I grandi delusi da Papa Benedetto XVI e... dal concilio....

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Caterina63
00venerdì 19 febbraio 2016 09:45
  Tenendo a mente in questo link una serie di approfondimenti per comprendere una certa pericolosità dottrinale di questo pontificato, inseriamo qui una serie di articoli di Sandro Magister che, già nel 2011 collezionava una serie di interventi a tti a spiegare una certa e giustificata insofferenza nei confronti di pontificati deboli e consolidanti una certa apostasia ecclesiale a causa dei loro "silenzi" su temi dottrinali....



Un "grande deluso" rompe il silenzio. Con un appello al papa

I mali della Chiesa e la "via soprannaturale" per guarirli, in un manifesto choc scritto da Enrico M. Radaelli, filosofo dell'estetica e paladino della Tradizione. Tredicesima puntata di una discussione tutt'altro che conclusa. In un POST SCRIPTUM le repliche di Arzillo e Cavalcoli 

di Sandro Magister




ROMA, 16 giugno 2011 – Tra i "grandi delusi" da papa Benedetto XVI, citati in un servizio di www.chiesa di due mesi fa, ce n'è uno che non ha fin qui parlato.

Quel servizio ha dato il via, infatti, a una dotta e appassionata discussione sul magistero della Chiesa, se possa o no cambiare il proprio insegnamento, e come, con particolare riferimento alle svolte del Concilio Vaticano II. Discussione nella quale sono intervenuti studiosi di diverse tendenze.

Non però, fino ad oggi, il professor Enrico Maria Radaelli, filosofo dell'estetica, discepolo di colui che è stato uno dei più grandi pensatori tradizionalisti del Novecento, lo svizzero Romano Amerio (1905-1997).

Radaelli, a giudicare soprattutto dal suo ultimo libro, "La bellezza che ci salva", è sicuramente uno dei più "delusi" dal magistero dei papi del Concilio e del dopoconcilio, compreso l'attuale.

A questi papi e alla gerarchia cattolica nel suo insieme, egli imputa di aver abdicato da un esercizio pieno del magistero, fatto di chiare definizioni e condanne, in nome di una vaga "pastorale" che avrebbe lasciato libero campo a confusione ed errori.

Questa delusione non vieta tuttavia a Radaelli di continuare a sperare in un ritorno della Chiesa alla pienezza del suo "munus docendi", per merito in primo luogo proprio di papa Joseph Ratzinger.

Nello scritto riprodotto più sotto – con il quale rompe il suo silenzio nella disputa – Radaelli condensa sia la sua diagnosi dei mali della Chiesa d'oggi, sia la "via soprannaturale" che li può sanare, con una precisa proposta fatta al "Trono più alto", cioè al papa.

È una proposta che egli definisce insieme "di Tradizione e di audacia" e che farà entrare d'ora in avanti nel suo libro "La bellezza che salva", come sua integrazione essenziale.

A questo libro www.chiesa  ha dedicato il seguente servizio:

> Solo la bellezza ci salverà (6.6.2011)

Ma prima di lasciare la parola a Radaelli, è utile riepilogare tutte le precedenti puntate della discussione, nella quale sono intervenuti a più riprese Francesco Arzillo, Francesco Agnoli, Inos Biffi, Agostino Marchetto, Martin Rhonheimer, Roberto de Mattei, David Werling, Giovanni Cavalcoli, Masssimo Introvigne, Basile Valuet, Stefano Ceccanti, Alessandro Martinetti, Giovanni Onofrio Zagloba.

Nell'ordine, su www.chiesa:

> I grandi delusi da papa Benedetto (8.4.2011)

> I delusi hanno parlato. Il Vaticano risponde (18.4.2011)

> Chi tradisce la tradizione. La grande disputa (28.4.2011)

> La Chiesa è infallibile, ma il Vaticano II no (5.5.2011)

> Benedetto XVI "riformista". La parola alla difesa
 (11.5.2011)


> Libertà religiosa. La Chiesa era nel giusto anche quando la condannava?(26.5.2011)

E ancora, nel blog SETTIMO CIELO che fa da corredo a www.chiesa:

> Francesco Agnoli: il funesto ottimismo del Vaticano II
 (8.4.2011)


> La Chiesa può cambiare la sua dottrina? La parola a Ceccanti e a Kasper
(29.5.2011)


> Ancora su Stato e Chiesa. Dom Valuet risponde a Ceccanti (30.5.2011)

> Padre Cavalcoli scrive da Bologna. E chiama in causa i "bolognesi"(31.5.2011)

> Può la Chiesa cambiare dottrina? Il professor "Zagloba" risponde (6.6.2011)

> Tra le novità del Concilio ce n'è qualcuna infallibile? San Domenico dice di sì
(8.6.2011)


Fatti i conti, questa è la tredicesima puntata di una discussione tutt'altro che conclusa.

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Caterina63
00venerdì 19 febbraio 2016 09:46
  Una proposta per i cinquant'anni del Vaticano II

LA VIA SOPRANNATURALE PER RIPORTARE PACE TRA PRIMA E DOPO IL CONCILIO

di Enrico Maria Radaelli



La discussione che si sta svolgendo sul sito internet di Sandro Magister tra scuole di diverse e opposte posizioni riguardo a riconoscere nel Concilio ecumenico Vaticano II continuità o discontinuità con la Tradizione, oltre che chiamarmi in causa direttamente fin dalle prime battute, tocca da vicino alcune pagine preliminari del mio recente libro "La bellezza che ci salva".

Il fatto di gran lunga più significativo del saggio è la comprovata identificazione delle “origini della bellezza” con quelle quattro qualità sostanziali – vero, uno, buono, bello – che san Tommaso d'Aquino dice essere i nomi dell’Unigenito di Dio: identificazione che dovrebbe chiarire una volta per tutte il fondamentale e non più eludibile legame che un concetto ha con la sua espressione, vale a dire il linguaggio con la dottrina che lo utilizza.

Mi pare doveroso intervenire e fare così alcuni chiarimenti per chi vuole ricostruire quella "Città della bellezza" che è la Chiesa e riprendere così l’unica strada (questa è la tesi del mio saggio) che può portarci alla felicità eterna, che ci può cioè salvare.

Completerò il mio intervento con il suggerimento della richiesta che meriterebbe essere fatta al Santo Padre affinché, ricordando con monsignor Brunero Gherardini  che nel 2015 cadrà il cinquantesimo anniversario del Concilio (cfr. "Divinitas", 2011, 2, p. 188), la Chiesa tutta approfitti di tale straordinario evento per ripristinare la pienezza di quel "munus docendi", di quel magistero, sospeso cinquant’anni fa.
    
Riguardo al tema in discussione, la questione è stata ben riassunta dal teologo domenicano Giovanni Cavalcoli: "Il nodo del dibattito è qui. Siamo infatti tutti d’accordo che le dottrine già definite [dal magistero dogmatico della Chiesa pregressa] presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio".
    
Il domenicano si avvede infatti che la necessità è di "rispondere affermativamente a questo quesito, perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il papa?". E non potendo fare, come ovvio, le affermazioni che pur vorrebbe fare, padre Cavalcoli le gira nelle domande opposte, cui qui darò la risposta che avrebbero se si seguisse la logica "aletica", veritativa, insegnataci dalla filosofia.


Prima domanda: È ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso?



Caro padre Cavalcoli, lei per la verità avrebbe tanto voluto dire: "Non è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso". Invece la risposta è: sì, lo sviluppo può essere falso, perché una premessa vera non porta necessariamente a una conclusione vera, ma può portare pure a una o più conclusioni false, tant’è che in tutti i Concili del mondo – persino nei dogmatici – si confrontarono le più contrastanti posizioni proprio a motivo di tale possibilità. Per avere lo sperato sviluppo di continuità delle verità rivelate per grazia non basta essere teologi, vescovi, cardinali o papi, ma è necessario richiedere l’assistenza speciale, divina, data dallo Spirito Santo solo a quei Concili che, dichiarati alla loro apertura solennemente e indiscutibilmente a carattere dogmatico, tale divina assistenza se la sono garantita formalmente. In tali soprannaturali casi avviene che lo sviluppo dato alla dottrina soprannaturale risulterà garantito come veritiero tanto quanto sono già state divinamente garantite come veritiere le sue premesse. 
    
Ciò non è avvenuto all’ultimo Concilio, dichiarato formalmente a carattere squisitamente pastorale almeno tre volte: alla sua apertura, che è quel che conta, poi all’apertura della seconda sessione e per ultimo in chiusura; sicché in tale assemblea da premesse vere si è potuti giungere a volte anche a conclusioni almeno opinabili (a conclusioni che, canonicamente parlando, rientrano nel III grado di costrizione magisteriale, quello che, trattando di temi a carattere morale, pastorale o giuridico, richiede unicamente "religioso ossequio") se non "addirittura errate", come riconosce anche padre Cavalcoli contraddicendo la sua tesi portante, "e comunque non infallibili", e che dunque "possono essere anche mutate", sicché, anche se disgraziatamente non vincolano formalmente, ma "solo" moralmente il pastore che le insegna anche nei casi siano di incerta fattura, provvidenzialmente non sono affatto vincolanti obbligatoriamente l’obbedienza del fedele. 
    
D'altronde, se a gradi diversi di magistero non si fanno corrispondere gradi diversi di assenso del fedele non si capisce cosa ci stiano a fare i gradi diversi di magistero. I gradi diversi di magistero sono dovuti ai gradi diversi di prossimità di conoscenza che essi hanno con la realtà prima, con la realtà divina rivelata cui si riferiscono, ed è ovvio che le dottrine rivelate direttamente da Dio pretendono un ossequio totalmente obbligante (I grado), tali come le dottrine loro connesse se presentate attraverso definizioni dogmatiche o atti definitivi (II grado). Sia le prime che le seconde si distinguono da quelle altre dottrine che, non potendo appartenere al primo gruppo, potranno essere annoverate al secondo solo allorquando si sarà appurata con argomenti plurimi, prudenti, chiari e irrefutabili la loro connessione intima, diretta ed evidente con esso nel rispetto più pieno del principio di Vincenzo di Lérins ("quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est"), garantendo così al fedele di trovarsi anch’esse dinanzi alla conoscenza più prossima di Dio. Tutto ciò, come si può capire, si può ottenere soltanto nell’esercizio più consapevole, voluto e implorato dalla e sulla Chiesa del "munus", del magistero dogmatico.

La differenza tra le dottrine di I e II grado e quelle di III è data dal carattere certamente soprannaturale delle prime, che invece nel terzo gruppo non è garantito: forse c’è, ma forse anche non c’è. Quel che va colto è che il "munus" dogmatico è: 1) un dono divino, dunque 2) un dono da richiedere espressamente e 3) un dono la cui non richiesta non offre poi alcuna garanzia di assoluta verità, mancanza di garanzia che sgancia il magistero da ogni obbligo di esattezza e i fedeli da ogni obbligo di obbedienza, pur richiedendo loro religioso ossequio. Nel III grado potrebbero trovarsi indicazioni e congetture di ceppo naturalistico, e il vaglio per verificare se, depuratele da tali eventuali anche microbiche infestazioni, è possibile un loro innalzamento al grado soprannaturale può compiersi solo ponendole a confronto col fuoco dogmatico: la paglia brucerà, ma il ferro divino, se c’è, risplenderà certo in tutto il suo fulgore.

È ciò che è successo alle dottrine dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, oggi dogmi, articoli cioè di fede appartenenti oggi di diritto al secondo gruppo. Fino rispettivamente al 1854 e al 1950 esse appartennero al gruppo delle dottrine opinabili, al terzo, alle quali si doveva nient’altro che "religioso ossequio", pari pari a quelle dottrine novelle che, più avanti elencate qui in breve e sommario inventario, si affastelleranno nel più recente insegnamento della Chiesa dal 1962. Ma nel 1854 e nel 1950 il fuoco del dogma le circondò della sua divina e peculiare marchiatura, le avvampò, le vagliò, le impresse e infine in eterno le sigillò quali "ab initio" già erano nella loro più intima realtà: verità certissime e universalmente comprovate, dunque di diritto appartenenti al ceppo soprannaturale (il secondo) anche se fino allora non formalmente riconosciute sotto tale splendida veste. Felice riconoscimento, e qui si vuol appunto sottolineare che fu riconoscimento degli astanti, del papa in primo luogo, non affatto trasformazione del soggetto: come quando i critici d’arte, dopo averla esaminata sotto ogni punto di vista e indizio utili ad avvalorarla o smentirla – certificati di provenienza, di passaggi di proprietà, prove di pigmentazione, di velatura, pentimenti, radiografie e riflettografie – riconoscono in un quadro d’autore la sua più indiscutibile e palmare autenticità.

