I Diritti Umani? Sono nati con il Cristianesimo, prima non c'erano!

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Caterina63
00giovedì 1 ottobre 2009 09:47
Il cristianesimo alla base dello Stato liberale

I diritti umani? Prima non c'erano


Pubblichiamo un estratto della relazione introduttiva del convegno "I quesiti del futuro:  religione e cultura politica", organizzato dalla Fondazione Adenauer di Roma e dal Centro di Studi Europei di Bruxelles e tenutosi presso la Pontificia Università Gregoriana.


di Marcello Pera


I diritti umani sono (dovuti a, basati su) una scelta morale. Mai come in questo caso, è la morale che fonda il diritto. Se si scrive in una legge giuridica che gli uomini sono tutti uguali, è perché si crede che esista una legge morale che stabilisce che gli uomini devono essere tutti uguali. È la legge morale che dà forza ai nostri diritti fondamentali. È la legge morale che li rende intangibili. È la legge morale che li rende universali.

Quale legge morale? Questa è una domanda che la cultura politica europea oggi non si fa più, anche se la sollevò sessanta anni fa al momento dell'uscita dalla barbarie nazista e un po' la ripeté al crollo del comunismo. Se se la facesse, troverebbe proprio nella storia europea la risposta adatta.

Perché, sì, noi siamo figli della cultura greca, ma non è nella Grecia che è nata l'idea dell'uguaglianza di tutti gli uomini rispetto ai loro diritti, del cittadino della polis come del barbaro. Siamo eredi della tradizione romana, ma non è a Roma che si predicava che gli uomini sono tutti uguali, il civis romanus quanto lo schiavo o il liberto. Siamo, alcuni, anche un po' mescolati con la tradizione araba, ma non è nell'islam che il rispetto di tutti, credenti e infedeli, uomini e donne, è un principio religioso fondamentale. No. La legge morale da cui dipende la cultura dei diritti umani è la legge morale cristiana.
 
Perché lo è? Perché nel cristianesimo, e più in generale nella tradizione biblica, l'uomo è creato a immagine di Dio. E se l'uomo rispecchia Dio fino a essere fatto come lui, allora ogni uomo è una persona, è figlio di Dio, fratello di ogni altro uomo, membro della stessa famiglia. Questa filiazione - un'autentica genealogia concettuale - la spiegò bene, a quelli che già la sapevano e a quelli che non volevano saperla più, Giovanni Paolo ii in una sua Esortazione apostolica del 2003 non a caso intitolata all'Europa. Egli disse:  "Dalla concezione biblica dell'uomo, l'Europa ha tratto il meglio della sua cultura umanistica, ha attinto ispirazione per le sue creazioni intellettuali e artistiche, ha elaborato norme di diritto e, non per ultimo, ha promosso la dignità della persona, fonte di diritti inalienabili" (Ecclesia in Europa, 25).

E aggiunse:  "Certamente non si può dubitare che la fede cristiana appartenga, in modo radicale e determinante, ai fondamenti della cultura europea. Il cristianesimo, infatti, ha dato forma all'Europa, imprimendovi alcuni valori fondamentali. La modernità europea stessa che ha dato al mondo l'ideale democratico e i diritti umani attinge i propri valori dalla sua eredità cristiana" (ibidem, 108).

Ecco allora una risposta alla nostra domanda. La scelta morale che sta alla base dei diritti umani è la scelta morale cristiana. E qui sarebbe inutile ripetere una risposta a chi non capisce o finge di non capire:  non è un'obiezione che la Chiesa cattolica abbia impiegato quasi due millenni per proclamare formalmente i diritti umani, o che molti prelati di casa nostra pongano ancora mano all'aspersorio al solo sentir parlare di liberalismo (mentre si inginocchiano quando sentono dire di democrazia, socialismo, umanismo, e così via). Il punto è concettuale. Come siamo d'accordo che, se si toglie il cristianesimo, non si spiega l'Europa, allo stesso modo dovremmo essere d'accordo nel dire che, se si toglie la morale cristiana, si toglie anche il fondamento dei nostri Stati liberali.

