IMITARE I SANTI che ora sono con Dio e pregano per noi

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(Teofilo)
00domenica 27 settembre 2009 18:18
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Consiglia  Messaggio 1 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 30/06/2003 21.31

Eb 13,7

Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno predicato la parola di Dio e contemplando l'esito della loro maniera di vivere, imitatene la fede.



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Consiglia  Messaggio 2 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 30/06/2003 21.32

In questo versetto il redattore della lettera raccomanda agli ebrei "RICORDATEVI".

Come per dire, fatene memoria; metteteli nella vostra attenta considerazione; non dimenticateli. Siccome dice "contemplando l'esito della loro maniera di vivere (secondo altri traduttori "della loro fine") si trattava molto probabilmente di capi che erano giunti al martirio. Essi vengono dunque additati come motivo di RICORDO innanzitutto, e poi si aggiunge, IMITATENE LA FEDE.

Al RICORDO viene aggiunta l'IMITAZIONE.

Prima di proclamare che certi uomini o donne hanno vissuto una vita santa, e che quindi sono degni di essere imitati, la chiesa ne accerta le virtù solide ed eroiche, soprattutto tenendo presente la virtù della carità, che deve essere stata duratura ed esemplare fino alla morte.

Inoltre, non ritiene ancora sufficiente il proprio giudizio se il Signore non vorrà avvalorare la considerazione di quel candidato ad essere proclamato beato o santo per mezzo di qualche manifestazione soprannaturale accertata ed inconfutabile.

IMITATARE LA FEDE DEI SANTI è molto importante, perchè ogni epoca presenta delle nuove sfide ai cristiani, ed è importante conoscere IN CHE MODO questi uomini HANNO SAPUTO AFFRONTARE tali sfide con sapienza e virtù cristiana esemplare.

La parola venerazione fonde insieme questi concetti e non è assolutamente da confondere con il termine ADORAZIONE con cui si presenta il proprio culto a Dio solo, come dice il Catechismo:

2628 L' adorazione è la disposizione fondamentale dell'uomo che si riconosce creatura davanti al suo Creatore. Essa esalta la grandezza del Signore che ci ha creati [Cf Sal 95,1-6 ] e l'onnipotenza del Salvatore che ci libera dal male. E' la prosternazione dello spirito davanti al "Re della gloria"( Sal 24,9; 2628 Sal 24,10) e il silenzio rispettoso al cospetto del Dio "sempre più grande di noi"

[Cf Sant'Agostino, Enarratio in Psalmos, 62, 16]. L'adorazione del Dio tre volte santo e sommamente amabile ci colma di umiltà e dà sicurezza alle nostre suppliche.


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Consiglia  Messaggio 3 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 30/06/2003 21.33

Agostino dirà in un'omelia: "miei cari, venerate i martiri, lodateli, amateli, celebrateli, suonateli; ma è al Dio dei martiri che dovete rendere culto" (sermone 273,9). E specificherà meglio: "occorre dunque onorare i Santi sotto forma di imitazione, ma non adorateli sotto forma di religione" (La vera religione,55).

Questa venerazione può essere meglio compresa se si pensa che in essa era presente anche un elemento derivante dalla tradizione ebraica del culto delle tombe dei Santi. i cristiani ripeteranno quel culto verso le tombe dei martiri.

Se alcune volte, sembra che tale venerazione sia eccessiva, occorre che i pastori veglino sul gregge affinchè da una verità, che è quella espressa nel versetto di Eb.13,7, si passi ad una forma erronea di fede. Ma dobbiamo avere la pazienza di non mostrare tanto eccessivo zelo quanto altri ne hanno nel mostrare una forma di eccessivo affetto . Non dobbiamo dimenticare che anche un morboso ed errato attaccamento al Testo della Scrittura può produrre pericolosi fondamentalismi religiosi. Sempre, nel cammino della verità, vi sono pericoli, ed occorre una guida.

Vi sono fedeli che come dice Paolo "hanno ancora bisogno di latte", e perciò, da quegli affetti, correttamente guidati, potrà scaturire un conseguente maggiore affetto per Dio, che ha suscitato quella santità, e che il fedele arriva prima o poi a comprendere, appena sarà in grado di nutrirsi di cibo solido.

Solo a quel punto i credenti potranno considerare i santi come fratelli che ci hanno preceduto nella via dell'unione con Dio a cui siamo tutti chiamati, e che finchè siamo nel cammino dobbiamo appunto IMITARE.

Da questo impariamo anche a dare la nostra fiducia a coloro che ci guidano.

Aiutiamoli, se ne siamo capaci, con i nostri suggerimenti amorevoli, sapendo che tutti, anche chi è preposto alla casa del Signore, può sbagliare a volte, nell'amministrazione.

A tal proposito è pertinente la citazione di Eb 13,17 dove si raccomanda:

"Lasciatevi persuadere dai vostri capi e siate sottomessi: essi infatti vegliano per le vostre anime, dovendone rendere conto. Possano fare ciò con gioia e non gemendo: questo sarebbe svantaggioso per voi."

Questa raccomandazione dell'apostolo ci faccia essere più docili nei confronti dei nostri pastori.

La Chiesa, dà molta importanza alla intercessione dei Santi e la propone ai fedeli.

I Padri già affermavano, con Girolamo: "Se gli Apostoli e i martiri hanno potuto pregare per gli altri quando erano ancora nei loro corpi, quanto più ora che sono incoronati, vittoriosi, trionfanti" (contro Vigilanzio, 6).

La preghiera di quanti sono morti in Cristo, non è quindi una ipotesi arricchita.

La preghiera sulla terra trova continuità nella preghiera del cielo, nella liturgia celeste che la nube festiva celebra con Dio.

Così nei graffiti di S. Sebastiano in Roma, in data 9 Agosto 260, i cristiani testimoniano la loro fede nell'intercessione dei Santi. "Paolo e Pietro pregate per Nativo nell'eternità".

Così sono nate le invocazioni dei santi, che hanno trovato nella chiesa cattolica la formula litanica "prega per noi".

