta possibile. Se non capiamo questo non entriamo mai nell’anima della liturgia e della messa in modo particolare. Sono solo piccoli richiami. Anche la Costituzione sulla sacra liturgia, la Sacrosanctum Concilium, al n. 14, avverte che cessino tutte le distinzioni di posti particolari e non particolari

È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, « stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato » (1 Pt 2,9; cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo.

I nostri fedeli sono popolo regale e sacerdotale, quindi la messa, pur offrendo spazio ampio alla cristiana solitudo, non ne offre all’isolamento, che non può favorire, come non può favorire l’individualismo.

Caterina63
00giovedì 17 ottobre 2013 17:27

IV Incontro

Abbiamo visto come l’Eucarestia sia il luogo dell’educazione del cuore e vogliamo sottolineare questo aspetto, cioè il vivere nel dono di sé, il restare permanentemente in questo atteggiamento, riprendendo lo stesso brano in Gv 6,1-15, dove abbiamo alcune sfumature diverse rispetto al vangelo di Marco:

Dopo questi fatti, Gesù andò all'altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C'era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. E quando furono saziati, disse ai discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.

Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: «Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.

Il segno dei pani è l’unico narrato da tutti gli evangelisti ed è riletto da Giovanni con una certa originalità, coerentemente al suo modo di guardare a Gesù e alla fede in lui e qui la costruzione del capitolo lo attesta molto bene. Al segno dei pani segue un secondo segno, con la manifestazione di Gesù sul mare, quindi dopo un raccordo narrativo in Gv 6,22-25, un lungo discorso interpreta il segno, in Gv 6,26-58. Tutto questo porta coloro che assistono a tali eventi a prendere una posizione che si manifesta da una parte nell’incredulità di quanti abbandonano Gesù, molti se ne vanno, e dall’altra nella fede di chi, con Pietro, decide di rimanere. È interessante allora, pur tenendo l’attenzione sui primi due segni, mantenere sullo sfondo l’intero capitolo. Il gesto di Gesù non può essere capito se non alla luce della sua parola e della reazione che questa parola suscita negli ascoltatori. Un commentatore dice: “Il segno è la moltiplicazione dei pani letta dalla folla e letta da Gesù e nel contrasto tra le due letture si rivela chi è Gesù”. L’apertura e la conclusione del racconto, se accostati, lasciano trasparire una dinamica fondamentale: all’inizio una grande folla segue Gesù, alla fine solo i Dodici rimangono professando la loro fede con Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». (Gv 6,68-69). Qui c’è un passaggio, si opera un cammino molto importante dalla fede fondata sui segni alla fede fondata sulla Parola, dalla fame di pane alla comunione personale con Gesù, dalla guarigione degli infermi alla pienezza della vita eterna. Questo è il percorso che viene sollecitato, che va compiuto. Il racconto fa poi riferimento a più riprese a una traversata del mare, questo passaggio delle acque sicuramente si riferisce alle tradizioni dell’Esodo e sembra evocare però un passo decisivo nel cammino di fede. I discepoli giungono rapidamente all’altra riva verso la quale erano diretti. Proprio nel momento in cui accolgono Gesù e la sua rivelazione, Gesù dice: “Io sono, non temete”, la folla rimane ancora sull’altra sponda del lago, cerca Gesù, lo trova, ma non comprende: “Rabbì, quando sei venuto qua?”

Queste parole sembrano molto superficiali però manifestano un interrogativo profondo sull’identità di Gesù e sul mistero della sua venuta. Per trovare Gesù occorre comprendere sia il suo venire dall’alto come pane donato dal Padre, sia il suo venire nella carne, per cui lui è il figlio di Giuseppe che offre se stesso per la vita del mondo. Dio si rivela attraverso dei segni perché questi segni possano manifestare il suo volto e l’uomo, purificando il suo desiderio, possa accogliere questo volto. Davanti a questo brano forse una domanda può riproporsi al nostro cuore: “Quale fame abita la nostra esistenza? Quale fame noi ci portiamo nella vita? Di quale nutrimento abbiamo veramente bisogno?” Perché occorre oltrepassare il segno per riconoscere non solo il mistero di Dio che si manifesta, ma anche il desiderio segreto che porta ogni uomo alla vera luce. Se riconsideriamo con calma il brano vediamo una cosa molto importante, al centro c’è Gesù, la concentrazione narrativa è su di lui. È lui che assume l’iniziativa, che prende l’iniziativa di tutto quello che avviene, è lui che ha cura di nutrire i presenti senza attendere la sollecitazione dei discepoli come invece avevamo visto nel vangelo di Marco, è lui che li fa sedere ed è lui che distribuisce personalmente il pane e che infine ordina che siano raccolti, o meglio, “radunati”, i pezzi avanzati. È chiaro che qui c’è un’intenzione teologica, solo Gesù può distribuire il pane che sazia la fame, solo lui può darlo perché lui è il pane vero, lui conosce quale sia la fame dell’uomo senza che alcuno debba istruirlo su questo. Il suo pane può essere mangiato seduti perché frutto della gratuità dell’opera di Dio, non del lavoro dell’uomo. È un pane che non imputridisce come avveniva per la manna, ma rimane per essere custodito. Giovanni intende poi mostrare che Gesù, oltre a farsene dispensatore, è quel pane donato. La ricerca dell’uomo viene così corretta, la folla cercava Gesù perché aveva visto i segni che faceva, deve imparare a riconoscere lui nei segni che dona, deve scoprire lui. Il percorso da compiere non è semplicemente dal dono al donatore, ma occorre comprendere che il donatore si rende presente in quello che dona, perché altro non offre che se stesso. Dal segno dei pani bisogna arrivare al pane come segno di Gesù. Un altro particolare è che la scena è ambientata sulla montagna, è ricordato come inclusione all’inizio e alla fine dell’episodio. Se il monte, come sappiamo, può evocare moltissime pagine bibliche, indubbiamente appare come il luogo della stabilità di Dio, contrapposta al mare agitato in balia del quale si troveranno i discepoli dopo essersi separati da Gesù. Sul monte Gesù si ritira per cercare la comunione con il Padre, ed è da questo luogo sul monte che, alzati gli occhi, vide venire una grande folla da lui. Nei sinottici Gesù alza gli occhi al cielo subito prima di rendere grazie sul pane e distribuirlo, in Giovanni lo fa ora per vedere la folla, per guardarla, il suo è un vedere rimanendo in comunione con Dio, riconoscendo in chi viene a lui un dono del Padre. Quindi a determinare il suo gesto non è anzitutto la compassione per un bisogno di pane, ma per una fame più radicale che questo sguardo coglie proprio nel desiderio di chi lo cerca. Allora dovrà rispondere non dispensando del cibo, ma rivelando se stesso, perché solamente il suo mistero personale può saziare questa ricerca e lo farà in gesti e in parole, distribuendo prima del pane per poi affermare che questo pane deve orientare verso un cibo differente che non perisce. Il pane è un simbolo, per chi lo offre oltre che per chi lo accoglie, perché Gesù imprime il segno della sua vita che si rivela consegnandosi definitivamente, totalmente. In questa iniziativa Gesù coinvolge i discepoli attraverso il dialogo con due di loro. Prima si rivolge a Filippo “per metterlo alla prova”, precisa l’evangelista. Come abbiamo detto parlando di Abramo, la prova di Dio nella Bibbia assume sempre un particolare significato, deve discernere ciò che c’è nel cuore dell’uomo, la prova serve a questo, a saggiare il cuore dell’uomo, a vedere cosa c’è realmente dentro, deve purificarlo, per farlo arrivare poi ad assumere il pensiero di Dio. È la prova attraverso la quale i discepoli devono passare, Gesù sapeva bene ciò che stava per fare e Filippo e Andrea devono entrare nell’intenzione del maestro e il dialogo che qui si intreccia apre veramente uno spiraglio sul desiderio di Gesù. Qui si rivela quale sia il significato che Gesù vuole conferire a questo gesto. C’è questa domanda: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Letteralmente è “da dove possiamo comprare il pane”, in greco risuona l’avverbio πόθεν (pothen) che in Giovanni ricorre di frequente e che ha un senso fortemente cristologico, per dire che Gesù viene dal mistero di Dio, ricordiamo a Cana quando si narra che il maestro di tavola non sapeva “da dove venisse il vino”, la donna di Samaria domanda a Gesù: “Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo, da dove quindi hai quest’acqua viva?”. Il pane vero che sazia l’uomo, come il vino di Cana e l’acqua di Samaria, proviene da quel “da dove”, che è il Padre, un pane che è Gesù stesso e che può dire di sé:

“Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure io non sono venuto da me e chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato”.(Gv 7,28-29)

Oppure ancora:

perché so da dove vengo e dove vado (Gv 8,14)

E durante il processo Pilato indagherà sull’identità di Gesù con questo avverbio:

Di dove sei? (Gv 19,9)

“Da dove”, rivela anche l’iniziativa del Padre che invia il Figlio per rivelare quanto ha amato il mondo e perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.

“Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo”.

“C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?”

La prova scende più a fondo, fino a denudare la tentazione con cui l’uomo vive il proprio limite. Per Filippo e Andrea, se non si ha abbastanza, nulla è possibile. Se non si ha abbastanza non si può fare niente, il poco, per loro, equivale a niente. Tanto vale non impegnarsi. Gesù con il suo gesto capovolge la prospettiva: il poco che si possiede può essere comunque donato, che siano duecento denari o cinque pani, il calcolo da fare non è se siano sufficienti, ma se si è capaci di investire totalmente tutto quello che si ha. Veramente è interessante notare qui come il gruppo di Gesù dà tutto quello che può, il ragazzino offre tutto quello che ha, la folla riceve tutto quello che chiede, in definitiva, dice un autore: “Se io do tutto quello che ho, il mio prossimo riceverà tutto quello che desidera”. Il “se avessi di più” viene spazzato via da questa operazione. Ci ritroviamo ancora davanti a questa realtà che veramente può sempre aiutarci a trovare luce per la nostra vita, a moltiplicare il pane non è tanto, a questo punto, la disponibilità a condividere ciò che si possiede, andiamo oltre, quanto a consegnare se stessi in quello che si dona. La scelta di consegnare totalmente se stessi in quello che viene donato, dare tutto, donare la propria vita, non può non ricordarci il brano del vangelo della vedova che getta nel tesoro del tempio tutto quello che aveva, perché ha donato di fatto tutta la propria vita (Mc 12). Gesù fa di questo gesto il segno dell’offerta totale di se stesso. Non a caso il dialogo si intesse proprio con Filippo e Andrea, i due discepoli che di fronte alla ricerca dei greci ascolteranno Gesù mostrare un altro segno, quello del chicco di grano, che deve morire nella terra per produrre molto frutto (Gv 12,20-24). Il pane che Gesù dona nasce dallo stesso grano che produce frutto per tutti e in questo Gesù consegna tutta la sua vita. Gesù distribuisce il pane dopo aver fatto sedere i presenti. Qui c’è un’insistenza, il pane deve essere consumato sdraiati, è ripetuto tre volte, c’è anche un particolare, che in quel luogo c’era molta erba. Sono dettagli importanti, non è facile comprenderne il significato, molte ipotesi sono state avanzate, ma tra i vari rimandi non va trascurato Gen 3,17-19, quando il Signore rivela le conseguenze del peccato:

maledetto sia il suolo per causa tua!
Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita.
Spine e cardi produrrà per te
e mangerai l'erba campestre.
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;
finché tornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto:
polvere tu sei e in polvere tornerai!».

