I SETTE SACRAMENTI IN BRICIOLE

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(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:43
I sette Sacramenti: IL BATTESIMO

 

Un giorno un signore andò dal proprio parroco e gli disse: "Non sono convinto di voler battezzare mio figlio; non sarebbe meglio chiedere il suo parere quando sarà grande?". Il parroco rispose: "Ha chiesto il suo parere prima di dargli la vita del corpo?" "No". "E perché teme di dargli quella dello spirito?"

Gesù fu piuttosto esigente per quanto riguardava il Battesimo: "In verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio" (Gv 3,5). Fu Gesù stesso a chiedere che il Battesimo fosse portato "in tutte le nazioni" (Mt 28,19). E nel Catechismo leggiamo il perché: "Mediante il Battesimo siamo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio" (CCC 1213) laddove il termine "rigenerati" significa "generati di nuovo". Si diventa "figli nel Figlio". Chi è battezzato "rinasce dall'alto" (Gv 3,3), da legno secco diventa legno vivo, innestato nella vite di Cristo che gli infonde la linfa soprannaturale. Il Santo Battesimo modifica l'origine dell'uomo, lo rende originato da Dio. La filosofia continua a chiedersi da dove veniamo, la Fede risponde a questa domanda modificando la provenienza di chi se la pone. Trasforma la natura dell'essere umano, lo divinizza, ne muta in sostanza la connotazione ontologica. E questo avviene così profondamente che l'io non se ne accorge, perché tutto accade a livelli assai più profondi di quelli del pensiero. Anzi, rimangono nel battezzato le conseguenze temporali del peccato, quali le sofferenze, le malattie, la morte, o le fragilità inerenti alla vita come le debolezze del carattere, ed anche un'inclinazione al peccato che la Tradizione chiama concupiscenza (CCC 1264). Ma quest'ultima, lasciata per la prova, non può nuocere quelli che non vi acconsentono o vi si oppongono. Il Santo Battesimo ci viene incontro cancellando la colpa derivata dal peccato originale e restituendo all'anima lo stato di grazia, simboleggiato dalla veste bianca che viene consegnata al battezzato. Anticamente il rito del Battesimo si svolgeva durante la notte di Pasqua, affinché il catecumeno (in genere adulto) potesse far morire l'uomo vecchio immergendolo (baptizein in greco significa immergere) nella morte di Cristo: ci si seppelliva con Lui per poi risorgere con Lui. I tre gradini a scendere di cui era provvisto il bordo della vasca battesimale indicavano i tre giorni della Passione; prima di farli il catecumeno si voltava un'ultima volta verso ovest e rinunciava a Satana sputando verso le tenebre (sacra sputatio); poi si girava (conversione) verso la luce dell'alba, e cioè verso oriente (da orior, sorgere/nascere, ove il Sole è simbolo del Cristo Risorto) e si immergeva integralmente nell'acqua con la sua veste bianca. I battisteri erano di forma ottagonale, a ricordo dell'ottavo giorno (il primo dopo la creazione) ma soprattutto in memoria della Risurrezione, compiutasi "il giorno dopo il sabato", che per gli ebrei era il settimo giorno. Rialzatosi e "rivestitosi di luce", professata col Credo la sua fede, il catecumeno era così diventato un "illuminato". San Giustino amava chiamare tale lavacro illuminazione "perché coloro che ricevono questo insegnamento [catechetico] vengono illuminati nella mente" (Apologiae, 1,61,12), in quanto hanno ricevuto il Verbo, la "Luce vera che illumina ogni uomo" (Gv 1,9), che li ha resi "figli della luce", "luce" essi stessi (Ef 5,8). Emerge qui il ruolo particolare dello Spirito Santo, di cui il battezzato diviene tabernacolo vivente. L'unzione con il sacro crisma significa appunto il dono dello Spirito Santo, tanto che nelle chiese orientali l'unzione post-battesimale costituisce già sacramento della Cresima, mentre nella liturgia romana questo crisma "annunzia" quella seconda unzione che verrà impartita dal Vescovo a conferma (Confermazione) della prima che viene così portata a compimento (CCC 1242). Questa partecipazione a Cristo (che è unto sacerdote, profeta e re) rende i cristiani Sue membra, "incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione".