Tuttavia la preghiera dei Santi e della Madre del Signore, non può essere una istanza straordinaria sollecitata da noi, come se l'intercessione di Cristo facesse difetto. I Santi li raggiungiamo solo in Cristo, mediatore in senso assoluto: solo in Cristo, capo del corpo formato da tutti i Santi del cielo e della terra.


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Consiglia  Messaggio 4 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 30/06/2003 21.34

Spesso ci si pone questa domanda:

 dove vanno a finire dopo la morte terrena queste anime fatte sante dalla Chiesa cattolica, e, non ho ancora capito come fanno ad intercedere presso Dio per noi comuni mortali.

Cercando nella Scrittura troviamo:

FILIP.1,21 PER ME VIVERE E’CRISTO E MORIRE UN GUADAGNO. SONO ALLE STRETTE TRA DUE COSE: IL DESIDERIO DI ESSERE SCIOLTO DAL CORPO…

2 COR. 5,1-10 QUANDO SARA’DISFATTO QUESTO CORPO,,,RICEVEREMO DA DIO UNA DIMORA ETERNA NEI CIELI. QUANTI SIAMO IN QUESTO CORPO SOSPIRIAMO…

Paolo non vede l'ora di essere sciolto dal corpo per avede da Dio la dimora nei cieli.

EFES.4,8 (GESU’) ASCENDENDO IN ALTO CONDUSSE CON SE’ UNA FOLLA DI PRIGIONIERI.

EB.12,23 VOI VI SIETE ACCOSTATI ALLA GERUSALEMME CELESTE… E AGLI SPIRITI DEI GIUSTI GIUNTI ALLA PERFEZIONE…

Questo testo indica, secondo i commentatori cattolici, che noi viventi ci siamo avvicinati spiritualmente, in comunione con loro, a tutti quelli che abitano la Gerusalemme celeste, tra cui troviamo anche gli spiriti dei giusti.

Apoc.6,11 Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco.

Un autorevole commento di Wikenhauser al brano citato dove si dice che le anime dei martiri si trovano sotto l'altare (e che secondo la tua interpretazione indica la terra), dice testualmente: "come risposta alla loro invocazione, i martiri, ricevono un abito candido, cioè il dono della vita eterna, il segno dell'appartenenza al cielo.

La Scrittura dunque ci fa conoscere che i giusti, dopo la morte sono presso Dio. A noi basta sapere questo , dal momento che è impossibile fare una descrizione del luogo.

Paolo infatti parlando del terzo cielo, dove fu rapito riferisce in 2 Cor.12,2...Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest'uomo - se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio - 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare.


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Consiglia  Messaggio 5 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 30/06/2003 21.36

Cerchiamo di indagare ora sulla preghiera dei giusti:

Apocalisse 8

1Quando l'Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz'ora. 2Vidi che ai sette angeli ritti davanti a Dio furono date sette trombe.

3Poi venne un altro angelo e si fermò all'altare, reggendo un incensiere d'oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull'altare d'oro, posto davanti al trono. 4E dalla mano dell'angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi. 5Poi l'angelo prese l'incensiere, lo riempì del fuoco preso dall'altare e lo gettò sulla terra: ne seguirono scoppi di tuono, clamori, fulmini e scosse di terremoto.

Le preghiere dei santi, tanto di quelli che sono sulla terra, quanto di quelli che non sono più in vita, sono ben accetti a Dio.

Giac.5,16 ...pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza.

Nella vita presente non esitiamo molte volte a raccomandare a qualcuno: prega per me! Perchè non possiamo farlo anche con i giusti che vivono sicuramente presso Dio e ai quali noi ci siamo "accostati" secondo Eb.12.33?

Vediamo quale considerazione avevano certi uomini:

Atti 5,14 Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore 15fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze, ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro.

Atti 19,11 Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, 12al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano.
Appare molto strano nella Scrittura che la venerazione e la considerazione per gli apostoli raggiunga il punto da ritenere che anche qualcosa della loro persona, sia utile per essere risanati.

Secondo il comune modo di vedere da parte dei non cattolici, sarebbe stato necessario che gli apostoli avessero dovuto sconsigliare, anzi proibire queste manifestazioni assimilabili a pratiche superstiziose intorno alla loro persona ed addirittura a degli oggetti appartenenti ad essi.

MA NON LO HANNO FATTO !!! CI SI DEVE CHIEDERE: COME MAI?


Anche nel V.T. troviamo alcuni spunti di questa convinzione circa il potere accordato da Dio a taluni uomini per mezzo della loro preghiera di intercessione:

leggiamo questo brano significativo di
GEREMIA 42,1

Tutti i capi delle bande armate e Giovanni figlio

di Kareca, e Azaria figlio di Osaia e tutto il popolo, dai piccoli

ai grandi, si presentarono 2al profeta Geremia e gli dissero: Ti

sia gradita la nostra supplica! Prega per noi il Signore tuo Dio,

in favore di tutto questo residuo di popolazione, perchè‚ noi siamo

rimasti in pochi dopo essere stati molti, come vedi con i tuoi

occhi. 3Il Signore tuo Dio ci indichi la via per la quale dobbiamo

andare e che cosa dobbiamo fare. 4Il profeta Geremia rispose loro:

Comprendo! Ecco, pregherò il Signore vostro Dio secondo le vostre

parole...

Si pensi ancora ad esempio alla supplica di Abramo per scongiurare la fine di Sodoma, si pensi a Mose che intercedeva per il suo popolo infedele


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Consiglia  Messaggio 6 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 30/06/2003 21.36

Vediamo cosa si pensava di questo argomento da parte dei cristiani dei primi secoli, ce lo riferisce Agostino nel suo libro 22 della Città di Dio:

8. 10. V’era l’anziano Fiorenzo della nostra Ippona, uomo devoto e povero che si sostentava col mestiere di rammendatore. Aveva perduto il ferraiuolo e non aveva denaro per ricomprarlo. Nella cappella dei Venti Martiri, la cui devozione è molto diffusa nel nostro popolo 37 <http://www.augustinus.it/cdd/cdd_22_note.htm>, pregò a voce alta per avere roba da indossare. L’udirono alcuni ragazzi che per caso si trovavano là a deriderlo, e mentre si allontanava, lo seguivano prendendolo in giro come se dai martiri avesse chiesto cinquanta spiccioli per comprarsi un vestito. Ma egli camminando in silenzio vide un grosso pesce fuori dell’acqua che guizzava sulla spiaggia e col benevolo aiuto di quei ragazzi lo catturò e, denunziando quel che era avvenuto, lo vendette per trecento spiccioli a un cuoco, di nome Cattoso, buon cristiano, per la cottura adatta a conservare. Contava di acquistare con quel denaro la lana affinché la moglie, secondo la propria abilità, eseguisse per lui qualche capo da indossare. Ma il cuoco, spaccando il pesce, trovò nello stomaco un anello d’oro e subito, mosso da compassione e intimorito da un senso religioso, lo restituì all’uomo dicendo: "Ecco come i Venti Martiri ti hanno fatto avere un vestito".

