Grande Festa a Milano per la beatificazione di don Carlo Gnocchi

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Caterina63
00giovedì 22 ottobre 2009 19:05
Domenica 25 il rito presieduto dall'arcivescovo Amato

Attesi in 40.000 a Milano
per la beatificazione
di don Carlo Gnocchi


da Milano Alberto Manzoni



A pochi giorni dalla beatificazione di don Carlo Gnocchi - che avverrà domenica 25, alle 10, sul sagrato del Duomo di Milano - sono pressoché esauriti i biglietti gratuiti per l'accesso alla piazza.
Ciò significa che vi saranno almeno quarantamila persone. È prevedibile che altri vorranno assistere anche al di fuori degli spazi transennati alla celebrazione, la quale sarà trasmessa in diretta da Raiuno, da Telenova e sul portale internet dell'arcidiocesi ambrosiana (www.chiesadimilano.it ).

L'evento ricorderà, soprattutto ai più anziani, quello avvenuto il 1° marzo 1956, allorché centomila persone seguirono i funerali di don Carlo, celebrati alla presenza dell'allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini:  nella cattedrale chi ci stava, gli altri tutt'intorno.

La celebrazione eucaristica sarà presieduta dal cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, mentre il rito della beatificazione verrà presieduto, in rappresentanza del Papa, dall'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.

Concelebreranno anche il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione per i Vescovi, almeno sedici presuli e circa duecento sacerdoti, fra i quali diversi cappellani militari, in particolare degli alpini.

La celebrazione sarà preceduta da numerose iniziative, a partire dal corteo d'automobili che nel pomeriggio di sabato 24 accompagnerà l'urna con il corpo di don Carlo dalla cappella del centro "Santa Maria Nascente" - Istituto della fondazione "Don Carlo Gnocchi" - fino alla chiesa di San Bernardino alle Ossa, da cui partirono i funerali 53 anni fa. E da qui, dopo una veglia di preghiera nella basilica di Santo Stefano e dopo la notte durante la quale gli alpini veglieranno l'urna, alle 9 di domenica s'avvierà il corteo verso piazza Duomo. L'urna, ancora coperta, sarà portata a spalla dagli alpini. Al momento della proclamazione di don Carlo beato sarà tolto il drappo dall'urna, mentre verrà scoperto anche lo stendardo sulla facciata della cattedrale.

Terminata la messa, alle ore 12 ci sarà il collegamento video per l'Angelus del Papa; quindi l'urna verrà trasportata presso la chiesa di San Sigismondo, in Sant'Ambrogio, dove rimarrà esposta alla venerazione dei fedeli fino al 27 ottobre.

don Carlo GnocchiPresenti in gran numero - circa 15.000 - saranno le "penne nere" che hanno nel cuore don Gnocchi, cappellano nella tragica campagna di Russia, dalla quale il prete milanese tornò portando a tante famiglie le ultime parole dei loro giovani congiunti, morti per le ferite o per il freddo.

Ma oltre agli alpini, e oltre a operatori e assistiti della "Don Gnocchi", vi saranno gli scout, i fratelli delle scuole cristiane, i membri dell'Aido (Associazione italiana donatori di organi) che hanno motivi particolari per ricordare il grande educatore e il pioniere della donazione di organi.

Infatti, com'è noto, come ultimo atto d'amore don Carlo donò le proprie cornee perché altre persone potessero vedere, dopo la sua morte. Alla celebrazione sarà presente anche Silvio Colagrande, che ancor oggi vede grazie a una delle due cornee donategli da don Carlo nel 1956. Colagrande è intervenuto alla conferenza stampa, in arcivescovado, dove hanno parlato anche monsignor Gianni Zappa, moderatore curiae e presidente del Comitato organizzatore per la beatificazione e monsignor Angelo Bazzari, presidente della Fondazione "Don Gnocchi" - la più grande realtà italiana del "terzo settore".

Nei loro interventi hanno ricordato i tratti salienti della figura di don Gnocchi - riassunti nel motto "Sempre accanto alla vita" - per introdursi alla giornata del 25 ottobre. Che - come ha notato monsignor Zappa - è la data di nascita di Carlo Gnocchi, avvenuta nel 1902, a San Colombano al Lambro.

mutilatiniMonsignor Bazzari ha sottolineato come gli operatori della Fondazione siano "i continuatori non soltanto di un patrimonio ideale e valoriale", ma anche dell'opera concreta a favore dei più sofferenti, affidata da don Carlo ai suoi collaboratori con la frase "Amis, ve raccomandi la mia baracca" (cioè, con l'affettuosità del dialetto, "Amici, vi raccomando la mia baracca").


(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2009)
Caterina63
00giovedì 22 ottobre 2009 19:08
La lettera con cui il card.Dionigi Tettamanzi annuncia la beatificazione che avverrà a Milano il 25 Ottobre 2009:



Carissimi fedeli, con profonda gioia comunico la “buona notizia” che il Santo Padre Benedetto XVI ha stabilito che il venerabile Servo di Dio don Carlo Gnocchi, compiutosi il processo canonico, venga proclamato beato qui a Milano il prossimo 25 ottobre, anniversario della sua nascita avvenuta a San Colombano al Lambro nel 1902.

Così un altro figlio della nostra Diocesi, un nostro sacerdote, con la sua beatificazione renderà ancora più ricca la già numerosa schiera di Beati e di Santi ambrosiani che veneriamo come intercessori presso il Signore e luminosi esempi di vita.

Ordinato sacerdote nel 1925, don Carlo fu assistente di oratorio prima a Cernusco sul Naviglio, poi nella parrocchia di San Pietro in Sala a Milano e nel 1936 venne nominato direttore spirituale all’Istituto Gonzaga dei “Fratelli delle Scuole Cristiane”.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, arruolato come cappellano degli alpini, partecipò alla campagna di Albania e di Russia. Il suo animo rimase profondamente segnato dalla tragica ritirata di Russia, durante la quale ebbe modo di prodigarsi con eroica dedizione ad assistere gli alpini feriti e morenti, raccogliendone le ultime volontà e accompagnandoli all'incontro con Dio.