È qui che il secolarismo odierno sbaglia. Nella sua versione corrente, esso intende negare il valore positivo della religione cristiana, oppure eliminarla dalla cultura politica, oppure attribuirle solo un valore consolatorio nel foro privato. Sembrano due omaggi ai princìpi della tolleranza e della cittadinanza, invece sono due errori.

Il primo errore riguarda le conseguenze di questo secolarismo. Se è vero che il fondamento del nostro Stato liberale è una scelta morale cristiana, e se è vero che lo Stato liberale è uno Stato secolare, allora, come ho già detto, senza quel fondamento, si mette a rischio lo stesso Stato liberale e secolare. Esso diventa una cittadella senza guarnigione:  come si potrebbe sostenerlo e difenderlo?

Il secondo errore riguarda la mancanza di comprensione di sé da parte del secolarismo. Ho citato le due principali ragioni addotte a sua difesa. Limitiamoci alla tolleranza. Con quale argomento fu introdotta, ad esempio da John Locke, questa idea e con quale argomento la si difende pure oggi? Con l'argomento che il magistrato civile, l'autorità politica, non è competente sulle questioni di coscienza. Ma perché l'autorità politica dovrebbe disinteressarsi della religione dei suoi cittadini? Non ha forse interesse a tenerli uniti? Non ha forse l'obbligo di usare la forza contro chi volesse trasgredire le norme della convivenza adducendo convincimenti religiosi? Non è tenuta a giudicare quale religione di quale gruppo è meglio confacente all'ordine che essa deve tutelare?

No, non è pragmatico l'argomento a favore della tolleranza. L'argomento vero è che l'uomo è contemporaneamente due cose:  è coscienza riflettente e animale razionale e sociale. Più precisamente, è anima e corpo. Come anima, l'uomo è in contatto con il suo Dio, a lui solo risponde e di fronte a lui soltanto si fa testimone della propria fede e responsabile dei propri atti. Come corpo, è un cittadino, è sottoposto all'autorità politica e a essa deve obbedienza. L'anima è di Dio, il cittadino è dello Stato. Questo, chiaramente, è un argomento religioso, più precisamente è la concezione religiosa cristiana del "dare a Dio e dare a Cesare", della separazione fra Stato e Chiesa. È da questa concezione che nasce la tolleranza:  Cesare non può entrare nel rapporto che l'uomo ha con Dio e perciò Cesare deve rispettare, essere tollerante, con ogni cittadino. E così deve essere ogni uomo rispetto a ogni altro.

Per precisare e chiudere su questo punto. L'idea della tolleranza politica presuppone una teologia politica cristiana (esattamente come, per dirla in breve, l'idea della tolleranza scientifica, cioè l'idea che la sfera della scienza non interferisce con la sfera della fede, presuppone la metafisica cristiana di Galileo e altri, secondo cui Dio è autore e del libro della natura e del libro della Scrittura). Non a caso l'idea della tolleranza nasce in Europa da grandi pensatori cristiani - con la sola eccezione, ma complicata, di Spinoza - almeno a partire da Sebastian Castellio (De haereticis an sint persequendi, 1544) fino ai sommi Locke e Kant. Se il secolarismo oggi nega qualunque rapporto fra politica e religione, nega anche il fondamento di quella stessa tolleranza che vuole promuovere e finisce col distruggere se stesso. È esattamente la parabola dell'Illuminismo:  nato come movimento di liberazione, si è liberato delle vecchie gerarchie sociali e intellettuali, comprese quella della Chiesa, poi si è liberato anche di Dio, e alla fine ha perduto se stesso.