 

La Terra era informe e deserta, e le tenebre ricoprivano l’abisso, e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1,2). Fin dall’inizio la colomba dello Spirito cercava la propria immagine nell’acqua che aveva creato. “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1), e in Eden fu posto l’uomo, sua immagine. Ma nell’uomo si riflette anche la libertà di Dio, e di conseguenza anche la libertà di sceglierlo come Padre. In verità, Dio era già “padre naturale” dell’uomo, ma nel suo amore non voleva che questa condizione non venisse scelta con consapevolezza, fatta propria come risposta a questo amore. Questa figliolanza non solo era un Suo diritto, ma era anche l’unica scelta ragionevole per l’uomo, se nella stessa Luce voleva vivere. Assenza di Dio poteva significare solamente assenza di Luce, e quindi tenebra. E poiché Dio è Bene perfetto e senza macchia, e non ama le mescolanze, “separò la luce dalle tenebre” (Gn 1,5). Ma “le tenebre ricoprivano l’abisso” (Gn 1,2), e pertanto scegliere le tenebre anziché la Luce, avrebbe certamente comportato la disperazione dell’abisso, la lontananza senza limiti. E così fu; una distanza incolmabile, che comportò non solo la perdita della figliolanza con Dio e della Sua immagine, ma anche una discendenza di peccato, perché chi nasce dalle tenebre vive nelle tenebre. Affinché questa discendenza si purificasse, nei giorni di Noè venne completamente immersa nell’acqua: “poche persone, otto in tutto, furono salvate. Figura, questa, del battesimo” (1Pt 3,20-21). Salvate dall’annunzio di una colomba, uscirono dalle acque, e dalla loro discendenza fu generato Abramo, che attraversò l’acqua del Giordano (Gn 32,11); la valle del Giordano “era un luogo irrigato da ogni parte” (Gn 13,10). Abramo seppe accettare il sacrificio del suo figlio per riacquistare la paternità di Dio, e i suoi figli, numerosi come le stelle cielo, costellarono la storia. Attraversarono anch’essi di nuovo le acque, sotto la guida di Mosè. “Sia il firmamento in mezzo alle acque, per separare le acque dalle acque” (Gn 1,6). E così, attraverso il Mar Rosso, si diressero verso la Terra Promessa, immagine dell’Eden perduto, dissetandosi dall’acqua che sgorgava dalla roccia nel deserto (Es 17,1-7). Fino ai giorni in cui, in quella stessa terra, il sacrificio trattenuto di Abramo fu portato a termine dal Padre, che avendo fermato la mano di Abramo, non fermò quella sull’Ultimo Agnello, come a voler dire: “Sarò Io a sacrificare mio figlio”. Anche Gesù, dopo aver attraversato il deserto, attraversò le acque del Giordano, e dinanzi al Battista ricevette la colomba dello Spirito. Giovanni aveva battezzato con acqua, invitando alla penitenza: era una preghiera penitenziale, non un sacramento, preparava il cuore dell’uomo, ma non toglieva i peccati. Per togliere i peccati era necessario il Cristo: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato dal mondo! Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele. ...Ho visto lo Spirito Santo scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo” (Gv 1,29-33). Questo stesso battesimo, ora sacramento, Gesù lo consegnò alla sua chiesa: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo” (Mt 28,19). Da allora, Egli ancora toglie i peccati dal mondo, ma lo fa tramite la sua Chiesa, roccia da cui sgorga l’acqua nel deserto. “Chi ha sete venga a Me e beva, chi crede in Me; come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,37-38). Il santo Battesimo non venne mai interrotto, perché chi non ne attraversa le acque non può salvarsi: “In verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5). E poiché questo sacramento proviene da Dio che è uno, anche il battesimo è uno solo. “Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo” (Gn 1,9). In esso siamo strappati dalle tenebre e restituiti alla luce. Tramite questo sacro segno il cristiano è invitato a far proprio l’invito del profeta Isaia: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te” (Is 60,1-2). Il battesimo rimette il tralcio, staccato dal peccato, nella sua vite che è Cristo. Da Lui, tramite l’immersione, il cristiano non solo riceve la vera vita, ma la trasmette agli altri: “Chi beve dell’acqua che Io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che Io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). Ecco perché, come il profeta, il credente grida al suo prossimo: “O voi tutti assetati venite all’acqua!” (Is 55,1). Egli sa che dall’acqua del costato di Cristo, come da una roccia, sgorga di nuovo la vita che si riproduce, e annuncia il miracolo operato dallo Spirito affinché di nuovo “le acque brulichino di esseri viventi” (Gn 1,20).