Adesso, nella salvezza operata da Gesù, il pane può essere mangiato senza sudore, seduti, e seduti non su un suolo arido, ma rigoglioso di erba verde. Per accogliere il pane donato da Gesù l’uomo deve compiere un altro lavoro: “Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”. Il lavoro da fare è entrare in comunione con la persona di Gesù condividendo la logica del dono totale di Dio di cui il pane è segno. Un ultimo aspetto è che il pane rimasto viene raccolto in dodici ceste, di fronte a tanta gratuità è stridente il tentativo con cui la folla tenta di afferrare Gesù per farlo re, ancora una ricerca sbagliata. Ha compreso il segno del pane riconoscendo in Gesù il profeta atteso, però travisa la profezia di Dio in Gesù e si cerca un re per consegnare la propria vita nelle sue mani. Il re prenderà, costringerà, si farà consegnare, questi sono i verbi  della regalità che Samuele ricorda quando il popolo chiede uno che regni su di sé (1Sam 8). La tentazione della folla è più radicale  della semplice pretesa di un Re-Messia che soddisfi la propria fame, si rivela piuttosto una relazione con Dio immaginata ancora in termini di una dipendenza. Anziché di un dono liberante si tratta ancora di qualcosa che crea asservimento. Allora il gesto di Gesù capovolge la prospettiva, facendo della propria vita un pane per sempre consegnato nelle mani dell’uomo, mostrando il volto del Padre rivela come vada ricercata la relazione con Lui. Le dodici ceste di pane avanzato stanno lì anche per ricordare che il pane donato da Gesù rimane per sempre, senza creare legami innaturali di dipendenza. Gli uomini non dovranno ritornare ancora da Gesù per ricevere del pane, perché ormai lo hanno con loro. E comunque possono imparare come donarlo e come condividerlo, cercano Gesù per farlo re, fanno ancora una ricerca sbagliata per la tentazione di spogliarsi di una responsabilità personale. Invece dovranno piuttosto oltrepassare il segno, per cercare Gesù, non perché dà del pane, ma per riconoscere in lui  il vero dono che libera totalmente. È necessario dire con Pietro che lo cerchiamo non per il pane, ma perché ha parole di vita eterna ed è il Santo di Dio. La grazia che vogliamo mettere a fuoco questa sera è quindi quello che dicevo all’inizio, il  vivere nel dono di sé, questo ci vuole consegnare Gesù in questa Parola che vogliamo accogliere con cuore aperto. Di fronte al tentativo della folla Gesù si ritira di nuovo sulla montagna tutto solo, più che di una presa di distanza dalla folla, o di un sottrarsi alla tentazione del potere, si tratta di un orientare ancora la ricerca. Anche qui c’è una pedagogia, un indicare una direzione di cammino, dal pane a Gesù e da Gesù al Padre perché

il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo. (Gv 6,32-33)

Questo pane è donato per sempre, le dodici ceste rimangono, il dono di Dio è per la vita del popolo intero, radunato in unità dal pane di Dio, e Gesù stesso ordina di radunare i pezzi avanzati perché nulla vada perduto, perché

questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno (Gv 6,39)

Sembra paradossale qui questa affermazione, perché alla fine del capitolo Gesù sembra perdere quasi tutti, lo abbandonano la folla, i Giudei, molti discepoli. Rimangono solo i Dodici e persino tra loro si nasconde un diavolo. In che modo allora Gesù compie la volontà del Padre di non perdere nessuno? Come si realizza questo? Le ceste rimangono, sono lì! La sua vita, il suo pane, la sua carne, il suo sangue, rimangono offerti comunque per tutti. Il legame che non ci perde non siamo noi ad intesserlo, è Gesù a porlo in modo irrevocabile, con il dono di sé. Facendo qualche richiamo con la celebrazione dell’Eucarestia cosa possiamo richiamare con la semplice revisione che stiamo cercando di fare? A me è venuto spontaneo pensare all’Offertorio, all’offerta del pane e del vino, forse potremmo fare qualche aggancio con la nostra riflessione, chiederci cos’è questo che noi offriamo, quale sia il significato per noi di questa offerta del pane e del vino. L’uno e l’altro sono elementi necessari, anche se non esclusivi, dell’Offertorio. In questo gesto non possiamo non ricordare che ci offriamo anche noi, c’è la nostra offerta e poi offriamo tutto quello che i fedeli hanno portato, lo presentiamo a Dio con una preghiera sulle offerte che è una preghiera a Dio perché gradisca queste offerte del suo popolo. Noi siamo degli offerti in quel momento, quali condizioni realizzano però nella nostra vita l’offerta di noi stessi? Mi sembra che sia interessante ripensare a questo, che noi offriamo noi stessi a servizio, proprio a sottolineare la diaconia, e questa diaconia, questo servizio, come lo attueremo? Quali condizioni si richiedono? Il vangelo ci suggerisce che dobbiamo guardare a Cristo che si è presentato come un servitore, ma per dare una tonalità ancora più concreta, vi invito a ripensare a Cristo che si presenta come servo, ma con queste tre dimensioni:

Cristo povero

Cristo obbediente

Cristo casto

Il momento dell’Offertorio è il momento in cui ogni giorno, nell’Eucarestia, noi rinnoviamo l’offerta della nostra povertà, castità e obbedienza. L’offerta di noi stessi significa ta dall’Offertorio ci mette in una disponibilità di servizio al Signore, in una disponibilità di servizio alla Chiesa di Dio, a tante persone che la Provvidenza ci ha fatto incontrare, ci consegna.

Per noi sacerdoti tutto questo deve portare un distacco affettivo del cuore dalle cose terrene, un senso di povertà che è anzitutto disposizione dell’animo, è un senso necessario a tutti gli uomini perché il denaro, sotto qualsiasi forma si presenti, non diventi causa di peccato. Su questo distacco il vangelo torna più volte facendo del denaro un elemento contrapposto a Dio, quasi che l’uomo si trovi a dover fare una scelta tra Dio e Mammona. Questo fondamentale distacco per cui si deve essere disposti a lasciare qualunque guadagno piuttosto che perdere l’anima, non è solo del prete, né del cristiano, ma di ogni uomo. Nel cristiano e nel prete c’è qualcosa di più, non soltanto un distacco affettivo tale da non indurlo in tentazione, ma un amore e una preferenza per la povertà, ecco dove si rinnova tutto questo come offerta. Il primo e fondamentale motivo è per una maggiore conformazione a Cristo che, essendo ricco, si è fatto povero. La conformazione a Cristo povero rimane sempre come garanzia della nostra perfezione spirituale, della nostra salvezza e, per noi sacerdoti, anche garanzia di efficacia del nostro ministero. Dobbiamo essere vigilanti sull’uso del denaro, su come ci rapportiamo con esso, vigilare anche su quel senso dell’affarismo che prende qualche sacerdote che non guarda tanto per il sottile, che non guarda tanto alla purezza morale dell’affare, ma al risultato. A volte potrebbe esserci questa tentazione. Oppure vigilare su altri aspetti, sul troppo affetto che noi portiamo verso i nostri cari, verso i parenti, può indurci a volte a venir meno a un giusto senso di povertà, anche su questo bisogna vigilare. Quanto danno ha fatto alla Chiesa il nepotismo! Il pericolo è quello di pensare che arrivati al sacerdozio, o ad una certa posizione, ci si debba concedere  una certa comodità di vita, una certa larghezza di vita. Sono semplici richiami.

L’offerta della castità, rinnovare anche questo nel momento in cui veniamo offerti, la castità sacerdotale come dimensione di dedizione totale di se stessi a Dio. Il nostro celibato è un atto di fede, è un annunzio dei cieli nuovi e delle terre nuove che saranno la consumazione piena della redenzione. Dove attingiamo la forza per vivere questo? È dalla messa che il nostro celibato deve attingere tutta la forza e tutta la sua realtà. La messa è assemblea della famiglia di Dio, ma è proprio perché noi siamo padri di questa famiglia che rinunziamo a una paternità naturale, per poter dare tutto il senso della nostra paternità a questa famiglia di Dio dove Dio ci ha messo come padri. Qualche anno fa c’è stata un’occasione di confronto con i direttori spirituali di alcuni seminari dell’Est, persone sposate, questo incontro è stato molto bello. Alla fine di questo scambio  loro dissero: “Beato te che puoi dare tutta quella disponibilità a questi giovani, noi non possiamo farlo, non ce la facciamo con la responsabilità che abbiamo nei confronti delle nostre famiglie”. La messa è assemblea in cui noi sentiamo la nostra paternità, una paternità larga, abbondante, che domanda una pienezza, una totalità di dedizione.

E poi saper rinnovare anche l’offerta dell’obbedienza, anche qui una configurazione più perfetta a Cristo che fu obbediente fino alla morte di croce. L’obbedienza ecclesiale può configurarsi diversamente secondo le circostanze storiche, ma resta sempre la virtù dell’obbedienza come configurazione a Cristo obbediente. Sono soprattutto due le dimensioni dell’obbedienza alla quale siamo chiamati, quell’obbedienza passiva che si realizza in quei casi in cui ci viene richiesto di accettare quell’indicazione che il nostro superiore ci dà, di essere vice-parroci o parroci in un luogo, o in un’altra dimensione pastorale e la si accetta in maniera passiva, ma passiva nell’accezione della passio Christi, non possiamo staccare l’obbedienza dalla croce, un’obbedienza che si vive in alcuni momenti particolari, quando per esempio ci viene detto che saremo vice-parroci in quella certa comunità, di cui non sappiamo nulla, neanche dell’esistenza, non siamo mai nemmeno passati in quel quartiere. C’è poi un’obbedienza attiva, che è l’accoglienza delle disposizioni della Chiesa, dei nostri superiori, che vanno interpretate, non eseguite come fa un funzionario, attiva perché ci vuole la creatività dell’applicazione di quelle indicazioni alla situazione in cui mi trovo, in cui vivo il mio ministero. Cerchiamo di valorizzare quel momento della celebrazione in cui veniamo offerti tutti i giorni e l’obbedienza deve entrare in questa donazione che esprimiamo nell’Offertorio e con la quale ci uniamo a Cristo povero, Cristo vergine, Cristo obbediente e per l’obbedienza fatto vittima di espiazione per tutti noi.



Caterina63
00giovedì 17 ottobre 2013 17:29

V Incontro

 

Oggi vogliamo vedere attraverso la lettura di un brano ricchissimo, Gv 13,1-38, questo invito ad amare fino al compimento e ripercorriamo il segno della lavanda dei piedi. Per me e per la mia vita sacerdotale, questo brano è sempre stato un punto di riferimento molto forte. Nel commentare questo testo mi rifarò ad alcuni spunti del Card. Martini che ci aiuteranno nella preghiera, ma dobbiamo soprattutto chiedere la grazia di amare fino al compimento.

 

Le prime tre righe costituiscono una premessa solenne, nella quale si indica il tempo in cui si compie l’azione, il tempo legato alla Pasqua.

 

Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.

 

Gesù vive ciò che sta per essere narrato fino alla Passione, morte e resurrezione, con piena consapevolezza. C’è una piena coscienza del cammino che lo attende, la consapevolezza di quell’ora di cui aveva parlato a Cana rivolgendosi a Maria. È giunta l’ora, il momento del passaggio al Padre e lui esprime ciò che ha nel cuore, i suoi sentimenti più profondi, ed è l’amore fino alla fine per noi. Tutto questo sarà anche l’ultima parola prima di morire: “Tutto è compiuto”, l’amore non poteva manifestarsi in maniera più forte. Per due volte si insiste sull’amore, “avendo amato i suoi” e “li amò fino alla fine”. Poi si specificano le circostanze: “Mentre cenavano”. Noi sappiamo che la lavanda dei piedi non sembra avvenire, come di consueto, prima del pasto, ma durante, forse a simboleggiare in modo più forte questa comunione di vita che il pasto richiama, è un momento importante di comunione, di fraternità. Gesù dice proprio questo, il mangiare insieme è una comunione profonda che è una legge “lavatevi i piedi reciprocamente”, cioè “servitevi reciprocamente”.

 

 Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo

 

Viene ulteriormente precisata la situazione. E qui ci sono due realtà, ricordo un commento della prof.ssa Costacurta su queste realtà antitetiche, luce e tenebre, che vengono messe direttamente a confronto nella persona di Gesù e in quella di Giuda.

 

Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava,

 

Proprio perché ha tutto nelle mani, il gesto che compirà non è semplicemente un esempio, qualcosa di marginale, ma è la Rivelazione con cui Dio esercita la sua signoria.

 

si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto.

 

Qui oggi dovremmo fermarci tanto nella preghiera, questo gesto è descritto in maniera solenne, tutti i verbi sono importanti, tutto viene compiuto come una liturgia. Subito dopo è descritta la contestazione da parte di Pietro

 

Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: "Signore, tu lavi i piedi a me?". Rispose Gesù: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo". Gli disse Pietro: "Tu non mi laverai i piedi in eterno!". Gli rispose Gesù: "Se non ti laverò, non avrai parte con me". Gli disse Simon Pietro: "Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!". Soggiunse Gesù: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti". Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: "Non tutti siete puri".