Quelle due dottrine si rivelarono entrambe di fattura divina, e della più pregiata. Se qualcuna dunque di quelle più recenti è della stessa altissima mano lo si riscontrerà pacificamente col più splendido dei mezzi.    


Seconda domanda: Può il nuovo campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico?



Ovviamente no, non può in alcun modo. Infatti dopo il Vaticano II non abbiamo alcun "nuovo campo dogmatico", come si esprime padre Cavalcoli, anche se molti vogliono far passare per tale le novità conciliari e postconciliari, pur essendo il Vaticano II un semplice se pur solenne e straordinario "campo pastorale". Nessuno dei documenti richiamati da dom Basile Valuet alla sua nota 5 dichiara un’autorevolezza del Concilio maggiore di quella da cui esso fu investito fin dall’inizio: nient’altro che una solenne e universale, cioè ecumenica, adunanza “pastorale” intenzionata a dare al mondo alcune indicazioni solo pastorali, rifiutandosi dichiaratamente e ostentatamente di definire dogmaticamente o di colpire d'anatema alcunché.

Tutti i maggiorenti neomodernisti o semplicemente novatori che dir si voglia i quali (come sottolinea il professor Roberto de Mattei nel suo "Il concilio Vaticano II. Una storia mai scritta") furono attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII – teologi, vescovi e cardinali della "théologie nouvelle" come Bea, Câmara, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito, Ratzinger; König col suo, Küng; Garrone col suo, Daniélou; Lercaro, Maximos IV, Montini, Suenens, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta scuola di Bologna: Dossetti, Alberigo e oggi Melloni – nello svolgimento del Vaticano II e dopo hanno cavalcato con ogni sorta di espedienti la rottura con le detestate dottrine pregresse sullo stesso presupposto, equivocando cioè sull'indubbia solennità della straordinaria adunanza; per cui si ha che tutti costoro compirono di fatto rottura e discontinuità proclamando a parole saldezza e continuità. Che vi sia poi da parte loro e poi universalmente oggi desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile almeno: 1) dal più distruttivo scempio perpetrato sulle magnificenze degli altari antichi; 2) dall’egualmente universale odierno rifiuto di tutti i vescovi del mondo tranne pochissimi a dare il minimo spazio al rito tridentino o gregoriano della messa, in stolida e ostentata disobbedienza alle direttive del motu proprio "Summorum Pontificum". "Lex orandi, lex credendi": se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cos'è allora?   

Malgrado ciò, e la gravità di tutto ciò, non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura: la Chiesa è "tutti i giorni" sotto la divina garanzia data da Cristo nei giuramenti di Matteo 16, 18 ("Portæ inferi non prævalebunt") e di Matteo 28, 20 ("Ego vobiscum sum omnibus diebus") e ciò la mette metafisicamente al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte e spesso i tentativi in atto. Ma chi sostiene un’avvenuta rottura – come fanno alcuni dei maggiorenti anzidetti, ma anche i sedevacantisti – cade nel naturalismo. 

Però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione, perché è sotto gli occhi di tutti che le più varie dottrine uscite dal e dopo il Concilio – ecclesiologia; panecumenismo; rapporto con le altre religioni; medesimezza del Dio adorato da cristiani, ebrei e islamici; correzione della “dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”; unicità delle fonti della Rivelazione; libertà religiosa; antropologia antropocentrica invece che teocentrica; iconoclastia; o quella da cui è nato il "Novus Ordo Missæ" in luogo del rito gregoriano (oggi raccattato a fianco del primo, ma subordinatamente) – sono tutte dottrine che una per una non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma, se si avesse il coraggio di provare a dogmatizzarle: fuoco che consiste nel dar loro sostanza teologica con richiesta precisa di assistenza dello Spirito Santo, come avvenne a suo tempo con il "corpus theologicum" posto a base dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione di Maria.

Tali fragili dottrine sono vive unicamente per il fatto che non vi è nessuna barriera dogmatica alzata per non permettere il loro concepimento e uso. Però poi si impone una loro fasulla continuità col dogma per pretendere verso di esse l’assenso di fede necessario all’unità e alla continuità (cfr. le pp. 70ss, 205 e 284 del sopraddetto mio libro "La bellezza che ci salva"), restando così tutte in pericoloso e "fragile borderline tra continuità e discontinuità" (p. 49), ma sempre al di qua del limite dogmatico, che infatti, se applicato, determinerebbe la loro fine. Anche l’affermazione di continuità tra tali dottrine e la Tradizione pecca a mio avviso di naturalismo.


Terza domanda: Se noi neghiamo l’infallibilità degli sviluppi dottrinali del Concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede, non indeboliamo la forza della tesi continuista?


Certo che la indebolite, caro padre Cavalcoli, anzi: la annientate. E date forza alla tesi opposta, come è giusto che sia, che continuità non c’è.

Niente rottura, ma anche niente continuità. E allora cosa? La via d’uscita la suggerisce Romano Amerio (1905-1997) con quella che l’autore di "Iota unum" definisce "la legge della conservazione storica della Chiesa", ripresa a p. 41 del mio saggio, per la quale "la Chiesa non va perduta nel caso non 'pareggiasse' la verità, ma nel caso 'perdesse' la verità". E quando la Chiesa non pareggia la verità? Quando i suoi insegnamenti la dimenticano, o la confondono, la intorbidano, la mischiano, come avvenuto (non è la prima volta e non sarà l’ultima) dal Concilio a oggi. E quando perderebbe la verità? (Al condizionale: si è visto che non può in alcun modo perderla). Solo se la colpisse d'anatema, o se viceversa dogmatizzasse una dottrina falsa, cose che potrebbe fare il papa e solo il papa, se (nella metafisicamente impossibile ipotesi che) le sue labbra dogmatizzanti e anatematizzanti non fossero soprannaturalmente legate dai due sopraddetti giuramenti di Nostro Signore. Insisterei su questo punto, che mi pare decisivo. 
 
Qui si avanzano delle ipotesi, ma – come dico nel mio libro (p. 55) – "lasciando alla competenza dei pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza, per esempio del se e del chi eventualmente, e in che misura, sia incorso od ora incorra" negli atti configurati. Nelle primissime pagine evidenzio in specie come non si possono alzare gli argini al fiume di una bellezza salvatrice se non sgombrando la mente da ogni equivoco, errore o malinteso: la bellezza si accompagna unicamente alla verità (p. 23), e tornare a far del bello nell’arte, almeno nell'arte sacra, non si riesce se non lavorando nel vero dell’insegnamento e dell’atto liturgico.

Quello che a mio avviso si sta perpetrando nella Chiesa da cinquant’anni è un ricercato amalgama tra continuità e rottura. È lo studiato governo delle idee e delle intenzioni spurie nel quale si è cambiata la Chiesa senza cambiarla, sotto la copertura (da monsignor Gherardini nitidamente illustrata anche nei suoi libri più recenti) di un magistero volutamente sospeso – a partire dal discorso d’apertura del Concilio "Gaudet mater ecclesia" – in una tutta innaturale e tutta inventata sua forma, detta, con ricercata imprecisione teologica, “pastorale”. Si è svuotata la Chiesa delle dottrine poco o nulla adatte all’ecumenismo e perciò invise ai maggiorenti visti sopra e la si è riempita delle idee ecumeniche di quegli stessi, e ciò si è fatto senza toccarne in alcun modo la veste metafisica, per natura sua dogmatica (cfr. p. 62), per natura sua cioè soprannaturale, ma lavorando unicamente su quel campo del suo magistero che inferisce unicamente sulla sua "conservazione storica".

In altre parole: non c’è rottura formale, né peraltro formale continuità, unicamente perché i papi degli ultimi cinquant’anni si rifiutano di ratificare nella forma dogmatica di II livello le dottrine di III che sotto il loro governo stanno devastando e svuotando la Chiesa (cfr. p. 285). Ciò vuol dire che in tal modo la Chiesa non pareggia più la verità, ma neanche la perde, perché i papi, persino in occasione di un Concilio, si sono formalmente rifiutati sia di dogmatizzare le nuove dottrine sia di colpire d'anatema le pur disistimate (o corrette o raggirate) dottrine pregresse. 

Come si vede, si potrebbe anche ritenere che tale incresciosissima situazione andrebbe a configurare un peccato del magistero, e grave, sia contro la fede, sia contro la carità (p. 54): non sembra infatti che si possa disobbedire al comando del Signore di insegnare alle genti (cfr. Matteo 28, 19-20) con tutta la pienezza del dono di conoscenza elargitoci, senza con ciò "deviare dalla rettitudine che l’atto – cioè 'l'‘insegnamento educativo alla retta dottrina' – deve avere" (Summa Theologiae I, 25, 3, ad 2). Peccato contro la fede perché la si mette in pericolo, e infatti la Chiesa negli ultimi cinquant’anni, svuotata di dottrine vere, si è svuotata di fedeli, di religiosi e di preti, diventando l’ombra di se stessa (p. 76). Peccato contro la carità perché si toglie ai fedeli la bellezza dell’insegnamento magisteriale e visivo di cui solo la verità risplende, come illustro in tutto il secondo capitolo del mio libro. Il peccato sarebbe d’omissione: sarebbe il peccato di "omissione della dogmaticità propria alla Chiesa" (pp. 60ss), con cui la Chiesa volutamente non suggellerebbe sopranaturalmente e così non garantirebbe le indicazioni sulla vita che ci dà.

Questo stato di peccato in cui verserebbe la santa Chiesa (si intende sempre: di alcuni uomini della santa Chiesa, ovvero la Chiesa nella sua componente storica), se riscontrato, andrebbe levato e penitenzialmente al più presto anche lavato, giacché, come il cardinale José Rosalio Castillo Lara scriveva al cardinale Joseph Ratzinger nel 1988, il suo attuale ostinato e colpevole mantenimento "favorirebbe la deprecabile tendenza […] a un equivoco governo cosiddetto 'pastorale', che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio dell’autorità con danno al bene comune dei fedeli" (pp. 67s). 
      
Per restituire alla Chiesa la parità con la verità, come le fu restituita ogni volta che si trovò in simili drammatiche traversie, altra via non c’è che tornare alla pienezza del suo "munus docendi", facendo passare al vaglio del dogma a 360 gradi tutte le false dottrine di cui oggi è intrisa, e riprendere come "habitus" del suo insegnamento più ordinario e pastorale (nel senso rigoroso del termine: "trasferimento della divina Parola nelle diocesi e nelle parrocchie di tutto il mondo") l’atteggiamento dogmatico che l’ha sopranaturalmente condotta fin qui nei secoli.

Ripristinando la pienezza magisteriale sospesa si restituirebbe alla Chiesa storica l’essenza metafisica virtualmente sottrattale, e con ciò si farebbe tornare sulla terra la sua bellezza divina in tutta la sua più riconosciuta e assaporata fragranza.


Per concludere, una proposta


Ci vuole audacia. E ci vuole Tradizione. In vista della scadenza del 2015, cinquantesimo anniversario del Concilio della discordia, bisognerebbe poter promuovere una forte e larga richiesta al Trono più alto della Chiesa affinché, nella sua benignità, non perdendo l’occasione davvero speciale di tale eccezionale ricorrenza, consideri che vi è un unico atto che può riportare pace tra l’insegnamento e la dottrina elargiti dalla Chiesa prima e dopo la fatale assemblea, e quest’unico, eroico, umilissimo atto è quello di accostare al soprannaturale fuoco del dogma le dottrine sopra accennate invise ai fedeli di parte tradizionista, e le contrarie: ciò che deve bruciare brucerà, ciò che deve risplendere risplenderà. Da qui al 2015 abbiamo davanti tre anni abbondanti. Bisogna utilizzarli al meglio. Le preghiere e le intelligenze debbono essere portate alla pressione massima: fuoco al calor bianco. Senza tensione non si ottiene niente, come a Laodicea.