Per intercessione di santo Stefano guarigione di una cieca...
8. 11. Dal vescovo Preietto veniva portata alle Acque Tibilitane una reliquia del gloriosissimo martire Stefano in mezzo a una grande folla che accompagnava e veniva incontro. In quell’occasione una cieca pregò di essere guidata al vescovo, offrì i fiori che portava, li riprese, li avvicinò agli occhi e istantaneamente vide. Nello sbalordimento dei presenti procedeva a passo di danza, percorrendo la via senza più chiedere la guida.

... del vescovo Lucillo da fistola.
8. 12. La reliquia è stata riposta nella cittadella di Siniti che è vicina alla colonia d’Ippona. Lucillo, vescovo della medesima località, la portava in processione in mezzo al popolo che precedeva e seguiva. Una fistola, che lo affliggeva da molto tempo e che attendeva l’intervento di un medico, suo grande amico, all’improvviso fu guarita nel trasporto di quel sacro peso; difatti in seguito non la riscontrò più nel suo corpo.

Santo Stefano e la risurrezione del sacerdote Eucario...
8. 13. Eucario è un sacerdote proveniente dalla Spagna e risiede a Calama. Da tempo era afflitto da calcolosi; fu guarito mediante la reliquia del martire Stefano che il vescovo Possidio trasportò dove abitava. Il medesimo sacerdote fu colpito da un male molto grave e giaceva come morto sicché gli stavano già legando i pollici. Egli risuscitò per l’intercessione del martire suddetto quando gli fu riportata a casa, dal luogo ove era la reliquia del santo, la tunica e posta sopra il suo corpo disteso.

.....

Se infatti volessi soltanto riferire, per non parlare degli altri, i miracoli delle guarigioni che per l’intercessione di questo martire, cioè del glorioso Stefano, sono avvenuti nella colonia di Calama e nella nostra, ci sarebbe da compilare moltissimi libri. Tuttavia non potranno essere messi insieme tutti, ma soltanto quelli sui quali sono state consegnate le redazioni per essere lette nelle adunanze. Abbiamo desiderato che questo avvenisse quando abbiamo notato che segni, eguali agli antichi, della potenza di Dio sono in gran numero anche ai nostri tempi e che non debbono andare perduti per la conoscenza di molti.

I miracoli testimonianza della vita eterna.
9. Che cosa dimostrano i miracoli se non la fede con cui si annunzia che Cristo è risorto nella carne ed è salito al cielo con la carne? I martiri stessi furono martiri di questa fede, cioè testimoni di questa fede. Offrendo la testimonianza di questa fede sopportarono con coraggio un mondo assai nemico e crudele e lo vinsero non con la resistenza ma con la morte. Per questa fede sono morti coloro che dal Signore possono ottenere miracoli poiché sono stati uccisi per il suo nome. Per questa fede si rivelò la loro ammirevole sopportazione del male, affinché con i miracoli seguisse il grande dominio sul male. Se infatti la risurrezione della carne per l’eternità o non ha preceduto in Cristo o non avverrà come è preannunziata da Cristo o come è stata preannunziata dai Profeti, dai quali il Cristo è stato preannunziato, non si spiegherebbe perché abbiano tanto potere i morti che sono stati uccisi per quella fede con cui si annunzia la futura risurrezione. Infatti Dio da se stesso può compiere i miracoli nell’ammirabile modo con cui nell’eternità opera le realtà nel tempo, ovvero li compie mediante i suoi ministri; e quelli che compie mediante i suoi ministri può compierli mediante le anime dei martiri, come mediante uomini ancora in vita, ovvero mediante gli angeli, ai quali ordina fuori del tempo, fuori dello spazio, fuori del divenire, sicché i miracoli, che si dicono compiuti mediante i martiri, sono compiuti perché essi pregano e intercedono, non perché li operano. Però tanto gli uni in un modo come gli altri in un altro, che in nessun modo si possono comprendere dai mortali, dimostrano quella fede, in cui si annunzia la risurrezione della carne nell’eternità.


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Consiglia  Messaggio 7 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 30/06/2003 21.37