Questa esperienza di dolore fece maturare in lui il progetto di dedicarsi pienamente ai sofferenti. Nacque così la “Fondazione Pro Juventute”, ora “Fondazione Don Carlo Gnocchi”, nella quale furono accolti tantissimi ragazzi provati dal dolore e da lui curati con amore paterno, delicato e forte. Erano ragazzi vittime innocenti della devastazione della Seconda guerra mondiale:bimbi mutilati, orfani di quegli alpini che aveva accompagnato e assistito nel gelo della steppa russa, bambini abbandonati, ragazzi sofferenti a causa della poliomielite, esplosa drammaticamente proprio in quegli anni.

Di tutto questo “dolore innocente” don Carlo volle essere custode e ministro, perché non fosse disperso, ma raccolto e trasfigurato dall'amore di Cristo crocifisso e risorto. Consumato dalla fatica e dalla malattia, don Carlo morì la sera del 28 febbraio 1956. L'ultimo suo gesto profetico, quando in Italia il trapianto di organi non era ancora diffuso, fu la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti.

I più anziani fra noi potranno ricordare i suoi funerali, celebrati in Duomo dall'Arcivescovo Giovanni Battista Montini e seguiti da una folla quanto mai imponente di fedeli. Toccanti furono le parole di un bambino, uno dei suoi ragazzi, portato al microfono per un ultimo saluto: «Prima ti dicevo ciao don Carlo, adesso ti dico ciao san Carlo». In tutta la sua vita, don Gnocchi fu «seminatore di speranza», così lo definì Giovanni Paolo II, tracciando così un luminoso sentiero di amore nel buio del dolore innocente. Fu un prete che in anni assai tormentati seppe con convinzione ed entusiasmo dare fiducia ai giovani e credere fermamente nel valore “santo” del dolore, soprattutto di quello innocente dei bambini. Fu un vero uomo di Dio, totalmente affidato al Signore Gesù, “roveto ardente” della sua vita, del suo ministero e del suo slancio apostolico.

Maria Santissima, la Vergine Madre alla quale don Carlo dedicò tutti i suoi Centri e affidò i suoi ragazzi, ci doni ora di seguire con umile coraggio il suo esempio, diventando noi pure – con rinnovato e più generoso amore verso i fratelli bisognosi, soli e disagiati, malati e sofferenti – autentici «seminatori di speranza».

Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano


[Milano, 2 marzo 2009]


Caterina63
00venerdì 23 ottobre 2009 18:23
Domenica 25 ottobre in piazza Duomo a Milano don Carlo Gnocchi sarà proclamato beato

«Sei pronto a rischiare la prigione per me?»


di Giulia Galeotti

Alle 10 di mattina del 27 febbraio 1956, un dodicenne cieco, che era stato colpito da uno schizzo di calce viva mentre lavorava alla costruzione della sua casa abruzzese, venne sottoposto a Roma a una visita oculistica. Il dottore era Cesare Galeazzi, noto professore milanese, mentre il bambino, che qualche giorno dopo avrebbe riacquistato la vista, si chiamava Silvio Colagrande. Nulla fu casuale: l'incontro si tenne per espressa volontà di don Carlo Gnocchi che, ormai prossimo alla morte, dal suo letto di ospedale convocò l'amico Galeazzi impartendogli un ordine preciso: utilizzare le sue cornee per ridare la vista ai suoi amati bambini. E così avvenne. Tra i tanti sogni che il sacerdote riuscì a realizzare, vi fu anche questo.

Oggi l'innesto di cornea da cadavere non solleva problemi giuridici né morali, ma nel 1956 le cose stavano in tutt'altro modo. Si trattava, infatti, di un intervento proibito dalle leggi dello Stato italiano e non del tutto pacifico per la Chiesa, che non aveva ancora espresso un parere definitivo sulla donazione di organi e tessuti. Don Gnocchi spinse l'uno e l'altra alla piena accettazione del gesto.

L'idea di don Carlo non fu improvvisa. Leggendo le parole che scrisse fin dalla campagna di Russia con gli alpini, la sua sembra una vocazione profetica: tra tutte le immagini di grande sofferenza che incontrava quotidianamente, don Carlo ritornò molto spesso sugli occhi disperati di chi non ce la faceva più ("quei loro occhi d'angoscia impotente, come potrò dimenticarli? Gli occhi allucinati e imploranti. Ho sempre nel cuore, fermi, aperti, pungenti, gli occhi dei miei morti"). E, nel settembre 1955, quando venne posta la prima pietra del Centro Pilota a Milano, don Gnocchi palesò espressamente le sue intenzioni. Suor Silvestra Lucato ne ricorda chiaramente le parole: "Se dovessi morire voglio che mi portiate qui e che cerchiate di dare i miei occhi a due dei miei ragazzi. Mi restano solo gli occhi, anche questi sono per i miei mutilatini".

Carlo Gnocchi sa perfettamente che la sua decisione va contro la legge. E sa anche benissimo che le eventuali conseguenze dell'intervento ricadranno sui suoi "complici". Quattro giorni prima di morire, con la limpida schiettezza che lo contraddistingueva, domandò a don Barbareschi: "Sei pronto a rischiare la prigione per me? Io voglio dare la cornea. Se ti senti, vai a cercare un oculista, che si tenga a disposizione. Se ti va male, sappi che andrai in galera".

L'oculista scelto fu Cesare Galeazzi, che qualche tempo prima aveva contattato don Gnocchi in modo non del tutto tranquillo. Come egli stesso ha raccontato, il professore aveva avuto una reazione di grande disappunto quando, negli anni immediatamente successivi alla guerra, aveva letto sui giornali che un certo don Gnocchi, ex cappellano degli alpini durante la disperata campagna di Russia, avendo dato vita a un'iniziativa per soccorrere i bambini mutilati di guerra, si era rivolto al professor Streiff di Losanna, che gratuitamente aveva operato due bambini dell'Opera di don Carlo. "La notizia m'indispose. Gli scrissi immediatamente dicendogli molto energicamente che mi sentivo offeso come italiano e come oculista: "Lei, reverendo, ha intrapreso una bellissima fatica, ma si dimentica evidentemente che gli oculisti italiani, senza modestia, in tema di chirurgia oculare non sono inferiori ai loro colleghi esteri. Trattandosi inoltre del dramma della fanciullezza italiana colpita dal furore bellico, desidereremmo affiancarla nella sua benemerita iniziativa: se crederà di servirsene, conti sull'Istituto Oftalmico di Milano che ho l'onore di dirigere, e sulla mia opera di chirurgo"".

