III Incontro
Oggi cerchiamo di vedere come l’Eucarestia per noi è il luogo dell’educazione del cuore e lo faremo questa mattina con un brano del vangelo di Marco e poi nel pomeriggio leggendo lo stesso episodio nel vangelo di Giovanni. Il testo è Mc 6,30-44
Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un pò». Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte.
Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i discepoli dicendo: «Questo luogo è solitario ed è ormai tardi; congedali perciò, in modo che, andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare». Ma egli rispose: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andar noi a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». Ma egli replicò loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». E accertatisi, riferirono: «Cinque pani e due pesci». Allora ordinò loro di farli mettere tutti a sedere, a gruppi, sull'erba verde. E sedettero tutti a gruppi e gruppetti di cento e di cinquanta. Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai discepoli perché li distribuissero; e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono e si sfamarono, e portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e anche dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.
Quello dei pani è l’unico segno di Gesù narrato da tutti gli evangelisti, compreso Giovanni. Marco e Matteo ci tramandano un duplice racconto: dopo aver spezzato il pane per i cinquemila, nel brano che abbiamo ascoltato, Gesù ripete il gesto per i quattromila, in Mc 6 e 8 e in Mt 14 e 15 abbiamo gli stessi racconti. Comprendiamo allora l’importanza di questo episodio nella storia di Gesù, è il segno che più di altri rivela il suo volto e rivela che il Regno di Dio entra nella storia e nello stesso tempo manifesta quale deve essere l’identità del discepolo, che accogliendo la rivelazione del Signore desidera veramente conformare a lui tutta la propria vita. Tutti e due i racconti di Marco si inseriscono in una sezione del vangelo che abitualmente è chiamata “dei pani”, che si apre con il racconto della prima moltiplicazione per concludersi con la guarigione del cieco di Betsaida, subito prima che Pietro risponda alla domanda di Gesù: “E voi, chi dite che io sia?”. È quindi una sezione nella quale in modo più stringente Marco interroga il suo lettore sulla vera identità di Gesù e conduce colui che lo ascolta, con Pietro, a dare una prima risposta, anche se è ancora una risposta incompleta, ambigua. In queste pagine Marco ricorre continuamente a termini e a immagini relativi al pane, al mangiare, al saziarsi. Gesù fa del pane un simbolo per rivelare la sua identità e il senso della sua missione. Nello stesso tempo il pane manifesta questa incomprensione crescente da parte dei discepoli. L’evangelista dice che “i discepoli non avevano capito il fatto dei pani essendo il loro cuore indurito” e, al capitolo 8, nonostante sia già avvenuta la prima moltiplicazione, non sanno come fare per sfamare tanta gente, cioè la loro durezza raggiunge proprio il culmine subito dopo, quando sulla barca con Gesù ricevono questo rimprovero severo:
"Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito?” Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?
Quel rimprovero che Gesù aveva fatto a quelli di fuori, in Mc 4,11-12
"A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché
guardino, sì, ma non vedano,
ascoltino, sì, ma non comprendano,
perché non si convertano e venga loro perdonato".
raggiunge ora quelli che sono dentro, i discepoli, incapaci di capire. Qui si tratta proprio di un fraintendimento radicale, perché si lamentano di aver dimenticato il pane e di non avere che un pane solo, ma quello che hanno dimenticato è un’altra cosa, è che il solo pane, quello che sfama per sempre la nostra fame è Gesù. Quanto maggiori sono i segni che Gesù offre, tanto più grande è l’incomprensione da parte dei discepoli, che sono ciechi e sordi, quindi è significativo che in questa sezione Marco racconti la guarigione di un sordomuto e di un cieco. Come Gesù guarisce questi infermi, guarirà anche la sordità e la cecità dei discepoli e allora la lingua di Pietro si scioglierà fino a confessare “tu sei il Cristo”, anche se per Pietro, come per il cieco, sarà graduale questo riconoscimento. Il cieco dapprima vede gli uomini come alberi che camminano, così anche Pietro gradualmente arriverà ad intuire qualcosa del mistero di Gesù. È sempre il mistero del pane, questa è la vera identità che viene svelata proprio da un pane spezzato, segno della vita di Gesù, donata per la salvezza di tutti.