 

Vengono descritti tre interventi e tre risposte da parte del Signore. Il primo da parte di Pietro esprime lo stupore: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Qui viene in mente il Battista che nei sinottici chiede a Gesù con meraviglia: “Tu vuoi essere battezzato da me?”. Gesù risponde a Pietro: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo". È un’affermazione categorica, probabilmente il dopo si riferisce alla spiegazione che verrà data con la morte e la resurrezione. Contemplando la croce e il Risorto, i discepoli comprenderanno pienamente il significato del gesto. La seconda battuta, dopo lo stupore, è questa reazione: "Tu non mi laverai i piedi in eterno!", e la risposta di Gesù: "Se non ti laverò, non avrai parte con me". Perché questa fermezza? Certamente perché il gesto di Gesù significa il suo dare la vita. Questo deporre le vesti è veramente consegnare tutta la vita, donarla, dare il suo corpo liberamente. E non si può non accettare che il Verbo dia la vita per noi, perché senza questa accettazione non c’è salvezza. Pietro rifiutando di farsi lavare i piedi sta rifiutando di lasciarsi amare. Il rifiuto nei confronti di Gesù ha questa portata, lui non vuole che il Maestro lo salvi, addirittura è lui che vuole morire per il Maestro. Poi, da questa negazione Pietro va all’eccesso opposto: "Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!". Soggiunse Gesù: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti"

 

Questi versetti permettono già di intuire che il gesto della lavanda ha un significato profondo. Credo che tutti noi ci siamo fermati tante volte su questo testo, ma il tempo dedicato a poter entrare nel mistero che qui si compie non è mai sufficiente. Non basta leggere questo brano ogni tanto, noi dovremmo farvi continuamente riferimento nella nostra vita, bisogna lasciarsi amare fino in fondo per essere salvati. Non sempre siamo disponibili a lasciarci amare, forse siamo più portati ad assumere una dimensione attiva e non passiva. Lasciarsi amare è una dimensione difficilissima nella nostra vita. Gesù spiega poi il senso del suo gesto e lo fa con tanta calma, dopo aver ripetuto tutti i gesti al contrario

Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: "Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica.

 

Dobbiamo imparare da Lui, sentirci servitori, mandati. Il servizio umile che siamo chiamati a renderci tra di noi, è il fondamento della nostra comunione. Proviamo a ripetere questa parola - anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri- nella nostra vita, quando magari succedono delle cose un po’ difficili a livello di relazioni, quando ci sono disagi causati da litigi, che possono avvenire, anche tra noi preti, nelle nostre parrocchie, nelle nostre fraternità, con la nostra gente. Oppure quando ci sono delle incomprensioni. Questa parola va vissuta in questi momenti “dovete lavarvi i piedi”. È l’invito a non accusarci a vicenda, ma a vivere con semplicità, con umiltà, il gesto del servizio. Pensiamo alle nostre relazioni, i preti con cui viviamo non li abbiamo scelti noi, ci siamo ritrovati con loro, a volte può non andare bene, possiamo avere a che fare con persone non piacevoli, eppure la regola comunitaria non transige, ci chiede di lavarci i piedi gli uni gli altri. Abbiamo veramente bisogno, nella nostra vita, che il Signore ci doni il suo amore, perché se è già faticoso e umiliante, a livello fisico, lavare i piedi a una persona, è molto più faticoso perdonare, amare, continuare a interpretare bene il comportamento degli altri, continuare ad accogliere. Sicuramente lavare i piedi a una persona non è facile, mi ricordo un bellissimo libro di Luigi Santucci, “Volete andarvene anche voi?”, dove l’autore commenta la lavanda dei piedi dicendo che chi non ha avuto problemi a lavarci i piedi forse è solo nostra madre, perché le madri non si fanno di questi problemi, ma lavare i piedi è sempre faticoso, è un gesto che non viene così naturale.

È molto più faticoso però accogliere l’altro significato, saper veramente perdonare continuamente, ma è unicamente così che nasce e cresce la comunità dei discepoli, non ce n’è un altro. È un insegnamento tanto importante che Gesù conclude con queste parole: “Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica”. La vera beatitudine è la pratica che comporta il superamento di sé nel perdono reciproco e ci permette di sperimentare la gioia delle beatitudini. Oggi è il momento in cui siamo chiamati a ripensare alle nostre comunità, sia a quelle presbiterali che a quelle parrocchiali in genere, dove ci sono tensioni, contrapposizioni a volte, ed è lì che non devo dimenticare questa parola di Gesù, perché ogni giorno questa regola della comunione ecclesiale va ripresa, e non è questione di tollerarsi a vicenda, perché sarebbe poca cosa, ci vuole qualcosa di più, come ci dice il Sal 133, “Ecco come è bello e soave che i fratelli vivano insieme”.

 

C’è poi una lunga sezione del brano dedicata al tradimento di Giuda. Forse tanta parte vi è dedicata per indicarci che tutti siamo sempre capaci di tradire l’amicizia di Gesù, il suo amore possiamo sempre tradirlo. Questo lo dobbiamo ricordare sapendo però che lui è l’Agnello di Dio che prende su di sé i nostri peccati. Anche qui ci sono dei passaggi da tener presente. Prima di tutto:

 

Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto, ma deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno.

 

Sicuramente qui il richiamo alla Scrittura sminuisce un po’ lo scandalo, il tradimento è previsto nel piano divino, non possiamo pensare a un fallimento di Gesù. Nella Chiesa del Signore non c’è un fatto così terribile che non risponda a un disegno e che non possa essere vinto dal progetto positivo di Dio. Siamo partiti nella prima meditazione anche da una frase di Paolo: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28). Nessun fatto per quanto grave, tremendo, può annullare il piano di salvezza.

 

Ve lo dico fin d'ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io Sono. In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato".

Dette queste cose, Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: "In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà".

                                  

Immaginiamo cosa devono aver provato i discepoli in questo momento. Gesù invece prevede il tradimento per assicurarci che tutto ha un senso. Poi, nel desiderio di proclamare questo amore, si serve della curiosità di Pietro:

 

I discepoli si guardavano l'un l'altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: "Signore, chi è?". Rispose Gesù: "È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò".

 

Proviamo a ripensare a quest’ultimo gesto, che è un gesto di bontà, di ospitalità, riservato al padrone del banchetto, un gesto con cui Gesù cerca ancora di vincere l’odio con l’amore. C’è proprio una lotta in cui Gesù cerca di vincere le tenebre con la luce. Poi, quasi a coprire il tradimento di Giuda, Gesù lo esorta a fare quello che deve fare:

 

E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Gli disse dunque Gesù: "Quello che vuoi fare, fallo presto". Nessuno dei commensali capì perché gli avesse detto questo; alcuni infatti pensavano che, poiché Giuda teneva la cassa, Gesù gli avesse detto: "Compra quello che ci occorre per la festa", oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte.

 

Sembra che le tenebre abbiano vinto, ma poi c’è la conclusione:

 

Quando fu uscito, Gesù disse: "Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.

 

Che cos’è la gloria di Gesù? È il suo amore inerme che si dona anche a chi lo tradisce, che lo porterà alla croce dove farà risplendere il suo vero volto, il volto di Dio. Un amore che si rivela anche nelle situazioni più drammatiche della vita.

Dobbiamo prenderci tutto il tempo per gustare queste parole, prima di tutto sottolineando come Gesù va verso la morte, la regalità con cui Gesù si avvia al compimento della sua missione, lui va regalmente verso la morte, la sua morte non è un incidente, non lo coglie di sorpresa. Rivediamo questi sette verbi che sottolineano con precisione il suo gesto, non ci dicono soltanto come ci si prepara a lavare i piedi, ma come si dona la vita per amore. Potremmo anche riprendere Gv 10 “Il buon pastore offre la vita per le pecore” e lo ripeterà tre volte: “ho il potere di offrirla, questa vita, e il potere di riprenderla di nuovo”, Gesù è sovrano nel consegnarsi, nella passione rimane con questo aspetto regale. Credo che sia importante perché la vita non deve essere strappata, ma donata, e per donarla bisogna possederla in pienezza. Non so se vi capita a volte, nel vostro ministero, di avvertire una certa pesantezza che rasenta il logoramento. Avviene quando sentiamo che la vita ci viene strappata e non siamo noi a donarla. Questo lo avvertiamo subito. Noi davanti a questo brano siamo invitati ad avere questa regalità nel donarci, come Cristo, in quanto liberamente e per amore ci si consegna, non perché costretti.

 

Un secondo punto è quello di vedere come nelle nostre comunità noi siamo chiamati a vivere un servizio di amore e di perdono, continuamente. Noi siamo amati dal Signore per amare, siamo continuamente perdonati per perdonare. Questo è il senso dell’Eucarestia, perché l’Eucarestia ci nutre dell’amore di Dio e ci spinge al servizio, un servizio di amore e di perdono. Nel gesto c’è qualcosa di veramente grande e profondo che ci rivela qualcosa della natura stessa di Dio. Non soltanto Dio può abbassarsi fino a prendere carne e a servire umilmente per amore, ma avvertiamo la sua potenza senza limiti in maniera profonda quando si abbassa nel servizio e nel dare la vita. Forse facciamo tutti un po’ di fatica a convertirci a questa immagine di Dio. C’è un bellissimo testo di François Varillon, “L’umiltà di Dio”, molto interessante da questo punto di vista, è più facile pensare al Dio degli eserciti, il Dio che vince le guerre, che a un Dio che si abbassa nell’umiltà. Non è facile capire questo atteggiamento, però qui viene esplicitato quello che era già detto nel Prologo “Il Verbo si è fatto carne e abbiamo visto la sua gloria”.

Questo boccone offerto al traditore, è un segno di amicizia, di comunione. Gesù affronta il tradimento con distacco, con una sana distanza, quella distanza di cui abbiamo parlato nell’introduzione a questi esercizi. Il peccato del mondo non impedisce, non vanifica il gesto del Maestro, ma fa risplendere in pienezza il valore meraviglioso di quello che avviene: il rinnegato che ci ama fino in fondo e l’Agnello vittorioso dell’Apocalisse. Proviamo in tutta semplicità a metterci in preghiera questa mattina, e a chiedere al Signore: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Perché se non ci lasciamo lavare i piedi non si sviluppa quella capacità di fare la stessa cosa con la nostra vita nelle nostre comunità. Se sperimentiamo la bellezza di questo gesto tutti i giorni, allora rimarrà questa forza, anche se la meraviglia ci accompagna. Un prete scriveva nel suo testamento spirituale, prima di morire, “Sento una grande paura perché sto per incontrare il mio giudice, però mi consola un pensiero: che Colui che mi giudicherà è Colui che mi ha lavato i piedi continuamente nella mia vita”. Un altro passaggio per la preghiera è fermarsi a lungo sul fatto che anche noi dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Ci sono delle situazioni, nella nostra vita, che richiedono questo gesto, questo atteggiamento di perdono e di accettazione sincera. Non lasciamo che il cuore si indurisca in alcune situazioni, perché è facile mettere un coperchio e dire: “Va bene, ormai tanto la cosa è andata così, lasciamola lì”. Non è possibile! Non lasciamo situazioni in sospeso da questo punto di vista, perché il servizio del perdono, dell’accoglienza, dell’accettazione sincera, lo dobbiamo compiere fino alla fine, lo dobbiamo rendere ad ogni persona della comunità che ci è affidata e spesso ci pesa, ma Gesù ci invita a viverlo con lui. Soprattutto, in questo Anno Sacerdotale, viviamolo tra noi sacerdoti. A volte ci sono situazioni nelle quali qualcuno ci ha fatto del male, evidentemente è possibile questo. La forza di una Parola come quella che stiamo accogliendo oggi, ci porta a fare dei passi per sciogliere certi nodi che possono essersi creati nei rapporti, nelle relazioni. Che il cuore sia grande, che ci sia veramente una grandezza d’animo. Proviamo oggi a rievocare davanti al Signore oggi quelle situazioni nelle quali è necessario forse rinnovare o dare un perdono e possiamo sperimentare il mistero della gioia di Dio dentro di noi. Una cosa importante nella preghiera è cercare di entrare nella coscienza di Gesù, cercare di coglierne i sentimenti interiori. A partire dalla sua coscienza provare a vedere come lui vede me, come vede la mia comunità, come vede il mondo, come vede Giuda. Questo è  molto importante, non fermarsi all’aspetto esteriore del gesto, ma cercare di cogliere quelli che sono gli atteggiamenti interiori di Gesù, i sentimenti, per farli nostri. Questa mattina presentiamoci davanti a Lui con tutta la nostra fragilità, anche noi siamo nella situazione di tradirlo, di rinnegarlo, di fuggire qualche volta, e allora il riconoscere ancora con tanta umiltà la nostra situazione, ci aiuta. Dobbiamo dire al Signore: “Tu conosci la mia fragilità, il mio peccato, il mio limite, te lo confesso, te lo affido e mi rimane la certezza di quella Parola che hai detto a Pietro e che ripeti a ognuno di noi «Ho pregato per te, che non venga meno la tua fede»”.