Per tutta risposta, due giorni dopo, uscendo dalla sala operatoria, a Galeazzi viene annunciato che un sacerdote lo sta aspettando da oltre un'ora. "Mai dimenticherò l'incontro: su di un viso esprimente intelligenza, volontà, bontà, la luce di due grandi occhi azzurri, di un azzurro incredibile". Fu l'inizio di un'amicizia e di una collaborazione ricca e fruttifera, culminata con l'innesto delle cornee di don Gnocchi, la mattina del 29 febbraio 1956, il giorno dopo la sua morte.

Una domenica pomeriggio il professor Galeazzi venne messo al corrente del progetto di don Carlo. Ricevuta una telefonata da una suora cabriniana della Columbus ("professore venga subito, don Carlo ha chiesto di lei"), si precipitò in clinica. "Giaceva nel letto, sotto la tenda a ossigeno, il viso esangue, le belle mani stanche e bianche: con palese sforzo fece cenno a un sacerdote presente di uscire, e fummo soli. "Cesare, ti chiedo un grande favore, non negarmelo: fra poche ore io non ci sarò più, prendi i miei occhi e ridona la vista a uno dei miei ragazzi, ne sarei tanto felice. Parti subito per Roma, ma subito ti prego, non c'è tempo da perdere: là nella mia casa c'è da pochi giorni un ragazzo biondo e poi forse anche un altro, mi hanno detto che un trapianto di cornee potrebbe farli rivedere. Avrei già dovuto parlartene, parti, parti subito, fammi questo regalo, promettimelo"". Il professore è preoccupato, ma non per il lato legale della questione, quanto per quello medico: "Com'erano le cornee di questo ragazzo? Era veramente recuperabile? E se non lo fosse stato? Potevo non mantenere l'impegno?".

Giunto a Roma, Galeazzi valuta Silvio Colagrande adatto all'innesto, mentre non ne trova altri con indicazione clinica favorevole all'intervento. Convinto che ciò che interessa a don Carlo è ridare la vista - e non che il destinatario sia necessariamente uno dei suoi ragazzi - il professore chiama il suo ospedale di Milano, chiedendo di mettere in stato di preallarme uno dei tanti casi in lista di attesa. Dopo Silvio, verrà infatti operata Amabile Battistello, una diciannovenne divenuta paziente di Galeazzi tramite la Croce Rossa.

Galeazzi sta per rientrare a Milano, quando giunge la notizia della morte di don Carlo. Il suo aiuto, Celotti, si reca subito alla clinica Columbus, ma viene intercettato dalla polizia: "Qui non si tocca niente". Il medico, però, non si lascia intimorire e, aggirate le forze dell'ordine, riesce a compiere il suo triste ma indispensabile compito: asporta i bulbi oculari di don Gnocchi. All'uscita dalla clinica la sua macchina viene per un tratto seguita da quella della polizia, ma poi l'inseguimento fallisce: volutamente, secondo il racconto dello stesso Galeazzi.

Nel 1956, infatti, la legge italiana non ammetteva né trapianti né innesti. Non che del tema non si parlasse, ma la proposta di legge per permettere l'innesto di cornee era ferma da cinque anni in Parlamento. La scienza, dal canto suo, premeva non poco per legalizzare questo intervento, essendosene ormai provata l'opportunità e la riuscita. Già in occasione del xxXVIii Congresso, l'Assemblea generale della Società oftalmologica italiana aveva ufficialmente posto il problema della liceità giuridica dell'espianto corneale, e nel giugno 1950 la Società romana di medicina legale e delle assicurazioni aveva indetto una serie di giornate scientifiche. Esse si conclusero con la formulazione di una proposta di legge per iniziativa dei deputati De Maria e Capua, annunciata alla Camera il 20 febbraio 1951.

Fu l'inizio del lungo e travagliato iter legislativo di quella che sarà la legge sul trapianto da cadavere, la 235 del 1957, alla cui promulgazione il gesto di don Gnocchi aveva dato un decisivo input. Nella relazione che verrà presentata alla Camera nel 1968 per modificare quella legge, si afferma che essa fu "la diretta conseguenza del nobile gesto dell'indimenticabile padre Gnocchi, il quale, in punto di morte, fece dono, primo nella nostra nazione, dei propri occhi per ridare la vista ad un cieco, scuotendo con il proprio esempio i sentimenti della pubblica opinione".

Anche per la Chiesa si trattò di un gesto decisivo, visto il dibattito che la attraversava. Ma il Pontefice fu estremamente chiaro: la domenica successiva alla morte di don Carlo, Pio xii ne elogiò il gesto durante l'Angelus. La posizione, tra l'altro, era già stata espressa, e venne più volte ribadita.

"Ricordo ancora con commozione quando il professore mi tolse le bende, dopo 22 giorni di buio assoluto, e mi ordinò di guardare il mondo", ha raccontato Amabile Battistello. "Mi abbracciò commosso e poi fece un gesto semplice che mi colpì molto: con il dito indice premette un bottone di un vecchio registratore che si mise in moto, e mi pregò di ascoltare. Fu allora che udii don Carlo che tentava di dire delle parole, con una voce sofferente che usciva a stento dalla gola, ma che possedeva una forza misteriosa. Essa implorava: "Tu professore, dopo la mia morte, prendi questi miei occhi e fa' che qualcuno possa vedere con essi"".


(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2009)


Caterina63
00venerdì 23 ottobre 2009 18:25

«Non dimenticatevi di vivere»


Pubblichiamo ampi stralci di un articolo del presidente della Fondazione Don Gnocchi tratto dall'ultimo numero della rivista "Communio" (Jaca Book) appena uscito e dedicato all'azione sociale della Chiesa.

di Angelo Bazzari

"Mi raccomando. La passione sociale è un distintivo delle anime che hanno capito il cristianesimo e che vogliono viverlo attivamente. Come non c'è un Cristo diviso e separato dai suoi fratelli, così non ci può essere un cristiano separato dai fratelli", ha detto l'Adam, e Péguy anche più fortemente ha definito il cristianesimo "un immischiarsi furiosamente nelle cose che non ci riguardano".