Relativo il culto dei martiri.
10. A questo punto i pagani diranno che anche i loro dèi hanno compiuto alcuni fatti ammirevoli. Bene, ciò significa che cominciano a confrontare i loro dèi con gli uomini morti di noi cristiani. Ovvero vorranno dire forse che anche essi hanno dèi desunti da uomini morti, come Ercole e Romolo, e molti altri che suppongono accolti nel numero degli dèi? Ma per noi i martiri non sono dèi perché riconosciamo un unico Dio nostro e dei martiri. E tuttavia i miracoli, che si dicono compiuti nei loro templi, in nessun modo si devono confrontare con i miracoli che si compiono nei luoghi consacrati ai nostri martiri. E se alcuni sembrano simili, come i maghi del faraone sono stati superati da Mosè 44 <http://www.augustinus.it/cdd/cdd_22_note.htm>, così i loro dèi sono superati dai nostri martiri. Quelli li compirono i demoni con la presunzione di un’infame superbia con cui vollero essere i loro dèi; compiono invece questi miracoli i martiri, o meglio Dio mediante la loro intercessione e preghiera, affinché se ne avvantaggi la fede, con cui crediamo che essi non sono i nostri dèi, ma che hanno in comune con noi un solo Dio. Poi i pagani a simili dèi hanno costruito templi, eretto altari, istituito sacerdoti e offerto sacrifici. Noi invece ai nostri martiri fabbrichiamo non templi come a dèi, ma monumenti sepolcrali come ad uomini, la cui anima vive presso Dio e in essi non erigiamo altari per offrirvi sacrifici ai martiri, ma all’unico Dio dei martiri e nostro. E durante il sacrificio sono nominati secondo il proprio ruolo e ordine, come uomini di Dio che hanno vinto il mondo nel rendere testimonianza, ma non a loro è rivolta la preghiera del sacerdote che offre il sacrificio. E sebbene offra nel luogo a loro consacrato, offre il sacrificio a Dio, non a loro perché è sacerdote di Dio, non loro. E il sacrificio stesso è il corpo di Cristo che non si offre a loro, perché lo sono anche essi. A quali operatori di miracoli si deve dunque preferibilmente credere? A quelli che vogliono essere considerati dèi da coloro per cui li compiono, ovvero a quelli che compiono tutto ciò che di miracoloso compiono, affinché si creda in Dio che è anche il Cristo? A coloro i quali hanno voluto che perfino i propri delitti fossero oggetto di culto, ovvero a quelli i quali vogliono che neanche le loro opere lodevoli siano oggetto di culto, ma il tutto, per cui meritano veramente la lode, si volga a gloria di colui in cui meritano la lode? Difatti nel Signore meritano lode le loro anime 45 <http://www.augustinus.it/cdd/cdd_22_note.htm>. Crediamo dunque a coloro e che annunziano delle verità e che compiono dei miracoli. Per annunziare le verità hanno sofferto la morte e per questo possono compiere miracoli. Fra quelle verità la principale è che Cristo è risorto dalla morte e per primo ha mostrato nella sua carne l’immortalità della risurrezione e ha promesso che essa si realizzerà in noi o al principio di un mondo nuovo o alla fine di questo.


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Consiglia  Messaggio 8 di 8 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°TeofiloInviato: 30/06/2003 21.43

Nella parabola del ricco epulone e di Lazzaro, Gesù racconta che il ricco, tra le fiamme, rivolge ad Abramo due preghiere:

le due preghiere vengono rivolte non a Dio ma ad Abramo.

Nella prima chiede di mandare Lazzaro a dargli ristoro; nella seconda, il ricco PREGA ABRAMO A FAVORE DEI SUOI FRATELLI ANCORA VIVI SULLA TERRA.

Luca 16,27 E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. 29Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. 30E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. 31Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi".

Abramo rifiuta di accogliere queste due preghiere che vengono rivolte a lui dagli inferi, tuttavia possiamo dedurre ad ulteriore testimonianza biblica di quanto abbiamo già esposto sopra che già nella mentalità ebraica, era ammessa la possibilità di rivolgere ai santi patrirchi delle preghiere, nonchè il fatto che Gesù menziona espressamente nella parabola, che certe preghiere dei trapassati, fossero anche nei tormenti, potevano venire rivolte a favore dei viventi sulla terra, a prescindere dal fatto che venissero esaudite o meno.

Noto ancora un'ultimo particolare già accennato altrove, giusto a titolo di parentesi: Abramo nega che Lazzaro possa tornare tra i viventi a convertire i fratelli del richiedente tormentato. Per un eccesso della sua misericordia, troviamo nel vangelo che Gesù fece risorgere Lazzaro, seppur non a tempo indefinito, quasi a sottolineare che perfino a questo arrivava il suo amore pur di salvarci, dando un segno di incredibile potenza, che al ricco epulone sembrava essere stato negato. Si può azzardare di dire che alla fine anche la sua preghiera fu esaudita da Dio.

Certo, si tratta di una parabola è vero. Ma sono convinto che se Gesù introduceva tali particolari, vi è motivo di pensare che si trattava di cose possibili e riscontrabili nel mondo spirituale.

(Teofilo)
00lunedì 5 ottobre 2009 17:46

Al seguente link sarà possibile visualizzare diversi album di immagini, ciascuno dei quali contiene la vita di un santo attraverso le immagini:


http://cid-c46433769936f3b2.skydrive.live.com/browse.aspx/VITA%20DI%20SANTI
Caterina63
00mercoledì 25 agosto 2010 18:49
Madre Teresa di Calcutta e un amore senza confini

La forza di un sorriso


In occasione del centenario della nascita di Madre Teresa di Calcutta, che ricorre giovedì 26 agosto, pubblichiamo un articolo di un sacerdote salesiano, già direttore del The Herald Kolkata, il più antico settimanale cattolico indiano.
 

di Paul Cheruthottupuram

Agnesë Gonxhe Bojaxhiu in albanese significa "bocciolo di rosa". Nata il 26 agosto 1910 a Üsküb (all'epoca nell'impero ottomano, oggi Skopje, capitale della Macedonia), era la più giovane di tre figli. Agnesë considerava "suo vero compleanno" il 27 agosto, data del suo battesimo. Crebbe in una devota famiglia cattolica e fu allevata da Drana Bojaxhiu dall'età di 9 anni e da suo padre Nikollë Bojaxhiu, un patriota  albanese, deceduto nel 1919. Nei primi anni della sua vita, Agnesë era  affascinata dalle vite dei missionari gesuiti nel Bengala e prima dei 12 anni si convinse di dovere andare in India.

Lasciò la casa paterna a 18 anni per unirsi alle Suore di Loreto che operavano a Calcutta. Dopo un breve periodo presso l'abbazia di Loreto a Rathfarnham, in Irlanda, per imparare l'inglese, arrivò a Calcutta nel 1929 e cominciò il noviziato a Darjeeling, nel Bengala settentrionale. Prese i voti temporanei il 24 maggio 1931 con il nome di Teresa, in onore di Teresa di Lisieux, la patrona delle missioni, e i voti perpetui il 14 maggio 1937, mentre insegnava presso la scuola del convento di Saint Mary, a Entally.