 

Caterina63
00giovedì 17 ottobre 2013 17:35

VI Incontro

 

Lc 22,14-38

Quando venne l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: "Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio". E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: "Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio". Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: "Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me". E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi".

"Ma ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell'uomo se ne va, secondo quanto è stabilito, ma guai a quell'uomo dal quale egli viene tradito!". Allora essi cominciarono a domandarsi l'un l'altro chi di loro avrebbe fatto questo.

E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: "I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l'ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù d'Israele.

Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli". E Pietro gli disse: "Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte". Gli rispose: "Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi". Poi disse loro: "Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?". Risposero: "Nulla". Ed egli soggiunse: "Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra gli empi. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento". Ed essi dissero: "Signore, ecco qui due spade". Ma egli disse: "Basta!".

 

Non facciamo una lectio come abbiamo fatto finora, lascio ad ognuno di voi la possibilità di fare un percorso seguendo dei testi di riferimento, ma facciamo una meditazione nel senso classico della parola sulla parte centrale della Messa, sull’anafora, sull’azione di grazie, per ravvivare un po’ quello che stiamo cercando di vivere, sia nelle nostre comunità, sia da un punto di vista personale, come in questo anno di verifica ci è stato proposto. Questa meditazione e la prossima saranno di tonalità diversa rispetto alle altre. Noi sappiamo che l’offertorio finisce con la preghiera sulle offerte, e poi inizia il vero e proprio sacrificio, l’immolazione e l’offerta della vittima.

Si inizia con un’azione di grazie per due motivi:

 

prima di tutto l’azione di grazie è un’espressione della nostra situazione di creature redente, siamo uomini redenti, salvati, che adorano il Padre, quindi lo ringraziamo, anche per essersi riconciliato con noi, per averci fatti suoi figli, per averci dato la promessa della sua eredità. L’azione di grazie qui comprende l’adorazione verso il Padre, la fiducia piena in Lui. La prima ragione è centrata sulla riconoscenza.

 

La seconda ragione è che Gesù rese grazie, e questo rendimento di grazie con il quale diede il senso al sacrificio eucaristico è diventato così forte, così vivo, ha preso una tale consistenza nel pensiero della prima comunità cristiana, che dopo un lungo periodo iniziale nel quale si è sottolineato un altro aspetto, quello della fractio panis, già dall’inizio del II secolo la sottolineatura del rendimento di grazie si sostituisce a questa, e il mistero fu chiamato Eucarestia.

 

“Rendiamo grazie al Signore nostro Dio”

“È cosa buona e giusta”

 

Il sacrificio inizia con queste parole che sono state sviluppate nella prima parte della grande preghiera eucaristica, quella che ha preso il nome di Prefazio. Prima di iniziarla diciamo “Il Signore sia con voi”, è un’espressione che ci aiuta a prendere contatto con l’assemblea. Questo saluto, ripetuto in questo momento, è una presa di contatto molto significativa, è questo unirci nel Signore che riguarda chi celebra, chi presiede e chi partecipa. Questa espressione compare in altri momenti della Messa, nel saluto iniziale, prima del vangelo e poi adesso. Ci addentriamo nel cuore della Messa con un senso di adorazione, di riconoscenza. Siamo nel cuore della Chiesa, sulla soglia del Paradiso, perché la Chiesa non realizza mai così pienamente se stessa come nella Messa. Oltre questa soglia si apre il Paradiso, noi ci accostiamo veramente con tanta umiltà, con un senso di fede, di autentica adorazione, di riconoscenza, di amore, di lode. Sono tutti gli atteggiamenti che sono richiesti nell’accostarsi al Mistero.

L’anafora ci presenta l’immensa realtà della redenzione, che abbraccia il piano della nostra salvezza e quindi nella nostra salvezza c’è la gloria di Dio, la sua glorificazione. Noi siamo abituati a chiamare Pasqua una sola domenica, la domenica è la Pasqua della settimana, usiamo questo linguaggio. Pensandoci bene però questo è un rimpicciolire il mistero perché la Pasqua non è solo quella domenica, è un avvenimento. Il Mistero pasquale di Cristo ha dimensioni molto più ampie, Cristo è la nostra Pasqua, tutto intero.

 

Il mistero pasquale non si limita al giorno di Pasqua, non alla veglia di Pasqua che pure ne è il vertice, né al Triduo pasquale, e neppure al ciclo pasquale dei cinquanta giorni. Il mistero pasquale di Cristo abbraccia tutta l’opera della redenzione operata da Cristo. Potremmo ripensare alle parole di Sant’Agostino quando dice che c’è una discesa dal cielo al seno della Vergine, dal seno della Vergine al presepio, alla croce, alla sepoltura, agli inferi, poi l’innalzamento. Quello che noi celebriamo con il nome di Pasqua comprende tutto quanto, comprende l’Avvento, il Natale, tutta la vita di Cristo, perché tutto è polarizzato verso questo punto centrale che unisce la morte, la vita, la resurrezione, l’umiliazione, la kenosi, lo svuotamento, la glorificazione. Ci può aiutare Paolo, con l’inno contenuto in Fil 2. È questo mistero pasquale che sta al centro della liturgia, della vita, di tutta la realtà, perché la realtà non ha che un centro che è Cristo, che è il Verbo di Dio che ha creato il mondo e nel quale il mondo ha consistenza e che si è inserito nella realtà di questo mondo, per cui “affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra” (Filippesi 2,10). È interessante quando diamo l’annuncio, nel giorno dell’Epifania, ricordare questo, che in tutte le feste si celebra il mistero di Cristo. La Messa è il vertice della liturgia, è la celebrazione perenne del mistero pasquale e lo è proprio in questa parte, quella che la Parola ci ha ricordato, l’anafora. Anafora vuol dire offerta, presentare, portare dal basso verso l’alto. E lo è proprio in questa parte che è un sacrificio, nel quale il sacerdote è Cristo che opera, e nel quale noi siamo strumenti del sacerdozio di Cristo. Questo ci deve dare anche una grande pace, non dobbiamo mai sentirci i protagonisti, siamo segno dell’unico sacerdozio di Cristo, ecco perché qualsiasi forma di protagonismo è fuori posto. La voglia di apparire non ha senso, noi siamo strumenti del sacerdozio di Cristo nell’adempimento del suo compito specifico.

 

L’offerta del sacrificio è il compito specifico del sacerdote che di natura sua è mediatore, come viene detto in Eb 5. Il nostro è un sacerdozio ministeriale, siamo strumenti di Cristo, in qualche modo noi, pur conservando tutta la, nostra libertà, tutta la nostra responsabilità, la nostra consapevolezza, la nostra coscienza, noi siamo strumenti di Cristo. Sono io che parlo? Sì, ma non sono io, è Cristo che parla in me. Infatti le parole sono queste: “Questo è il mio corpo”, noi siamo strumenti, è lui il sacerdote che offre il sacrificio ed è lui la vittima offerta. Che lui sia la vittima pasquale è indicato non solo dal fatto che è morto durante la Pasqua degli Ebrei, ma soprattutto dal fatto che lui ha istituito questo sacrificio eucaristico alla tavola della cena pasquale. L’Eucarestia fu istituita dopo che si era compiuto, secondo tutte le norme rituali, il rito dell’agnello pasquale. Ricordiamo Cor 5,7-8

 

Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità.

 

Siamo in un quadro di per se stesso pasquale, perché l’agnello fu immolato quando avvenne il passaggio, il grande passaggio dalla schiavitù alla libertà e l’agnello pasquale immette nel clima di redenzione, di resurrezione, di passaggio dalla sofferenza alla terra dove scorre latte e miele, e tutto questo per il sangue dell’agnello. Così come è per il mistero del sangue di un agnello immolato e mangiato che l’Eucarestia viene istituita e sostituisce l’antica figura. Sarebbe interessante seguire un percorso sull’agnello che nell’Antico Testamento è la più incisiva fra le realtà figurative, ha una storia legata alla storia della salvezza. Forse nessun’altra figura è significativa come questa. Pensiamo ai primi capitoli di Genesi, dove ci vengono segnalate le offerte di Abele, il pastore. Poi si continua con Mosè, ma assume una preminenza assoluta con l’agnello immolato nelle case degli israeliti in Egitto, del cui sangue sono segnati gli stipiti della porta perché sia evitato il flagello della morte. Finalmente la cena pasquale, l’agnello che ogni anno ogni famiglia immolava cede il posto alla realtà, l’agnello pasquale sarebbe stato lui, la cui carne e il cui sangue avrebbero costituito il cibo di questa nuova mensa, Cristo è qui, sulla mensa, sacerdote e vittima.

La messa è un memoriale del sacrificio della croce e Gesù stesso lo significò chiaramente:”fate questo in memoria di me”, in 1 Cor 11-24 si ripete e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me".”

È stato l’ordine con il quale Gesù ha accompagnato il potere dato agli Apostoli, “farete anche voi questo che io ho fatto e tutte le volte che lo farete, lo farete in mia memoria”, “Voi annunzierete la morte di Cristo, fino al giorno in cui egli ritorni”. Cristo fu ucciso in un determinato giorno, fu sepolto, resuscitò, ma quel fatto ha una portata che va oltre il momento storico. L’ambiente storico in cui si è compiuto va oltre questo, quel fatto è vivo, è ancora vivo nei sentimenti interiori con cui fu compiuto. Ecco perché dobbiamo chiedere la grazia di assumere i sentimenti di Gesù, credo che sia una dimensione spirituale molto interessante per il nostro cammino. I sentimenti interiori con cui lui ha compiuto questo sono vivi. Il senso di amore, di servizio, quel dare la vita in redenzione per molti, è vivo ancora nel cuore di Cristo, è perenne. Tutto questo è vivo nei suo effetti, gli effetti di quella morte, di quella sepoltura e di quella resurrezione sono vivi, quel fatto è vivo in Cristo.

 

Ognuno di noi avrà pensato a come vivere questo anno sacerdotale, ma credo che qui ci sia un punto particolare da non lasciarsi sfuggire, quello di cogliere gli stati interiori di Cristo per esserne contagiati. Il mistero pasquale di Cristo qui ci è presentato con le parole che noi usiamo nell’Anamnesi quando annunziamo la morte del Signore “fino al giorno in cui egli tornerà”. Nell’anamnesi che segue immediatamente alla consacrazione, noi diciamo:

 

Celebrando il memoriale del tuo Figlio,

morto per la nostra salvezza,

gloriosamente risorto e asceso al cielo,

nell'attesa della sua venuta ti offriamo, Padre,

in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e santo.

 

Il mistero di Cristo comprende tutta la sua vita, l’incarnazione, la vita di Nazaret, tutto è in preparazione in vista del mistero pasquale. In Eb 10,5-7 troviamo:

 

Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,

un corpo invece mi hai preparato.

Non hai gradito

né olocausti né sacrifici per il peccato.

Allora ho detto: "Ecco, io vengo

- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -

per fare, o Dio, la tua volontà".

 

È il mistero pasquale che inizia nel momento dell’Incarnazione. Appena nato, dopo quaranta giorni Cristo è offerto come vittima, sia nel seno della madre che, pubblicamente, liturgicamente, in un luogo sacro.

Per questo nel Credo ricordiamo che la sepoltura è stata voluta come il definitivo annientamento, quando l’uomo scompare, anche dallo sguardo degli uomini. La sepoltura è lo scomparire dalla faccia della Terra. E poi ricordiamo la sua resurrezione, perché Cristo è morto per i nostri peccati, ma è risorto per la nostra giustificazione, è risorto dai morti, primizia di  coloro che dormono, e la sua glorificazione è modello e garanzia della nostra. “Vado a preparare un posto per voi”. Nella messa questo mistero pasquale di Cristo si rinnova, per lui, da lui, in lui, perché Cristo è presente realmente in tutta la liturgia, ma nell’Eucarestia Cristo è presente realmente e insieme sostanzialmente. Potremmo rileggere la Sacrosanctum Concilium che al punto 7 ci ricorda come per realizzare l’opera della redenzione:

 

“Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, «offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti», sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso:

«Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18,20).”