Questo atto che qui si propone di compiere, l’unico che potrebbe tornare a riunire in un’unica cera, come dev’essere, quelle due potenti anime che palpitano nella santa Chiesa e nello stesso essere, riconoscibili l’una negli uomini "fedeli specialmente a ciò che la Chiesa è", l’altra negli uomini il cui spirito è più teso al suo domani, è l’atto che, mettendo fine con bella decisione a una cinquantennale situazione piuttosto anticaritativa e alquanto insincera, riassume in un governo soprannaturale i santi concetti di Tradizione e audacia. Per ricostruire la Chiesa e tornare a fare bellezza, il Vaticano II va letto nella griglia della Tradizione con l’audacia infuocata del dogma.

Dunque tutti i tradizionisti della Chiesa, a ogni ordine e grado come a ogni particolare taglio ideologico appartengano, sappiano raccogliersi in un’unica sollecitazione, in un unico progetto: giungere al 2015 con il più vasto, consigliato e ben delineato invito affinché tale ricorrenza sia per il Trono più alto l’occasione più propria per ripristinare il divino "munus docendi" nella sua pienezza.

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Il libro di Enrico Maria Radaelli "La bellezza che ci salva" (prefazione di Antonio Livi, 2011, pp. 336, euro 35,00) può essere richiesto direttamente all'autore (enricomaria.radaelli@tin.it) o alla Libreria Hoepli di Milano (www.hoepli.it).

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POST SCRIPTUM 1 / LA REPLICA DI FRANCESCO ARZILLO


L'appello del professor Enrico Maria Radaelli, accorato e sofferto, suscita simpatia ma anche qualche perplessità sia di contenuto sia di metodo.

Partirei dalla coda, ossia dai tempi. Radaelli pone l'anno 2015 quale orizzonte temporale di riferimento per un pronunciamento di carattere dogmatico sulle questioni pendenti. Tuttavia egli richiama quale esempio la proclamazione dogmatica dell'Immacolata, per la quale la Chiesa ha invece atteso non pochi secoli. Gli storici del dogma conoscono le resistenze dei domenicani, che solamente nell'Ottocento furono definitivamente superate: il plurisecolare lavoro teologico e spirituale favorì in tal modo una proclamazione quasi unanimemente condivisa nella Chiesa.

È da ammirare questo modo di procedere, che fa della Chiesa cattolica – per dirla paradossalmente – l'opposto di quella monarchia autoritaria che non pochi tra i non cattolici immaginano. Una cosa è infatti il potere del Magistero supremo, un'altra cosa è la questione del modo e dei tempi del suo esercizio, che sono soggetti a ovvi canoni prudenziali.

C'è quindi da chiedersi: se ci sono voluti secoli per una proclamazione dogmatica in un contesto caratterizzato ancora da una certa omogeneità di linguaggio e di formazione teologica, come si può pensare che le odierne dispute possano risolversi con atti dogmatici nel giro di pochi anni, in un contesto di radicale pluralismo culturale ed epistemologico? La definizione dogmatica presuppone infatti, di regola, una preparazione niente affatto semplice.

La linea di Benedetto XVI appare diversa: seminare – come nel caso del ripristino del rito antico – e attendere che la semina porti frutto a suo tempo.

Un secondo punto. Si potrebbe di certo – dopo attenta indagine – riconoscere che alcune delle nuove dottrine conciliari e postconciliari siano collocate nel II livello, come sostiene il padre Giovanni Cavalcoli. Ma anche se ciò non fosse, la cosa non dovrebbe turbare più di tanto il fedele cattolico, anche se teologo. È bene ribadire che lo Spirito Santo non assiste i pastori solamente nel momento della definizione (di I o di II livello, per esprimersi secondo la nota scala di durezza richiamata dal professor Radaelli). Lo Spirito li assiste sempre, anche nei pronunciamenti di III livello, ai quali, come Radaelli stesso riconosce, è dovuto un "religioso ossequio dell'intelletto e della volontà" (art. 752 del codice canonico).

La necessità di questo assenso anche interno è il punto più trascurato, oggi, sia dai neomodernisti sia dai tradizionalisti. Il fatto che si tratti di pronunciamenti non irreformabili non significa che i fedeli non debbano seguirli come espressione della via più sicura. Ciò non esclude la possibilità che le persone competenti sollevino qualche dubbio nelle forme e nei modi propri, tali da non turbare l'ordinato svolgimento della vita ecclesiale. Ma ciò non può di certo comportare l'instaurarsi di magisteri paralleli, neppure sul fronte tradizionalista: effetto che sarebbe paradossale, dopo le giuste polemiche contro il consolidato magistero parallelo dei teologi progressisti sui mass-media.

Un terzo punto, infine. Il bel dibattito in corso su www.chiesa e sul blog Settimo Cielo dimostra che è possibile approfondire la portata dell'ermeneutica della continuità solamente entrando nel merito dei singoli problemi. La discussione sulla libertà religiosa lo ha rivelato assai chiaramente. È evidentemente fruttuoso lo sforzo volto a capire e a individuare esattamente il nocciolo che attiene all'essenza della dottrina sotto la mutevolezza degli accidenti storici: fermo restando, ovviamente, che questo nocciolo ci deve essere e deve essere mantenuto fermo, per evitare il rischio di cadere nel relativismo.

Questo esame delle dottrine "al microscopio", ma anche "al telescopio" della profondità storica, riserverebbe piacevoli sorprese, nel senso auspicato dall'ermeneutica della continuità. Esso potrebbe mostrare che lo Spirito Santo non ha abbandonato la Chiesa cinquant'anni fa. E che non è certo venuta meno la promessa del Signore:  "Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28, 16-20).

Roma, 16 giugno 2011

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POST SCRIPTUM 2 / LA REPLICA DI GIOVANNI CAVALCOLI



Caro professor Radaelli,
    
ho letto con molto interesse le sue considerazioni e le sue proposte circa l’autorevolezza delle dottrine nuove del Concilio Vaticano II, che lei pone, con dom Basile Valuet, al III grado, mentre io, almeno per alcune, la porrei al II.

Il III grado contiene sia dottrine "de fide et moribus" che disposizioni pastorali. Qui il Magistero, trattando materia di fede o prossima alla fede, non intende definire che quanto insegna è di fede, per cui non definisce se si tratta di dottrine definitive o infallibili oppure no. La dottrina della fede è di per sé è infallibile perché assolutamente e perennemente vera, ma qui la Chiesa, pur trattando di materia di fede o prossima alla fede, non chiede, come Lei ben riconosce, un vero assenso di fede, ma un semplice "ossequio religioso della volontà" per il fatto che qui la materia trattata non appare con certezza essere di fede. Questo ovviamente non vuol dire che possa essere sbagliata. 

Viceversa, al II grado la Chiesa richiede un vero e proprio atto di fede, benchè non si tratti ancora della fede divina e teologale con la quale aderiamo alle dottrine del I grado, che sono i veri e propri dogmi definiti. La fede richiesta al II grado si chiama "fede ecclesiastica" o anche semplicemente "cattolica" ed è quella fede che abbiamo nell’infallibilità del Magistero della Chiesa in quanto assistito dallo Spirito Santo. 

Qui aderiamo con la fede, perchè qui appare con chiarezza, magari per mezzo di opportune dimostrazioni, che si tratta di materia di fede e, se si tratta di dottrine nuove, è possibile mostrarle come chiarificazione, esplicitazione o deduzione di o da precedenti dottrine definite o dati rivelati. È questo il caso delle dottrine nuove del Concilio, se non tutte, almeno di alcune, le principali, come per esempio la definizione della liturgia, della rivelazione, della Tradizione o della Chiesa.

Quanto alla "pastoralità" del Concilio, è vero, è stato un Concilio pastorale, ma non solo pastorale, bensì anche dottrinale e addirittura dogmatico: basterebbe citare il titolo di due suoi documenti, chiamati appunto "Costituzioni dogmatiche". Questo i papi del postconcilio lo hanno detto più volte, anche se hanno detto con altrettanta chiarezza che il Concilio non ha definito dichiaratamente o esplicitamente nuovi dogmi, quindi è indubbio che la sua dottrina non si pone al I grado.

È importante questa distinzione tra il dottrinale e il pastorale, perché, quando un Concilio presenta un insegnamento dottrinale, attinente benchè indirettamente alla Rivelazione, non può sbagliare. Anche se si tratta di dottrine nuove, non può tradire o smentire la Tradizione. Viceversa, le direttive o disposizioni di carattere pastorale o lo stesso stile pastorale di un Concilio non sono mai infallibili, a meno che non si tratti di contenuti di fede concernenti l’essenza dell’azione pastorale, ed anzi sono normalmente mutevoli e rivedibili, possono essere meno opportune o addirittura sbagliate, per cui devono essere abrogate. Questa può essere la "paglia" del III grado, ma non certo eventuali pronunciamenti dottrinali! Questi, accostati al "fuoco" del dogma, splendono di maggiore bellezza!

Anche certe disposizioni pastorali del Concilio potrebbero essere "paglia". Ed anzi, secondo me e non solo secondo me, lo sono state e lo sono per il fatto che, messe alla prova dei fatti, dopo quarant’anni, richiedono di essere riviste o corrette per i cattivi risultati che hanno dato. Mi riferisco per esempio a quanto anche lei dice: l’eccessiva indulgenza del Magistero nei confronti degli errori o l’eccessivo ottimismo nei confronti del mondo moderno, nonché l’eccessiva esaltazione dei valori umani e la debole esaltazione dei valori cristiani, soprattutto cattolici. 

Ciò ha consentito la penetrazione dappertutto, anche nella gerarchia, di queste tendenze, ulteriormente esasperate da una ben concertata macchina pubblicitaria internazionale organizzata dal centro-Europa (per esempio la rivista "Concilium"). I vescovi, come osservò a suo tempo padre Cornelio Fabro, ne restarono intimiditi, sicchè oggi è assai difficile liberarsi da questa situazione, perché chi dovrebbe intervenire è egli stesso connivente con l’errore. 

Altro errore pastorale del Concilio è stato quello di indebolire il potere del papa rafforzando eccessivamente quello dei vescovi, col risultato che si è verificata quella "breviatio manus" del papa, della quale parlava Amerio: il pontefice è rimasto isolato nello stesso episcopato. Ovviamente, grazie all’assistenza dello Spirito santo, egli conserva ed applica il suo ruolo di maestro della fede e nemico dell’errore; ma purtroppo spesso gli interventi della Santa Sede in questo campo – che non mancano affatto – hanno scarsa per non dire scarsissima eco nell’episcopato e fra i teologi, quando a volte non si hanno addirittura delle opposizioni, ora subdole, ora sfrontate.
 
Su questa materia occorre recuperare un certo stile precedente il Concilio, che portava buoni risultati, ovviamente senza cadere in certi eccessi di severità e di autoritarismo del passato. I papi del postconcilio sono papi crocifissi, abbandonati come Cristo dai suoi. Altro che "trionfalismo"! È uso dei prepotenti fare le vittime.

Sono d’accordo con lei nel sostenere o meglio nel constatare con Amerio che dall’immediato periodo postconciliare a tutt’oggi il Magistero dice sì la verità – e come non potrebbe? – ma non la dice tutta. Tace alcune verità per un eccessivo timore dei non-cattolici e di non apparire abbastanza moderno. Le preoccupazioni ecumeniche, e peraltro di ecumenismo troppo pacifista e accondiscendente, sembrano prevalere sul dovere di evangelizzare e di correggere chi sbaglia, invitandolo all’unità "cum Petro e sub Petro".

Occorre allora recuperare verità dimenticate, delle quali dò solo qualche esempio, sapendo bene, con lei, di sfondare una porta aperta: il valore realistico della verità, il valore intellettuale-concettuale della conoscenza di fede, il valore sacrificale, espiativo e soddisfattorio della redenzione, la natura e le conseguenze del peccato originale, la congiunzione della giustizia e della misericordia divine, gli attributi divini dell’impassibilità e dell’immutabilità, la distinzione fra natura e grazia, la predestinazione, l’esistenza di dannati nell’inferno, la possibilità di perdere la grazia col peccato mortale, l’esistenza dei miracoli e delle profezie, il dovere di lavorare per la conversione dei non-cattolici al cattolicesimo.