 

 

(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:44
I sette Sacramenti: LA CONFESSIONE

Ho letto da qualche parte: "La nostra salvezza in fondo dipenderà dal momento in cui Cristo ci chiamerà: se cinque minuti prima di una confessione o cinque minuti dopo". E' certo un'espressione paradossale, ma pone l'accento sull'importanza di un Sacramento solo apparentemente in calo: "Esiste uno zoccolo duro corrispondente circa al 30% degli italiani che continua a vivere questo sacramento con una certa assiduità, una volta al mese." (da Ambrosius, 3-4/2001).

La parola confessione deriva dal verbo latino confiteor, che racchiude in sé tre significati: 1) ammettere le proprie colpe (utilizzato anche in ambito penale); 2) fare confessione di fede (p.es. confiteri Christum); 3) rivelarsi (e qui si potrebbe dire: non solo il rivelarsi dell'uomo come peccatore, ma il rivelarsi di Cristo come perdono).

Gesù diceva di se stesso: "Il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati" (Mc 2,10), e infatti lo esercitava: "Ti sono rimessi i tuoi peccati!" (Lc 7,48). Sulla Croce Cristo versa il suo Sangue per espiare i peccati degli uomini, ed apparendo risorto agli apostoli dona alla sua Chiesa l'immenso potere del Perdono che scaturisce dalle sue piaghe e dal suo costato: "Mostrò loro le mani e il costato, e i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: 'Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi.' Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: 'Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi'." (Gv 20, 19-23).

L'apostolo Paolo aveva perfetta consapevolezza di questo mandato: "Tutto è da Dio, il quale ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della Riconciliazione; è stato Dio infatti a riconciliare con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe, e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: riconciliatevi con Dio!" (2Cor 5,18-20). La Chiesa cattolica chiama infatti questo ministero Sacramento della Riconciliazione. Ma la confessione ha anche altri nomi: S. della conversione (a prevenire ogni automatismo: il sacramento ha efficacia se l'uomo cambia davvero rotta), S. della Penitenza (il cristiano deve essere pentito, provare dolore per i peccati, promettere fedeltà, irrobustirsi con digiuni e buone opere), S. del Perdono (perché attraverso l'assoluzione il penitente sia convinto che è stato realmente perdonato, che anche le colpe più gravi, se sinceramente ravveduto, sono state cancellate, e pertanto può vivere in Pace). (Cfr. CCC 1423-1424).

Il sacramento della Confessione è un grandissimo dono: ha infatti il potere di conferire all'anima lo stato di Grazia. Abbiamo già avuto occasione di spiegare in che cosa consista questo particolare stato di partecipazione alla vita divina(cfr Il Timone N.6). In realtà esso viene già donato al Battesimo (cfr Il Timone N.17), ma a causa del peccato viene perduto, e questo comporta la necessità di ripristinarlo con la Riconciliazione sacramentale. La disperazione e l'angoscia che affliggono l'anima che vive nella colpa, vengono trasformate immediatamente in gioia e letizia. Nel Vangelo c'è una bellissima parabola che illustra questo ritorno a Dio, ed è quella del figlio prodigo (cfr Lc 15,11-32). In essa il figlio più giovane lasciò il padre per andare a condurre una vita di dissoluzione in "un paese lontano" (lo stato di dis-grazia); dopo aver perso tutti i suoi beni esteriori e interiori, ridotto in semi-schiavitù e in condizione di miseria spirituale, si ricordò di quanto era bello stare presso il padre (Dio), allora "rientrò in se stesso" (il ravvedimento) e "partì incamminandosi verso suo padre" (la conversione). Il racconto presenta tutti gli elementi necessari per la preparazione della confessione, dall'atteggiamento di umiltà ("non sono più degno d'essere chiamato tuo figlio") al riconoscimento delle proprie colpe tramite l'esame di coscienza ("ho peccato contro il Cielo e contro di te"). E l'amore di quel padre che perdona col suo abbraccio fece al figlio tre regali: un anello (simbolo della nuzialità restituita, della regalità spirituale), un paio di sandali (simbolo della riacquistata dignità a calpestare la sacra terra di Dio), una veste nuova (simbolo dell'anima purificata, richiamo della veste battesimale). E coloro che "hanno lavato le loro tuniche purificandole col Sangue dell'Agnello" (Ap 7,14) potranno stare "di fronte al trono di Dio".
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:44
I sette Sacramenti: L'EUCARISTIA