(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009)


Caterina63
00sabato 16 luglio 2011 15:02

Storia della schiavitù e Cristianesimo - I parte

di F. Agnoli

Per tanto tempo la storiografia sulla schiavitù è stata, per lo più, parziale e incompleta. Per due motivi. Da una parte perché si è privilegiato lo studio dello schiavitù praticata dagli europei e dai coloni americani in età moderna, ingenerando così in molti la convinzione che lo schiavismo sia stato un vizio tipicamente nostrano, una colpa limitata ad una sola epoca e ad alcuni singoli popoli.

Dall’altra perché gli stessi storici che, per motivi ideologici, hanno puntato i riflettori solamente sullo schiavismo europeo, nell’ambito della stessa forma mentis hanno privilegiato, rispetto ad una visione d’insieme, la ricerca di eventuali omissioni della Chiesa cattolica, sovente accusata di non essere stata “sufficientemente” contraria allo schiavismo stesso.
Per questo mi sembra necessario salutare con riconoscenza l’ennesima fatica di Rodney Stark, “A Gloria di Dio” (Lindau), che tra le altre cose tenta di proporre una visione globale dello schiavismo nella storia.
Stark, sviscerando e comparando una sterminata quantità di studi, con una lucidità e una capacità di sintesi straordinarie, riassume dunque alcuni fatti fondamentali.

La constatazione basilare di Stark è che lo schiavismo “è stata una caratteristica quasi universale della ‘civiltà’, ma era anche comune in un certo numero di società aborigene sufficientemente ricche da potersela permettere”. Anche Roma e la Grecia antiche prevedevano “un uso estensivo del lavoro degli schiavi”, considerati oggetti, beni di proprietà, e come tali privi di qualsiasi diritto e sottoposti all’arbitrio più totale da parte dei padroni. Si può aggiungere, come ampiamente dimostrato da Aldo Schiavone in “Spartaco. Le armi e l’uomo”, che in epoca pagana non esisteva neppure il sospetto che la schiavitù in quanto tale fosse iniqua: i ribelli come Spartaco miravano alla propria liberazione, non certo alla condanna della schiavitù medesima, che anzi praticarono in prima persona nel breve periodo della loro libertà.
Se dalla Roma e dalla Grecia pagane ci spostiamo nell’Islam, scopriamo che i “musulmani raccoglievano un gran numero di schiavi nelle regioni slave dell’Europa, come pure europei presi prigionieri in battaglia o catturati dai pirati”; inoltre catturarono sempre grandi quantità di schiavi africani, prediligendo la cattura di donne, per gli harem e la servitù domestica, di bambini e di adulti maschi che però spesso venivano “evirati al momento della cattura o dell’acquisto”.

Anche l’Islam, come pure i popoli politeisti, non ha mai conosciuto alcun movimento abolizionista, ma ha subito, al contrario, l’abolizionismo europeo dell’Ottocento, ad opera di schiere di missionari e della marina britannica. Se ci spostiamo poi nell’ Africa animista, i fatti sono ben conosciuti dagli esperti, ma piuttosto ignoti al grande pubblico: “molte delle società africane precoloniali, se non tutte, si reggevano su sistemi schiavistici”, ed anzi, lo schiavismo europeo si innestò sempre su quello islamico ed interafricano.

Solo dopo questo sguardo d’insieme, sostiene Stark, possiamo contestualizzare e comprendere le specificità dello schiavismo europeo moderno.
Riguardo al quale si può sostenere, in sintesi, che le condizioni peggiori furono vissute dagli schiavi dei britannici “anglicani”, dal momento che gli inglesi non solo erano ferocemente sfruttatori, ma non battezzavano neppure i loro schiavi, né cercavano di convertirli, perché, in fondo, così facendo, impedivano che fossero in qualche modo accomunabili, almeno di fronte a Dio, a loro stessi.
Al contrario, ad “avere la legge schiavista più umana” era la Spagna, “seguita dalla Francia”: questo a causa della influenza esercitata dalla Chiesa cattolica, in prima linea, in generale se non sempre in particolare, nella difendere la natura umana e di creature di Dio anche degli schiavi.