 

Il mistero della messa è annuncio e ricordo, ricordo di quel giorno in cui Cristo è salito sulla croce per offrirsi su quell’altare al Padre e annuncio che questa morte è ancora attuale perché è l’amore che uccise Gesù, non i soldati romani. È interessante rileggere in questa ottica Gv 10,17-18

 

Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio

 

Tutto questo è concentrato in quelle parole che noi pronunciamo tutti i giorni. La messa è anche un patto,

questo è il calice del mio Sangue

per la nuova ed eterna alleanza,

versato per voi e per tutti

in remissione dei peccati.  

Fate questo in memoria di me.

    

Cristo, unico ed eterno  sacerdote, è anche l’unico mediatore che stringe il patto tra il Padre e l’umanità, questa umanità che ridiventa la famiglia di Dio. E il patto deve essere suggellato e il suggello del patto tra noi e Dio è il sangue, è il sangue che suggella, che firma il patto tra gli uomini e Dio, quel patto antico che aveva una funzione preparatoria, di cui Mosè era stato mediatore. “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio”. Erano state uccise le vittime, era stato asperso il sangue. Gesù ora dice che il patto antico cade, si instaura un nuovo patto, che non è più tra Dio e Israele, ma tra Dio, mio padre e tutta l’umanità, quella umanità che io ho assunto in me stesso, ho sintetizzato in me prendendo la vostra natura umana, inserendomi nella famiglia degli uomini, è il nuovo patto che non sarà sostituito da un altro, non sarà modificato. Di questo patto è mediatore il Figlio, è l’unico che riunisce in sé l’umanità e la divinità, è il vero anello di congiunzione tra Dio e gli uomini. Questo patto deve essere firmato con il sangue, ma questa volta il sangue di Cristo, che è versato per voi e per tutti. Forse adesso ci sarà un cambiamento nella traduzione, si sta pensando da tempo di cambiare la frase dicendo: “Per molti”, non “Per tutti”. Cristo è presente sull’altare con una presenza dinamica, la dinamica della redenzione, per questo c’è tutto il mistero nella messa, non possiamo ridurlo.

Vorrei ricordarvi le parole con cui André Louf commenta tutto questo:

 

il sangue non è solo versato, anche il corpo viene donato e questo significato è fornito dal pane spezzato. E l’alleanza fondata dal sangue di Gesù oltrepassa di gran lunga quella di un tempo. Ora viene definita nuova ed eterna. In Gesù la Pasqua degli Ebrei passa in modo impercettibile dalla realtà di prima alla Pasqua nuova, quest’ultima contenuta nella prima. Se esiste un’evidente continuità, esiste allo stesso tempo una novità radicale, definitiva. D’altra parte Gesù non si ferma qui, in quanto aggiunge: “In verità vi dico che non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio”, perché la Pasqua di Gesù, la Pasqua nuova, non termina il giovedì e nemmeno il venerdì, nel Regno che verrà essa non cesserà mai. Gesù ha appena attraversato l’alba della Pasqua, ormai è anche più lontano, è già salito al cielo, sta come agnello immolato davanti al trono del Padre e vi celebra la Pasqua eterna con tutti gli eletti. Ancora oggi quando celebriamo l’Eucarestia, tutta la storia santa si trova così riepilogata e sfocia già nell’eternità. Dalla Pasqua ebraica che ha trovato la sua pienezza nella Pasqua di Gesù, fino alla Pasqua eterna, passando per la nostra, oggi, dove passiamo incessantemente dalla morte alla vita in Gesù Cristo.

 

Vi propongo alcune domande che possono aiutarvi nella preghiera:

 

  • Di fronte al gesto eucaristico di Gesù, quali resistenze si manifestano ancora nella mia vita?
  • Il desiderio di Gesù come trasforma i miei desideri?
  • In che modo l’Eucarestia mi rende capace di dare un significato diverso a quanto ho vissuto e sto vivendo?
  • “Fate questo in memoria di me”, cosa esige da me questo imperativo nell’oggi della mia vita?

 
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Caterina63
00giovedì 17 ottobre 2013 17:37

VII Incontro

Oggi ci fermiamo sulla dimensione della trasformazione che l’Eucarestia opera nella nostra vita. È una trasformazione veramente concreta della vita, che nella sua interezza deve diventare eucaristica. Dei santi si dice spesso che hanno avuto una vita eucaristica, pensiamo a cosa è stata l’Eucarestia per Madre Teresa, per lei l’impegno a favore dei poveri non era che il prolungamento dell’Eucarestia. Possiamo dire che nella vita dei santi la messa duri tutta la giornata. Di questa donna si dice che trascorresse ogni giorno circa quattro ore in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento, perché dormiva poco, iniziava prestissimo la sua giornata. Ricordo qualche battuta di Mons. Comastri su questo. Quando Madre Teresa veniva a Roma lui le chiedeva di riceverlo e succedeva che, alla richiesta di un orario per l’appuntamento, gli rispondesse: “Venga alle cinque” e, a volte, con ironia propria del toscano, rispondeva: “Prima non è possibile, Madre?”. Finita l’adorazione poi si immergeva sempre nella contemplazione del volto di Cristo nei poveri. Credo che sia uno dei punti più importanti da riprendere nella nostra vita di oggi. Abbiamo visto che l’Eucarestia è al centro della vita, della storia umana, tutta la storia gira intorno all’Eucarestia. Il CV II dice che l’Eucarestia è la sorgente e il culmine dell’evangelizzazione, quindi deve stare all’inizio, al vertice di tutto il lavoro della Chiesa. Ecco perché è importante quello che la nostra Diocesi sta portando avanti questo anno, questo invito a riflettere sull’Eucarestia venuto dal Convegno. L’Eucarestia ha tante storie legate alle nostre vite. Ha colpito tutti noi il fatto che Giovanni Paolo II sia più volte ritornato su questo raccontando la sua storia eucaristica. Ci sono stati momenti in cui si è proprio aperto su questo punto raccontando il suo itinerario eucaristico. Forse non sarebbe male in questa giornata, nella preghiera personale, provare a fare una memoria di quella che è stata la nostra storia eucaristica, cos’è stata l’Eucarestia per noi. Io ho un ricordo molto vivo della Prima Comunione, di come sono stato preparato, mi ricordo i volti dei catechisti, del parroco. Credo che sia importante avere ogni tanto questa memoria grata di quello che è stato il nostro percorso eucaristico, quali sono state le Eucarestie che veramente hanno trasformato la nostra vita. Ci sono state anche Eucarestie in cui non siamo entrati nella celebrazione, perché magari eravamo arrabbiati, non siamo entrati a far festa, ci è costato, siamo rimasti fuori pur partecipando fisicamente.

Nell’Eucarestia c’è l’esodo di Gesù, il suo partire, risulta chiaramente da Gv 13 che abbiamo meditato ieri:

Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine

Questo passaggio al Padre è sintetizzato nell’Eucarestia e avviene attraverso la morte e la Resurrezione. Ci sono altri testi in cui Gesù parla di questa partenza, possiamo riprendere anche Gv 17,11

Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te.

Pensiamo ancora a Gv 20,17

"Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro"

Tutto l’itinerario di Gesù è racchiuso in questo andare verso il Padre e questo suo destino, cioè il suo passare attraverso la morte, non è un destino fatale, lui va regalmente incontro alla morte, non è qualcosa che gli capita, che gli arriva addosso, ma è desiderato. Ancora possiamo citare, a questo proposito, Gv 10,14-17

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio.

Questo itinerario è voluto, è la scelta di fondo, è la sua decisione, c’è una determinazione forte.

"Il Figlio dell'uomo - disse - deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno". (Lc 9,22)

Così si affronta questo destino, a viso aperto, un destino di morte, di rigetto:

"Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini". Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento. (Lc 9,44-45)

È qualcosa di importante tornare su questo aspetto del mistero dell’Eucarestia, soprattutto ritornare a quell’atteggiamento di Gesù che troviamo in Lc 9,51 quando c’è quell’espressione sulla quale tante volte ci siamo soffermati:

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme

Una decisione forte, sofferta, ma guardata in faccia. Il proposito di dare la vita è espresso in maniera molto forte nell’istituzione dell’Eucarestia. Il senso del sacrifico eucaristico è l’uscita da sé volontaria, per noi, la volontà irrevocabile di morire per la nostra salvezza. È una volontà, un proposito che abbraccia tutta la vita. Abbiamo visto come il mistero pasquale comprende tutto, dall’incarnazione fino alla fine, e che ha reso sensibile, sacramentale, simbolo reale nell’Eucarestia, questo simbolo semplicissimo del pane mangiato, spezzato, e del sangue versato per noi. L’Eucarestia veramente per noi è la tenerezza del Padre, resa visibile nel Figlio che diventa nostro cibo. È un mistero grandissimo, non finiremo mai di contemplarlo, di entrarci dentro. Cosa fare di fronte a questo mistero? Cosa ci viene chiesto? Qual è il nostro atteggiamento?

La prima cosa da fare è “non fare niente”, non possiamo subito pensare a dei gesti di culto, ma la cosa fondamentale di fronte al mistero dell’Eucarestia è lasciarci amare. Bellissimo l’episodio sul Curato d’Ars, sul contadino che stava davanti all’Eucarestia e che, alla domanda su cosa stesse facendo, rispose: “Niente, lui guarda me e io guardo lui”. La prima cosa è lasciarci amare, lasciarci salvare, purificare, lasciare che sia Lui a fare tutto, ricevere la vita con gratitudine. Questo è l’atteggiamento che ci viene richiesto. Non bisogna temere di stare in silenzio, sono i momenti più belli della nostra vita, quando non dobbiamo trovare nulla da dire, perché è Lui che fa tutto, che ci parla, ci viene incontro con tutto il peso di questa decisione di amore che vuole riversare su ognuno di noi. Dobbiamo lasciare che lui sia salvezza, perdono, piena tenerezza per noi, purificazione. E poi dall’Eucarestia ci arriva l’invito a celebrare il nostro culto spirituale, mediante l’offerta del nostro corpo. Torniamo a Rom 12,1

Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.

L’offerta dei nostri corpi, questo è il nostro culto spirituale. Sappiamo che dire la parola corpo è dire qualcosa di molto importante, nella Bibbia il corpo non è una parte di noi stessi, è tutta la nostra persona. Ricordo una meditazione di p. Francesco Rossi De Gasperis nella quale lui diceva che il corpo per noi è una rete di relazioni, potremmo usare l’immagine del computer che registra tutto, il corpo raccoglie tutto, tutto il bene che le persone ci hanno voluto è scritto nel nostro corpo, così come il male che ci hanno fatto è nel nostro corpo. Anche il bene che abbiamo fatto noi e il male che abbiamo causato è registrato nel nostro corpo. La nostra memoria andando avanti diventa debole, ma la memoria del corpo è fortissima, conserva tutto e può a un certo punto tirare tutto fuori. Una parte di creazione ci è stata affidata con l’intento che ciascuno di noi deve portare alla gloria, alla salvezza, la parte che ha ricevuto. Tutte queste relazioni devono essere vissute nella carità autentica, ecco perché lui diceva in questa meditazione che niente della nostra vita terrena deve rimanere nella tomba. Così come niente delle relazioni che Gesù ha vissuto nella sua esistenza terrena, è rimasto nella tomba, perché tutto è stato bruciato nella carità, tutte le sue relazioni sono state vissute nel fuoco della carità, e questo vale anche per il corpo di Maria. È l’augurio che dobbiamo fare a noi stessi, che tutto sia consumato dalla carità. L’offerta del corpo è quindi tutto, tutta la vita nella sua estensione, il giorno e la notte, la giovinezza e la vecchiaia, la salute e la malattia, il successo e l’insuccesso, la gioia e il dolore, l’entusiasmo e la depressione. Tutto va donato come sacrificio vivente, offrendoci a Dio come Gesù si è dato a noi e al Padre. Pensiamo a quante persone compiono ogni giorno questo culto spirituale forse senza saperlo, vivendo onestamente, vivendo gli impegni della famiglia, del lavoro, dello studio, tutti i rapporti, le relazioni con amore, sopportando con pazienza situazioni difficili o dolorose.

Ef 5,1-2

Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.