Questa raccomandazione che don Carlo Gnocchi rivolgeva al giovane e promettente Alberto Crespi nel 1943 riassume bene il suo approccio alla questione sociale e all'impegno politico che il secondo dopoguerra aveva messo sul tappeto con estrema urgenza per i cattolici impegnati nella ricostruzione del Paese.
Don Carlo, del resto, era cresciuto alla scuola del cardinale Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921, che della dottrina sociale della Chiesa aveva fatto il perno del suo servizio pastorale e della formazione di sacerdoti e di laici di forte e convinta spiritualità, vestita di concretezza per mordere la realtà sociale.



Quella di don Gnocchi era una preoccupazione eminentemente educativa. Ce lo ricorda nell'opera Educazione del cuore del 1937, pubblicata non appena iniziato il suo impegno spirituale al prestigioso Istituto Gonzaga dei Fratelli delle scuole cristiane di Milano, finalizzato ai giovani della borghesia milanese potenziali candidati alla futura classe dirigente del Paese:  "I giovani impieghino ad altro rendimento le loro esuberanti energie di mente e di cuore, sentano la passione politica, si appassionino per la questione sociale, che porta loro la voce accorata di tante miserie e di tante ingiustizie, lottino pure per l'arte, prendano il tifo per lo sport, si mettano a capofitto in qualche associazione, pur di fare:  scrivano, leggano, combattano, si azzuffino, soffrano, corrano, ma vivano, perbacco, vivano e non si lascino vivere".

È un'accorata esortazione ad appropriarsi nel copione sociale e nella vita pubblica delle responsabilità non solo per diritto, ma per obbligo di osservanza, che enuncerà con maggiore forza e sistematicità in Restaurazione della persona umana del 1946, con queste parole:  "Il cittadino deve prendere viva parte diretta alla vita nazionale e al governo della cosa pubblica; non ne ha soltanto il diritto facoltativo, ma un obbligo grave di coscienza, il medesimo che gli comanda di essere persona. Di questo egli deve convincersi e bisogna energicamente convincere anche il popolo italiano, il quale, nel suo costituzionale disinteresse alla vita pubblica e, per la sua naturale pigrizia, ha più volte, nella sua breve e sfortunata storia politica, consentito che il campo della cosa pubblica, lasciato incontrastato libero dai probi cittadini, e il governo dello Stato fossero facile preda degli incompetenti, degli ambiziosi, dei professionisti della politica o peggio dei profittatori e degli avventurieri".

Espressioni indubbiamente taglienti e forti, dettate da esperienze di vita durante il ventennio fascista, sostenuto da una propaganda manipolativa e truffaldina, alimentata da violenze devastanti, che don Gnocchi aveva patito sulla sua pelle e vissuto in prima persona nella lande desolate del Don, in una terra insolente e inospitale, durante la tragica ritirata di Russia nel gennaio del 1943.
Parole sgorgate da una straordinaria capacità di giudizio critico sulla realtà che stava vivendo e suggerite da quello spirito di profezia che ha sempre connotato il suo pensare e caratterizzato il suo agire.

Ma c'è un'ulteriore spiegazione di queste dure parole, riassumibile nell'intuizione profonda del significato dell'Incarnazione, la "differenza cristiana" in azione.
Il tema dell'incarnazione del Verbo di Dio è sempre stato al centro, in modo esplicito o in maniera implicita, del pensiero e dell'opera di don Carlo. Lo scrive in un altro passo di Restaurazione della persona umana:  "L'essenza gaudiosa e la novità rivoluzionaria del messaggio cristiano è tutta nella verità dell'Incarnazione, che si traduce, per ogni uomo e per la civiltà tutta, nella possibilità e nella certezza di una rinascita provocata dall'innesto della vita divina sull'esausta vita umana:  così come nella persona di Cristo".

Per don Gnocchi è più che mai essenziale e decisivo per l'umanità riscoprire il senso dell'Incarnazione perché "in questo faticoso itinerario della mente a Dio, la nostra epoca porta caratteristiche e condizioni particolari:  anzitutto un immenso e disperato bisogno di Dio. Mai epoca della storia ha cercato più forsennatamente della nostra una verità, una giustizia ed un amore supremo. Se ancora si illude di poterli trovare altrove che in Dio, è soltanto un fatale errore di orientazione; l'istinto che la sospinge e la esalta è profondamente vero e il dispendio di eroismo offerto per questa impresa è quanto di più gigantesco l'umanità abbia realizzato sulla via della verità e della carità".


Non quindi un "concetto" di Dio, il Dio dei filosofi, come direbbe Pascal, perché "il nostro tempo ha bisogno di un Dio di giustizia e di amore nel quale gli uomini si ritrovino fratelli e perciò diano una mano a sanare le gravi ingiustizie che ancora li dividono:  un Dio terrestre e umano, da amare e da seguire appassionatamente come un capo e una dottrina nuda e essenziale e pur capace di sostenere lo slancio eroico e il bisogno di dedizione che è nel cuore dell'uomo moderno. Orbene - conclude don Carlo - mi pare che nessuno meglio di Gesù Cristo possa rispondere a questi requisiti:  Dio disceso in questo mondo e pure uomo come tutti noi, vissuto e morto su questa terra, giovane, forte e dolce, che ha sperimentato tutta la nostra vita in quello che ha di più umile e ci ha amato fino a morire per la nostra salute. Bisogna che l'uomo moderno si riaccosti direttamente ed esclusivamente a Lui. Non sarà facile trovarlo solo e puro, a causa della ressa dei santi, di devozioni, di credenze e di prescrizioni che gli hanno messo intorno certa religione barocca e popolaresca, risentirne la forza e novità, dopo tanta letteratura oleografica e predicazione convenzionale. Ma pure il Vangelo, per chi lo sa leggere, custodisce integra e pura la sua figura e la sua dottrina e la Chiesa cattolica, nella sua azione essenziale, ne rivive l'opera salvatrice del mondo".