Stark si sofferma su alcune bolle papali spesso trascurate, dalla Sicut Dudum di Eugenio IV (1431-1447), a quelle di Pio II, Sisto IV e Paolo III (1534-1549), in cui lo schiavismo appare una colpa suggerita agli uomini da Satana stesso, il “nemico del genere umano”. “Il problema non era che la Chiesa non condannava la schiavitù, quanto piuttosto che erano in pochi ad ascoltarla”, e che questa condanna, assente nel resto del mondo, anche dall’Inghilterra anglicana o dalla Danimarca protestante, scatenò spesso le ire e le persecuzioni nei confronti dei cattolici più coraggiosi nel difendere il diritto alla libertà.

Stark conclude analizzando con cura il movimento abolizionista ottocentesco: mette in luce la sua unicità (non è nato mai nulla di simile in nessun’altra cultura), la sua carica di idealismo e la sua origine prettamente religiosa. Tutto i leader abolizionisti ottocenteschi, americani ed inglesi in particolare, erano credenti e fondarono le loro argomentazioni su categorie evangeliche (Dio, Creazione, peccato…), e non su motivazioni filosofiche di altro tipo. Un’unica lacuna, nel preziosissimo testo di Stark: manca un’ analisi dell’ “abolizionismo” cristiano di età alto medievale, che, pur diverso da quello ottocentesco, fu però fenomeno di portata storica ben più rilevante Ne parleremo la volta prossima.

(continua)






Caterina63
00domenica 17 luglio 2011 15:20

Storia della schiavitù e Cristianesimo - II parte

di F. Agnoli

(segue da sopra)

Commentavo, la volta scorsa, un capolavoro di Rodney Stark, “A Gloria di Dio”, e in particolare il capitolo sullo schiavismo. Notavo però la mancanza di una parte dedicata all’ “abolizionismo” dei primi secoli del cristianesimo. Stark non ha forse affrontato l’argomento per un motivo: è la storiografia contemporanea che, faticando a comprendere le categorie religiose, trascura da anni questo tema.

L’abolizionismo ottocentesco, infatti, procedette per petizioni pubbliche, pressioni politiche, leggi, addirittura guerre (la guerra civile americana e le guerra della marina britannica e francese contro schiavismo islamico): fu dunque un fenomeno ben comprensibile alla mentalità occidentale di oggi. Al contrario, l’ “abolizionismo” dei primi secoli si concretizzò nel cambiamento, graduale, di concezione teologica ed antropologica, senza guerre, né petizioni, né coinvolgimento, se non secondario, di governi.
Per questo diversi storici contemporanei mettono tutti in luce la novità portata dal cristianesimo riguardo alla schiavitù, sottolineano la grandezza del messaggio paolino (“Non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero”), talora elencano anche i singoli aspetti benefici che derivarono agli schiavi dall’azione della Chiesa, ma concludono, erroneamente, che la Chiesa accettò in qualche modo la schiavitù, benché moderata, mutata, corretta.
Una simile lettura storica nasce della incapacità del pensiero moderno, abituato alle rivoluzioni politiche, di intendere una “rivoluzione” religiosa.
Quando san Paolo o alcuni uomini di Chiesa invitavano i padroni a rispettare i loro schiavi, e gli schiavi ad obbedire ai loro padroni, questo non significa che riconoscessero, in qualche modo, la schiavitù, ma che perseguirono uno svuotamento dall’interno di questa istituzione, attraverso la trasformazione del cuore e della mente dei loro contemporanei.