La vita di Gesù, fin dalla nascita, è contrassegnata dal pane. Betlemme, in ebraico, significa "Casa del pane". E, appena nato, Gesù viene riposto in una mangiatoia. Il tema del farsi cibo e del banchetto affiorano spesso nel vangelo. La vita pubblica del Messia inizia con un banchetto (le nozze di Cana, GV 2,1ss) e termina con un altro banchetto che pure potrebbe essere chiamato nuziale: l'ultima Cena, durante la quale Gesù stringe la sua Alleanza facendosi pane per noi.

Una prefigurazione dell'Eucaristia possiamo già vederla nei miracoli di moltiplicazione dei pani e dei pesci (che furono almeno due) ove "tutti mangiarono e furono saziati" (MT 14,20) ma, come dirà poi Gesù, "IO sono il pane della vita, chi viene a me non avrà più fame" (GV 6,35). Cristo sfama l'uomo tutto intero: corpo e spirito. L'uomo è sempre esistenzialmente smarrito riguardo alla sua fame: "Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?" (MT 15,33), ma Cristo risponde in modo totale, e non solo trasformandosi in pane, ma rendendo i suoi stessi discepoli dispensatori sia del pane materiale ("Dategli voi stessi da mangiare": MT 14,16) sia di quello spirituale ("Fate questo in memoria di me": LC 22,19). Tutto fu dato in abbondanza, ma tutto era prezioso: "Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto" (GV 6,12). E ci fu grande avanzo: nella prima moltiplicazione avanzarono 12 ceste di pane (MT 14,20), nella seconda 7 (MT 15,37). Sia il 12 (3X4) che il 7 (3+4) sono numeri simbolici che esprimono l'alleanza tra l'umano (rappresentato dal numero 4) e il divino (rappresentato abitualmente dal 3). Chi si nutre del Pane di Dio entra infatti nell'Alleanza sponsale tra l'uomo e Dio. Già nell'antica alleanza era stato donato, tramite Mosè, un pane celeste (la manna di ES 16,4), ma "non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, bensì il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo […], io sono il pane vivo, disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (GV 6,32-33; 6, 51). Nella stessa cena in cui Gesù istituì l'Eucaristia, i dodici apostoli (prefigurati dalle 12 ceste di pane) ricevettero il mandato a continuarne la celebrazione (MT 26,26ss; MC 14,22ss; LC 22,19ss), e, di apostolo in apostolo, ancora oggi la Chiesa celebra i Misteri eucaristici, durante i quali Cristo rinnova la sua eterna promessa compiendo ogni volta il miracolo della transustanziazione (che vuol semplicemente dire passaggio da una sostanza a un'altra sostanza); al momento della consacrazione, infatti, pane e vino sono modificati nella loro sostanza per diventare presenza reale di Cristo, anche se l'apparenza rimane quella del pane e del vino (salvo nei cosiddetti miracoli eucaristici, ove anche la vera sostanza si rende in parte visibile). Il pane eucaristico diventa dunque, durante la Messa, corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo (CCC 1373ss). Tutti i partecipanti divengono misticamente compresenti all'Ultima Cena, come nuovi invitati del Signore, e il sacrificio della Croce si rinnova, o meglio se ne diventa misteriosamente partecipi, come se il tempo intercorso non esistesse.

L'Eucaristia è chiamata anche Comunione perché nutrendosi del Cristo si diventa tutti, in Cristo, un solo corpo (il corpo mistico) e pertanto si è in comunione con tutti i fratelli così santificati, oltre che con la gloria stessa di Dio e dei suoi santi. Il cristiano che chiede umilmente al Padre "dacci oggi il nostro pane quotidiano" e si nutre di questo cibo degli angeli acquisisce forza e grazia per mantenersi nelle virtù e meglio affrontare il suo combattimento spirituale. Chi lo mangia non muore (GV 6,50) anzi riceve la Vita: "In verità vi dico, se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno… Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui… Colui che mangia di me vivrà per me…Chi mangia di questo pane vivrà in eterno" (GV 6,53-58). E nell'eternità ancor più ci ciberemo di Dio, perché, come disse il figlio prodigo "in casa di mio padre hanno pane in abbondanza" (LC 15,17).