Vorrei dirle, però, caro professore, che non deve credere che dottrine conciliari come quelle della prospettiva universale della salvezza, del dialogo con la modernità, dell’ecumenismo, della libertà religiosa o delle verità contenute nelle altre religioni contrastino con le precedenti verità, anche se si tratta di dimostrare la continuità. Si tratta solo di una migliore conoscenza o di aspetti nuovi di quelle medesime verità che vengono insegnate in quelle dottrine.

Vorrei dire inoltre che oggi la debolezza del papato non dipende da difetti personali dei singoli papi, ma è un difetto istituzionale ("pastorale") introdotto o quanto meno consentito dallo stesso Concilio. Forse per rimediare a tale difetto occorrerà un altro Concilio. Del resto sempre nella storia un Concilio ha dovuto rimediare ad errori commessi da un Concilio precedente. Per questo mi pare francamente ingiusta l’accusa che lei fa ai papi del Concilio e del postconcilio, tra i quali abbiamo due beati e un servo di Dio, di "aver peccato contro la fede e la carità" nella conduzione del Concilio e del postconcilio.    La loro "debolezza" non è colpa loro; sono le stesse istituzioni che non mettono nelle loro mani gli strumenti sufficienti per far valere la loro autorità.

Riconosco inoltre che anche lo stesso linguaggio "pastorale" dei documenti dottrinali non brilla sempre per chiarezza e precisione. Qui ne hanno approfittato i modernisti per interpretare a loro modo questi testi, con risultati disastrosi dal punto di vista dottrinale e morale. Bisognerebbe qui, come ha proposto di recente l’arcivescovo Atanasio Schneider, che il Santo Padre emanasse un sillabo degli errori di interpretazione delle dottrine del Concilio. Inoltre io ritengo che sarebbe bene che il papa presentasse le dottrine vincolanti (siano di II o siano di III grado) sotto forma di "canoni", come è sempre usato nei Concili. Questo metodo, come dimostra l’esperienza, dà chiarezza ed impedisce di giocare sull’equivoco e consente eventuali opportuni provvedimenti canonici.

Dopo studi quarantennali, mi sono fatto la convinzione che la forma più grave di modernismo che oggi bisogna eliminare, anche per l’influsso e prestigio che possiede in molti ambienti, è quella rahneriana. L’operazione non sarà facile, ma è necessaria, se vogliamo fermare l’attuale processo di corruzione della fede e dei costumi, anche se ovviamente esistono altre cause di questa decadenza o falso progresso. Si tratterà di un’operazione chirurgica dolorosa, complessa e radicale, perché il male ha preso radici e nell’operare il rischio è quello di ledere organi vitali. Ma per il bene della Chiesa dev’essere fatta e non va ulteriormente procrastinata.
 
Si potrà condurre l’operazione scaglionandola nel tempo, come si fa in interventi chirurgici complessi, ma la cosa dev’essere condotta in modo inflessibile e sistematico, succeda quel che succeda. Cristo, per fondare la Chiesa ci ha rimesso la vita: e noi per salvarci non dobbiamo fare qualche sacrificio, non dobbiamo vincere forze avverse? L’importante è combattere con l’apparente Sconfitto che in realtà è il Vincitore.    

Per quanto riguarda la "continuità" delle dottrine nuove con quelle antiche, della quale ci hanno sempre assicurato i papi del postconcilio, il buon cattolico deve credere al papa sulla parola e non avere diffidenze, come fanno i lefebvriani, che accusano i papi di volerli circonvenire. Indubbiamente questa continuità non è sempre così perspicua, ma starebbe ai teologi dimostrarla con un serio confronto di testi magisteriali fra quelli del preconcilio, quelli del Concilio e quelli del postconcilio.

È possibile dimostrare che la "novità" non è rottura, non è caduta nell’errore, non è smentita della Tradizione, ma sviluppo omogeneo della Tradizione, migliore conoscenza della medesima immutabile verità della Parola di Dio consegnata una volta per tutte da Cristo alla sua Chiesa. Bisogna ricordarsi che esiste ed è sempre esistito un progresso dogmatico, ossia una sempre migliore e più esplicita conoscenza delle medesime verità "eodem sensu eademque sententia".

Ciò che occorre evitare e contro cui metteva in guardia san Pio X, è la concezione modernista del progresso dogmatico, fondata sull’idea di una mutabilità della verità di fede: un’eresia che è propria anche dei modernisti dei nostri giorni. Non è la verità di fede che cambia: essa resta sempre la stessa ("veritas Domini manet in aeternum"); è la nostra conoscenza che "muta", nel senso che progredisce nel tempo per l’assistenza dello Spirito Santo, che "conduce alla pienezza della verità". Essere moderni non vuol dire essere modernisti. Il sano tradizionalismo non è restare indietro, ma andare avanti.

Conosco bene la sua fede di cattolico, appresa dal suo maestro Romano Amerio, che la Chiesa è indefettibile maestra di verità e non potrà essere vinta dal potere delle tenebre. Apprezzo molto il taglio "estetico" col quale lei contempla la bellezza della verità cattolica. Ripeto con lei: la Bellezza sarà la salvezza del mondo.

Fr. Giovanni Cavalcoli, OP

Bologna, 17 giugno 2011

 



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Caterina63
00venerdì 19 febbraio 2016 09:52
  PERCHÉ PAPA RATZINGER-BENEDETTO XVI DOVREBBE RITIRARE LE SUE DIMISSIONI:
NON È ANCORA IL TEMPO DI UN NUOVO PAPA - PERCHÉ SAREBBE QUELLO DI UN ANTIPAPA

di Enrico Maria Radaelli

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1. LE DIMISSIONI

L’11 febbraio 2013, festa della Santa Vergine di Lourdes, il mondo ha ascoltato impietrito il Comunicato con cui è stato annunciato che Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ha dato le dimissioni, con effetto il giorno 28 dello stesso mese, dal suo altissimo Trono di Vicario di Cristo, di Sommo Romano Pontefice, di Vescovo di Roma e del mondo.
Le motivazioni adombrerebbero un sentimento di riconoscimento razionale e ponderato di insufficienza della persona, ormai molto avanti negli anni, impossibilitata ad affrontare i doveri cui è chiamato un Pontefice “del giorno d’oggi”, ossia davanti al carico immenso, sempre più oneroso, oramai davvero soverchiante, dell’altissimo ufficio.

Quel che qui si vuole esprimere potrebbe contrastare in qualche misura o anche totalmente il punto di vista di persone religiose di diversa sensibilità da quella di chi scrive, ma mi si permetta di esporre il mio convincimento prendendolo quale vuol essere e non come forse nella foga del discorso potrebbe apparire: una del tutto possibile congettura, un’ipotesi di lavoro; certo: ragionevolmente convinta, adeguatamente argomentata – si crede – logicamente e scritturalmente, che non vuole avere alcuno scatto di perentorietà se non quello di sollecitare il tempo a fermarsi almeno qualche attimo, così da avere per un giorno, quasi, il sole fermo, e così non permettere ciò che, nella prospettiva qui da me aperta – l’irreparabile, appunto – davvero avvenga.

In un lunedì di ordinario concistoro, divenuto improvvisamente fatidico, la cattolicità resta frastornata, inebetita da un annuncio inatteso, da una sonorità di tuono che quasi la pietrifica: “Il Papa si dimette”. La notizia avvolge il mondo in un baleno, e subito lo rinserra come in unica pietra.

2. L’ELEZIONE DI PIETRO. A COSA? ALLA CROCE DI CRISTO

Il Papa si dimette. Si dimette?! Come: “Si dimette”? E la madre di famiglia? e la luna? è caduta anche la luna? perché non si dimette la madre di famiglia? perché non cade la luna?
Come fa il Papa a ‘dimettersi’?

Infatti la carica ricoperta da un Papa è carica dove il sacrificio è natura sua indistruttibile e assoluta conditio a priori a ogni altra considerazione: « “Simone di Giovanni, mi ami tu più
di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Gli rispose GESÙ: “Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. » (Gv 21, 15-8).

La croce è lo status di ogni cristiano: Cristo, crocevia tra Dio e gli uomini, ImagoDell’Immagine di Dio per rappresentare dai Cieli Dio agli uomini e dalla terra gli uomini a Dio; è il modello esemplare a ogni suo seguace. Non c’è seguace di Cristo, non c’è “cristiano” cui la croce possa essere alleggerita, né tantomeno tolta: a san Paolo, esemplarmente, che ben tre volte supplicò il Signore di sollevarlo dai tormenti, Cristo rispose: « Ti basta la mia grazia. La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella [tua] debolezza » (2 Cor 12, 9). E se si
sale al Monte degli Ulivi, si sentirà ancora l’eco delle decise, coraggiose parole di obbedienza e sottomissione del divino Agonizzante: « Padre mio, se questo calice non può passare da me
senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà » (Mt 26, 42).

Conseguenze: ribellarsi al proprio status, rigettare una grazia ricevuta, parrebbe per un cristiano, da san Paolo in giù – per non dire da Cristo in giù –, colpa (grave) contro la virtù
della speranza, contro la grazia e contro il valore soprannaturale dell’accettazione della propria condizione umana, tanto più grave se la condizione ricopre ruoli in sacris, come è la condizione, di tutte la più eminente, di Papa.


3. LA CROCE DEI PAPI NELLA STORIA

Non mi avvalgo delle centinaia di Pontefici che accettarono fino allo stremo il durissimo incarico: a decine li troviamo, nei secoli più terrificanti e bui della storia, eletti al Sacro Soglio
magari già vecchi di anni oltre ogni dire – e spesso, maliziosamente, eletti proprio in quanto vecchi e acciaccati oltre ogni dire –, e Papi che ciò accettarono spesso ben sapendo della
malizia con cui si approfittava della loro canizie.
Chi non ha letto nei libri di storia dei Papi che gli eletti dopo Papa Gregorio X, furono tutti di breve, di brevissima durata, perché nominati con la machiavellica intenzione che per la loro età o la loro salute o entrambe le cose, sul Sacro Soglio restassero l’espace d’un matin, così da creare una situazione insostenibile e poi prenderla ancor meglio in pugno?

Non mi avvalgo delle centinaia di Papi che eroicamente resistettero davanti ai soprusi più sfacciati, alle angherie più ribalde, ai tormenti più atroci: querce indomite, spesso però dal fisico di fuscelli e di men che fuscelli, macerati poi di sovente anche da lunghi digiuni e da vere penitenze (allora digiuni e penitenze si comandavano e si facevano), la Chiesa offre boschi interi di forti Papi tanto ben radicati nell’amore a Cristo e nella fede che di tale amore è la sostanza più interna e inflessibile: queste robustissime querce, come Pietre son rimaste tutte al loro posto malgrado la violenza dei tormenti soffiasse sopra di esse e tutt’attorno – e certo anche nei loro cuori di carne, ben tremebondi com’erano per ciò che sapevano essi di essere se non avessero anche saputo che era il Signore a comandarli dov’erano –, cercando di spazzarle via come pagliuzze e anche abbruciarle.

Non mi avvalgo poi delle decine e decine di Papi propriamente e materialmente ‘martiri’, sarebbe troppo facile: il loro sangue si è sparso a fiumi per almeno tre secoli sulla rena del primo Cristianesimo davanti a plebi e imperatori che sghignazzando li avrebbero anche volentieri calpestati pur di annientare in loro il loro vero nemico, Cristo GESÙ: essi non si sottrassero al martirio, né al carcere durissimo, né ai lavori forzati, ma tutto assunsero nella loro intrepida ma anche trepidissima carne.

« “Simone di Giovanni, mi ami tu?” “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. “Pasci i miei agnelli”. ». Che è a dire: “Simone di Giovanni, vuoi vincolarti a me con il vincolo più forte della morte?” “Sì, Signore, lo voglio”. “Governa ciò che è mio”.
Neanche la morte può recidere un vincolo tre volte più forte della morte come è questo vincolo, questo specialissimo vincolo. Non c’è un vincolo tra Cielo e Terra, tra Verità e
umanità, più solido e più indistruttibile di questo vincolo.