Camminare nella carità vuol dire vivere il culto spirituale, cioè il culto della vita. Insieme a questo brano possiamo leggere anche 1Pt 2,4-5

Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo

A questo deve portarci l’Eucarestia, a questa offerta, l’offerta della vita quotidiana, niente deve rimanere fuori dall’offerta di Cristo. Pensiamo a quanto dobbiamo essere condizionati dall’offerta di Cristo e niente di noi deve rimanere fuori da questa offerta. Il sacrificio spirituale che Dio gradisce è il dono di sé. Sarebbe importante a questo punto del cammino che stiamo compiendo insieme, allargare anche il significato della parola martire, renderlo più ampio. Testimone non è solo colui che muore per Gesù, ma anche colui che nella vita di ogni giorno vive il vangelo, non interrompe il suo legame di amicizia con il Signore, il suo legame di amore. Vivere veramente questa carità fino in fondo.

Qui dovremmo inserire anche il tema autentico della riparazione. Cosa significa riparare? Quando io mi giro indietro nella mia vita e guardando certi momenti, dico: “Qui è mancato l’amore, ho perso delle occasioni, le ho sciupate, non ho amato”. Allora come faccio a consumare quelle relazioni nell’amore, visto che ormai magari quelle situazioni non esistono più? Posso mettere un supplemento di amore in quello che sto vivendo oggi, nelle relazioni che vivo adesso. Se prima non ho messo amore, adesso devo metterne di più, questa è l’autentica riparazione. Un supplemento d’amore nell’oggi, questo significa continuare a vivere un martirio. È la testimonianza a renderci simili a Cristo, e la testimonianza avviene sia per la via del sangue che per quella della carità. Queste sono le due vie privilegiate del vangelo. La via del sangue ci fa interrogare sul senso ultimo della fede, qual è il valore di Cristo per me, la via della carità ci fa comprendere che la vera gioia è incontrare Cristo negli altri, soprattutto nei poveri. Allora capiamo che la dimensione del martirio non ci allontana dal mondo, ma ci permette di vivere una meravigliosa sintesi, perché si è fedeli a Dio e si è fedeli alle persone. Ogni azione liturgica, ogni azione spirituale, non deve mai mancare a questo duplice appuntamento: a Dio e ai fratelli. E la testimonianza è un impegno appassionato, libero, con Dio e con l’umanità, attraverso la forza dello Spirito. Le due vie ci fanno capire che c’è una profonda differenza tra l’informare e il rendere testimonianza. A volte noi siamo più ottimi informatori che testimoni e sappiamo che questa strada è infeconda, non produce niente. Dobbiamo essere testimoni del Risorto, e siamo credibili agli occhi del mondo con il martirio. Magari dal punto di vista dell’informazione globale è una cosa insignificante, nessuno se ne rende conto, ma non importa, perché la testimonianza non riguarda l’informazione, ma la Rivelazione dell’amore di Dio. La vita del discepolo deve essere una testimonianza, un culto, un sacrificio spirituale. Oggi forse c’è una tentazione diffusa, come se la testimonianza fosse una cosa facoltativa, ma non è così, è necessaria, perché il Cristo è operativo nella storia solo attraverso la fede e la carità dei discepoli. Allora il martirio è importante, è un agire nel nome di Cristo. Il discepolo è colui che rinuncia a se stesso, ad ogni suo progetto personale, e vive nel mondo con uno sguardo verso la croce, e dalla croce verso la resurrezione, per cui resta nel mondo, ma anticipa il futuro con quella speranza viva che lo sostiene, che lo porta avanti.

Proviamo oggi a rivedere il tema dell’offerta, vi avevo citato la preghiera di S. Ignazio di Loyola potremmo riprenderla oggi. La vera offerta è fondata sulla riconoscenza, devo riconoscere che tutto è grazia nella mia vita. Ripensiamo allora a tutto quello che nel nostro vivere è diventato pesante, magari a quello che sembra un ostacolo, alle difficoltà che sto vivendo, alle sofferenze, al senso di pesantezza, all’essere toccato dalla malattia, Cristo crocifisso ci insegna che possiamo offrire tutto perché tutto sia trasformato. E proprio le cose che sembrano più inutilizzabili sono trasformate nel modo più meraviglioso. Nulla era più inutilizzabile di una croce, perché patibolo di malfattori, però sulla croce si è realizzata la trasformazione più grande e più feconda, che ha creato una nuova terra e ha fatto sì che l’amore di Dio riempisse tutte le cose.

È importante iniziare la giornata con l’atto di offerta, perché la giornata abbia sin dal suo inizio questa tonalità dell’offerta totale.

È importante per noi vivere bene l’Eucarestia, di curarla, di non arrivare mai alla celebrazione eucaristica impreparati. È brutto per noi andare sull’altare e metterci a cercare la pagina giusta del messale perché non l’abbiamo fatto prima, vuol dire che non abbiamo preparato l’Eucarestia. È importante tornare sulle letture già la sera precedente, fermarcisi, perché è bello, tanti di voi già lo fanno, proporre almeno un piccolo pensiero ogni giorno dopo le letture della messa, perché questo ci spinge a prepararci, a non improvvisare. Ci fa bene e i fedeli si accorgono di quanto amore mettiamo nel prepararci. E poi dovremmo sempre curare l’adorazione, perché lì esprimiamo la lode, l’entusiasmo, la riconoscenza, questa preghiera è nata in Occidente da un bisogno, quasi istintivo, di prolungare la celebrazione del mistero. E non è soltanto una qualunque preghiera silenziosa davanti al tabernacolo, devo partire dallo stato eucaristico di Gesù, dal suo essere immolato per noi, testimone del Padre fino alla morte, perfetto adoratore del Padre, fonte di comunione.

Per la vostra riflessione vi propongo tre punti:

  • Cosa sta nascendo dentro di noi
  • Cosa sta morendo
  • Cosa sta ancora crescendo

 


Caterina63
00giovedì 17 ottobre 2013 17:41

VIII Incontro

Il rito della comunione nella messa comincia con il Padre Nostro. Al momento di andare alla sua tavola noi invochiamo Dio Padre e, dopo questa preghiera, noi siamo intorno alla tavola del Padre che è, allo stesso tempo, l’altare del sacrificio e la mensa del Signore, tutti e due gli aspetti vanno sempre tenuti presenti. Questa parte inizia con un gesto molto importante, quello che Gesù fece e che è pieno di significato, della fractio panis. Con l’uso delle particole che abbrevia i tempi e facilita tante cose, quel segno ha perso un po’ del peso originario, anche se ora lo ha in parte riacquistato con la concelebrazione. Sicuramente ora è più evidente che c’è una frazione del pane.
Anche nella messa celebrata da un solo sacerdote questo segno è presente, a ricordare la raccomandazione di Gesù “Farete anche voi così”, anche se ridotto ai minimi termini, è importante che ci sia ed è bello che abbia un certo rilievo, e che sia addirittura accompagnato da un canto, l’Agnus Dei.

Questo gesto è importante perché lo spezzare il pane è un gesto simbolico, carico di significato, lo resta anche sul piano naturale. Oggi un padre di famiglia non spezza più il pane, ma immaginiamo cosa poteva significare un tempo questo gesto che il padre faceva, di dividere quel pane che rappresentava il suo sudore, la sua fatica, era come se stesso e dividerlo tra i suoi figli era una comunione di se stesso ai figli per farli vivere e crescere, un dividersi, uno sminuzzarsi per darsi agli altri. Il Signore ha consacrato questo gesto che poi è stato sottolineato così tanto che la prima comunità ha usato l’espressione fractio panis per designare la celebrazione eucaristica. Il fatto che un unico pane sia diviso fra tutti unisce in  maniera molto forte tutti noi, già fratelli, S. Giovanni Crisostomo dice che ci rende consanguinei con Cristo, ma anche fra di noi, questa è la sorgente della koinonia.

Al discepolo è richiesta nei vangeli quasi una rottura dei rapporti di consanguineità quando comincia a vivere la sequela e c’è l’esperienza della restituzione centuplicata di una nuova fraternità. Lo si vede chiaramente nei vangeli e uno dei brani più significativi da questo punto di vista è Mc 3,31-35

Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: "Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano". Ma egli rispose loro: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre".

È evidente che Gesù qui non si limita ad ampliare lo spazio della fraternità, ma lo rifonda, dandogli un orientamento nuovo a partire dalla sua stessa esperienza, deve riconoscere radicalmente come madre, fratelli e sorelle coloro che compiono la volontà di Dio ascoltandola, obbedendole. I suoi stessi parenti, se vorranno entrare in questo nuovo spazio della fraternità, dovranno sottostare alle stesse condizioni, ascoltando la Parola di Dio, obbedendo alla sua volontà. È molto bello, anche a livello visivo, il gesto di Gesù che volge lo sguardo su quelli che gli stanno attorno, gira lo sguardo attorno per riconoscere il manifestarsi di una verticalità, quella della relazione con il Padre che si realizza nell’ascolto obbediente della sua Parola e del compimento della sua volontà. E lo sguardo di Gesù così aperto a tutte e due le dimensioni ci dice che queste due dimensioni si integrano a vicenda. Si tratta certamente di uno sguardo di rivelazione, c’è questa espressione “ecco”, posta all’inizio della frase, e poi è uno sguardo di elezione, di vocazione, come sempre è lo sguardo di Gesù nel vangelo. Ed è importante ricordare che tra fratelli non ci si sceglie, ma ci si accoglie. Anche lo sguardo di Gesù accoglie coloro che il Padre gli dona come fratelli e sorelle perché obbedienti alla sua volontà. Questa dimensione verticale si intreccia con quella orizzontale, il fratello è sempre colui che sono chiamato ad accogliere, a custodire come un dono, riconoscendo in lui un appello e una vocazione che provengono dalla paternità di Dio.
Questa è stata l’esperienza di Gesù e qui si manifesta in modo chiaro la novità di Gesù. Fondare la fraternità su questa obbedienza non significa semplicemente estenderla a chiunque sia disposto ad assumere questo atteggiamento radicale, ma più profondamente implica la volontà del Padre, che è una volontà salvifica, di salvezza universale. Ci sono tanti testi che potrebbero sottolineare questo aspetto, prendiamo il discorso della montagna, incentrato sulla rivelazione del volto del Padre. Quando Gesù dice, in Mt 5,43-48:

amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Figli del Padre, fratelli fra di noi, a questa condizione, diventare come il Padre, perfetti come Lui è perfetto, cioè capaci di accogliere, di obbedire a questa sua volontà. Come guardare allora il fratello? Con lo stesso sguardo del Padre, perché è il solo che intuisce la vera necessità del figlio, quel bisogno di acqua e di sole. La condizione per riconoscere l’altro come fratello è che l’altro abbia bisogno di acqua e di sole, tanto è vero che Gesù stesso non ha esitato a porre in modo stretto il legame tra il bisogno e l’identità del fratello, quando dirà che i suoi fratelli più piccoli sono quelli che necessitano di essere sfamati, dissetati, vestiti, visitati. In questa rivelazione del Padre che ci viene offerta nella Scrittura, oltre al discorso della montagna incontriamo anche il racconto di Caino e Abele (Gen 4), dove si dice che nessun fratello è mai abbastanza fratello da non essere anche altro, e questo altro così radicalmente diverso, di una tale alterità da provocare una volontà omicida nei suoi confronti.