(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:45
CRESIMA: Sacramento dello Spirito

Ciò che più ci stupisce dello Spirito Santo è l'inafferrabilità di un "tu" con cui entrare in relazione. Mentre in Gesù il "tu" assume un volto umano dai lineamenti visibili, nello Spirito Santo il "tu" sembra sottrarsi alla nostra comprensione; purissimamente divino com'è ci appare insondabile, infinito e senza contorni. Come entrare in relazione con una simile realtà? Credo che questo sia un interrogativo di molti cristiani, che spesso emarginano lo Spirito Santo escludendolo dalle loro preghiere, o riducendolo col pensiero a "cosa", "energia", "emanazione". L'articolo davanti (lo Spirito Santo) a volte induce a dimenticare che questo Paraclito è persona. Anzi, persona divina. Tuttavia la mancanza di una relazione di tipo ordinario con questa persona divina non è un difetto insito nella nostra fede, ma la modalità stessa con cui lo Spirito si rapporta con noi. Mi spiegherò meglio. Con l'incarnazione del Verbo si verifica nella storia il fatto più esaltante di tutti i tempi: Dio si fa uomo, si rende riconoscibile, cammina al nostro fianco. E' ciò che la Bibbia chiama l'Emmanuele, il Dio-con-noi. Con la discesa dello Spirito Santo (a partire dal giorno di Pentecoste e fino all'ultima cresima che celebriamo) la Chiesa passa dall'esperienza del Dio-con-noi a quella del Dio-in-noi. Vi manderò un Consolatore, promise Gesù (Gv 15,26), e la maggiore consolazione è che il dono di questo Spirito genera la presenza viva di Dio nel nostro cuore, portandoci al superamento del semplice rapporto dialogico che fino a quel momento avevamo con la divinità. Il "tu", infatti, per quanto nobile possa essere, rappresenta sempre un'alterità, la relazione con una presenza esterna al nostro io. Lo Spirito Santo, invece, quasi si fonde col nostro io, coabita coi nostri pensieri e li divinizza. La sua azione costruisce progressivamente il Dio-in-noi, modellandoci nel Cristo. La sua grazia ci conferisce i modi di sentire di Gesù, i suoi modi di pensare, di amare.

La caduta della relazione duale e la coabitazione di Dio all'interno del nostro stesso io è il più grande dono che ci può essere dato. Grazie a questa amorevole condivisione della natura divina smettiamo di collocare Dio all'esterno, di sentirlo "un altro", e quasi assaporiamo il misterioso significato dell'unione ipostatica fra le persone divine. Tre persone, ma un solo Dio.

Questo inestimabile dono è presentato dal nuovo Catechismo in tante bellissime pagine (in particolare ai numeri 683-741 per quanto riguarda lo Spirito Santo, e 1285-1314 per quanto riguarda la Cresima). Ma rimane evidente come le parole non possano mai racchiuderne tutto l'inesauribile mistero. Il cristiano che vive in santità è colto dalla vertigine solo a considerare alcuni dei Suoi modi d'agire, come quando Egli scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato, dona la virtù e la grazia, elargisce premi e consolazioni, procura salvezza del corpo e dello spirito, conferisce i sette santi doni, allinea la mente col cuore, combina la luce con l'amore, fa pregustare anticipazioni del Paradiso. Quale bellezza salverà il mondo se non questa?

Già nel Battesimo siamo stati immersi nello Spirito Santo, ma la necessità di una Confermazione emerge dalla stessa Sacra Scrittura: "Essi discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imposero loro le mani e quelli ricevettero lo Spirito Santo" (At 8,15-17). Si tratta quindi di due momenti sacramentali distinguibili, anche se nel cristianesimo orientale è prevalso l'uso di unificarli. Viceversa vi sono movimenti, anche all'interno della Chiesa, che pretendono di conferire due volte il dono del Battesimo o due volte quello dell'infusione dello Spirito Santo. In realtà ogni sacramento, una volta conferito, non può essere ridato, ma semmai se ne può risvegliare la consapevolezza. Come tutti i doni, infatti, c'è sempre il rischio che il sacramento venga col tempo accantonato come un pacco chiuso. Beato il cristiano che non solo lo sa aprire, ma ne sa attingere tutte le ricchezze che scaturiscono dalla profondità del cuore di Dio.
 