I discepoli sono sordi e ciechi, non riescono a comprendere, il brano invece si apre con la profondità dello sguardo di Gesù, capace non solo di vedere, ma di intuire il vero bisogno dell’uomo. Nonostante abbia promesso ai discepoli affaticati dalla missione di farli riposare
sbarcando vide molta folla e si commosse per loro perché erano come pecore senza pastore
Qui più che la commozione è la vera compassione, noi sappiamo che il verbo qui riporta a quella dimensione delle viscere materne che nella tradizione biblica sono la vera sede della compassione e, grazie a queste viscere di misericordia, Gesù scorge quello che è un bisogno più nascosto della fame di pane, le folle sono come pecore senza pastore, dunque solitarie, sono disperse, incapaci di formare un gregge. Allora nello sguardo di Gesù si rende presente la stessa cura di Dio, è Dio che si manifesta, quella cura per il suo popolo, quella cura che era stata annunciata dai profeti
“io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare” (Ez 34,15)
oppure
Mosè disse al Signore: «Il Signore, il Dio della vita in ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell'uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore». (Nm 27,15-17)
Dio si rivela come il Signore della vita, perché la nostra esistenza non ha solo fame di pane, noi siamo affamati di altro, di relazioni, di amicizia, di comunione. Quindi da pecore sbandate a gregge unito, perché solo così fiorisce la vita tra di noi. Gesù mostra quale deve essere l’atteggiamento di un vero pastore. Qui i discepoli sono chiamati ad imparare, da un lato a scoprire la sua vera identità, dall’altro ad apprendere da Gesù lo stile con cui servire gli uomini, con cui annunciare il vangelo del Regno. Sono appena tornati con il desiderio di raccontare a Gesù tutto quello che avevano fatto e insegnato, ma ancora il loro atteggiamento manifesta come il cuore sia indurito. Sono ancora tentati di cadere in questa durezza. Quello che Gesù opera deve essere per loro una vera scuola, lui si prende cura della folla, ma si prende cura anche dei suoi amici più intimi, sfama i cinquemila mentre converte il cuore dei Dodici. Proviamo a sottolineare questo primo aspetto nella nostra preghiera.
Ma cosa genera la compassione? Soprattutto il dono della sua Parola: “E si mise a insegnare loro molte cose”. La sua è una parola per i dispersi, una parola che raduna, che consola, una parola che crea legami di solidarietà, che crea comunione. Dio è Padre e tutti gli uomini sono suoi figli, è questo l’annuncio del Regno e tra poco Gesù dividerà il pane fra tutti, ma questo dono sovrabbondante non rimane senza il dono della Parola. Ricordiamo che in un altro deserto, l’accostamento viene spontaneo, nel deserto delle tentazioni Gesù aveva resistito al diavolo, aveva resistito al suo progetto, rifiutando di trasformare le pietre in pane per la propria fame, perché
non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4)
Adesso non esita a donare ciò di cui ha bisogno la fame della gente, ma insieme al pane offre la Parola. Perché solo la Parola può educare l’uomo a riconoscere che i beni della terra sono un dono del Padre di cui non ci si può impossessare, ma doni da condividere nel rendimento di grazie, nella gratuità. Questo sarà il modo con cui Gesù si rapporterà subito dopo con il poco pane a disposizione, non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio, non perché non abbia bisogno di pane, ma perché quello che davvero sazia la fame, non è solo un cibo che riempie il ventre, ma l’atteggiamento stesso con cui se ne nutre. Qui possiamo considerare tanti aspetti, noi sappiamo che il pane può essere comprato o ricevuto, il pane può essere rubato o guadagnato, mangiato in un egoismo solitario oppure condiviso. Quello che nutre profondamente il nostro desiderio è la relazione che stabiliamo tra di noi e naturalmente anche con Dio attraverso un ampio rapporto con i beni della terra. Com’è più gustoso il pane che riceviamo dall’amore di qualcuno, ha un sapore diverso, quando il pane lo riceviamo dall’amore, quando lo condividiamo alla mensa dell’amicizia quel pane è diverso, rispetto a quello conquistato dalle nostre mani o consumato in fretta in solitudine. Se abbiamo fatto l’esperienza di mangiare da soli sappiamo quanto è triste, si può fare, ma non è una cosa bella. Occorre mangiare il pane ascoltando la Parola, perché la Parola ci conduce sempre dentro la bellezza di una relazione, produce la relazione con Dio in questo caso che si fa nostro pastore, con gli altri trasformati insieme a noi, da pecore disperse, in un unico gregge. Andando avanti, vediamo come la parola di Gesù nutre con abbondanza il desiderio della folla, che non si stanca di ascoltarlo, è catturata dalla bellezza dell’annuncio. Quando ho pregato con questo brano mi è venuto da chiedermi come sia possibile che la sua Parola consegnata anche a noi nelle Scritture non ci affascini allo stesso modo. Tante volte noi non sentiamo questo fascino, è una domanda che vi lascio aperta. Scende la sera e i discepoli sono i primi a preoccuparsi
"Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare". Ma egli rispose loro: "Voi stessi date loro da mangiare".