Lo scenario socio-politico del Bengala (la carestia del 1943 e gli scontri fra indù e musulmani), che sprofondò Calcutta nella disperazione e nell'orrore, impressionarono Madre Teresa. Il 10 settembre 1946, su un treno, di ritorno a Darjeeling, Madre Teresa visse ciò che in seguito definì "la chiamata nella chiamata". Nel 1948, sostituendo il suo tradizionale abito di Loreto con un semplice sari di cotone bianco bordato di blu e adottando la cittadinanza indiana, Madre Teresa si avventurò nei bassifondi di Calcutta e, nel 1950, fondò le Missionarie della Carità. Oggi, sessant'anni dopo, a Calcutta esistono diciannove istituti con cinquemila suore impegnate in più di centotrenta Paesi.

I mezzi di comunicazione di massa indiani si sono accorti di Madre Teresa a partire dagli anni Cinquanta, subito dopo l'inizio della sua opera nella zona degradata di Mothijhil, vicino al suo ex convento di Loreto, a Entally. Lì, era una suora cattolica bianca, occidentale, che mostrava compassione e offriva aiuto ai poveri e agli emarginati. Madre Teresa era il nuovo volto della madre India che sorgeva dall'umiliazione della divisione del Bengala in Bengala occidentale e in Pakistan orientale (l'attuale Bangladesh). Diversamente da alcuni suoi detrattori nati a Calcutta, ora residenti all'estero, che non si sono mai "abbassati" a servire gli orridi bassifondi di Calcutta, Madre Teresa si è mossa lavorando proprio in quelle zone degradate.

Nel 1962 ricevette il Padma Shree (il più elevato riconoscimento civile nazionale) nonché il premio internazionale Magsaysay. Papa Paolo vi le donò l'auto da lui utilizzata durante la sua visita a Bombay nel 1964, che poi lei mise in palio in una riffa. Nel 1979 ricevette il premio Nobel per la pace, nel 1985 la Presidential Medal of Freedom negli Stati Uniti, il più alto riconoscimento civile, per ricordare solo alcune delle sue onorificenze.

Fu l'incontro con il giornalista inglese Malcolm Muggeridge a portare Madre Teresa alla ribalta mondiale. La intervistò per la prima volta nel 1968 per la Bbc e, nel 1969, girò un documentario sulla sua vita a Calcutta. Nel 1971, il film televisivo in due parti ispirò la stesura del libro Something Beautiful for God:  Mother Teresa of Calcutta. Alla beata sono stati dedicati ben tre festival cinematografici internazionali:  il Mother Teresa Film Festival a Calcutta nel 2003, nel 2007 e nel 2010. Quest'anno, l'evento comprende sedici film e per la prima volta acquista un respiro globale, includendo quindici Paesi asiatici.

Conosco un giovane che, dopo aver svolto opera di volontariato in una casa per moribondi a Kalighat, ispirato dalla filosofia di servizio di Madre Teresa, ha girato il film My Karma, che ha vinto diversi premi internazionali. Non solo, questo giovane indù del Bangladesh ha lasciato il proprio lavoro di funzionario della Marina indiana e ora lavora in un'area degradata della zona musulmana di Narekeldanga a Calcutta, definendo Madre Teresa sua madre e il Mahatma Gandhi suo padre.
Madre Teresa ha fatto tanto, ha insegnato qual è il modo più grande per mostrare l'amore di Dio, ovvero soddisfare le necessità degli altri, una persona  alla volta, qui e ora. Non ha offerto  una  soluzione magica ai problemi e alle ingiustizie del mondo, ma ha mostrato cosa possiamo fare per cambiare la vita di una persona, una alla volta.

Il Nirmal Hriday (casa dei moribondi), il suo primo istituto, fondato nell'area del tempio dedicato alla dea Kalì a Calcutta, è ancora il luogo santo in cui sia i suoi amici sia i suoi nemici provano un timore reverenziale. È il luogo in cui Madre Teresa incontrava i giornalisti che la intervistavano per la prima volta. Dalla sua fondazione vi sono stati trasportati circa cinquantamila uomini, donne e bambini raccolti per le strade. Quelli che sono morti, la metà, lo hanno fatto circondati dall'amore e dalla gentilezza. Quelli che si sono salvati sono stati aiutati dalle suore a trovare un lavoro o sono stati inviati in case nelle quali vivere con gioia. La sua Shishu Bavan (casa per bambini) nonché altri orfanotrofi hanno offerto riparo e speranza a innumerevoli bambini nel mondo. Molti di quei piccoli sono divenuti cittadini attivi e alcuni si sono anche dedicati alla sua missione.
 
Il lebbrosario che fondò con il denaro del Premio per la pace "Papa Giovanni xxiii", di cui fu insignita nel 1971, ha permesso ai fuori casta di sentirsi accettati. Quando ricevette il premio Nobel per la pace, nel 1979, convinse il comitato a cancellare il banchetto ufficiale e utilizzò il denaro a esso destinato per comprare pasti per quindicimila poveri. Aprì case per alcolisti, tossicodipendenti, malati di aids, senzatetto e indigenti, anche a Roma. Madre Teresa contribuì alla riabilitazione di detenute con l'aiuto del primo ministro del Bengala occidentale, Jyoti Basu.

È stata lodata da persone, governi, organizzazioni, ma ha anche ricevuto le critiche di molti, contrari all'essenza proselitista della sua opera che includeva una posizione fermissima contro contraccezione e aborto, il credo nella bontà spirituale della povertà e l'amministrazione del sacramento del battesimo ai moribondi. Alcune riviste scientifiche hanno criticato il livello delle cure mediche offerte nei suoi ospedali e hanno sollevato obiezioni sulle modalità con cui venivano utilizzate le donazioni. Gli attacchi degli atei radicali a Madre Teresa sono l'equivalente intellettuale dell'aggressione a una vecchietta, afferma Brendan O'Neill, direttore di "Spiked-online", secondo il quale i rapinatori aggrediscono in modo vigliacco signore esili e anziane perché in genere sono lente, fragili e incapaci di reagire. Attaccare l'ingobbita suora di Calcutta piena di rughe, accusandola di essere una fanatica stralunata, una matta e una disgustosa sostenitrice della povertà, è l'equivalente ateo dell'aggressione a un'anziana.