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:45

IL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO

La Sacra Scrittura si apre con la creazione dell'uomo e della donna ad immagine e somiglianza di Dio e si chiude con la visione delle nozze dell'Agnello (Ap 19,7.9). La missione terrena di Gesù si apre col matrimonio di Cana e si chiude con le nozze tra Cristo e la Chiesa nell'alleanza eucaristica.

Nella Bibbia, l'unione sigillata da Dio tra l'uomo e la donna è dunque segno dell'unione amorosa tra Dio e l'umanità. Nel cristianesimo antico la forma della celebrazione già richiamava questo concetto col disporre che le nozze avvenissero "al cospetto della Chiesa". Sappiamo che i sinodi più antichi e i primi papi, sulle orme di Cristo e di Paolo, già emanavano prescrizioni riguardo al matrimonio; per esempio S. Callisto, eletto nel 217, rifiutava le unioni dei divorziati, ammesse dall'autorità civile. Gli antichi padri parlano di uno stato matrimoniale apportatore di grazia per mezzo di Cristo. Vi era quindi fin dall'inizio consapevolezza della sacramentalità del matrimonio, tant'è che esso è incluso tra i sette sacramenti perfino nelle chiese orientali, che già molto presto si erano separate dalla Chiesa romana (alcune fin dal IV secolo). Il Concilio Vaticano II ricorda che "Dio stesso è l'autore del matrimonio" (Gaudium et spes, 48). Il sacramento che la Chiesa da duemila anni celebra unisce dunque i coniugi in Dio: per questo tale unione viene definita indissolubile, in quanto la sostanza dell'unione è Dio stesso, e Dio non può "venire sciolto". Nemmeno la somma autorità della Chiesa, cui Cristo ha donato ogni potere di aprire e chiudere, può annullare il sacramento del matrimonio. "Tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli", disse Cristo a Pietro (Mt 16, 19); ma è significativo notare che né Pietro né alcuno dei 264 successori al soglio pontificio si servirono mai di questo potente mandato per sciogliere un solo matrimonio, anche a costo di tremende conseguenze (come accadde con lo scisma anglicano, quando il papa negò ad Enrico VIII lo scioglimento del suo matrimonio). Erroneamente taluni attribuiscono questa facoltà al tribunale ecclesiastico della Sacra Rota, che invece si limita, se interpellato, a verificare la nullità del sacramento, cioè ad accertare se particolari situazioni di costrizione od impedimenti relativi alla legge naturale od ecclesiastica abbiano compromesso la libertà del consenso; come ogni sacramento, infatti, la libertà dell'uomo è prerogativa indispensabile: se si scopre che questa era assente o viziata, il sacramento risulta mai avvenuto, nonostante le apparenze. Ma se la libertà è stata pienamente esercitata "quello che Dio ha unito l'uomo non divida" perché gli sposi "non sono più due ma una carne sola" (Mt 19,6). Il di due laici battezzati è dunque più potente d'ogni potere, perché è un sì all'amore definitivo di Dio. Sono gli sposi, infatti, a celebrare il sacramento del matrimonio. Accogliendo Dio come fondamento e sostanza del loro amore, elevano la propria unione all'ambito soprannaturale, cui la Grazia promette ogni assistenza. Dal punto di vista terreno l'amore umano può anche terminare, ma dal punto di vista divino "quando il vino termina Dio lo ricrea". Le crisi della coppia sono, in questa luce, viste non come indebolimenti dell'unione ma come prove da cui, con la preghiera, se ne può uscire rafforzati. Anche ostacoli apparentemente elevatissimi sono sfide ad innalzare l'amore in modo elevatissimo. Tuttavia il matrimonio cristiano non va presentato solo all'interno di una dimensione della gioia: vi è anche un'inevitabile dimensione della croce. Talvolta la pastorale matrimoniale tende a sottolineare molto la prima e poco la seconda; ma se si prescinde dalla teologia della croce si rischia di privare del senso esistenziale tutte quelle unioni che, senza volontà o colpa, si sono trasformate in dolore (p.es. per morte o abbandono del coniuge, infedeltà, prevaricazione,…). Spesso, in questi casi, l'unica risorsa per il coniuge cristiano e fedele è la Croce di Cristo. Ma anche in tutti gli altri casi va ricordato che l'amore è sempre esposizione all'altro della propria vulnerabilità, e si è crocifissi di più proprio da chi più amiamo. Del resto il fine del matrimonio, più che la felicità terrena, è la realizzazione del Regno. E il Regno gli sposi lo costruiscono o con la loro missionarietà amorosa, l'apertura alla vita, l'educazione cristiana dei figli, o col silenzioso abbandono ai piedi della croce, offrendo a Dio i propri dolori e rimanendo al proprio posto nonostante tutto. Gloria e martirio sono infatti i due volti complementari con cui l'Amore si affaccia nella storia degli uomini, perché siano condotti dall'Agnello al trionfo delle nozze celesti.