Il primo atto di “abolizionismo” cristiano non fu la “lotta di classe” (da cui sono sorti solo gulag e schiavismo di Stato), bensì la proclamazione di una verità di fede, contenuta nella preghiera stessa di Cristo: il Padre Nostro. Se infatti siamo tutti figli dello stesso Padre, è giocoforza riconoscere la nostra uguaglianza dinnanzi a Lui. Per questo Marc Bloch nota giustamente che il solo sedere accanto, durante la liturgia divina, di padrone e schiavo cristiani, fu una rivoluzione culturale immensa. Lo schiavo, figlio anche lui del “Padre Nostro”, non era più da meno di una porta (Plutarco), neppure un mero instrumentum vocale (Catone), ma era, appunto nientemeno che figlio di Dio.
Così nella Lettera di Barnaba si poteva leggere: “Non comandare amaramente alla schiava o allo schiavo tuo che sperano nello stesso Dio, onde non ti avvenga di non temere Dio che è sopra te e sopra loro”; analogamente Lattanzio affermava che padroni e servi “sono pari” perché “fratelli”, mentre Clemente Alessandrino insegnava: “Gli schiavi debbonsi adoperare come noi adoperiamo noi stessi, giacché sono uomini come noi, e Dio è eguale per tutti, liberi e schiavi”. Dal canto suo Cirillo Alessandrino ricordava che “in Cristo Gesù non c’è né servo né libero”, mentre sulle iscrizioni funerarie cristiane se è raro il caso che venga espressa la condizione di liberto, non si è mai trovata quella di schiavo.
Come dimenticare, poi, che Cristo stesso morì sulla croce, cioè con la terribile pena destinata, allora, solamente agli schiavi?
Fu dalla visione teologica cristiana, dunque, che derivò il progressivo sgretolarsi dello schiavismo romano, che era sì già in crisi, ma non certo defunto; fu per questa stessa fede che Costantino vietò la crocifissione, i giochi gladiatorii negli stadi, dove gli schiavi venivano divorati dalle belve, il marchio a fuoco sugli schiavi stessi e la vendita dei bambini esposti.

Mentre l’imperatore legiferava, e i sinodi riconoscevano agli schiavi sempre più diritti -al matrimonio, all’asilo ecclesiastico, alla domenica libera, ecc.- Agostino, Ambrogio e tanti altri invitavano i cristiani ad affrancare i loro servi; ne riscattavo loro stessi, vendendo beni ecclesiastici; ammonivano a non utilizzare le serve, come avveniva nei tempi del paganesimo, come puri strumenti di piacere, a non arricchirsi a danno degli altri, a non disprezzare il lavoro manuale (sino ad allora prerogativa, appunto, degli schiavi); ricordavano i detti evangelici, così poco conformi alla mentalità schiavista pagana: “Guai a voi ricchi”; “Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli”…

Fu così che si sgretolò il sistema schiavistico antico, e che non solo si liberarono migliaia di schiavi, ma si introdusse l’idea stessa, del tutto nuova, secondo cui la schiavitù è una istituzione ingiusta, perché negatrice di una verità ontologica. Il cristianesimo non fu dunque un messaggio sociale, e solo poi religioso; non fu neppure la promessa di liberazione solo nell’aldilà, come scrisse Engels. Fu la proposta di una teologia che portò, con sé, inevitabilmente, un effetto sociale: la liberazione di molti dalla schiavitù del peccato fu anche, per molti altri, la liberazione dalla schiavitù fisica, perché è la prima che causa la seconda, e non viceversa.


pubblicato su Il Foglio



Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 22:44

Ambrogio e Teodosio.
Dalla commozione alla penitenza al rispetto delle pubbliche autorità


 


di Lorenzo Cappelletti


<I>Il perdono di Ambrogio a Teodosio</I>, Federico Barocci, Duomo di Milano

Il perdono di Ambrogio a Teodosio, Federico Barocci, Duomo di Milano

Nella mostra “Il potere e la grazia. I santi patroni d’Europa”, si è scelta, per celebrare sant’Ambrogio vescovo di Milano, una tela giovanile di Antoon van Dyck del 1619, dove un deciso sant’Ambrogio si para davanti a un implorante Teodosio, collocato più in basso, e lo respinge via dal Duomo di Milano. In realtà, che Ambrogio abbia sbarrato la strada all’imperatore Teodosio – notizia tramandata dalla biografia santambrosiana di Paolino, drammatizzata da Teodoreto di Ciro nella sua Storia ecclesiastica, ripresa fra gli altri da Gregorio VII e dalla Legenda aurea – è leggenda.