L'antropologia cristiana è tutta qui. Per il cristiano infatti "l'individuo è una parola detta da Dio una volta sola, per sempre e che soltanto Lui conosce adeguatamente. L'enigma stesso che ogni uomo racchiude per sé e per gli altri, lo colloca in una lontananza e in un isolamento misterioso e lo rende assolutamente indicibile, inesprimibile. Ogni uomo, coi sensi più intimi del proprio essere, sperimenta nelle sue profondità vitali questo carattere costante di "aseità" augusta e misteriosa". Ne consegue un rovesciamento di prospettiva rispetto alle ideologie che, in genere, subordinano la persona e la vita individuale agli imperativi dello Stato o alle diverse e totalitarie utopie che si sono accreditate dalla notte dei tempi, sia pure nell'illusorio intento di far guadagnare all'uomo la felicità.

Don Gnocchi ammonisce infatti affermando che "non l'uomo è per la causa, ma le cause sono per l'uomo". L'uomo rimane una realtà inviolabile e irripetibile. Perciò "nessun uomo può essere, e tanto meno essere reso, copia di un altro perché egli è copia di Dio, riflesso di una delle sue infinite qualità e una faccia del suo prisma. È dovere di ogni uomo verso se stesso e della società verso ogni uomo, di conservare, di rispettare e di sviluppare questa originalità della persona, sigillo della sua divina origine per meglio attuare il disegno di Dio sull'individuo e sulla storia".

Questa consapevolezza però non deve indurre l'uomo ad avvitarsi su di sé, a murarsi in uno splendido isolamento, perché "la persona non è una goccia d'acqua senza consistenza che si può dissolvere nell'oceano, nemmeno allo scopo di costituire la maestà e la potenza di questo, né una monade chiusa e senza finestre. Tra il rifiuto di sé e l'abdicazione di sé, c'è il dono di sé".


Siamo al centro gravitazionale del pensiero e del cuore pulsante dell'azione sociale di don Gnocchi:  la persona è se stessa quando si dona, ovvero esercita la carità, proprio come fa Dio incarnandosi e vestendosi di umanità. Non l'utopia quindi, non la sola compassione, non l'esercizio del potere danno ragione dell'agire cristiano nella vita sociale e politica, ma il dono di sé, che si fa progetto condiviso con altri uomini per riportare l'umanità a come Dio l'ha sognata da sempre e che don Carlo traduce così:  "Cristo dunque, vero Dio e vero uomo, è l'esemplare e la forma perfetta cui deve mirare e tendere ogni uomo che voglia possedere una personalità veramente umana, capace cioè di attuare pienamente l'istinto che la sospinge a superarsi e ad ascendere verso il divino... Ogni restaurazione della persona umana, che non voglia essere parziale, effimera o dannosa, non può essere quindi che la restaurazione in Cristo di ogni uomo".

Questa restaurazione integrale della persona umana implica il dovere di affrontare con serietà il mistero del male e del dolore, soprattutto di quello innocente, che fa scandalo e problema. Occorre "attraversare" il mistero della croce di Cristo, emblema di ogni impotenza, sintesi di ogni dolore, ma anche dichiarazione pubblica di un amore senza confini e senza misura, se si vuole avere la chiave per comprendere il vivere umano.
La croce come apparente eclissi di Dio, ma anche annuncio di una definitiva irruzione della Grazia nel mondo e l'avvio di una nuova umanità redenta. Ecco perché don Gnocchi scrive che "dopo Cristo non è più possibile altra redenzione che non sia "cristiana" e il sangue dell'uomo non ha potere di purificazione e di pacificazione se non è versato e commisto a quello di Cristo nel calice della messa, rinnovazione e attuazione del sacrificio del Redentore".


E ancora, perché concepisce la cura della salute dell'uomo come vera e propria azione redentiva:  "La cura degli ammalati, le arti della medicina, la carità verso i sofferenti, la lotta contro tutte le cause dell'umana sofferenza sono una vera e continua redenzione materiale che fa parte della redenzione totale di Cristo e di essa ha tutto l'impegno e la dignità". Una mirabile sintesi e un riepilogo della sua vita, della sua opera e del suo pensiero, scolpiti in queste parole"Nella misteriosa economia del cristianesimo, il dolore degli innocenti è dunque permesso perché siano manifeste le opere di Dio e quelle degli uomini:  l'amoroso e inesausto travaglio della scienza; le opere multiformi dell'umana solidarietà; i prodigi della carità soprannaturale".

Non basta l'ammirazione per un uomo che non ha trattenuto niente per sé, donando, primo in assoluto in Italia, persino le cornee a due ragazzini non vedenti, come gesto di amore infinito per i suoi mutilatini. Non è sufficiente lo stupore per la straordinaria opera in forte espansione che oggi porta il suo nome. Serve poco sapere dove ha tratto le risorse per realizzare quello che ha costruito se non si comprende appieno la radice di tutto il suo operare, meglio, di tutto il suo essere. Don Gnocchi ha scelto la carità come "via definitiva" perché essa è segno della presenza di Dio nella storia, nonostante il male e la sofferenza, capace già ora di prefigurare e far gustare ciò che un giorno sarà definitivo per l'umanità. Una carità che va strutturata, organizzata in modo da "recuperare e intensificare la vita che non c'è, ma ci potrebbe essere", condividendo la sofferenza come prassi terapeutica e coniugando con rigore scienza e carità, al fine di realizzare una "terapia dell'anima e del corpo, del lavoro e del gioco, dell'individuo e dell'ambiente:  medici, fisioterapisti, maestri, capi d'arte ed educatori, concordemente uniti nella prodigiosa impresa di ricostruire quello che l'uomo o la natura hanno distrutto, o almeno, quando questo è impossibile, di compensare con la maggior validità nei campi inesauribili dello spirito, quello che è irreparabilmente perduto nei piani limitati e inferiori della materia".