(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:45

ORDINE: sacramento della Successione

Di Stefano Biavaschi

Il sacramento dell'Ordine è l'anello di congiunzione tra Cristo e la Chiesa di oggi. Gesù diede l'investitura ai primi dodici apostoli, ma lo Spirito Santo che Egli fece scendere su di loro conferì anche la facoltà di nominare essi stessi altri apostoli (un esempio di questo lo vediamo già con la sostituzione di Giuda: At 1,15-26). Inizia quindi quella catena della successione apostolica a cui il sacramento dell'Ordine aggiunge di volta in volta altri anelli fino agli attuali vescovi (e sacerdoti) presenti nel mondo. Senza questo sacramento la Chiesa cesserebbe di essere apostolica, o addirittura non esisterebbe: al massimo resterebbe una grande assemblea di credenti che tramite il Battesimo si tramanda la fede, ma, priva di magistero e di tradizione conciliare, rischierebbe di estinguersi presto, o di scivolare facilmente nell'errore (come capitò a chi di questo sacramento tentò di fare a meno).

Per fortuna la Chiesa fin dagli inizi ebbe piena coscienza del suo mandato. Clemente Romano già nell'anno 96 scriveva: "Cristo proviene da Dio, gli apostoli da Cristo e i vescovi discendono dagli apostoli". Abbiamo già parlato della successione apostolica (cfr Il Timone N.14), per cui ci limitiamo a ricordare una frase di Ireneo scritta verso il 200 d.C.: "Mediante la successione apostolica è giunta a noi la verità, e la tradizione apostolica è stata resa nota a tutto il mondo. Basta attenersi a loro (i vescovi), in tutto il mondo, se si vuole vedere la verità. Noi infatti possiamo elencare i vescovi che sono stati istituiti dagli apostoli e dai loro successori fino ai giorni nostri" (Adversus Haereses III,3,1). Nel primo Concilio di Nicea (325) e nel primo di Costantinopoli (381) si disciplina con cura il sacramento dell'Ordine: alcuni canoni ne illustrano la relazione col celibato, altri con la giurisdizione territoriale. L'ordinazione si presenta fin dall'inizio amministrata in tre gradi: episcopato, presbiterato, e diaconato. Vescovi, sacerdoti e diaconi possono ricevere questo sacramento solo dai vescovi, che lo impartiscono mediante la preghiera consacratoria e l'imposizione delle mani. (Scriveva San Paolo a Timoteo: "Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani").

Ma quali effetti comporta questo sacro segno in chi lo riceve? Innanzi tutto una particolare configurazione a Cristo Sacerdote, operata dalla Grazia dello Spirito Santo. Inoltre l'inserimento in un "ordo" (da cui la parola "ordine") che è il corpo costituito della Chiesa apostolica: chi riceve l'ordinatio gode dello stesso mandato degli apostoli e ne riceve l'investitura. L'ordinazione, che non è un "diritto", ma un dono immeritato, abilita ad essere rappresentanti di Cristo. Il Catechismo illustra bene i legami col ministero della Parola, del Culto, della Liturgia, oppure della Carità (CCC 1533-1589). La grande responsabilità di essere divenuti prolungamento dell'azione salvifica di Dio e della funzione sacerdotale di Gesù, comporta la necessità che il chiamato corrisponda col massimo sforzo di santità. Scriveva il santo Curato d'Ars: "E' il sacerdote che continua l'opera di redenzione sulla terra… Se si comprendesse bene questo si morrebbe d'amore… Il Sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù".