Forse a questo punto anche loro sono stanchi, desiderosi di quel riposo che Gesù aveva promesso, perché molta era la folla che andava e veniva e non avevano neanche il tempo di mangiare, o forse la parola di Gesù sta già trasformando il loro cuore, qualcosa sta avvenendo, inizia la preoccupazione per gli altri, entrano nella compassione stessa di Gesù. La guarigione di un cuore indurito non è qualcosa che avviene in un attimo, ci vuole una lenta e faticosa salita, anche se poi vediamo come, per esempio, Zaccheo cambia repentinamente il suo atteggiamento, però generalmente il cuore indurito si scioglie attraverso delle tappe. Qui la cura dei discepoli è ancora offuscata da un certo disimpegno. Anche se sono entrati un po’ nella compassione di Gesù, la loro frase “congedali”, rivela che sono ancora incapaci di autentica accoglienza. Mentre Gesù accoglie nella compassione delle viscere materne, i discepoli desiderano congedare perché ognuno si arrangi da solo, come può. E qui la pedagogia di Gesù è insistente nei loro confronti, fa compiere uno dopo l’altro tutti i passi di conversione:
"Voi stessi date loro da mangiare”
È il passaggio dal disimpegno al coinvolgimento, è una guarigione iniziale del cuore, chiamato non solo a preoccuparsi, ma a prendersi cura con una responsabilità personale. I discepoli devono capire che devono lasciarsi interpellare in prima persona, rimangono ancora chiusi in una logica vecchia
Gli dissero: "Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?".
Ancora pensano a un pane comprato. Allora c’è il secondo passo di conversione:
Ma egli disse loro: "Quanti pani avete? Andate a vedere".
Quindi devono andare a vedere, non dove andare a comprare il pane, né di quanto dispongono, ma quanto pane hanno da condividere. Dal pane comperato al pane condiviso, ecco la guarigione del cuore. Gesù non vuole semplicemente sfamare la gente, ma compie un segno che riveli come Dio desidera il mondo. Il comprare va sostituito con il condividere, e allora devono cambiare le relazioni, devono cambiare le relazioni tra te e gli altri, tra te e le cose. Giustamente Bruno Maggioni, commentando questo brano, scriveva:
Se anche – paradossalmente – i discepoli avessero comperato col loro denaro il pane da distribuire, avrebbero compiuto un gesto di carità, non un segno che introduce nei rapporti una logica differente.
Quello che i discepoli hanno è poca cosa, cinque pani e due pesci, cosa è di fronte a questa folla? Ma il vero calcolo non è quanto si possiede, ma se si è disposti a donarlo totalmente. Se si dona tutto, la gente riceve tutto quello di cui ha bisogno, purché questo dare sia un consegnarsi nelle mani del Signore, affidandosi a lui e alla sua grazia, lui sa dividere il pane fra tutti. Anche se chiamiamo questo brano “la moltiplicazione dei pani”, di fatto qui il pane non viene moltiplicato, viene condiviso, diviso con tutti. È la divisione a moltiplicarlo. Allora possiamo fermarci su questi gesti di Gesù, lentamente, rivedendoli uno a uno
Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti.
Gesù non si preoccupa se quello che prende è poco o molto, accoglie quello che noi possiamo consegnargli nella nostra povertà, leva gli occhi al cielo, il suo sguardo entra in comunione con quello del Padre perché vuole rivelare la vera compassione di Dio per il suo popolo, pronunziò la benedizione, non benedice il pane, ma il Padre, non supplica, non invoca, ma ringrazia, perché non ha dubbi che la volontà del Padre sia amore e sia salvezza per la fame di ogni uomo. Spezzò i pani, nel gesto della condivisione,
li dava ai discepoli perché li distribuissero
Anche i discepoli vengono coinvolti nel modo di vivere e di agire del loro Signore. Il miracolo scaturisce da quell’ultimo verbo “dava” all’imperfetto, cioè l’azione si prolunga fino a quando tutti saranno saziati. Questi passaggi credo che siano importanti, dobbiamo riconsiderarli ripensando al nostro ministero. È chiaro che Gesù compie gli stessi gesti della cena, quando benedicendo e spezzando di nuovo il pane dirà: “Prendete, questo è il mio corpo”. Se si è disposti a condividere tutto, è come se si donasse la propria vita, è questa la conversione che chiediamo in questa terza tappa. Quello che Gesù fa qui diventa profezia di quello che porterà a compimento nella Pasqua, quando la sua vita diventerà pane per la nostra fame di vita eterna. Chiediamo al Signore la grazia di avere questa disponibilità a consegnare noi stessi in quello che doniamo. L’ultima cosa che potrebbe aiutarci per la preghiera è che, prima di dividere il pane, Gesù
E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull'erba verde. E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta.