In questa opera di restaurazione integrale della persona umana è decisiva per don Gnocchi l'attuazione del rapporto di "fiduciosa collaborazione", ossia di sussidiarietà tra Stato e iniziativa privata:  "Il modo più rapido, più economico e più conclusivo per lo Stato di attuare i propri compiti assistenziali è quello di entrare in stretta e fiduciosa collaborazione con l'iniziativa privata. In questa umanissima attività, dove la giustizia e la carità si danno la mano, fin quasi a confondersi, né lo Stato può fare senza l'iniziativa privata, né questa deve fare senza lo Stato. La giustizia retributiva può giungere anche ad organizzare una società lucida e perfetta come una macchina, ma appunto perché tale, arida ed effimera, dove venga a mancare l'olio della carità individuale".

Precisando molto bene l'importanza sociale della sua opera e il senso politico della sua stessa esistenza, vissuta a stretto contatto con i ruoli politici istituzionali. "Nell'esercizio dell'assistenza sociale, l'opus perfectum si trova soltanto nel connubio tra la giustizia e la carità, tra lo Stato e l'individuo, perché l'attività assistenziale, in quanto riguarda prevalentemente l'ora del bisogno, della prova e del dolore umano, è forse una di quelle che più da vicino attingono il sacrario misterioso della persona umana, dinanzi al quale lo Stato, e tanto più quello democratico, deve riverentemente arrendersi ed agire".

Il 25 ottobre di quest'anno, a Milano, don Gnocchi sarà proclamato beato, prototipo esemplare di una carità fattiva, fortemente proiettata sul futuro, utile per il mondo.


(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2009)


Caterina63
00domenica 25 ottobre 2009 20:56
Sorriso






http://www.chiesadimilano.it/

QUI PER IL VIDEO

Omelia per la Beatificazione di don Carlo Gnocchi
Prima Domenica dopo la Dedicazione
Milano-Duomo, 25 ottobre 2009



SOLO LA CARITA’ PUO’ SALVARE IL MONDO
   
Carissimi fratelli e sorelle,
a tutti rinnovo il saluto liturgico: la grazia, la pace e la gioia del Signore Gesù sia nel cuore di ciascuno di voi. Insieme vogliamo rendere grazie a Dio per il dono fatto alla Chiesa di un nuovo beato nella persona di don Carlo Gnocchi.
Una gratitudine che estendiamo a quanti il Signore si è scelto come “strumenti” di questo evento di grazia: in particolare il Santo Padre Benedetto XVI – cui vanno la nostra preghiera e il nostro affetto - e S.E. l’arcivescovo mons. Angelo Amato, che oggi lo rappresenta in mezzo a noi; l’immensa schiera delle persone che hanno incontrato, conosciuto, stimato, amato don Carlo e ne hanno testimoniato il cammino di santità; quanti hanno tenuto viva la memoria di questo sacerdote ambrosiano continuandone le opere e lasciandosi ispirare dal suo carisma di carità intelligente e coraggiosa verso i giovani, i soldati, i piccoli, i malati, i sofferenti, i poveri, gli emarginati; tutti noi presenti e partecipi a questo solenne Rito di beatificazione, compresi quanti ci seguono grazie ai mezzi di comunicazione.

Ci vuole santi, come lui è santo
Questo rendimento di grazie al Signore, mentre dice la nostra gioia spirituale, diventa per noi un richiamo particolarmente forte a riscoprire la fondamentale e comune vocazione alla santità: questo e non altro è il grande progetto d’amore e di felicità che dall’eternità Dio ha stabilito per tutti e per ciascuno di noi: ci vuole santi, come lui è santo!
Questo è il progetto che abita il cuore di Dio e di conseguenza non ci può essere nel nostro cuore un desiderio, un’aspirazione, un bisogno più forti e radicali che di fare nostro questo progetto e con la massima generosità possibile. Così cammineremo sulla strada della santità: una strada divina ma al tempo stesso umana e umanizzante.
Beatificando don Carlo la Chiesa dichiara autorevolmente che il desiderio di farsi santo è stato il sentimento dominante del suo cuore e insieme il principio fecondo della sua comunione d’amore con Dio e della sua infaticabile attività al servizio dell’uomo: una santità mistica e umanamente contagiosa e missionaria; una santità che lo conduceva a vivere nell’intimità di Dio e ad aprirsi e donarsi agli uomini in ogni ambito della loro esistenza.
Di questo progetto divino di amore e di felicità don Carlo era profondamente convinto e non temeva affatto di proporlo, peraltro in modo affascinante ed esigente, ai suoi giovani: «Nulla è più santificante e salvifico della santità. Credetelo. […] La santità irradia tacitamente Fede e bontà. […] Ben più e ben meglio delle discussioni e delle industrie umane, la santità ha il magico potere di convertire. Credetelo!» (Andate e insegnate, in Scritti, Milano 1993, 51-52).
Così parlava ai giovani dei suoi oratori di Cernusco sul Naviglio e di San Pietro in Sala a Milano, ripetendo quasi come slogan la celebre frase di Leon Bloy: «Non vi è al mondo che una tristez¬za: quella di non essere santo».
E questo sia il richiamo che vogliamo accogliere dal Rito che stiamo celebrando: la sfida che tutti ci interpella, la missione che come credenti ci viene affidata è quella di portare nel nostro mondo il fuoco della santità, il fuoco dell’amore, il fuoco della vera gioia.
Ma come portarlo? E’ una domanda che trova risposta nella prima lettura della liturgia ambrosiana che oggi celebra la Domenica detta del “Mandato missionario”.

In ogni uomo lo splendore del volto di Dio
Gli Atti degli Apostoli (8, 26-39) ci presentano un ministro della regina Candace d’Etiopia: è alla ricerca di Dio ed è affascinato dal Dio d’Israele. Dal tempio di Gerusalemme sta tornando verso la sua terra e in viaggio legge il libro del profeta Isaia. E’ inquieto perché non ne comprende il contenuto. Proprio in quel momento gli si accosta il diacono Filippo, che si era messo in cammino obbedendo alla voce dell’angelo. Senza alcuna paura Filippo intavola il discorso, sale sul carro dell’etiope, prende il libro, ne spiega il senso e annuncia Gesù.
Questo ministro e questo diacono incarnano alcuni tratti che caratterizzano il nuovo beato. Anche don Carlo, come l’eunuco etiope, è stato inquieto cercatore di Dio e come Filippo fu coraggioso cercatore dell’uomo.
E’ nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto d’ogni uomo che don Carlo ha consumato la sua vita. Lo ha cercato in ogni soldato, in ogni alpino - ferito o morente -, in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell’odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull’innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore.
Sta qui il segreto dell’amore di don Carlo per l’uomo: la vivissima coscienza che nel cuore di ogni essere umano abita lo splendore del volto di Dio.
Ma ogni cristiano è chiamato ad amare sino alla fine e senza paura ogni essere umano, sapendo che in tutti è l’impronta incancellabile del volto di Dio, di tutti Creatore e Padre.

