IL CARPE DIEM di Orazio

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Caterina63
00venerdì 6 novembre 2009 18:53
Per un'interpretazione autentica delle poesie di Orazio

«Carpe diem» (fino a un certo punto)



di Marco Beck


Se, in quest'epoca d'imperversanti sondaggi, qualche istituto di ricerca effettuasse un'indagine su un campione di studenti ed ex studenti liceali, chiedendo loro quali versi o frammenti di versi latini siano rimasti maggiormente impressi nella loro memoria, al primo posto si classificherebbe, con ogni probabilità, il carpe diem di Orazio.

Talmente popolare e proverbiale risulta ancora oggi, questo imperativo con complemento oggetto, da non richiedere alcuna traduzione. Resta fissato nella pregnante brevitas con cui ha solcato l'oceano di venti secoli. Rischiando, purtroppo, di incapsulare il sommo poeta di Venosa in uno stereotipo tanto comodo quanto riduttivo, e in gran parte fuorviante:  Orazio sarebbe il cantore del piacere effimero, volatile, superficiale, quasi un antesignano di Lorenzo il Magnifico, predicatore di una spensierata letizia da cogliere nella fugace stagione della giovinezza. Ma esiste oggi una volgarizzazione ancor peggiore.

Qualche genio del marketing ha messo in circolazione una storpiatura del motto oraziano che, banalizzandolo oltre i limiti della decenza, lo ha degradato a marchio o insegna di calzaturifici:  "scarpe (sic) diem".



Bisognerebbe proprio tradurlo, invece, per intenderlo a fondo, questo carpe diem, e allargare la visuale all'intero contesto dell'ode (l'undicesima del primo libro) in cui è incastonato. E allora leggiamolo, o rileggiamolo, in italiano il carmen dedicato a Leuconoe, ricorrendo alla più recente traduzione comparsa nel fitto bosco editoriale delle opere di Orazio:  quella di Carlo Carena, l'esperto interprete di tanti classici della latinità, di san Paolo, di sant'Agostino, di Pascal. A ospitarla è un volume della collana "I millenni", comprensivo di Tutte le poesie e curato con acribia da Paolo Fedeli (Torino, Einaudi, 2009, pagine xliv-1002, euro 95). Recita così, la versione di Carena:  "Tu non cercare - è proibito saperlo - qual fine a me, / quale a te hanno posto gli dèi; non tormentare, o Candida (= Leuconoe), / le cabale orientali. Meglio prendere tutto come viene. / Sia che avremo da Giove molti inverni o per ultimo / questo che sfianca il mare Tirreno sugli scogli, / sii sapiente, filtra i vini, ritaglia in spazio breve / la speranza lontana. Noi parliamo, ed è fuggita, invidiosa, la vita. / Afferra il giorno, e assegna quanto meno ti riesce al domani".

La saggezza raccomandata da Orazio alla sua giovane amante o amica non si esplica in un edonistico rifugio nell'attimo presente, immemore del passato e incurante del futuro. Né tanto meno in una chiusura entro un angusto perimetro di pura immanenza, di scettico ateismo. Non c'è spazio, qui - nonostante la dichiarata stima di Orazio nei confronti di Epicuro - per la dottrina epicurea degli dèi indifferenti alle sorti umane. Il poeta e la donna da lui cantata devono evitare di arrovellarsi per far luce sul proprio destino, che non da loro dipende ma giace, imperscrutabile, in mani divine. Il rifiuto di pratiche magiche o astrologiche introdotte a Roma dall'Oriente equivale a una drastica condanna della superstizione alimentata tra il popolo da scaltri ciarlatani. Il richiamo è, piuttosto, a un corretto atteggiamento religioso, quasi - verrebbe da dire - a un fiducioso abbandono alla volontà divina. Senza sogni illusori di felicità a buon mercato.

L'esortazione a concentrarsi sul giorno vissuto "in presa diretta", a coglierlo, assaggiarlo, gustarlo (tutte accezioni incorporate nel verbo carpere), ha un tono di sereno disincanto che sembra riecheggiare la scabra sapienzialità del Qoèlet. E non è illegittimo sentire persino una consonanza con la parenesi di Gesù in Matteo (6, 25-34):  "Perciò vi dico:  per la vostra vita non affannatevi (...) E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? (...) Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena".

È forte la tentazione di parlare, adottando la formula con la quale Simone Weil ha contrassegnato talune affinità fra il pensiero greco e il messaggio evangelico, di un'intuizione precristiana di Orazio. Occorre cautela, certo, nell'instaurare parallelismi più capziosi che plausibili. Ma, pur senza dimenticare che il quadro di riferimento "ideologico" dell'opera oraziana consiste soprattutto in una flessibile miscela di epicureismo, stoicismo e diatriba cinica, non è né difficile né abusivo scorgere in sottofondo tracce di quelli che, introducendo la mia traduzione con commento delle Epistole (Oscar Mondadori, 1997), ho definito, sulla base di una significativa campionatura, "presentimenti cristiani".