Quel che è storicamente sicuro è la penitenza a cui, dietro invito di sant’Ambrogio, Teodosio si assoggettò dopo la strage di Tessalonica, da lui ordinata d’impeto nel 390 come rappresaglia per l’assassinio di un ufficiale imperiale.

La tela secentesca di van Dyck riprende dunque la leggenda, accentuandone il carattere emblematico di contrapposizione di Chiesa e Stato attraverso lo schieramento di personaggi in vesti ecclesiastiche, a destra, che si para contro Teodosio e il suo seguito militare, a sinistra, da dove spunta, ad accompagnare questo gruppo, un cane col valore simbolico di rifiuto di Cristo (e forse con quello reale di citazione dell’invettiva «cane!» che Ambrogio, sempre secondo la leggenda, avrebbe rivolto a Rufino consigliere di Teodosio).
Anche nella recente fiction su Agostino proposta dalla Rai il 31 gennaio e il 1° febbraio scorsi, per quanto in modo piuttosto equilibrato, veniva comunque accentuata la contrapposizione tra Chiesa e Stato.

Si deve aggiungere che, a cavallo o in trono, Ambrogio, col passare dei secoli, a partire dall’epoca bassomedievale, sempre più viene presentato col flagello in mano come suo principale attributo iconografico. Basterebbe ricordare la quattrocentesca Pala conservata ad Avignone, ovvero la raffigurazione cinquecentesca del Figino, in Sant’Eustorgio a Milano, e, sempre a Milano, il contemporaneo Gonfalone cittadino del Castello Sforzesco. L’attributo rimanda all’intrepida difesa della fede trinitaria da lui operata contro gli ariani, ma anche a una sua prodigiosa apparizione “politico-religiosa” che avrebbe sbarrato l’ingresso in Milano alle truppe dell’imperatore Ludovico il Bavaro nella prima metà del XIV secolo.
Sant’Ambrogio appare così nell’immaginario come una sorta di matamoros (di mataalemanos, si dovrebbe dire, nel suo caso…) al pari di san Giacomo, a cui nella penisola iberica viene assegnato tale ruolo a partire dall’epoca della riscossa medievale contro l’islam.

Eppure sbaglierebbe chi pensasse ad Ambrogio come a un inflessibile fustigatore e al rapporto di Ambrogio con Teodosio come a quello di chi rivaleggia con l’autorità imperiale. Ambrogio proveniva dalle più alte magistrature pubbliche e aveva forte il senso dello Stato, tanto quanto sentiva il dovere della misericordia come sacerdote: «Non sempre bisogna infierire contro quelli che hanno peccato; spesso la clemenza giova di più: a te ad acquistare pazienza, e al peccatore a correggersi» (In Lucam 7, 27). Soprattutto non è un fustigatore delle autorità. Anzi afferma che non si debbano riprendere se non in casi gravissimi. «Guarda che i re non devono essere temerariamente attaccati dai profeti di Dio e dai sacerdoti se non ci sono peccati molto gravi di cui debbano essere accusati; laddove ci sono, allora non si deve scusare ma correggere con giusti rimproveri» (Commento al Salmo 37, 43).