L’impegno per la “personalità cristiana” nel mondo
La seconda lettura, tratta dalla lettera di Paolo a Timoteo (1 Timoteo 2,1-5), ci rimanda ad un tratto caratteristico della carità di don Gnocchi. L’Apostolo raccomanda, in particolare, “che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”.
Don Carlo ha saputo coinvolgersi con dedizione entusiasta e disinteressata non solo nella vita della Chiesa, ma anche in quella della società. E lo ha fatto coltivando con grande intelligenza e vigore l’intimo legame tra la carità e la giustizia:  una carità che “tende le mani alla giustizia”, egli diceva. Noi possiamo continuare la sua opera chiedendo oggi alla giustizia di tendere le mani alla carità. Don Carlo è stato mirabile nell’operare una sintesi concreta di pensiero e di impresa, appellando alle diverse istituzioni pubbliche e insieme alle molteplici forme di volontariato, ponendo come criterio necessario e insuperabile la centralità della persona umana sempre onorata nell’inviolabilità della sua dignità e nella globalità unitaria delle sue dimensioni – fisiche, psichiche e spirituali -, insistendo sull’opera educativa e culturale come decisamente prioritaria per lo sviluppo autentico della società. Mai egli ha dimenticato il privilegio e comandamento evangelico del servizio agli “ultimi”.
Don Carlo ha vissuto la sua vocazione come impegno leale nel mondo, senza sminuire – anzi arricchendo – il suo essere di sacerdote. Impegno nel mondo così come si presentava al suo tempo: lontano dalle nostalgie del passato, calato cordialmente nel presente, aperto, profetico e anticipatore del futuro, mai nel segno del pessimismo o della paura.
Egli era convinto che il tempo nel quale Dio lo aveva chiamato a vivere era il migliore possibile. Nell’opera Educazione del cuore scrisse: «Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato. Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della nostra lotta, avremmo scelto… il Novecento senza un istante di esitazione» (Educazione del cuore, in Scritti, 328).
Al mondo moderno don Carlo augurava un tempo nuovo, un nuovo tipo di umanità; augurava la personalità cristiana, cioè “cristianesimo e cristiani attivi, ottimisti, sereni, concreti e profondamente umani; che guardano al mondo, non più come a un nemico da abbattere o da fuggire, ma come a un (figlio) prodigo da conquistare e redimere con l’amore…” (Restaurazione della persona umana, in Scritti, 728-729).
Sono parole preziose anche per noi: amiamo il nostro tempo; impegniamoci nel nostro mondo; portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la “speranza grande” che ci viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male.

Il vangelo della carità
Un ultimo pensiero vogliamo trarre dal Vangelo che ci ripropone il mandato missionario di Gesù risorto: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Marco 16,15). A questo mandato hanno obbedito gli apostoli e tutti gli autentici discepoli del Signore. Ha obbedito il beato Carlo Gnocchi. Vogliamo obbedire anche noi.
Sì, siamo pienamente consapevoli della nostra debolezza e talvolta della nostra infedeltà: come nella pagina evangelica è stato per gli Undici, anche noi veniamo rimproverati dal Signore Gesù per la nostra “incredulità e durezza di cuore”. Ma siamo altrettanto consapevoli di non essere lasciati soli, perché possiamo beneficiare dello stesso aiuto che ha sostenuto gli Apostoli: “Allora essi partirono per predicare dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”.
Ritorna la questione iniziale: si tratta di dire di “sì” con tutto il cuore al progetto di santità voluto da Dio per ciascuno di noi e di viverlo nella fiducia e nell’umile e generosa carità d’ogni giorno, dalla quale dipende la salvezza del mondo.
Ci doni il Signore di condividere la convinzione e la decisione di don Gnocchi, che così scriveva nel 1945 ad un confratello nel sacerdozio: “Non desidero che la mia santificazione, dalla quale sono infinitamente lontano. Forse mi manca il coraggio delle decisioni supreme eppure comprendo che oggi solo la carità può salvare il mondo e che ad essa bisogna assolutamente consacrarsi” (Lettera a don Sterpi).
Una santità che oggi con il Rito di beatificazione la Chiesa dichiara ufficialmente. Una santità che in questa piazza, cinquant’anni fa, nel giorno dei funerali di don Carlo Gnocchi, un ragazzo scelto dall’allora Arcivescovo Montini per  portare il suo saluto al “papà di tutti i mutilatini e poliomielitici”   profeticamente riconobbe. Tutti noi oggi facciamo nostre le sue parole: «Prima ti dicevo: “Ciao don Carlo”. Oggi ti dico: “Ciao, san Carlo”».

                     + Dionigi card.Tettamanzi
                            Arcivescovo di Milano



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                     Pope Benedict XVI waves during the Angelus prayer at the end of a mass for the closing of African Synod in St. Peter's Basilica at the Vatican October 25, 2009. Pope Benedict on Saturday appointed a Ghanaian cardinal to one of the most influential jobs in the Vatican, increasing the possibility that the next pontiff might be a black man.

ANGELUS

Il Santo Padre è uscito poi sul Sagrato della Basilica per l'Angelus con i fedeli
:


Cari fratelli e sorelle!