Tornando al carpe diem e al suo contorno, si potrebbe pensare che vi sia distanza incolmabile, e addirittura contraddizione, fra questa discesa nel pozzo della quotidianità, più volte replicata altrove, e l'ascesa all'empireo della fama imperitura profetizzata nella trentesima ode terzo libro, con il suo celebre incipit Exegi monumentum aere perennius ("Ho eretto un monumento più eterno del bronzo") e con l'orgogliosa ma non presuntuosa clausola finale, "Sii fiera, o Musa, lo meriti, / e cingi di buon grado la mia chioma / con l'alloro di Delfi". Com'è ovvio, non si può chiedere a un artista della parola poetica di costruire un sistema concettuale d'impeccabile coerenza. Ed è altrettanto ovvio che lo straordinario spessore umano dell'"autobiografia" dipanata da Orazio nel percorso che attraversa Odi, Epodi, Satire ed Epistole si nutre anche delle incongruenze, dei contrasti disseminati lungo l'arco di una vita.

Eppure, se confrontiamo il nadir del carpe diem con lo zenit del monumentum aere perennius, un filo di connessione logica si lascia intravedere. La via che conduce all'immortalità non passa, per Orazio, attraverso la solennità della poesia epica e la suggestione delle vicende mitiche collegate alla storia di Roma, di cui si è invece fatto maestro Virgilio col grandioso affresco celebrativo dell'Eneide. I posteri non lo ricorderanno per le "odi romane" del terzo libro, né per l'apoteosi augustea del carmen saeculare. Ciò che - presagisce il poeta di Venosa - sopravvivrà alla corrosione del tempo, alla innumerabilis annorum series, è la capacità del suo canto di affondare, con gli strumenti forgiati da uno stile d'inimitabile densità, estrosità ed eleganza, nella carne, nel sangue, nel respiro del vivere quotidiano:  in forma lirica nei Carmina, narrativa o riflessiva nei Sermones.

Con un progressivo innalzamento dal livello realistico a quello filosofico-spirituale nella transizione dalle Satire alle Epistole. La poesia oraziana, in tutte le sue molteplici sfaccettature, continua ad affascinarci perché sa, essa stessa, carpere diem. Non a caso, questo verbo-chiave riaffiora nella seconda ode del quarto libro, là dove Orazio si paragona a un'ape del Gargano grata carpentis thyma  per  laborem plurimum, "che sugge  il timo profumato con fatica immensa".

Serenamente consapevole della qualità di quanto veniva scrivendo, dalla sua specola del I secolo prima dell'era cristiana Orazio lesse bene nel libro del futuro. La posterità gli ha espresso ammirazione e tributato onori, ancorché la storia del suo Fortleben non sia costellata solo di luci sfolgoranti. Se Quintiliano ne esaltava la curiosa felicitas, Marco Aurelio replicò all'elogio di Frontone con una secca stroncatura. Ombre e penombre lo lambirono durante il medioevo, che ne ignorava la produzione lirica, stando alla testimonianza di Dante (Inferno, iv 89:  "Orazio satiro"), e ancor più nell'Ottocento intriso di romanticismo. Sorprendentemente punitivo il giudizio di Leopardi nello Zibaldone:  "Uomo di poco valore in quanto poeta". Per contro, rinascimento, barocco e illuminismo lo abbracciarono, tradussero, imitarono senza riserve. Carducci, D'Annunzio e - con perizia mimetica nei Carmina - Giovanni Pascoli contribuirono a rinverdire la sua "fortuna" all'inizio del Novecento, secolo che ha decretato la sua definitiva consacrazione, e che tra gli orazisti più appassionati annovera (come ci rivela Carena nella dissertazione introduttiva a Tutte le poesie) Carlo Emilio Gadda. In gloria del Venosino, il raffinato scrittore lombardo ha scolpito un'epigrafe trionfale:  "I posteri sentono concordemente, nei millenni, la grandezza del suo spirito e della sua poesia:  cioè la veridicità schietta, la nitida concretezza, la saggezza e l'amabilità discorsiva o il dolce senso della vita, e sempre l'eleganza inarrivabile del verso immortale".

Più equilibrato, "oraziano" proprio per il rifiuto della retorica, il profilo tracciato dal latinista Alberto Grilli in occasione di un convegno a Venosa, nel 1992:  "La simpatia, il calore che la sua poesia diffonde sono, in sostanza, la simpatia, il calore che emanano dalla sua figura d'uomo, notevolmente celata dietro all'ironia. (...) Per certi aspetti, la grandezza di Orazio sta nella fusione tra libertà della coscienza, individuale, e libertà della poesia, universale". In altre parole, Orazio piace ancora oggi, e piacerà sempre, perché non è solo un grande poeta ma anche un uomo ironico, libero e simpatico:  un amico.


(©L'Osservatore Romano - 7 novembre 2009)

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