Dunque non mi avvalgo della storia. Ma è del Cristo che mi avvalgo. La storia nulla è, se non le si riconosce l’intima sua qualità di rivestire, di ricoprire, quasi di nascondere, un’essenza, la quale essenza però, di suo, le sfugge, le è superiore, e la governa: i Papi, molti, moltissimi Papi si sono sacrificati fino a dare la vita, e non solo col sangue; molti, la maggioranza straripante, si sono interamente regalati all’amore totale e totalizzante per il loro Cristo e per il loro gregge, il quale è loro perché è del loro Cristo. La storia dei Papi è stracolma di esempi straordinari di immolazione sull’altare della fede e dell’amore per il loro GESÙ. L’essenza rivestita dalla storia, immobile e sovrastorica, è l’amore divino che l’ha generata, che da Dio fluisce ma pure che a Dio ritorna attraverso l’immolazione dei suoi adoratori e seguaci.

Molti, non tutti, dicevo, sono i Papi ‘donatori di sé’: molti, e non tutti, perché la storia, schiava del diavolo, mille volte cerca di sottrarsi all’amore potente ma delicato di Cristo, e viene strattonata con le unghie e con i denti dal vile menzognero, malgrado l’amore del Cristo sia mille volte più ragionevole e diecimila volte più persuasivo delle insignificanti suggestioni del feroce e astutissimo suo imitatore.


4. PIETRO E IL PRIMO TENTATIVO DI DIMISSIONI DALLA CROCE

Sull’Appia antica, all’incirca all’incrocio con la via Ardeatina, ai tempi della prima persecuzione di Nerone, gli Atti di Pietro, pur apocrifi, narrano comunque di un Pietro fuggiasco, che, impaurito, terrorizzato dalla ferocia neroniana scatenata come fuoco contro la nuova setta dei Cristiani, temendo di presto perdere la vita, corre sulla strada che porta a Brindisi, per poi lì imbarcarsi verso Israele, verso Ierusalem, ma si imbatte in GESÙ, che cammina in direzione contraria, verso l’Urbe: « Quo vadis, Domine? », « Dove vai, Signore?», stupefatto gli dice. E GESÙ: « Vado a morire al posto tuo, Simone ».

Notare: “Simone”, non “Pietro”. Il fuggiasco non è più degno di portare il nome caricatogli dal Cristo, Cefa, Pietra, Roccia, ‘L’Infallibile certezza di altissima Verità’. Il pavido egoista e molto umano Simone, che certo avrebbe ricevuto la più totale comprensione dai de Bortoli, dai Galli della Loggia, dai Magris, dai Mancuso, dai Mauro, dai Melloni, dagli Scalfari, dai liberali insomma di tutto il mondo dentro e fuori la Chiesa, quasi il suo sia « per il bene della Chiesa » un gesto di grande libertà e di ardente coraggio, « un gesto profetico», come sussiegosamente esclamano persino i laicisti più spinti, si trova nudo nel suo antico nome di pescatore da nulla, Simone: un uomo slegato dalla Croce.
Ma qui ci si chiede se quell’uomo non si sia slegato, in qualche modo, anche dalla Provvidenza dei Cieli.


Ecco cosa succede quando un Papa (ma anche un vescovo qualsiasi, anche un chierico tra i tanti, dirò di più: persino l’ultimo dei fedeli) fugge dal luogo dove l’ha spinto Cristo a penare, a soffrire, forse a morire: succede che Cristo va a penare, a soffrire, forse anche a morire, sì, al posto suo.
Il fatto è che quella sofferenza qualcuno la deve fare, e la deve fare perché la deve offrire, perché il male non può andare perduto: il male, ogni singolo male, va redento, va riscattato,
ossia non solo va raccolto e tramutato nel bene originale che era, ma, con l’avvento di Cristo, va fatto salire alla pienezza del bene divino e di bene divino va riempito.

Cristo ha portato la croce nel mondo per togliere, « inchiodandolo alla croce » (Col 2, 14), il male dal mondo, come dice il Salmo: « Gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra
di me » (Sal 69, 10): il male, immane insulto dei demoni e dell’Inferno alla meraviglia dell’opera della creazione compiuta da Dio Padre, è ricaduto tutto sulla croce del Figlio,tutto, così che essa ha raccolto tutto il male del mondo e lo ha inchiodato a sé. Tutti i fedeli di Cristo si lasciano compenetrare dal desiderio d’amore di dedizione di partecipare in crocifiggente
pienezza al suo Sacrificio anche solo con la propria semplice vita quotidiana da nulla, con atti banali quali salire sui mezzi pubblici stracolmi, affrontare il freddo e il gelo per fare anche qualcosa di più del proprio dovere, non rispondere a un ingiusto rimprovero, preparare la tavola con amore anche quando a fine giornata si è prostrati dalla fatica, pronti sempre a salire nell’immolazione in atti sempre più eroici – pubblici o silenti che siano – sempre nella più
generosa offerta di sé, nell’obbedienza anche estrema alle leggi di Dio e a ogni suo volere, inchiodandosi in ogni modo comunque alla croce con lui e così, trafitti dai medesimi chiodi dal demoniaco insulto, in ogni attimo invece vincerlo.

Qui non ci si sta interrogando su quali possano essere le ragioni di un ripiegamento, perché, o si sta alle ragioni addotte – « sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata,
non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino » –, o si possono aprire le porte alle illazioni più fantasiose, ma lasciando nell’angolo il punto fondamentale: se le dimissioni costituiscano o non costituiscano un bene per la Chiesa, cioè se siano moralmente un lacerante vulnus o invece l’unica strada da prendere per il prosieguo del suo cammino di evangelizzatrice e santificatrice del mondo.


5. SE LE DIMISSIONI DEL PAPA SIANO CONVENIENTI
AL MOMENTO STORICO CHE STA ATTRAVERSANDO LA CHIESA

Davanti alla Chiesa si sono assiepati in questi ultimi cinquant’anni conflitti teologici sempre più gravi, le eresie più antiche e pericolose si sono ridestate come serpi alzando il capo davanti e fin dentro le chiese di tutto il mondo senza che alcun Pastore le riconoscesse, le additasse, le fulminasse; la sconcezza della libertà di Rito si è sparsa per gli altari dell’orbe cattolico schiacciando al muro l’unico Rito che avrebbe avuto e difatti aveva la forza di combattere e vincere il liberalismo e il modernismo dedogmatizzante ora tanto vittorioso; per non dire delle terrificanti, squallide e odiose cancrene in cui sono stati e sono tutt’ora coinvolti a centinaia i suoi Pastori, e, di questi, proprio quelli che più dovrebbero mostrare integrità celestiale per il loro contatto con la purezza infantile; premono infine da ogni dove, ossia persino dalle voci inaspettate di cardinali ad alta visibilità e ad ancor più alto progressismo come il defunto Carlo Maria Martini, e in generale oramai direi da pressoché tutta l’universalità cattolica, che, avendo subìto negli ultimi cinquant’anni una forte accelerazione alla propria già latente protestantizzazione dal Rito dedogmatizzato del Novus Ordo Missæ, ora non chiede che di uniformarsi, nei costumi, alle dottrine naturalistiche assorbite, premono, dicevo, le richieste
per equiparare i costumi cattolici a valenza soprannaturale a quelli laicisti a valenza naturalistica, e quest’ultimo è forse, di tutti, l’elemento più vistoso, e magari anche lo scatenante.

La marcatura naturalistica è oramai nella Chiesa spiccatissima (vedi Comunione e Liberazione), il sentire semiprotestantico prepotente (vedi Bose, Taizé, Sant’Egidio, Neocatecumenali e Focolarini), e quelle pur larghe sacche cattoliche integre che ancora volentieri sarebbero anche disposte a rigettare l’una e l’altro, sono intimidite, intimorite oltre ogni dire dalla voce grossa e boriosa dei potentissimi laicisti e liberisti, i quali, esterni e interni alla Chiesa, dettano legge, nel senso che, appropriatisi da decenni dei registri accademici e
dei tabulati degli organici di filosofia, scienza, cultura, pedagogia, di tutte le arti e della comunicazione, impongono come vere e come naturali quelle leggi velleitarie e innaturali
che da se stessi si sono a propria misura procacciate.
Da qui le richieste di rivoluzionare finalmente i costumi concedendo per esempio la comunione alle coppie divorziate e ai risposati, il matrimonio alle persone dello stesso sesso,
il diritto alle medesime, una volta “sposate”, di adottare bambini, per non parlare delle pretese che si hanno nel vastissimo e delicatissimo campo del diritto alla vita, pressato dalla nascita alla morte da richieste germinate non da altro che dal più sfrenato naturalismo. Ma perché non chiamarlo con il suo nome? Esso nient’altro è se non sfrenato, puro e semplice egoismo.

Tutte queste varie maree che sui due piani – teoretico sopra, pratico sotto – sono da tempo straripate nella Chiesa dopo il Vaticano II, che ha aperto le porte della doppia esondazione
allorché trapassò il linguaggio della Chiesa, da naturaliter dogmatico qual era, a simpliciter pastorale, che poi neanche pastorale è, come dimostro ne Il domani – terribile o radioso? – del dogma appena pubblicato, in tal modo polverizzando l’unica e sola diga veritativa che avrebbe potuto e dovuto tenere la Chiesa a propria difesa dal demonio e dal mondo, e, in sé, l’uomo, e intorno a sé la civiltà, la storia, l’avvenire tutto, per tutti tenere e tutti portare nella realtà.
Quindi si deve capire bene, a mio avviso, che non è certo questo il momento in cui – se per ipotesi la cosa si potesse realizzare, ma ora si vedrà che no: non si può – si possano dare le dimissioni da Vicario di Cristo: la Chiesa è sotto schiaffo ora più che mai, e il timoniere, con gli argomenti portati, a mio avviso deve stare ben saldo, malgrado tutto, al suo posto di timoniere. A Dio il sommo timone: Egli sa commisurare le nostre forze alle altrui, e ciòsufficit.


6. LE DIMISSIONI DI BENEDETTO XVI,
IL CONCILIO VATICANO II E IL CONCETTO DI AUTORITÀ

Le dimissioni di Benedetto XVI vanno inquadrate in questo scenario ipodogmatico, a basso profilo veritativo, in questa che Amerio chiamava « desistenza dell’autorità », dove dominano
i gesti e i linguaggi artificiali, i gesti e i linguaggi di legno, finti, irreali, portati dal mondo nella Chiesa in occasione dell’assise di cinquant’anni fa, che siano quelli del linguaggio magisteriale piuttosto che quelli della liturgia, quelli delle nuove comunicazioni con cui ancora il magistero si inerpica con una certa dose di sprovvedutezza, tipo Biennale di Venezia o twitter, alla ricerca della società, o quelli di irrevocabili decisioni del supremo Pastore: magistero pastorale
post Vaticano II, Novus Ordo Missæ e dimissioni papali sono tre eventi epocali, grandiosi, abnormi, protratti per decenni nel tempo o ratti come fulmine che siano non ha alcuna influenza né importanza: restano comunque artificiali, restano avvenimenti disgiunti, sconnessi, avulsi dalla realtà.

Il motivo per cui sono “di legno”, come ho detto, i linguaggi di magistero e liturgia post Vaticano II, lo spiego esaurientemente nel mio appena citato Il domani del dogma; quello invece per cui lo sono le attuali dimissioni papali lo argomenterò ora: va considerato infatti che il canone 332.2 del Codice di Diritto Canonico, di recessione dal triplo mandato che le consentono (recessione dal munus docendi, dal munus regendi e dal munus sanctificandi), non a caso voluto da quel Papa autodimissionato che Dante inchioda nella vigliaccheria (Inf., III, 60), Pietro da Morrone-Celestino V, usa assolutamente del potere che gli è conferito di monarca sommo e assoluto, ma è un canone che mette in contraddizione il papato con se stesso, e ciò, a mio avviso, non è possibile.