Qui è il contrario, nessun altro, neppure il cattivo, è tanto altro da giustificare la violenza, o soltanto l’indifferenza nei suoi confronti, perché ogni altro è fratello proprio nel suo essere altro. Facciamo tanta fatica ad accettare questo, che l’altro è fratello proprio nella sua diversità, nel suo essere un bisogno di vita irriducibile al mio. Questo bisogno di vita è sotto il segno della misericordia di Dio che si rivela per lui e che diventa comandamento per me. Il punto da sottolineare è proprio nel capovolgere la prospettiva, perché se noi rimaniamo nell’ottica dell’allargamento della fraternità, l’interrogativo rimane sempre quello sui confini, ma il punto non è questo. Se io rimango sul fatto che devo allargare lo spazio della fraternità, l’interrogativo sarà: “Fin dove giunge questo spazio?”, “Oltre quale linea posso ritenermi giustificato se mi disinteresso dell’altro?”, perché ci sarà pure un limite.
Qual è il confine? Può essere molto angusto come quello dei legami familiari o dell’amicizia, può essere uno spazio più allargato, lo posso estendere quanto voglio, ma il vero problema della fraternità non è quello dei confini. Se voglio veramente entrare nella logica del Padre il punto è l’atteggiamento del cuore, cioè della disponibilità a rispondere a quell’imperativo che dice che per essere figlio del Padre, capace di obbedire alla sua volontà, occorre la fattiva volontà di farsi fratello dell’altro, chiunque esso sia. È sul cuore che dobbiamo vigilare. Per tanto tempo anch’io avevo impostato così le cose, ma poi mi sono messo a ripensare a questa dimensione, che quello che ci affratella, non è tanto quello che abbiamo in comune, quanto, paradossalmente, quello che ci divide. Quello che io ho e l’altro non possiede o viceversa, quello ci rende fratelli. L’alterità diventa uno spazio particolarmente fecondo per l’incontro, e non più uno spazio della concorrenza, della gelosia, dell’invidia, ma quella diversità rimane la distanza necessaria che consente l’incontro reciproco attraverso il dono di sé. Non si crea allora la fraternità allargando i confini, ma dilatando lo spazio del cuore, della vita, perché l’altro possa entrarvi con la sua diversità, con il suo bisogno. Credo che questo sia fondamentale, che la domanda innata dell’uomo sulla fraternità sia quella sui confini nel vangelo emerge sempre, per esempio in Lc 10,29: “Chi è il mio prossimo?”.
Questa è la domanda che il dottore della legge fa a Gesù, ma è una domanda sui confini, ci si chiede fino a dove devo riconoscere l’altro come prossimo. E una domanda del genere, non per il contenuto, ma per la stessa logica, è quella che Pietro fa nel discorso che viene chiamato comunitario, quello di Mt 18,21 «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». Ancora una domanda sui confini, che vuol dire: “Qual è lo spazio oltre il quale posso ritenermi dispensato dal perdonare il fratello che pecca contro di me?”.

In tutti e due i casi la risposta di Gesù è analoga. Nella parabola del samaritano la risposta è di non preoccuparti di stabilire fin dove arriva il confine della prossimità, ma verifica se sei capace di una vera prossimità nei confronti dell’altro uomo. Per rispondere a Pietro c’è quella parabola meravigliosa che è quella del servo spietato. Mentre il primo riceve tutto il condono di quello che deve, e qui c’è la grandezza d’animo del signore, che si manifesta, lui non riesce a fare lo stesso con l’altro servo, è rimasto gretto dentro di sé, non riesce a mostrare la grandezza d’animo, non si è lasciato minimamente contagiare. Essere fratelli vuol dire riconoscersi nati dalle viscere della misericordia di Dio e occorre sentirsi impegnati dal venire da queste viscere di misericordia, a una vita che esiste ed è una vita sensata perché è una vita capace di dare la vita all’altro che è diverso da sé. Credo che sia questa la grazia da chiedere, altrimenti non verremo mai a capo di questa dimensione che ci interpella tanto. Questa dimensione della fraternità va accolta come un dono, anche se faticoso e vorrei dare tre indicazioni su come custodire questo dono:

La fraternità si custodisce prima di tutto con una custodia della parola. Concretamente dobbiamo avere una matura capacità di dialogo, ricordiamo l’episodio di Caino e Abele, l’omicidio di Caino si presenta come la conseguenza estrema di un dialogo interrotto, inizia già nel mancato dialogo con Abele. In positivo questo significa la custodia dell’altro uomo, cioè la possibilità di vivere relazioni fraterne, ha radici fondamentali nella custodia della propria lingua, delle proprie parole. So che è molto faticoso per tutti, ma è fondamentale. Non a caso Gesù nel discorso della montagna, ricorda che il comando di non uccidere passa attraverso anche la custodia della lingua:

Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna. (Mt 5,21-22)

A volte l’avversità verso il fratello si attua soprattutto attraverso l’uso della lingua. È un’arma che va tenuta sotto controllo, la tradizione dei Padri ha identificato questa tentazione con il peccato della mormorazione. È uno degli atteggiamenti più distruttivi della fraternità. Ci sono pagine molto interessanti su questo, S. Bernardo dice che chi mormora contro il proprio fratello compie un triplice omicidio, perché uccide il fratello di cui parla male, uccide il fratello con il quale parla male di qualcuno, e infine uccide se stesso, perché negando il senso dell’altro si nega sempre anche il proprio senso. Giac 3,5-10

Così anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di grandi cose. Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è inserita nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geènna. Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dall'uomo, ma la lingua nessuno la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. Dalla stessa bocca escono benedizione e maledizione. Non dev'essere così, fratelli miei! “

Oltre alla custodia della lingua, l’altra dimensione per salvare la fraternità è la custodia del cuore. A volte il peccato, come dice Gen 4,7

è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai

il peccato è accovacciato alla porta del cuore, come tentazione, perché proprio questo spazio della diversità, è sempre lo spazio in cui può nascere un sentimento di invidia, di gelosia. L’altro con la sua differenza minaccia sempre la nostra vita. E questa tentazione nasce spesso in maniera immotivata nel nostro cuore, non sappiamo riconoscerne le radici. A volte ci assalgono pensieri che noi non vorremmo avere, il cattivo pensiero penetra nell’intimo senza che riusciamo a discernere la sua origine. Direi che il vero problema non è capire da dove nasce quel pensiero cattivo, non mi interessa, è una perdita di tempo, ma decisivo è saperlo dominare, questo è importante. La custodia del cuore è avere un atteggiamento di sobrietà, e la sobrietà permette la vigilanza.

L’ultima cosa è la custodia dello sguardo. Significa soprattutto sintonizzarsi con lo sguardo di Dio per guardare l’altro, essere attenti a non guardarlo mai con le nostre logiche, con i nostri metri, le nostre misure. Dobbiamo sintonizzarci con lo sguardo del Padre e assumere su di noi il bisogno dell’altro, perché quel bisogno è oggetto della misericordia di Dio, ma è un comando per me che sono accanto a quel fratello.

Noi siamo partiti in questo itinerario di esercizi spirituali da una domanda: “Cosa mi aspetto? Perché sono qui? Cosa desidero?”, e abbiamo rivolto a noi stessi la domanda che Gesù pone al cieco: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Naturalmente il Signore ha risposto a ognuno di noi, perché lui conosce  la nostra vita, la nostra situazione e ha risposto con generosità, meravigliandoci, o magari anche solo con uno stato di desolazione, anche quella può essere una risposta. Sicuramente c’è stata qualche parola che è arrivata in maniera più diretta, come una sorpresa.



Caterina63
00giovedì 17 ottobre 2013 17:51

IX Incontro

Dopo aver compiuto questo itinerario sull’Eucarestia proviamo a delineare alcune tracce per la nostra vita. Innanzitutto come vivere la nostra testimonianza irradiando gioia.

Quel percorso eucaristico che abbiamo individuato dovrebbe avere questo risvolto nel nostro ministero, l’essere testimoni della gioia. Perché esiste una profonda contraddizione tra il sacerdozio e la tristezza, o la depressione. Non è possibile annunciare il vangelo in una situazione di abbattimento, di depressione, sarebbe un controsenso. Non possiamo essere portatori credibili della Buona Notizia, se non siamo ricolmi di gioia autentica, quella sorgiva, ben diversa dall’allegria chiassosa di chi va in giro dando pacche sulle spalle, invitando la gente ad essere felice perché Gesù la ama! Si tratta di una gioia profonda, intrinsecamente legata alla nostra vocazione sacerdotale, legata alla sofferenza, a volte anche alla collera. La nostra vocazione ci porta a condividere, non solo la passione di Cristo, ma anche le sue passioni, le sue gioie, le sue sofferenze, persino le sue paure. Cerchiamo di vedere in maniera molto semplice quello che può demoralizzarci oggi. Prima di tutto se guardiamo a questi anni in cui, dopo il Concilio, ci siamo ritrovati, ci rendiamo conto che c’è stato un cambiamento molto forte.

Prima del Concilio il prete aveva una sua identità, era una persona sacra, un uomo del culto, c’era uno status ben preciso ed un conseguente rispetto dovuto alla sua consacrazione, un rispetto molto forte. Io ricordo un episodio che mi è rimasto impresso, ero appena arrivato a S. Saturnino, come vice-parroco, e una signora della parrocchia mi rimproverò aspramente perché mi trovò a pulire un tappeto. Mi disse che non dovevo fare quel genere di lavoro perché le mie mani erano state consacrate.
Io rimasi senza parole, il prete era stimato perché aveva il potere di consacrare il corpo e il sangue del Signore, anche se poi lasciava a desiderare per altri aspetti. Questa identità è stata messa in discussione dal Concilio, c’è stata la riscoperta del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio, la riscoperta della chiamata universale alla santità, del matrimonio come vocazione santa. Si è cominciato a vedere il sacerdozio soprattutto in termini di servizio. Molti sacerdoti sono stati contenti di questa nuova identità perché, in un certo senso, li ha liberati da un clericalismo soffocante.
È venuta fuori un’identità più evangelica, più simile a quella di Cristo.

Ma allora come mai il problema esiste ancora?
Come mai a distanza di tanti anni dal Concilio ancora tanti si sentono oggi a disagio per quanto riguarda l’identità sacerdotale?
I motivi possono essere tanti, prima di tutto l’idea del sacerdote-servo è molto bella, ma le parole tendono ad andare in diverse direzioni. Se uno serve, difficilmente si può supporre che possa comandare.
In secondo luogo, nella teologia moderna l’immagine del sacerdote spesso è stata talmente idealizzata da riuscire irraggiungibile, bisogna essere capaci in tutto, in tutte le dimensioni. Ci sono tanti aspetti, la predicazione, l’amministrazione, la capacità di essere creativi nella liturgia, pazienti nell’ascoltare, capaci di stare con i giovani, con gli anziani, con le famiglie.
Terzo elemento è che tutta la teologia del servizio tende a sottolineare maggiormente quello che il sacerdote deve fare piuttosto che quello che deve essere. Il risvolto di questa visione è stata una visione utilitaristica del sacerdozio.
Questo cozza con tanti insuccessi che si incassano nell’azione pastorale.


Il concetto di ministero è diventato molto più ampio e ne sono derivate diverse conseguenze: anzitutto il sacerdote si sente meno speciale, vale la pena abbracciare il sacrificio del celibato e tanti stress per essere uno di questi ministri? Ricordo una battuta di Mons. Moretti che notava come ad una celebrazione durante la quale erano presenti sull’altare tanti di quei ministri da dover chiedere permesso per arrivare a baciare l’altare! Il sacerdozio è anche oggetto di aggressioni da parte di coloro che se ne sentono esclusi, gli sposati o le donne. Esiste una via d’uscita? Come ripensare questo discorso?

Nella lettera agli Ebrei viene sviluppata una teologia del sacerdozio che ci aiuta, una visione di Cristo sommo sacerdote, persona sacra che celebra un culto celeste. Però la sua santità non lo separa affatto dagli altri, anzi lo unisce intimamente a noi. Ci viene offerta una profonda visione del sacerdozio che ci porta oltre la visione di quanti vedono il sacerdote in termini di servizio e oltre la visione di quelli che vedono il sacerdozio in termini nostalgici, come persona del sacro.

La concezione veterotestamentaria della santità implicava la separazione del sacerdote da tutto quello che era impuro, imperfetto. Il sommo sacerdote non poteva avvicinarsi a un cadavere. In Eb troviamo una visione della santità da cui è avvolto il suo capo, la santità di Cristo si mostra nell’accogliere tutto quello che in noi sa di imperfezione peccaminosa. Questa santità non si esprime con la separazione, ma con la vicinanza. Il momento culminante di questo suo sacro ministero è stato quando ha abbracciato la morte, la più impura delle cose, e lui stesso è divenuto un cadavere.

Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, subì la passione fuori della porta della città. Usciamo dunque verso di lui fuori dell’accampamento, portando il suo disonore: non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura. (Eb 13,12-14)

Anche i vangeli, pur non parlando mai di Cristo sacerdote, riportano questa teologia della santità, perché Gesù abbraccia gli intoccabili, i lebbrosi, i peccatori. È l’agnello sacrificale che muore sull’altare della croce, quindi tutto il popolo di Dio è un popolo santo, sacerdotale, perché incarna l’abbraccio di Cristo di tutti noi, delle nostre vite disordinate con tutte le nostre debolezze, con tutte le nostre mancanze. Tutto è abbracciato da Cristo. Qual è allora la caratteristica di questa visione del sacerdozio? È una visione essenzialmente missionaria, rivolta al di fuori. Il sacerdote è chiamato a rappresentare Dio nella sua vita e ad essere un prolungamento di Cristo verso l’intera umanità dispersa. Questo ci aiuta a superare la divisione tra coloro che vedono il sacerdozio in termini dell’essere e quelli che lo vedono in termini del fare. Siamo chiamati ad incarnare questa santità di Dio, vivendo in Cristo, trasformando i lontani in vicini, la morte in vita, la sofferenza in gioia. Tre aspetti possono aiutarci in questa riflessione:

Molta letteratura è stata dedicata al tema del sacerdote in quanto leader. Pensiamo anche oggi a don Matteo, all’immagine del leader e su questo occorre dire qualcosa perché è in contrasto con l’immagine del servitore. Come si può al contempo essere servitore e leader? Si può creare confusione nelle persone con le quali abbiamo rapporti, perché tanti possono essere affascinati dall’idea che il sacerdote è qui per servire, ma possono rimanere male se si rendono conto che questo servizio si esplica nel dare ordini agli altri!
È chiaro che la figura del leader richiama il mondo degli affari, da lui ci si aspetta che sia competente in tutto, che sappia prendere decisioni coraggiose.
Soprattutto questa dimensione viene valutata in termini  di raggiungimento degli obiettivi: quanti giovani sono riuscito a radunare? Quante persone ho raggiunto? Spesso si quantifica numericamente, ma il sacerdozio non è fatto per il successo, per il risultato. Spesso ci rendiamo conto di non essere riusciti a realizzare granché nella nostra azione pastorale, e quindi facciamo quotidianamente i conti con i nostri fallimenti.

La lettera agli Ebrei ci aiuta perché ci presenta un modo di essere relazione con gli altri che non è né di dominio, né di fallimento. Gesù è il modello della nostra fede, guida precedendoci, facendo il primo passo. Svuotiamo questa parola di tutte le sue implicanze ambigue e riscopriamo il significato autentico della leadership, si tratta di essere disposti a fare il primo passo.
Questo è importante nel nostro essere presenti in una comunità, nel raggiungere gli esclusi, nel saper chiedere perdono.

Riprendiamo Lc 15 oggi nella preghiera, lì vediamo come il figlio minore fa il primo passo verso la verità, stava nel bisogno, moriva di fame, ha cominciato a essere più vero. Il padre quando lo vede da lontano, gli va incontro. Pensiamo a quei gesti così significativi di Giovanni Paolo II. Noi dovremmo oggi riconsiderare cosa abbia significato andare incontro agli Ebrei, agli ortodossi, ai musulmani, con il rischio di ricevere un rifiuto. Giovanni Paolo II raccontava in seminario di come, quando era andato in Grecia, era stato trattato anche con freddezza dagli ortodossi. Pensiamo a questo suo chiedere perdono per i peccati della Chiesa, per il quale tante critiche gli furono mosse, anche all’interno della Chiesa stessa. Dobbiamo quindi anche usare questa espressione, la leadership, ma purificandola dalle ambiguità, non intesa come essere competenti in tutto, ma nel senso del compiere il primo passo davanti alla gente, accogliere anche quelli che non ci vogliono, che non ci accettano. Dobbiamo invitare le persone a fare molto di più di quello che hanno sempre ritenuto possibile, perdonare, saper chiedere perdono. Questo a volte può farci sentire il peso della solitudine, ma è la solitudine della croce, da cui nasce una fecondità meravigliosa. Possiamo rivedere così questa parola.

Un’altra area nella quale possiamo facilmente incontrare l’insuccesso, lo scoraggiamento, è il vedere la realtà delle nostre comunità parrocchiali. Le parrocchie non sono sempre quelle belle comunità che ci siamo immaginati, la realtà è ben diversa, spesso la parrocchia da tante persone è vista più come una stazione di servizio che come una comunità.
Conosco personalmente il problema, perché questa è la situazione tipica delle chiese del centro storico di Roma per esempio, e S. Marco è una di queste. A noi fa male vedere che le persone considerano in questo modo quelle che sono le “nostre” comunità, che le mettono all’ultimo posto nella lista delle loro appartenenze. Questo ci può insinuare l’idea di fallimento, di non essere riusciti a radunare intorno all’altare del Signore altri fratelli, altre sorelle, di non riuscire a costruire una comunità eucaristica.
Dobbiamo sempre ricordare che qualsiasi comunità noi tentiamo di formare è destinata in un certo senso al fallimento, perché il Regno di Dio non è  ancora venuto. Ogni comunità è un simbolo difettoso della comunità alla quale aspiriamo, quella del Regno.

La comunità dell’ultima cena è stata una comunità fallimentare, quella riunione, archetipo della comunità cristiana, ha visto uno dei discepoli vendere Gesù, un altro rinnegarlo, altri fuggire. Gesù non è riuscito a radunare i suoi discepoli in una comunità e noi non dobbiamo essere sorpresi se abbiamo risultati di questo tipo! A volte non possiamo fare di più che mettere dei segni di quello che dovrà avvenire e quello che dovrà avvenire verrà come un dono, una sorpresa.
Ciascuno di noi come prete è portatore di una buona notizia, motivo per cui lo scoraggiamento non deve prendere il sopravvento. Mi ha colpito una frase del Card. Ruini che salutandoci in uno degli ultimi consigli presbiterali, quando gli abbiamo chiesto di dirci qualcosa sui sacerdoti di Roma, ci ha detto: “Quando sono arrivato li ho trovati che erano più ricchi di fiducia, mi è sembrato che questo sia venuto meno, che ci sia uno scoraggiamento, un desiderio di tirare i remi in barca”. Questa osservazione mi ha fatto tanto pensare, nessuno ci crederà se abbiamo l’aspetto di persone depresse.

Dobbiamo portare la Buona Notizia a gente la cui vita è spesso toccata dalla disperazione, dal fallimento, noi abbiamo a che fare con i fallimenti. In questi fallimenti c’è il nostro fallimento, la consapevolezza del nostro peccato, ma anche il fatto che il vangelo è soprattutto il perdono dei peccati, e la nostra vocazione è quella di avere a che fare con i peccati del proprio gregge. Nella nostra società, nella nostra vita siamo confrontati con tutti i mali e le sofferenze che ci sono, come possiamo continuare a rimanere nella gioia vera, a essere portatori della gioia vera, quando avviciniamo famiglie con problemi gravi, ragazzi con una vita distrutta? Come possiamo mantenere questa gioia profonda?

Stiamo per terminare un anno liturgico e iniziarne un altro, credo che una delle prime cose che dobbiamo sempre riconsiderare è proprio la celebrazione dell’anno liturgico. Per noi è grande fonte di gioia, perché quella dell’anno liturgico è una storia intessuta di fallimenti, di sofferenze, di umiliazioni, di peccati, di esilio, ma che proietta verso un oltre, ci mostra che c’è una speranza. Ogni anno noi siamo liberati dall’Egitto e ci incamminiamo verso la terra promessa, cominceremo l’Avvento tra poco, andiamo verso il Natale, e dalla Quaresima verso la Pasqua e poi la Pentecoste. Non dimentichiamo allora le parole di Gesù che durante l’ultima cena dice ai discepoli: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22).

La storia dell’anno liturgico, che noi riviviamo, trasforma la sofferenza in gioia, c’è sempre questo processo. Certo, non è sufficiente, perché nonostante questo alcuni possono sentirsi demoralizzati, allora in questa ripetizione ci deve essere anche qualche bagliore della fine della giornata, deve apparire anche adesso qualche luce che ci possa aiutare, anche adesso, nella vita di tutti i giorni, dobbiamo assaporare la gioia del regno, la pace del regno. Dobbiamo vivere in un modo tale che le nostre comunità possano cogliere qualche segno della fine del viaggio. Non possiamo aspettare la morte per potere diventare veramente vivi, altrimenti perché la gente dovrebbe credere che siamo in viaggio verso una meta? Dobbiamo avere uno stile per cui dei frammenti di eternità devono essere mostrati nell’oggi. Abbiamo bisogno di un genere di vita che realmente ci offra vita, che offra qualche anticipo della vita eterna. Il nome primitivo della vita cristiana era “la via”, e noi dobbiamo mostrare che è la via verso una meta, non stiamo girando attorno a un deserto. Io non ho regole, ognuno di noi dovrebbe riflettere su come impostare la propria vita sacerdotale in modo che la gente possa vedere in noi i frutti di quella che è la nuova creazione: la libertà, la pace, la gioia. Anche noi abbiamo visto in questi giorni come siamo consegnati nelle mani delle persone, dei nostri fratelli e, così come ha fatto Gesù, abbiamo preso l’enorme rischio di donarci liberamente alla gente, liberamente per amore. Questo ci deve far rimanere liberi, proprio nella nostra piena obbedienza al Padre, come Gesù, dobbiamo essere liberi. Come possiamo anche noi trovare quella libertà eucaristica, così da poter donare la nostra vita e allo stesso tempo vivere uno stile di vita in cui la luce del regno possa essere intravista? Non c’è risposta preconfezionata, è un equilibrio che dobbiamo ritrovare ogni giorno, abbiamo bisogno di un ritmo di vita che ci permetta momenti di riposo, di riposare in Dio, di riposare con noi stessi. Non è un semplice “staccare la spina”, un ricaricarsi, non è questo, non è che una volta più riposato sono più efficace, non è questione di buona amministrazione. La Buona Notizia che portiamo consiste  nell’annunciare che tutti gli esseri umani sono chiamati a riposare in Dio e a condividere con Lui il suo sabato, questo è il vangelo.
La più grande dignità dell’uomo è arrivare a giocare con Dio per l’eternità. Mi ha colpito la lettura del racconto della conversione di Claudel, nel quale lo scrittore dice: «Ebbi in un istante il sentimento lacerante dell'innocenza, dell'eterna infanzia del Dio-Bambino». Chi crederà a questa visione se ci hanno sempre visto come persone tese, tirate? La visione del Regno deve essere presente nell’oggi, la Chiesa dovrebbe mostrare questo. In un’intervista ad Alda Merini, alla domanda su come volesse la Chiesa, lei aveva risposto: “Meno triste, più gioiosa”. Se la gioia è veramente al cuore del nostro sacerdozio, ci preoccuperemo della felicità degli uni per gli altri, questo è un bell’impegno per questo anno, sicuramente anche per un vescovo la felicità dei sacerdoti costituisce la prima preoccupazione. Anche il presbiterio diocesano dovrebbe avere questa profonda preoccupazione, se ci accorgiamo che un sacerdote è triste, non è giusto pensare che debba cavarsela da solo, superando prima o poi questo stato d’animo. Non possiamo fare affidamento sull’individualismo, non possiamo contare sull’essere uomini forti, la gioia del sacerdote non è un problema suo, individuale, ma parte intrinseca del suo ministero, dell’annuncio del vangelo. Dobbiamo sforzarci di cercarla gli uni per gli altri. Vi invito a ripensare ai tanti testimoni di questo aspetto della nostra vita, in particolare a Giovanni XXIII, il quale manifestava spesso, oltre alla gioia, un grande senso dell’umorismo, intuibile anche in occasioni importanti, come quando, nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II, l’11 ottobre 1962, ebbe a dire:

Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa.

3. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo.

Dobbiamo anche riconsiderare come l’umorismo va di pari passo con la fede del sacerdote. L’umorismo non è un dono di natura, è da esercitare, ma è legato alla fede, si tratta di vedere la realtà da un’angolatura particolare. È come un’inquadratura dalla quale osservare ciò che ci circonda, bisogna essere piccoli per fare questo, chi è troppo pieno di sé non ci riesce. Ci sono tanti episodi su Giovanni XXIII in questo senso, quando non ce la faceva più rispondeva: “Questa cosa la dirò al Papa!”. Una volta delle giovani suore si avvicinarono a lui durante un’udienza e si presentarono dicendo: “Santità, siamo le Sorelline di S. Giuseppe” e lui rispose: “Ma come vi siete mantenute bene!”. Era un uomo ricco di umorismo, così come Giovanni Paolo II, con il quale capitava, mentre si era a tavola, di sentire battute che non ci si sarebbe aspettate da un uomo con una così grande responsabilità nei confronti del mondo. L’umorismo scaturisce dalla fede, è legato alla speranza ed è un grande atto di carità, perché quando lo si possiede, si sdrammatizzano tante cose nelle comunità e non banalizzandole, ma con una certa profondità.


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