Poco fa, con la celebrazione eucaristica nella Basilica di San Pietro, si è conclusa la Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi. Tre settimane di preghiera e di ascolto reciproco, per discernere ciò che lo Spirito Santo dice oggi alla Chiesa che vive nel Continente africano, ma al tempo stesso alla Chiesa universale. I Padri sinodali, venuti da tutti i Paesi dell’Africa, hanno presentato la ricca realtà delle Chiese locali. Insieme abbiamo condiviso le loro gioie per il dinamismo delle comunità cristiane, che continuano a crescere in quantità e qualità. Siamo grati a Dio per lo slancio missionario che ha trovato terreno fertile in numerose diocesi e che si esprime nell’invio di missionari in altri Paesi africani e in diversi Continenti.

Particolare rilievo è stato dato alla famiglia, che anche in Africa costituisce la cellula primaria della società, ma che oggi viene minacciata da correnti ideologiche provenienti anche dall’esterno. Che dire, poi, dei giovani esposti a questo tipo di pressione, influenzati da modelli di pensiero e di comportamento che contrastano con i valori umani e cristiani dei popoli africani? Naturalmente sono emersi in Assemblea i problemi attuali dell’Africa e il suo grande bisogno di riconciliazione, di giustizia e di pace. Proprio a questo la Chiesa risponde riproponendo, con rinnovato slancio, l’annuncio del Vangelo e l’azione di promozione umana. Animata dalla Parola di Dio e dall’Eucaristia, essa si sforza di far sì che nessuno sia privo del necessario per vivere e che tutti possano condurre un’esistenza degna dell’essere umano.

Ricordando il viaggio apostolico che ho compiuto in Camerun e Angola nello scorso mese di marzo, e che aveva anche lo scopo di avviare la preparazione immediata del secondo Sinodo per l’Africa, oggi desidero rivolgermi a tutte le popolazioni africane, in particolare a quanti condividono la fede cristiana, per consegnare loro idealmente il Messaggio finale di questa Assemblea sinodale.

E’ un Messaggio che parte da Roma, sede del Successore di Pietro, che presiede alla comunione universale, ma si può dire, in un senso non meno vero, che esso ha origine nell’Africa, di cui raccoglie le esperienze, le attese, i progetti, e adesso ritorna all’Africa, portando la ricchezza di un evento di profonda comunione nello Spirito Santo. Cari fratelli e sorelle che mi ascoltate dall’Africa! Affido in modo speciale alla vostra preghiera i frutti del lavoro dei Padri sinodali, e vi incoraggio con le parole del Signore Gesù: siate sale e luce nell’amata terra africana!


Mentre si conclude questo Sinodo, desidero ora ricordare che per il prossimo anno è prevista un’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi. In occasione della mia Visita a Cipro, avrò il piacere di consegnare l’Instrumentum laboris di tale assise. Ringraziamo il Signore, che non si stanca mai di edificare la sua Chiesa nella comunione, e invochiamo con fiducia la materna intercessione della Vergine Maria.



  • DOPO L’ANGELUS

  • Rivolgo anzitutto uno speciale saluto alle migliaia di fedeli radunati a Milano, in Piazza del Duomo, dove stamani è stata celebrata la liturgia di beatificazione del sacerdote Don Carlo Gnocchi. Egli fu dapprima valido educatore di ragazzi e giovani. Nella seconda guerra mondiale divenne cappellano degli Alpini, con i quali fece la tragica ritirata di Russia, scampando alla morte per miracolo. Fu allora che progettò di dedicarsi interamente ad un’opera di carità. Così, nella Milano in ricostruzione, Don Gnocchi lavorò per "restaurare la persona umana" raccogliendo i ragazzi orfani e mutilati e offrendo loro assistenza e formazione.



  • Diede tutto se stesso fino alla fine, e morendo donò le cornee a due ragazzi ciechi. La sua opera ha continuato a svilupparsi ed oggi la Fondazione Don Gnocchi è all’avanguardia nella cura di persone di ogni età che necessitano di terapie riabilitative. Mentre saluto il Cardinale Tettamanzi, Arcivescovo di Milano, e mi rallegro con l’intera Chiesa ambrosiana, faccio mio il motto di questa beatificazione: "Accanto alla vita, sempre".


  • Caterina63
    00mercoledì 10 marzo 2010 19:30
    Il saluto al pellegrinaggio nella basilica Vaticana

    Al servizio dei più deboli
    sull'esempio di don Gnocchi


    L'esempio di don Gnocchi "sostenga l'impegno di quanti si dedicano al servizio dei più deboli":  lo ha auspicato il Papa salutando mercoledì mattina, 10 marzo, nella basilica Vaticana, i partecipanti al pellegrinaggio della fondazione intitolata al sacerdote milanese, beatificato il 25 ottobre dello scorso anno.

    Cari fratelli e sorelle!
    Sono lieto di accogliervi in questa Basilica e di rivolgere a ciascuno il mio cordiale benvenuto. Saluto il pellegrinaggio promosso dalla Fondazione Don Carlo Gnocchi dopo la recente beatificazione di questa luminosa figura del clero milanese. Cari amici, ho ben presente la straordinaria attività che dispiegate in favore dei bambini in difficoltà, dei disabili, degli anziani, dei malati terminali e nel vasto ambito assistenziale e sanitario.

    Mediante i vostri progetti di solidarietà, vi sforzate di proseguire la benemerita opera iniziata dal beato Carlo Gnocchi, apostolo dei tempi moderni e genio della carità cristiana, che raccogliendo le sfide del suo tempo, si dedicò con ogni premura ai piccoli mutilati, vittime della guerra, nei quali scorgeva il volto di Dio. Sacerdote dinamico ed entusiasta e acuto educatore, visse integralmente il Vangelo nei differenti contesti di vita, nei quali operò con incessante zelo e con infaticabile ardore apostolico.
     
    In questo Anno sacerdotale, ancora una volta la Chiesa guarda a lui come a un modello da imitare. Il suo fulgido esempio sostenga l'impegno di quanti si dedicano al servizio dei più deboli e susciti nei sacerdoti il vivo desiderio di riscoprire e rinvigorire la consapevolezza dello straordinario dono di Grazia che il ministero ordinato rappresenta per chi lo ha ricevuto, per  la  Chiesa  intera  e  per  il mondo.

    Concludiamo questo nostro breve incontro cantando la preghiera del Pater Noster.


    (©L'Osservatore Romano - 11 marzo 2010)
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