7. IL CONCETTO DI “POTERE ASSOLUTO DEL PAPA”

Infatti, nemmeno Dio usa assolutamente del suo potere assoluto, né lo potrebbe, ma solorelativamente, come ben spiega san Tommaso, che in primo luogo ricorda: « Nulla si oppone
alla ragione di ente, se non il non-ente » e spiega: « Dunque, alla ragione di possibile assoluto, oggetto dell’onnipotenza divina, ripugna solo quello che implica in sé simultaneamente l’essere e il non-essere. Ciò, infatti, è fuori del dominio della divina onnipotenza, non per difetto della potenza di Dio, ma perché non ha la natura di cosa fattibile o possibile. Così, resta che tutto ciò che non implica contraddizione, è contenuto tra quei possibili rispetto ai quali Dio si dice onnipotente » (S. Th., I, 25, 3).

Solo la nozione di Dio degli Islamici è una nozione assolutista, perché per essa Dio è onnipotente nel senso che può persino – per tale sua illimitata potenza – volere di non essere
Dio. Ma san Tommaso mostra che Dio, Essere tutto in atto, non può volere ciò che ripugna all’essere: lui, l’Essere, non può volere di non essere (e neanche lo può pensare).

Solo un Papa, si dice, può avere il potere di dimettersi, ma io dico che tale potere non l’ha neanche il Papa, perché sarebbe l’esercizio di un potere assoluto che contrasta con l’essere di se stesso medesimo, di non essere quel che si è.
Ora, imporre a se stesso di non essere se stesso è impossibile, come si è visto essere impossibile persino a Dio, perché, come a Dio, ciò implica la contraddizione dell’essere.
Un occhio non può dire a se stesso di accecarsi, né un piede di rattrappirsi. Essi ricevono da altri la vista e il moto, e da altri ne riceveranno l’annichilimento. Certo, altri sono i datori di vista e moto e altri i loro distruttori, come nel caso di un Papa i datori del suo essere sono i cardinali elettori e il suo rapitore è invece Dio, ma, come si vede, i soggetti: occhio, piede o Papa che siano, per quanto perfetti in ciascuna delle specifiche loro forme di occhio, di piede e di Pontefice Massimo, sono del tutto impotenti in quanto a ricevere o viceversa veder da sé sottratta la loro propria vita e sussistenza.

Cosa vuol dire infatti “essere Papa”? Ecco cosa vuol dire: come il sacerdote riceve uno status, un marchio – l’ordine del sacerdozio – che rimane in eterno, perché riceve dal vescovo la partecipazione al sacerdozio di Cristo che è sacerdozio eterno, così anche la papalità riceve da Dio un munus spirituale: la vicarietà di Cristo Capo della Chiesa in eterno, che solo Dio può togliere. E Dio la toglie solo con la morte. Ma la toglie solo al corpo che muore, non all’anima che non muore. È solo in questo senso che si dice che Dio fa scendere dalla Croce: perché il corpo ha smesso di soffrire.

I poteri che implicano l’eternità possono essere interrotti solo materialiter, nonsubstantialiter, infatti chi è consacrato sacerdote rimane sacerdote in eterno, che egli sia post mortem eletto al Regno dei Cieli o gettato nelle fiamme perenni. 
Nella Chiesa esiste un solo sacerdozio in Cristo, come sappiamo, ma i gradi di sacerdozio sono due: uno universale, al quale partecipano tutti i battezzati, e uno sacramentale, conferito con l’Ordine. Ma anche questo grado di sacerdozio, metafisicamente parlando, si distingue in due gradi: uno è quello di tutti i chierici, l’altro è quello, ad personam, conferito unicamente al Vicario di Cristo, al Papa, in virtù della sua vicarietà: egli solo è rappresentante di Cristo in terra.

Il Papa riceve da Dio ad personam un vincolo mistico tra sé e il Corpo mistico della Chiesa, vincolo che lo lega ad essa con un legame divino unico, che non ha assolutamente nessun altro membro della Chiesa, come ad essa con il suo amore divino – e dunque legame divino – è legato il Cristo.
Questo vincolo, tre volte stretto all’essere dal laccio perentorio della risposta « Signore, tu lo sai che ti amo » alla perentoria domanda di Cristo: « Simone di Giovanni, mi ami tu? », è un
vincolo che solo la morte può togliere. Ma, ripeto, è, questa, un’interruzione unicamente materiale: l’amore proclamato e dunque affermato come ‘fatto dato nell’essere’, nell’essererimane, e vi rimane in eterno. È il carisma di Pietro.

Le dimissioni sono permesse legalmente, il canone congetturato dalla persona stessa che aveva maturato la volontà di dimettersi ne configura le modalità. Ma l’istituto delle dimissioni non è stato mai indagato nella sua conformazione metafisica, e tutti hanno sempre ritenuto che esse potessero discendere dal potere assoluto del monarca, che può tutto, senza distinguere – come invece fa san Tommaso – tra potenza assoluta in sé e potenza assoluta relativamente alla ragione di ente, ossia al principio di non-contraddizione.


8. LE DIMISSIONI DI UN PAPA DAVANTI ALLA LEGGE CANONICA
E DAVANTI ALLA LEGGE METAFISICA DELL’ESSERE


Le dimissioni non sono permesse metafisicamente, e misticamente, perché nella metafisica sono legate al laccio dell’essere, che non permette che una cosa contemporaneamente sia e non sia, e nella mistica sono legate al laccio del Corpo mistico che è la Chiesa, per il quale la vicarietà assunta con il giuramento dell’elezione pone l’essere dell’eletto su un piano ontologico non accidentalmente ma sostanzialmente diverso da quello lasciato: dal piano già alto del sacerdozio sacramentale di Cristo lo pone sul piano ancora più metafisicamente e spiritualmente alto di Vicario di Cristo.
Dunque la legge è sovrastata ancora una volta dalla metafisica, che è a dire che la storia (la legge positiva appartiene alla storia) ancora una volta è sovrastata dalla metafisica, dall’ontologia, che è a dire dalla verità delle cose, dalla legge naturale, in primo luogo dal principio di non-contraddizione, cui deve assolutamente obbedire.


9. IL CONFLITTO TRA LEGGE CANONICA E LEGGE METAFISICA
HA COME CONSEGUENZA LA CREAZIONE DI UN ANTIPAPA

Non considerare questi fatti è a mio parere un colpo micidiale al dogma, dimissionarsi è perdere il nome universale di Pietro e regredire nell’essere privato di Simone, ma ciò non può darsi, perché il nome di Pietro, di Cephas, di Roccia, è dato su un piano divino a un uomo che, ricevendolo, non è più solo se stesso, ma “è Chiesa”: « Tu sei Pietro, e su questa Pietra fonderò la mia Chiesa » (Mt 16, 18).
Il dogma rigetta il colpo, e non ne risente, perché l’atto, come solito, non è stato formalizzato dogmaticamente, ma ne risente la Chiesa nel suo ambito umano, che difatti accusa il colpo nella sua confusione estrema, nella prostrazione e nel turbamento massimi subito corsi per tutta la cattolicità. 

Senza contare che si sta realizzando la probabilità che, lasciando che una legge positiva permanga nell’ordinamento canonico malgrado sia in patente contrasto con una legge
metafisica che le è superiore e che dovrebbe governarla, ciò porti a conseguenze ancor più gravi della gravità dell’atto compiuto a mezzo di quella legge: non potendo in realtà
dimettersi il Papa autodimessosi, il Papa subentrante, suo malgrado, in realtà, metafisicamente parlando, che vuol dire nella realtà più vera e che di per sé sorpassa ogni legge storica, non sarà che un antipapa. Ma regnante sarà lui, l’antipapa, non il vero Papa, ora dimesso. Siamo tornati ai secoli atri di Guiberto e di Maginulfo, ma ribaltati, e dunque ora, di quelli, questo secolo è anche peggio.

La Chiesa sta correndo verso il naturalismo, e queste dimissioni papali, staccando ancor più la Chiesa reale da quella metafisica da cui dipende, la avvicinano ancor più all’orlo del baratro. Che questo orlo non sia superabile, come dimostro ancora in Il domani – terribile o radioso? – del dogma, non toglie il pericolo, ma lo accentua, perché il mondo e il diavolo, credendoci, inneggiano come già fatta alla vittoria.


10. CONCLUSIONE: RITIRARE LE DIMISSIONI

Si può suggerire a un Papa ciò che il Papa deve fare? In linea di massima non si potrebbe, sarebbe cosa davvero massimamente disdicevole. Ma il momento è di tale gravità, è di tale straordinarietà, è di tale turbamento che si rende necessario osare ciò che in tempo ordinario è proibito, e qui si compie proprio questo atto: si osa mettere sul tappeto davanti al Trono più alto ciò che si considera essere un dato da prendere in seria considerazione, e ciò si osa fare prima che sia troppo tardi, prima che sia compiuto l’ineluttabile: un atto legale, ma metafisicamente “ripugnante”. 

La considerazione finale è dunque questa, e la porto dopo aver fatto tutte le premesse che ho fatto sul valore assolutamente scientifico e dunque del tutto ipotetico delle mie osservazioni e argomentazioni, e il rispetto sommo da dare alla persona e ancor più alla figura del Sommo Pontefice.

Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI non dovrebbe dimettersi, ma dovrebbe recedere da tale sua suprema decisione riconoscendone il carattere metafisicamente e misticamente inattuabile, e così anche legalmente inconsistente.

« Cristo fu tentato per tre volte dal diavolo nel deserto – dice sant’Agostino commentando il Salmo 60 –, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione [la fragilità, la minimanza, l’inettitudine], da sé la tua gloria [sulla sua croce], dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria ».


11. IL VERO ATTO DI CORAGGIO, SCANDALO DEL MONDO,
È NON SCENDERE DALLA CROCE A NESSUN COSTO

Con nell’animo queste considerazioni, non le dimissioni, ma il loro ritiro diventa sì un atto di soprannaturale coraggio, e Dio solo sa quanto la Chiesa abbia bisogno di un Papa soprannaturalmente, e non umanamente, coraggioso. Un Papa cui non inneggino i liberali di tutta la terra, ma gli Angeli di tutti i Cieli. Un Papa martire in più, giovane leoncello del Signore, porta più anime al Cielo che cento Papi dimissionati (quanti saranno da oggi in futuro i Papi).

Atto dunque dettato da argomenti soprannaturali, riconoscendo che dalla Croce gloriosa non si scende perché comunque non si può scendere, meglio: perché, pur tentati, non c’è la strada per scendere, e la strada che si intravvede esservi non è vera, ma è una strada di nuvole, di niente, e tanto più non può scendere e percorrere quella strada inconsistente la persona del Papa: la propria libertà, in specie se libertà di Papa, è affissata, è inchiodata alla volontà divina, unica, potente e vera Realtà che sulla Croce mistica ha voluto con sé il suo Vicario.

Enrico Maria Radaelli

Director of Department of Æsthetic Phylosophy
of International Science and Commonsense Association (Rome)


18 febbraio 2013
San Simone, vescovo



Caterina63
00venerdì 19 febbraio 2016 19:17

  diamo uno sguardo ora alle MOTIVAZIONI...... perchè siamo arrivati a tutto questo?


La stirpe modernista di don Alfredo Morselli

 
Plus nocet falsus Catholicus
quam si verus appareret haereticus
S. Bernardo, Sermo 65 in Cant.
 
1. Il modernismo come categoria.
 
Il modernismo può essere considerato sotto due punti di vista:

il primo, in senso stretto e allora esso è l'eresia multiforme ben individuata da San Pio X e riconducibile a ben precisi autori. È "l'indirizzo eterodosso, delineatosi fra gli studiosi cattolici", tra la fine dell'800 e i primi del '900, "che si riproponeva di rinnovare e interpretare la dottrina cristiana in armonia con il pensiero moderno… La gravità dell'errore dogmatico del modernismo è tutta nel suo principio fondamentale. Il modernismo non consiste tanto nell'opposizione all'una o all'altra delle verità rivelate, ma nel cambiamento radicale della stessa nozione di «verità», di «religione» e di «rivelazione»; l'essenza di questo cambiamento è nell'accettazione incondizionata del principio di immanenza", abbandonando "senza residui la verità cristiana alla contingenza della cultura umana e dell'esperienza soggettiva" (1).
 
Ma il modernismo può essere considerato anche come una categoria: ovvero come una famiglia spirituale di persone, che vogliono restare all'interno della Chiesa, cercando tuttavia di traghettare in essa gli errori dominanti e lo spirito mondano dell'epoca in cui vivono. I modernisti possono essere considerati come coloro che vorrebbero aprire le porte della Chiesa alla Rivoluzione, nella fase storica a loro contemporanea.
 