Per introdurci nel mondo di Madre Teresa, il già citato Malcolm Muggeridge fa il paragone fra la sua percezione ordinaria e quella della suora. All'inizio del libro Something Beautiful for God, Muggeridge menziona un suo breve soggiorno a Calcutta nel 1930 (come aiuto redattore del giornale "The Statement"), durante il quale rimase disgustato dalle zone degradate e dalle condizioni sociali miserabili. Ricorda che chiedeva alle persone:  "Perché le autorità non fanno nulla?" e si allontanava velocemente. Madre Teresa, invece, vedeva quello stesso squallore e restava, armata, come dice il giornalista, solo di "quell'amore cristiano che irradiava". Muggeridge osserva:  "Per quanto riguarda il mio dilungarmi sulle miserevoli condizioni sociali del Bengala, devo dire che dubito che in qualsiasi contabilità divina le mie considerazioni possano valere anche solo la ridicola metà del sorriso che Madre Teresa rivolgeva a un monello di strada che catturava la sua attenzione". Così Madre Teresa rispondeva alle critiche:  "Non ha importanza chi lo dice, bisognerebbe accettarlo con un sorriso e continuare a fare il proprio lavoro".

Un giornalista inglese (che ora vive negli Stati Uniti), Christopher Hitchens, è stato uno dei testimoni che ha fornito prove contrarie alla beatificazione e al processo di canonizzazione di Madre Teresa. "È stato proprio parlando con lei che ho scoperto che non operava certo per ridurre la povertà", disse Hitchens al tribunale. E citò Madre Teresa:  "Non sono un'operatrice sociale. Non lo faccio per questo motivo. Lo faccio per Cristo. Lo faccio per la Chiesa". Leggendo questa dichiarazione, partendo dalla fine, si perviene alla ragion d'essere della vita e della missione di Madre Teresa. L'obiezione mossa da Hitchens era giusta. L'ordine delle priorità era:  Gesù, la Chiesa e i poveri!

Così come credeva nella presenza reale di Gesù nell'Eucaristia, credeva anche nei corpi dei più poveri fra i poveri, toccava il corpo di Cristo. Madre Teresa credeva profondamente nella provvidenza. Non dipendeva dal denaro di nessuno, nemmeno da quello del governo. Riteneva che la dipendenza economica potesse diventare schiavitù economica. Spesso diceva:  "Se mai le persone smetteranno di sostenere l'apostolato delle Missionarie della Carità, queste smetteranno semplicemente di esistere".

La sua spiritualità era una "costante dell'ordine del giorno", la santificazione della fatica quotidiana. La sveglia alle 4,40 (nei giorni di festa alle 5,10) è solo l'inizio di quello stile di vita spartano, con momenti da dedicare alla preghiera, ai pasti, all'opera apostolica. Senza dubbio questa costanza ha prodotto una fecondità straordinaria al servizio degli altri.

Dopo trentacinque anni di servizio ai più poveri fra i poveri, Giovanni Paolo ii disse a Madre Teresa:  "Desidero cambiare le vostre Costituzioni. Voglio che le Missionarie della Carità divengano missionarie non solo dei corpi poveri, ma anche delle anime povere". Ovvero catechesi ed evangelizzazione. Quando Madre Teresa rispose che le sue consorelle non possedevano una formazione di apostolato, il Papa le disse:  "Formale!". Ora, la domenica, ogni suora missionaria della carità che è in grado di farlo insegna catechismo. Nel loro programma Fidei Donum a Tengra (Calcutta), ogni anno cinquanta suore di tutto il mondo seguono un corso di aggiornamento di dieci mesi, che prevede anche un modulo catechetico settimanale.

Madre Teresa era dotata di straordinaria saggezza. Pare che abbia detto al cardinale John Joseph O'Connor, arcivescovo di New York dal 1984 al 2000, quanto apprezzasse il sostegno che egli dava alla sua comunità, aggiungendo:  "Tuttavia, voglio accertarmi che le nostre suore abbiano solo i migliori sacerdoti dell'arcidiocesi in veste di cappellani, confessori, consulenti spirituali e direttori dei ritiri".

Il mantenimento di un'unione costante con Dio era il tratto distintivo del suo spirito di preghiera. Avete mai visto una sua foto in cui non stringe il rosario fra le mani nodose? Sapeva che non c'era altro modo per conoscere la volontà di Dio, in ogni momento della giornata, se non chiedergli la grazia di venire a conoscenza della sua divina volontà e poi farla con tutto il cuore. L'aspetto che colpisce maggiormente della spiritualità di Madre Teresa di Calcutta è che non ha mai fatto nulla di più di ciò che pretendeva da qualsiasi suora missionaria della carità:  la spiritualità dei voti di castità, povertà e obbedienza, e il quarto voto, ovvero offrire "un servizio totale e libero ai più poveri fra i poveri".

Madre Teresa è morta a Calcutta il 5 settembre 1997 e Papa Giovanni Paolo ii l'ha proclamata beata il 19 ottobre 2003. Che la si ami o la si odi, Madre Teresa ha lasciato un segno indelebile nella mente della gente comune di Calcutta. Centinaia di persone, indipendentemente dalla casta o dal credo, visitano la sua tomba ogni giorno nella speranza di un darshan, di una "visione", prima di impegnarsi nella fatica quotidiana.


(©L'Osservatore Romano - 26 agosto 2010)

Caterina63
00lunedì 13 settembre 2010 22:23
L'arcivescovo Angelo Amato ha presieduto a Granada la beatificazione del cappuccino Leopoldo da Alpandeire

Per amore dei poveri
sulle vie della città


Questuante per le vie dell'Andalusia per amore di Dio e dei poveri. Si potrebbe sintetizzare così la vita di fra' Leopoldo da Alpandeire, cappuccino, beatificato domenica 12 settembre, a Granada, alla presenza di migliaia di fedeli. La celebrazione del rito è stata presieduta dall'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Durante l'omelia il presule ha sottolineato gli aspetti principali della personalità del nuovo beato.