(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:46

L'Unzione degli Infermi

di Stefano Biavaschi

"La malattia e il dolore sono sempre stati tra i massimi problemi dell'umanità. La malattia è più che una transitoria perturbazione della salute. E' un evento umano complessivo, corporeo-spirituale, che riguarda l'uomo in profondità": così il Catechismo Cattolico degli Adulti (Ed. Paoline) affronta il settimo Sacramento della Chiesa Cattolica: l'Unzione degli infermi. E aggiunge: "Nella malattia l'uomo sperimenta la sua impotenza, limitatezza e finitezza. Viene strappato alla vita normale, condannato all'inattività e avverte allora che la nostra vita non è nelle nostre mani".

E il Catechismo della Chiesa Cattolica (Ed. Vaticana) sottolinea: "La malattia può condurre all'angoscia, al ripiegamento su di sé, talvolta persino alla disperazione e alla ribellione contro Dio. Ma essa può anche rendere la persona più matura, aiutarla a discernere nella propria vita ciò che non è essenziale per volgersi verso ciò che lo è. Molto spesso la malattia provoca una ricerca di Dio, un ritorno a Lui" (ccc 1501).

L'Unzione degli infermi, in quanto sacramento, è strumento di redenzione, e dinanzi a queste situazioni di dolore persegue la salvezza, ma la salvezza di tutto l'uomo. E' incontro efficace col Cristo, e, in particolare, con Cristo Medico. I Vangeli raccontano che Gesù ha operato moltissime guarigioni, tanto che spesso i malati cercavano di toccarlo "perché da Lui usciva una forza che sanava tutti" (Lc 6,19). Così, nei sacramenti, Cristo continua a "toccarci" per guarirci. "Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie" (Mt 8,17). La sua guarigione è rivolta innanzitutto allo spirito, e infatti ai malati chiedeva di credere. Come segno di questa guarigione interiore operava spesso anche quella fisica, e ordinò agli apostoli di imitarlo guarendo i malati (cfr Mt 10,8). E i dodici, "partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano" (Mc 6,12-13). Nella tradizione liturgica sia orientale che occidentale si hanno fin dall'antichità testimonianze di unzioni di infermi praticate con olio benedetto. Il Concilio di Firenze del 1431-45, elencando per gli Armeni i sette sacramenti, dice: "L'estrema unzione ci guarisce spiritualmente e anche corporalmente, come più giova all'anima" (Denz., FI, VIII, Bolla di unione degli Armeni).

Il Concilio Vaticano II, nel 1963, corresse la tendenza a collocare questo sacramento solo in punto di morte (cfr SC 73), e nella stessa linea si mosse pure Paolo VI con la Costituzione apostolica Sacram Unctionem Infirmorum scritta nel '72. Il Catechismo precisa ulteriormente: "Se un ammalato che ha ricevuto l'Unzione riacquista la salute, può, in caso di un'altra grave malattia, ricevere nuovamente questo sacramento. Nel corso della stessa malattia il sacramento può essere ripetuto se si verifica un peggioramento. E' opportuno ricevere l'unzione degli infermi prima di un intervento chirurgico rischioso. Lo stesso vale per le persone anziane la cui debolezza si accentua" (ccc 1515).

Tuttavia "neppure le preghiere più intense ottengono la guarigione di tutte le malattie" (ccc 1508). Non è quindi fondato ritenere che la mancanza di preghiera (o di "preghiera insistente") sia l'unica causa di una mancata guarigione. Dio non è il servitore dei nostri desideri. Anche ai santi ha talvolta negato delle grazie. A San Paolo rispose: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza si manifesta infatti pienamente nella debolezza" (2Cor 12,9). E l'Apostolo apprese così bene la lezione da arrivare a dire: "Io completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa" (Col 1,24): è la figura del cristiano che non si premura tanto di chiedere guarigioni per il proprio corpo quanto di guarire il corpo di Cristo che è la chiesa. E' qui che si ha l'uomo perfettamente guarito.

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