Gesù è stato tentato da satana, perseguitato dai nemici, e tradito da Giuda, uno dei "suoi"; analogamente la Chiesa è tentata dalle eresie, perseguitata dai nemici, tradita da parte dei suoi figli. Questo tradimento può essere del singolo (allora abbiamo i peccati personali), ma può essere ordito e attuato scientemente da un gruppo di persone organizzate e associate per contaminare dall'interno la Gerusalemme divino-umana: e costoro costituiscono la stirpe dei modernisti: una sorta di "truppe speciali" comprese nella più vasta "stirpe del serpente" che insidia, dall'inizio della storia, la "discendenza della donna".
 
2. Il debutto ufficiale: il giansenismo.
 
Il giansenismo è stata la prima eresia - una forma sofisticata di calvinismo - che ha cercato di attecchire all'interno della Chiesa.
L'essenza teologica del giansenismo, contenuta nell'opera Augustinus - a cui Giansenio (Cornelius Jansen, 1585-1638) aveva lavorato per 22 anni e apparsa postuma nel 1640 - è stata ben sintetizzata in cinque proposizioni, condannate da Innocenzo X, nella Costituzione apostolica Cum occasione (1653). Le proposizioni sono:
 
1) "Alcuni precetti di Dio sono impossibili agli uomini giusti, nonostante il volere e gli sforzi, secondo le presenti forze; pure manca lo quella grazia, che li rende possibili".
2) "Alla grazia interiore, nello stato di natura decaduta, non si resiste mai".
3) "Per meritare o demeritare, in stato di natura decaduta, non si richiede nell'uomo la libertà dalla necessità, ma è sufficiente la libertà da costrizione [esterna]".
4) "I semipelagiani ammettevano la necessità della grazia interiore preceniente per le singole azioni, anche per l'inizio della fede; e  per questo erano eretici, in quanto pretendevano che quella grazia fosse tale, che la volontà umana potesse resistere e obbedire ad essa".
5) "È semipelagiano affermare che Cristo è morto o avesse versato il sangue assolutamente per tutti gli uomini" (2).
 
La natura del giansenismo come modernismo - inteso come famiglia spirituale - si rivela in una lettera di San Vincenzo de' Paoli, che narra come Jean-Ambroise Duvergier de Hauranne, abbé de Saint-Cyran (1561-1643) - uno dei padri del giansenismo assieme allo stesso Giansenio e ad Antoine Arnaud (1612-1694) - abbia invano cercato di tirarlo nel suo partito:
 
"San-Cirano mi parlò un dì in questi termini — Iddio mi ha dato e mi dà ancora grandi lumi mi ha fatto vedere che da cinque o sei secoli non vi ha più Chiesa. Pria di quest'epoca era la Chiesa simigliante a un gran fiume di limpide acque. Ma oggi quella che comparisce per Chiesa non è che un ammasso di loto. Il letto del fiume è sempre lo stesso, soltanto le acque sono mutate. —
Io gli risposi che tutti gli eresiarchi eransi serviti del medesimo pretesto per stabilire i loro errori, e gli citai l'esempio di Calvino. — Egli allora mi soggiunse, che Calvino non si era ingannato in tutte le sue opinioni; il suo errore era stato sul modo di difenderle" (3).
 
Ecco rivelato l'errore: "Calvino non si era ingannato in tutte le sue opinioni"; ed ecco la nuova strategia: "il suo errore era stato sul modo di difenderle". Bisognava farlo dall'interno della Chiesa, per renderla come era "pria di questa epoca".
 
Lo stratega massimo del giansenismo fu l'Arnaud: dopo la condanna dell'Augustinus, Arnaud dettò ai suoi - che per altro ritenevano il Papa "incompetente" e inferiore al Concilio ecumenico -, di condannare insieme al Papa le cinque proposizioni; tuttavia di affermare che queste in realtà non si trovano nell'opera di Giansenio, oppure se vi si trovano, erano nel senso dato loro non da Giansenio, ma da S. Agostino, e quindi incondannabili.
A ciò, Arnaud aggiunse l'affermazione che la Chiesa non è infallibile quando giudica sul senso che un autore dà alle sue parole, trattandosi di una "quaestio facti". Pertanto a queste condanne non è dovuto un assenso interno, ma tutt'al più un rispettoso silenzio ("silentium obsequiosum").
 
Questa tattica - nella sostanza - è adottata dai modernisti di tutte le epoche: ormai è un luogo comune, ad esempio, sostenere che San Pio X non avrebbe compreso quanto affermato in realtà dai modernisti: la tesi, espressa e sostenuta per la prima volta nel Programma dei modernisti (1907; si tratta della risposta - ufficialmente anonima, redatta da Ernesto Bonaiuti (1881-1946) con il contributo di altri - all'enciclica Pascendi) è ormai un ritornello nella pubblicistica cattolica; il "silentium obsequiosum" oggi si unisce alla onni-decisionale coscienza del singolo nella "situazione storica e concreta" etc. etc.
 
3. Il modernismo
 
Il modernismo non è altro che il tentativo di traghettare all'interno della Chiesa il pensiero moderno o il principio di immanenza. L'essenza del modernismo in quanto categoria si può riassumere in questa frase di Alfred Loisy: 
 
"Dobbiamo adattare la Chiesa, la sua costituzione, la sua dottrina, i suoi riti allo spirito  moderno, alla scienza moderna, alla società moderna. Tutta la teologia cattolica, persino nei suoi principi fondamentali, dovrà comparire davanti al Tribunale della Modernità. Il vecchio edificio ecclesiastico dovrà crollare" (4).
 
Benché i modernisti siano stati abili nel cercare di sfuggire ad ogni etichetta, non accettando integralmente alcun sistema filosofico in forma integrale, in realtà attingono da Kant e da chi è venuto dopo, nella ricerca di una gnosi, ossia della individuazione di un pensiero unico che permetta di interpretare tutto il reale.
Questo principio, che costituisce l'essenza del modernismo, è l'"immanenza vitale", intesa rigorosamente come esperienza privata.
 
P. Cornelio Fabro ha ben analizzato il processo quasi alchemico di sintesi di pensieri opposti confluenti nel modernismo:
 
"1) la realtà è impressione di coscienza (Humes, James, Bergson); 2) la verità si risolve nel destino e nello sviluppo della coscienza umana (Hegel); 3) tale coscienza si manifesta e si attesta nell'impressione o percezione intima («sensus» dell'enciclica Pascendi, «Gefühl» di Schleiermacher), quale si dà al singolo volta per volta".
Così i fautori del modernismo hanno potuto protestare di accettare tutta la dottrina della Chiesa, ma in realtà essi respingono ad un tempo: 1) il concetto di «trascendenza ontologica» di Dio rispetto al creato e alla mente finita, così che Dio è sostituito col «divino»; 2) il concetto stesso di soprannaturale cosicché i dogmi sono ridotti a «simboli» e ad «approssimazioni»; 3) il concetto infine di «magistero ecclesiastico, la cui autorità impegna per quel tanto in cui la coscienza privata del singolo si trova in accordo con l'autorità esterna".
Si ha così "la dissociazione della coscienza stessa del cristiano […] fra l'ossequio esterno del credente all'autorità della Chiesa che propone la verità da cedere e la convinzione interiore dello studioso"; "[…] l'unica formula della verità religiosa si risolveva nella struttura che la coscienza dà a se stessa di fronte ai singoli problemi della fede. Giustamente perciò l'enciclica [Pascendi] qualifica il modernismo non tanto di eresia, ma di «compendio di tutte le eresie»: si potrebbe quasi chiamare l'«eresia essenziale», in quanto capovolge e nega la garanzia stessa dell'ortodossia, cioè il supremo magistero che mediante l'assistenza dello Spirito Santo continua nella Chiesa secondo le promessa di Gesù Cristo" (5).
 
4. Modernismo e giansenismo.
 
Rispetto al giansenismo, il modernismo è più consapevole di essere un gruppo che lavora segretamente all'interno della Chiesa per portarla sulle sue posizioni. Una prova di quanto affermo ci è offerta da Antonio Fogazzaro (1842-1911), nel suo romanzo Il Santo (1905): egli teorizza la necessità di dar vita a una vera e propria "Massoneria cattolica". Riporto alcuni stralci dell'opera assai significativi: una scena in casa di tal Giovanni Selva, solito a riunire vari intellettuali per discutere di questioni religiose e, tra queste, soprattutto di una riforma della Chiesa. Fogazzaro si serve dell'abate Marinier, di Ginevra, personaggio timoroso circa l'idea di dare inizio a una "massonera cattolica", per fare da "spalla" a don Clemente, benedettino del monastero di S. Scolastica in Subiaco - personaggio assai grintoso - che energicamente espone il programma dei modenisti.
 
Abate Marinier: "…Prima dunque di iniziare questa frammassoneria cattolica, io credo che vi converrebbe intendervi circa le riforme. Dirò di più; io credo che anche quando fosse fra voi un pienissimo accordo nelle idee, io non vi consiglierei di legarvi con un vincolo sensibile come propone il signor Selva. La mia obbiezione è di una natura molto delicata. Voi pensate certo di poter navigare sicuri sott'acqua come pesci cauti, e non pensate che un occhio acuto di Sommo Pescatore o vice-Pescatore [S. Pio X e Mons. Benigni o il Card. Merry del Val; n.d.r] vi può scoprire benissimo e un buon colpo di fiocina cogliere. Ora io non consiglierei mai ai pesci più fini, più saporiti, più ricercati, di legarsi insieme. Voi capite cosa può succedere quando uno è colto e tirato su. E, voi lo sapete bene, il grande Pescatore di Galilea metteva i pesciolini nel suo vivaio, ma il grande Pescatore di Roma li frigge.»
 
[…]
 
Don Clemente: "…Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente quanti sentiamo ch'Egli prepara una lenta ma immensa trasformazione religiosa per opera di profeti e di Santi [sacerdoti gnostici modernisti; n.d.r], la quale si opererà con sacrificio, con dolore, con divisione di cuori; quanti sentiamo che i profeti sono sacri al soffrire e che queste cose non ci vengono rivelate dalla carne o dal sangue ma dall'Iddio vivo nelle anime nostre [N.B. Ecco l'immanenza vitale! N.d.r.]! Comunicare, vogliamo, tutti, di ogni paese, ordinare la nostra azione. Massoneria Cattolica? Sì, Massoneria delle Catacombe. Lei teme, signor abate? Teme che si taglino tante teste con un colpo solo? Io dirò: dov'è la scure per un tal colpo? Uno alla volta tutti si possono colpire: oggi il professore Dane, ad esempio, domani don Farè, posdomani qui il padre; ma il giorno in cui quella fantastica fiocina del signor abate Marinier pescasse, attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors'anche (come oggi; n.d.r.), quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà cadere nell'acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa? – Ma poi mi perdoni, signor abate, se io dico a Lei e ai prudenti come Lei: dov'è la vostra fede? Esiterete voi, per paura di Pietro, a servire Cristo? (disprezzo del magistero; n.d.r.) Uniamoci contro il fanatismo che lo ha crocifisso e che avvelena ora la Sua Chiesa..." (6)
 
Possiamo ancora constatare, che, rispetto al giansenismo, il modernismo ha la coscienza di essere una famiglia spirituale che attraversa la storia; in caso di sconfitta, si deve passare il testimone delle rivoluzione alle generazioni future.
 
Scriveva George Tyrrel (1861-1909):
 
"Quando mi guardo attorno, sono condotto a pensare che questa onda della resistenza modernista sia giunta al limite delle sue forze e abbia dato tutto quel che poteva dare per il momento. Dobbiamo aspettare il giorno in cui, attraverso un lavoro silenzioso e segreto, avremo guadagnato una ben più  grande parte dell'armata della Chiesa alla causa della Libertà" (7).
 