"Carità, umiltà e devozione mariana - ha detto - sono i tratti distintivi della sua santità. Tutti i testimoni affermano che fra Leopoldo aveva un cuore d'oro. Fin dalla sua infanzia si era dimostrato generoso e caritatevole. Era solito condividere la sua merenda con altri pastorelli più poveri. Un giorno stava distribuendo ai mendicanti tutto il denaro, guadagnato con fatica nei duri mesi di vendemmia a Jerez. Vedendo ciò, il fratello maggiore lo rimproverò e gli tolse di mano il portamonete. Non potendo donare i soldi, il giovane Francisco Tomás donò i suoi stivali a un poveretto scalzo".

La vita del beato fu interamente dedicata al servizio di Dio e del prossimo con la preghiera e il lavoro. Dopo essere entrato in convento, svolse vari incarichi:  ortolano, portinaio, sacrestano, questuante e quando occorreva anche infermiere per servire gli ammalati e gli anziani. "Ma il suo apostolato - ha evidenziato l'arcivescovo - fu soprattutto la questua per il suo convento. Come frate questuante, si metteva la bisaccia sulle spalle, come Gesù la croce, e andava in giro per chiedere l'elemosina. Si faceva povero per il sostentamento dei suoi fratelli".

Mentre riceveva l'elemosina, dava in contraccambio la carità della sua bontà, della sua serenità, del suo consiglio. Non sempre però la questua fu per lui un impegno facile, spesso riceveva insulti, sassate e una volta rischiò anche il linciaggio. A questo proposito, monsignor Amato ha ricordato alcuni episodi della vita di fra' Leopoldo. "Un giorno - ha detto - un gruppo di falciatori gli gridò:  "vagabondo, lavora invece di andare in giro. Ci potresti dare una mano".

Fra' Leopoldo si avvicinò e si mise a lavorare con loro, lasciandoli indietro con la sua abilità di contadino. Rivelò che era stato lavoratore come loro e che in convento coltivava l'orto:  "Fratelli, io sono come voi". Questo gli permise di ottenere rispetto, consentendogli anche di fare un po' di catechismo". Un'altra volta, "entrò in un negozio di Plaza de Bib-Rambla. Quel giorno il padrone aveva venduto poco e non solo non diede l'elemosina, ma insultò pesantemente il frate. Il beato ascoltò tutto con pazienza e si allontanò. Il giorno seguente ritornò e disse:  "Fratello, preghiamo la Santissima Vergine con tre Ave Maria". Quell'uomo, commosso, recitò le preghiere e per un po' di tempo fra' Leopoldo passava da lui per recitare le tre Ave Maria".

Giunse poi il tempo della persecuzione religiosa che interessò gli anni della guerra civile. In quel periodo, i cappuccini perdettero un centinaio di confratelli e fra' Leopoldo sapeva di rischiare la vita ogni volta che si recava per le strade di Granada a chiedere l'elemosina, ma "veniva risparmiato perché difeso dai poveri, i quali riconoscevano:  "è più povero di noi". Anche i più accesi anticlericali ne ammiravano la mitezza, esclamando:  "magari fossero tutti come lui". Era caritatevole anche nei giudizi, scusando e giustificando tutti. Diceva la verità, ma con carità. Un giorno gli chiesero se riteneva santo un suo confratello, che non era per niente esemplare. Fra' Leopoldo rispose:  "santo a suo modo"".

La sua carità fu instancabile e sempre accompagnata da una grande umiltà. "Un giorno - ha raccontato il presule - il beato entrò nel Café Suizo e si avvicinò a un tavolo. Ricevette solo insulti e percosse. Cadde a terra. Rialzatosi, disse con umiltà:  "Mi avete colpito e buttato a terra; ora, per favore, fate l'elemosina per amor di Dio". Tutta Granada chiedeva preghiere e conforto a fra' Leopoldo. Le persone pie gli dicevano spesso:  "fra' Leopoldo, preghi per me, perché lei è un santo". Subito rispondeva:  "santo no, non sono affatto santo. Santo è l'abito"".

La gente non lo avvicinava solo per la sua carità, per la sua fama di miracoli, per i suoi consigli, ma lo cercava soprattutto per la sua umiltà, lo vedeva come un vero amico di Dio e del prossimo. "In comunità - ha ricordato il prefetto - cercava sempre di ritirarsi nell'angolo più nascosto. Quando celebrò il cinquantesimo di professione, il 16 novembre del 1950, un giornale di Granada scrisse articoli pieni di apprezzamento e di lode. Fra' Leopoldo ne ebbe molto a soffrire:  "Che guaio, ci facciamo religiosi per servire il Signore nel nascondimento e, cosa vedo, ci mettono perfino sui giornali". Non gradiva essere fotografato. Acconsentiva solo quando glielo ordinava il superiore".

L'umiltà gli permetteva anche di correggere il prossimo, soprattutto i bestemmiatori. "Un giorno un operaio - ha raccontato - appena lo vide, cominciò a bestemmiare. Fra' Leopoldo gli si avvicinò e gli disse:  "Se volete offendere il frate, fate pure, ma non offendete il Signore". L'uomo lo ascoltò con molto rispetto e si vergognò di quello che aveva fatto. Un altro giorno un lattaio bestemmiava vicino al convento de la Encarnación perché si era versato il latte di un recipiente. Fra' Leopoldo si avvicinò al poveretto e gli disse che il nome di Dio bisognava invocarlo solo per lodarlo. Il lattaio si scusò dicendo di aver perduto il guadagno di una giornata. Il beato gli venne incontro con il denaro ricevuto per carità, raccomandandogli che lodasse sempre il nome del Signore".

Alla beatificazione hanno partecipato i cardinali Antonio Cañizares Llovera, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Carlos Amigo Vallejo, gli arcivescovi Francisco Javier Martínez Fernández di Granada e Juan del Río Martín ordinario militare di Spagna, e il vescovo Bernabé de Jesús Sagastume Lemus di Santa Rosa de Lima, fra' Alfonso Ramírez Peralbo, vicepostulatore della causa di canonizzazione.