Erano pecore, disperse, solitarie, senza gregge, la parola di Gesù le ha trasformate in piccole comunità, capaci di condividere lo stesso pane nella vera compagnia della vita. Solo nella condivisione che crea comunità, si può mangiare il pane di Gesù. L’altra cosa: dal condividere il pane, che è Gesù, viene generata la Chiesa. Il dono è così sovrabbondante che
Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.
Il numero dodici evoca il numero delle tribù di Israele, non è un pane solo per i presenti, ma per l’intero popolo di Dio.
Per la vostra preghiera possiamo aggiungere a quanto dicevamo ieri sui riti iniziali della celebrazione eucaristica, la messa come assemblea del popolo di Dio. Non dimentichiamo che la messa è un’assemblea, fondamentalmente è l’assemblea del popolo di Dio, è la famiglia di Dio. La messa non è mai privata, perché è sempre una preghiera pubblica. La salvezza si opera attraverso una comunità, per questo è interessante la conclusione del brano che abbiamo letto. Dio si è riservato di operare la salvezza, sicuramente in piena libertà, per cui può salvare anche fuori della comunità, ma il piano normale di salvezza si attua attraverso la comunità. Nell’Antico Testamento attraverso il popolo di Dio, nel Nuovo Testamento attraverso il vero Israele, quello dello spirito, della promessa, cioè la Chiesa, che è una comunità. Questo è il disegno di Dio, quindi il senso di fraternità, dell’unità, realmente si realizza nella celebrazione eucaristica. Occorre affermare questo aspetto della messa anche esteriormente. Verso l’altare tutta l’assemblea converge, l’assemblea riunita si sente riunita attorno all’unico altare. È importante alla luce di quanto stiamo dicendo la posizione comune, insieme, l’essere in piedi, o in ginocchio, o seduti. Se queste cose non le riprendiamo con le persone, sappiamo che spesso diventano atteggiamenti privati. È una cosa piccola, ma ha un’importanza grande, non ci può essere un individualismo nella celebrazione eucaristica, per cui ognuno assume la posizione che vuole secondo il proprio capriccio, la preghiera comune, il canto comune, perché il canto è espressione di una comunità, è l’espressione che diventa bellezza, è la parola di una comunità espressa in questo senso di bellezza. In questo senso è alimento di senso comunitario, perché noi cantiamo quando i nostri spiriti sono in qualche maniera uniti e il canto nutre, significa questa unione, l’alimenta. Io rimasi sconcertato anni fa quando andai a fare gli esercizi da solo nella comunità di Monteveglio, la comunità di Dossetti, e mi dissero che per sei anni Dossetti aveva impedito alla comunità di cantare perché le persone non erano in sintonia tra di loro, non avevano una comunione di sentimenti. Dovevano decidere che stile prendere come canto per la comunità e c’erano molti contrasti tra di loro e lui bloccò tutto, non li fece più cantare. Il canto non è mai un elemento puramente decorativo, ma è l’espressione, l’alimento di un senso di comunità e questo senso di comunità lo portiamo nella vita. Sarebbe interessante prendere la Lumen Gentium, che inizia proprio con il presentarci la Chiesa come popolo di Dio, il capitolo più bello è proprio il II su questo mistero del Signore che operò la salvezza creandosi, facendosi un popolo suo, una sua famiglia, con la quale strinse un patto. Quando noi celebriamo abbiamo davanti un’assemblea, lui ci ha creati, ci ha redenti, ci ha salvati, il patto lo stringe con noi, ma attraverso l’ingresso in un popolo, famiglia di Dio. Evidentemente una comunità ha bisogno di riunirsi e la sua riunione si chiama assemblea. Questo non ci spersonalizza perché non impedisce i nostri rapporti intimi con Dio, non impedisce i colloqui a tu per tu con lui, ma impedisce il crescere dell’individualismo, dell’egoismo, questo crea la fraternità, perché siamo famiglia di Dio. Questa unità, questa fraternità si esprime in modo particolare nella liturgia e, in modo particolarissimo, nella messa, nella partecipazione consapevole, attiva, più vasta possibile. Se non capiamo questo non entriamo mai nell’anima della liturgia e della messa in modo particolare. Sono solo piccoli richiami. Anche la Costituzione sulla sacra liturgia, la Sacrosanctum Concilium, al n. 14, avverte che cessino tutte le distinzioni di posti particolari e non particolari
È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, « stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato » (1 Pt 2,9; cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo.
I nostri fedeli sono popolo regale e sacerdotale, quindi la messa, pur offrendo spazio ampio alla cristiana solitudo, non ne offre all’isolamento, che non può favorire, come non può favorire l’individualismo.