È il caso del massacro di Tessalonica. Ma anche allora Ambrogio non cambia il suo atteggiamento di clemenza e di rispetto. Rileggiamo qualche brano della lettera che scrive a Teodosio nel 390 per esortarlo alla penitenza (l’Epistola 51 dell’edizione dei Maurini). «Ti scrivo non per umiliarti, ma perché gli esempi dei re ti spingano a cancellare dal tuo regno questo peccato. Lo cancellerai umiliando la tua anima davanti a Dio». Non è per un artificio retorico che Ambrogio opera questa inversione del soggetto agente, dopo aver citato la penitenza a cui per il suo peccato si sottopose David, l’impetuosa natura del quale gli evocava quella di Teodosio. Sua intenzione non è infatti umiliare l’imperatore, ma che egli si umili di fronte a Dio. Questo infatti non pregiudica la sua autorità. Come non è un artificio retorico (o meglio, non solo un artificio retorico, perché la parola ha ben i suoi diritti in Ambrogio) dire: «Non ho verso di te alcun motivo di ostilità, ho timore: non oso offrire il sacrificio se tu pretendessi assistervi». Dire cioè che non vuole trattenere Teodosio, quanto piuttosto che si sente trattenuto dal celebrare il santo sacrificio.

Dire questo significava infatti affermare l’indisponibilità del sacramento. Un sogno – già prima di Freud l’inconscio metteva sull’avviso: da san Giuseppe a san Pietro, da Costantino ad Ambrogio – gli confermò la necessità di trattenersi: «Non da un uomo né attraverso un uomo, ma direttamente mi è stata rivolta questa proibizione. Mentre infatti ero preoccupato, la stessa notte in cui mi preparavo a partire mi è sembrato che tu venissi in chiesa, ma a me non fu possibile offrire il sacrificio». La difesa allo stesso tempo del santo sacramento dell’altare, del peccatore e della penitenza si conclude con un accenno alla preghiera come all’offerta più umile e gradita: «Anche la semplice preghiera è un sacrificio: genera il perdono poiché contiene l’umiltà, laddove l’offerta genera lo sdegno perché contiene del disprezzo. Infatti Dio dice che preferisce che si osservino i suoi comandamenti più che l’offerta del sacrificio. Questo proclama Dio, questo Mosè annuncia al popolo, Paolo predica alle genti. Fa’ ciò che al momento capisci essere più gradito. “Preferisco”, dice Dio, “la misericordia al sacrificio”. Non sono forse più cristiani quelli che condannano il loro peccato di quelli che credono di doverlo giustificare?».


E se pure ci fossero peccati che non possono essere lavati con le lacrime del proprio pentimento – scriverà in altra occasione Ambrogio – «piangerà per te la madre Chiesa, che interviene per ciascuno come una madre vedova per il figlio unico. Essa infatti prova compassione, per una specie di connaturato spirituale dolore, quando vede i suoi figli avviarsi alla morte per dei vizi mortali» (In Lucam 5, 92).
Sembra di risentire Giussani, quando commosso parlava così di frequente della madre vedova del Vangelo di Luca. Ma vengono in mente anche alcuni accenti accorati di Paolo VI che da arcivescovo di Milano tratteggiò mirabilmente la facilità di Ambrogio alle lacrime (omelia del 7 dicembre 1959). E vengono in mente le ancor più recenti parole, tradizionali e originali a un tempo, del papa Benedetto sulla penitenza nel Discorso alla Curia del 21 dicembre scorso.

Il modo di sentire di Ambrogio, compassionevole e rispettoso sia del sacramento sia dell’autorità politica, che vale con ragioni propriamente di fede nei confronti di Teodosio imperatore cattolico, vale però mutatis mutandis anche nei confronti degli imperatori fautori dell’arianesimo.
<I>Sant’Ambrogio alla Battaglia di Milano</I>, Maestro della Pala Sforzesca, Musée du Petit Palais, Avignone

Sant’Ambrogio alla Battaglia di Milano, Maestro della Pala Sforzesca, Musée du Petit Palais, Avignone

Nell’aspra contesa di qualche anno prima (fra il 385 e il 386) per le basiliche milanesi, qualcuna delle quali l’imperatrice madre Giustina rivendicava appunto per gli ariani, Ambrogio, anche se afferma di essere disposto a versare il proprio sangue per evitare che si sparga quello di altri, manifesta lo stesso rispetto per l’autorità costituita, non si atteggia a ribelle. «Non so rispondere con la forza. Contro le armi, contro i soldati, anche contro i Goti, le armi sono le mie lacrime: queste sono le difese di un sacerdote; in altro modo non posso né debbo opporre resistenza».