(©L'Osservatore Romano - 13-14 settembre 2010)
Caterina63
00sabato 12 marzo 2011 18:12
gnazio di Loyola da soldato a cavaliere (per il Regno)

E zoppicando partì alla ventura



di ALAIN BESANÇON

Come definire questo libro straordinario? Una biografia, un'agiografia, una meditazione spirituale? È tutto ciò allo stesso tempo, ma è la meditazione a sostenere l'intero racconto.

In Inigo, portrait di François Sureau (Paris, Gallimard, 2010, 154 pagine) la biografia si riduce a due anni della vita di sant'Ignazio, dalla battaglia di Pamplona alla partenza da Manresa, ossia dal 1521 al 1523. Ignazio (Inigo), cadetto di una rispettabile famiglia dei Paesi Baschi, poco ricca, poco illustre, si è messo al servizio della corona di Spagna, con il titolo di paggio del viceré di Navarra. Ha condotto la vita di un cortigiano. Abbastanza dissipata, ma né più né meno di quanto si confaceva alle usanze del suo stato. Sarà in seguito che si renderà conto di quanto si è allontanato da Dio.

In quella corte si è distinto per la pertinenza dei giudizi e l'intelligenza dei consigli che ci si aspettava da lui. Si trova nella fortezza di Pamplona quando questa viene attaccata dall'esercito del re di Francia, molto più potente. Inigo, contro ogni buon senso, consiglia di resistere e convince il governatore a farlo. È accettare una battaglia eroicamente persa.

François Sureau, che conosce la vita e l'onore militari, lo descrive in modo splendido. Si diletta nel mostrarci il mondo dei soldati, il Tercio (l'invincibile fanteria di Castiglia), i mercenari, i lanzichenecchi, i cavalieri. Poi racconta con precisione professionale le operazioni di assedio, l'artiglieria che abbatte le mura, l'apertura di una breccia, l'assalto respinto, poi vittorioso. Il racconto è bellissimo. Mi ricorda le pagine classiche della letteratura militare francese, il Mérimée di L'enlèvement de la redoute, l'Hugo del Cimetière d'Eylau.

Ignazio, che è alla sua prima esperienza di battaglia, mostra di avere la stoffa di un grande capitano. Una palla di cannone gli rompe una gamba, frattura aperta per la quale, a quanto pare, Ignazio deve morire. Non muore, ma deve rinunciare alla vita militare e alla vita di corte. Riportato con grande sforzo nel suo castello natale, si rende conto che la sua tibia si sta rinsaldando male. Ordina a dei medici incompetenti di rompergli nuovamente la gamba. È un massacro, ma non si lascia sfuggire neanche un lamento. Rischia nuovamente di morire.

Costretto a letto, ripercorre la sua vita. Gli danno dei libri, dei romanzi cavallereschi, Amadigi di Gaula l'entusiasma, come in seguito lo inebrierà Don Chisciotte, ma anche la Legenda Aurea e la Vita di Cristo di Ludolphe le Chartreux.

Il suo esame di coscienza ha inizio, doloroso, pieno dello spettacolo dei suoi peccati passati e delle sue mancanze presenti. S'innamora di Gesù Cristo. Si congeda dal viceré e parte, zoppicando, alla ventura, perché non sa che cosa vuole, o piuttosto perché non sa che cosa Dio vuole da lui.
Da questo momento la biografia si trasforma in agiografia. François Sureau si conforma al canone della vita dei santi. Solo Dio sa quanti libri hanno raccontato la nascita d'Ignazio alla vita di santità. Il cammino è stato per lui eccezionalmente erto. Si spoglia dei suoi vestiti da cavaliere, del suo atteggiamento da cortigiano, si mette l'abito del pellegrino, presto assume l'aspetto di un vagabondo straccione e irsuto, ma non sa ancora dove andare.

Trova aiuto spirituale nell'abbazia di Montserrat, presso un monaco francese dotato di grande tatto, ma continua a cercare la sua strada. A Manresa si sfinisce con digiuni, penitenze, schiacciato dai suoi errori, tormentato dagli scrupoli. È accolto in ospedale dove gli vengono affidati i compiti più umili. Supplica Dio di illuminarlo.

Ma Dio tace. Tace al punto che Ignazio non può più pregare, non può più credere, non può più addirittura pensare né parlare. Come tanti santi, è piombato in una tenebra così spessa da essere al limite della disperazione. È tentato di abbandonare tutto, di tornare sconfitto a Loyola. E poi un bel giorno viene liberato. Diviene allora sant'Ignazio, sempre soldato, grande capitano, ma in vista del Regno. Diviene il Generale dell'Ordine che, secondo le sue minuziose istruzioni, ricostruirà la Chiesa cattolica, e le cui lettere, dieci mesi dopo essere state spedite, vengono lette in Giappone da Francesco Saverio in ginocchio.

Visti dall'esterno, l'apertura d'Ignazio e gli inizi della Compagnia ricordano un romanzo cavalleresco. Eppure François Sureau ha cancellato tutto ciò che poteva dare un tono pittoresco o un carattere barocco a questa avventura. Preferisce l'Ignazio grigio, sobrio fino all'estremo, gentile senza orpelli, che muore nella sua cella. Il suo fine non è di raccontare ancora una volta la vita di questo santo, ma di scoprire l'interiorità invisibile di un'anima che, prima di trovare la pace, ha attraversato, senza darlo a vedere, molte prove e tormenti. È di seguire per quanto possibile un itinerario spirituale segreto.

François Sureau ha messo il suo talento di scrittore ai piedi del maestro, come se cercasse di santificare il proprio atto letterario. Ciò ricorda Chateaubriand che pretendeva di aver scritto la Vita di Rancé come una penitenza imposta dal suo direttore. Ma Sureau, che non pretende nulla di simile, è più rigoroso, più onesto, più puro. Il suo stile teso, semplice, è allo stesso tempo aperto e segreto, sapendo che sarà veramente chiaro solo per i lettori decisi a seguire i suoi passi.
Di fatto l'intero libro è un "esercizio" conforme agli esercizi di sant'Ignazio. Se ne esce edificati, se si accetta di esserlo. Questo tipo di opera è rara ovunque, in Francia più che altrove. Lascia lo spirito soddisfatto e il cuore gioioso.



(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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