5. Ai giorni nostri
 
Dopo la morte di San Pio X, la cultura cattolica dominante considerava il modernismo definitivamente sconfitto (8); invece i sopravvissuti, misteriosamente riabilitati (come non può venire in soccorso della figlioccia "massoneria cattolica" la "madre massoneria tout-court"?) e sottovalutati nella loro pericolosità, hanno raccolto il testimone della stirpe trans-storica, e, favoriti dal fatto che gli uomini si circondano spesso di maestri secondo le loro voglie, hanno riacceso l'incendio.
Abbiamo visto che caratteristica del modernisti è il tentativo di traghettare il pensiero del mondo a loro contemporaneo; negli scorsi decenni, in piena egemonia culturale comunista, il mostro ha preso le teste della teologia della liberazione nei salotti teologici tedeschi e tra il clero latino-americano, e del catto-comunismo in Italia: si tratta del modernismo sociale, il modernismo che coltiva una religiosità debole e solo tra le mura domestiche, che rinuncia al diritto naturale fondato sull'essere esterno al pensiero, e che quindi rende compatibile la falsa fede solo di foro interno con il materialismo storico (fino a vent'anni fa) e (oggi) con il "renzismo".
Si comprende anche il fenomeno dei cattolici vegani e vegetariani, appendice di un modernismo che traghetta il panteismo verde-ecologista, ad esempio quello dell'ultimo Leonard Boff: per lui la vita eterna non è altro che un'evoluzione di questo cosmo verso una forma di vita più complessa. Cito una sua frase giusto per dare un'idea di che cosa si tratta: "Come ha evidenziato Edward Wilson, la vita non è né materiale, né spirituale: la vita è eterna ed è immersa nel processo dell’evoluzione. Ed è quello che afferma il cristianesimo: che tutto è relazionato e che esiste un fine buono per l’umanità e per l’universo. In altre parole, non andremo incontro alla morte termica, ma a forme sempre più complesse e più alte" (9).
 
Ma i grandi mali di oggi sono il nichilismo e il pensiero debole; il pensiero moderno, dopo aver voluto sottomettere ogni cosa al giudizio del tribunale della ragione e aver poi scoperto (l'acqua calda) che la ragione di fronte all'essere è come il pipistrello davanti alla luce solare, ha realizzato che la dea ragione è in realtà una povera cieca; e nulla può ella per dichiarare una qualunque opzione preferibile ad un'altra.
E così alla fine, all'uomo sballottato e portato qua e là "da ogni vento di dottrina" (Ef 4,14), tagliate le corde delle ancore dell'essere (filosofia perenne) e del magistero (bypassato), tarpate le ali della fede (ridotta a sentimento) e della ragione (privata di ogni intenzionalità nella conoscenza), rimane il puro distillato del veleno modernista, ovvero il principio di immanenza: niente fuori dal mio esistere, niente fuori dal mio mondo soggetttivo... sarete come dei...
 
6. Somiglianze "materiali".
 
Le varie fasi del modernismo non si rassomigliano solo per la forma di attacco alla Chiesa portato dal suo interno. Ci sono anche delle rassomiglianze materiali. Comune ai modernisti di tutte le epoche è l'insofferenza per il magistero, che viene ora aggirato, ora contestato, ora sottoposto al giudizio della singola coscienza.
Inoltre è paradossale, ma non del tutto inaspettato, ritrovare le asserzioni del tenebroso giansenismo tra i paladini della misericordia. Se il Card. Kasper afferma che "Non siamo in grado, come esseri umani, di raggiungere sempre l'ideale, la cosa migliore" e "…l'eroismo non è per il cristiano medio" (10), oppure se p. Giovanni Calvalcoli parla di "forza soverchiante della tentazione" (11), non sentiamo qui l'odore della proposizione giansenista condannata come "temeraria, empia, blasfema, condannata con anatema, eretica" (12) che suona: "Alcuni precetti di Dio sono impossibili agli uomini giusti, nonostante il volere e gli sforzi, secondo le presenti forze; pure manca lo quella grazia, che li rende possibili" (13)?
Se al povero "divorziato risposato" non viene proposta la vetta - realmente e concretamente raggiungibile - , e non gli viene annunciato nulla della grazia che sempre lo accompagna, se ci si limita a studiare tutte le attenuanti per scusarlo dal peccato, non lo si abbandona, in fondo, alla concupiscenza invicibile giansenista?
Un buon vaccino contro questo giro mentale ci viene offerto da S. Ignazio di Loyola: tra le regole del discernimento degli spiriti, contenute negli Esercizi spirituali, ve ne è una che fa al caso di tutti coloro che soffrono per non riuscire ancora a vivere in grazia di Dio: "Settima regola [della I settimana]. Chi si trova nella desolazione, consideri che il Signore, per provarlo, lo ha affidato alle sue forze naturali, perché resista alle diverse agitazioni e tentazioni del demonio; e può riuscirci con l'aiuto di Dio che gli rimane sempre, anche se non lo sente chiaramente. È vero, infatti, che il Signore gli ha sottratto il molto fervore, il grande amore e la grazia abbondante; però gli ha lasciato la grazia sufficiente per la salvezza eterna" (14).
 
7. Fatima e il modernismo
 
A Fatima sono stati rivelati dalla Madonna tre segreti: il primo è l'inferno dei singoli, castigo per i peccati personali; il secondo segreto è la diffusione del comunismo, vero e proprio inferno delle nazioni, castigo per i peccati sociali; il terzo, un Vescovo vestito di bianco che sale una "ripida salita" in un diluvio di sangue, e che viene ucciso colpito anche da frecce (l'arma "biblica" del traditore); non potrebbe tutto questo significare una sorta di inferno per la Chiesa, ossia il realizzarsi di quella "lenta ma immensa trasformazione religiosa per opera di profeti e santi" nei voti di Fogazzaro, frenata certamente dal "non prevalebunt" giurato dal Salvatore, ma tale da potere disorientare tutta la Cristianità; trascinando nell'abisso dell'eresia "un terzo delle stelle del cielo", "attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors'anche", dove il pescatore non è Pietro, ma il demonio?
 
8. Conclusione
 
Riconsideriamo, pur con grande disgusto, il giorno atteso da Fogazzaro, "il giorno in cui quella fantastica fiocina del signor abate Marinier pescasse, attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors'anche, quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà cadere nell'acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa?"
 
Fogazzaro non immaginava il pescatore Pio XII, che con l'Humani generis avrebbe intimato l'alt alla Nouvelle théologie; il pescatore Beato Paolo VI che avrebbe difeso - contro tutto e contro tutti - la santità del matrimonio con l'Humane vitae; il pescatore San Giovanni Paolo II che avebbe promulgato la Familiaris Consortio, la Veritatis Splendor, il Catechismo della Chiesa Cattolica (da portarsi dietro nell'arca in caso di diluvio) etc. etc; il pescatore Benedetto XVI, che ancorché costretto a dimettersi, avrebbe fatto in tempo a ridare cittadinanza a quella Messa che è simpliciter l'"ostacolo" (τὸ κατέχον 2 Tess 2,6) al modernismo; quel Joseph Ratzinger che avrebbe ribadito il progresso dogmatico nella riforma e nella continuità, e non nell'alchemico storicizzante dissolvimento della verità cattolica…
 
Qualcuno potrebbe obiettare che gli argini suddetti non sono riusciti a contenere l'esondazione devastante del fiume modernista. Rispondo, innazi tutto, che questi documenti rimangono un vessillo sopra le nubi, ben visibile per il piccolo resto che "non ha piegato il ginocchio davanti a Baal e non lo ha baciato sulla bocca" (Cf. 1 Re 19,18). Inoltre sono il seme che, proprio in caso di alluvione, l'agricoltore conserva, per quando la piena sarà passata. Il paragone è di Guareschi e bisogna leggere le sue ipsissima verba; Gesù così risponde a don Camillo che gli chiedeva che cosa si poteva ancora fare:
 
"Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede e mantenerla intatta" (15).
 
Ebbene, verrà il giorno in cui potremo riseminare l'Humani generis, l'Humanae vitae etc. etc.
 
E adesso, venenum in cauda, l'ultima obiezione: con l'avvento del Papa Francesco, forse che  Fogazzaro non canta vittoria dal luogo dove si trova? 
Rispondo che per ogni Papa da secoli si prega perché il Signore "non tradat eum in animam inimicorum eius", perché nessun Papa - per la cui fede indefettibile ha pregato Gesù stesso -, possa cadere nel giro mentale dei suoi nemici (che possono essere anche i suoi più stretti collaboratori, o persone che ne godono la fiducia). Alla preghiera di Gesù si aggiunge dunque - ed è un tutt'uno - la preghiera della Chiesa.
Inoltre le promesse del Salvatore "Non praevalebunt" non sono state pronunciate "in campagna elettorale", ma sono promesse umano-divine: di conseguenza crediamo (di fede teologale) - talvolta contra spem (Rm 4,18) - che anche questa volta porteremo a casa la pelle; non so per quale via o per quale martirio, ma la fede della Chiesa non verrà meno.
 
Ma il trionfo del Cuore Immacolato di Maria non passa solo per un ipotetico Papa salvato dall'eresia o afferrato per i capelli all'ultimo secondo dei tempi supplementari. Ci vogliono profeti e santi di segno contrario a quelli arruolati nell'esercito di Fogazzaro; lui auspicava soldati che disobbedissero a Pietro per obbedire a Cristo; noi crediamo che non si può obbedire a Cristo se non passando per l'obbedienza a Pietro, obbedienza "cum granu salis", ma reale obbedienza.
Inoltre i veri "profeti e santi" saranno - gioco forza - devoti e consacrati, senza limite alcuno, all'Immacolata: saranno il suo calcagno, la parte più umiliata e più disprezzata, più odiata dagli uomini e dall'inferno; ma alla fine saranno vero calcagno, quella parte del Corpo mistico, quella discendenza della Donna, che insieme ad Ella schiaccerà la testa dell'eresia modernista.
 
Concludo con una frase del Montfort: "Ma quando avverrà tutto questo? Dio solo lo sa. Compito nostro è di tacere, pregare, sospirare e attendere: «Ho sperato: ho sperato nel Signore (Sal 40,2)»" (16).
 
NOTE
 
(1) Cornelio Fabro, «Modernismo», Enciclopedia Cattolica, vol. VIII, C.d.V. 1952, coll 1188-1189 passim.
(2) DS/36 2001-2005; trad. redazionale.
(3) P. Bernardo Dorée Dalgains d'O., Della devozione al Sacro Cuore di Gesù, con una introduzione sullo spirito del giansenismo, Napoli 1865, p. 27.
(4) Cit. in «La massoneria cattolica», www.atfp.it/rivista-tfp/2011/96-marzo-2011/487-la-qmassoneria-cattolic... visitato il 20-10-2015.
(5) C. Fabro, Ibidem, col. 1193.
(6) Ho consultato l'opera nel formato e-book,  2005/2, digitalizzazione dell'edizione Mondadori 1953, affidabilità buona, p. 24 e 26, grassetto redazionale; testo scaricato da: www.classicistranieri.com/liberliber/Fogazzaro,%20Antonio/il_sa...
(7) Lettera a un confidente romano del 24-8-1908, citata da E. Bonaiuti e riportata parzialmente in J. Rivière, «Modernisme», DThC X, col. 2042, grassetto e traduzione redazionali.
(8) Cf. J. Rivière, Ibidem, col. 2045.
(9) Chiara Fanti, «La Chiesa e il mondo al bivio: o si cambia o si muore. Intervista a Leonardo Boff», 17-10-2015, leonardoboff.wordpress.com/2015/10/19/la-chiesa-e-il-mondo-al-bivio-o-si-cambia-o-si-muore-intervista-a-le... visitato il 27-10-2015.
(10) «Ecco gli argomenti per la comunione ai divorziati risposati» intervista di A. Tornielli al Card. Kasper, 8-5-2014, vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/kasper...
(11) «La comunione ai risposati non tocca la dottrina ma la disciplina», intervista di Andrea Tornielli a P. Giovanni Cavalcoli O.P., 17-10-2015,http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-43987/.
(12) DS/36 2006.
(13) DS/36 2001.
(14) Esercizi spirituali, § 320, grassetto redazionale.
(15) Giovannino Guareschi, Don Camillo e don Chichì, in Tutto Don Camillo. Mondo piccolo, II, BUR, Milano, 2008, p. 3115.
(16) Vera devozione, § 59.







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