Così all’inizio del cosiddetto
Sermo contra Aussentium (l’Epistola 21A dell’edizione dei Maurini). Così nel resoconto che fa all’amata sorella Marcellina (l’Epistola 20 dell’edizione dei Maurini) della sua predica in basilica mentre si trovava lì rinchiuso insieme ai suoi fedeli: «Preghiamo, o Augusto, non combattiamo; non abbiamo paura, preghiamo. Questo è ciò che si addice ai cristiani: desiderare la tranquillità della pace senza mettere in discussione nemmeno a rischio della morte la perseveranza nella fede e nella verità. A proteggerci infatti è il Signore che salverà quelli che sperano in lui».

Salvezza che sembra allontanarsi quando a un certo punto – racconta nella medesima lettera – giunge un ufficiale imperiale ad accusarlo di
tyrannis, cioè di voler esautorare l’imperatore (la più minacciosa delle accuse). In realtà «Cristo fuggì per non diventare re», risponde Ambrogio. Ambrogio non è un donatista sovversivo né è da assimilare al dogmatismo oltranzista dei luciferiani che si vantavano di avere solo Cristo come «imperatore» (cfr. H. Rahner, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo, p. 59).


Eppure Ambrogio afferma di coltivare una sua forma di tirannide: «La tirannide del sacerdote è la debolezza. Quando sono debole, dice Paolo, allora sono potente». Paradossale quanto si vuole, questa debolezza è davvero potente. Infatti i bambini «nei loro giochi», continua Ambrogio nella stessa lettera alla sorella, «mentre per noi tutto quel giorno era trascorso nell’angoscia, avevano strappato le cortine», ovvero l’apparato previsto in basilica per la presenza imperiale e dunque per l’occupazione di essa da parte degli ariani. In effetti, quel gesto spensierato era profetico. O forse addirittura, unito alle preghiere e alla spontanea pressione dei fedeli, era stato qualcosa di più.

Aveva propriamente indotto a un ripensamento l’imperatore. Il giorno seguente, infatti, il giovedì santo del 386, «il giorno nel quale il Signore consegnò sé stesso per noi», giunge l’ordine che termini l’assedio militare alle basiliche. Per la gioia innanzitutto degli stessi soldati, che «a gara riferivano la notizia e correndo verso gli altari li baciavano in segno di pace». È quanto Ambrogio aveva sperato contro ogni speranza commentando, durante l’angoscioso assedio, il versetto d’esordio del Salmo 78: «Venerunt gentes in hereditatem tuam» (i pagani sono entrati, o Dio, nella tua eredità). «Quelli che erano entrati per impossessarsi della eredità, sono diventati eredi di Dio. Ho come difensori quelli che credevo nemici, ho come alleati quelli che ritenevo avversari. Si è compiuto quello che il profeta David profetizzò del Signore Gesù: “La sua dimora è nella pace” e “Spezzò la forza degli archi, lo scudo, la spada, la guerra”. Di chi è questo dono, di chi è quest’opera se non tua, Signore Gesù? Mi stava davanti agli occhi la morte, ma perché non si commettesse qualche gesto di follia ti sei posto frammezzo, Signore, e di due hai fatto una sola cosa. […] Ti siano rese grazie perciò, o Cristo. Non un ambasciatore, non un messo ma tu, Signore, hai salvato il tuo popolo, “hai stracciato il sacco e mi hai cinto di allegrezza”».



Attenti a scherzare coi santi… e anche cogli infanti. Ex ore infantium et lactentium perfecisti laudem propter inimicos tuos, ut destruas inimicum et ultorem.

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