Il Catechismo detto "di san Bellarmino" ossia dal Concilio di Trento

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Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:35
[SM=g1740717] [SM=g1740720]  S. ROBERTO BELLARMINO
[SM=g1740771] Catechismo grande della dottrina cristiana

Composto dal ven. cardinale Roberto Bellarmino ; richiamato in pratica da mons. Luigi Reggianini – Modena, Per gli eredi Soliani, [1838]. - 230, [2] p. ; 18 cm
Con approvazione ecclesiastica

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INDICE

La Fede
Antichità della Chiesa Cattolica
Cattolicità e perennità della Chiesa
Verità e concordia della Dottrina Cattolica
Purità della Dottrina Cattolica
Gloria dei miracoli
Miracoli degli eretici
Il dono della Profezia
Bontà dei Dottori della Chiesa e malizia degli eretici
Confronto degli eretici antichi e nuovi quanto alla Fede
Costumi degli eretici antichi e moderni.
Costumi degli eretici, efficacia della Dottrina Cattolica, testimonianza degli avversari

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LA FEDE

Ho sempre giudicato, ottimi uditori, essere sommamente necessario perseverare nella Chiesa, nella quale si trova la fede vera ed ortodossa, il vero culto di Dio, la vera remissione dei peccati, il vero pegno della salvezza ed eredità eterna. Penso però, che sia necessario stare nella Chiesa in questo tempo soprattutto, quando per ogni dove un brulichio di eresie e di sette va stendendo su tutta la terra una tenebra così densa e così tetra, che sembrano essere vicini quei tempi, di cui Gesù Cristo dice nel Vangelo: «Usciranno fuori de' falsi profeti e sedurranno molti, e per essere sovrabbondata l'iniquità, si raffredderà la carità in molti» (Mt. 24, 24): e ancora, «Quando verrà il Figliolo dell’uomo, credete voi, che troverà fede sopra la terra?» (Lc. 18, 8).

Osservate bene la faccia della terra. Quanti atei, quanti pagani, quanti giudei vi si trovano! Quante regioni, quanti regni, quante province sono passate da Cristo al Maomettanismo! Lo scisma e l'eresia dei Greci, dei Giacobiti, dei Nestoriani non ha forse strappato via quasi tutto l'Oriente? La peste Ariana, la Sabellica, la Luterana, in gran parte anche quella dei Greci non ha forse infettato totalmente il settentrione? L'Africa tutta, dove una volta c'erano tante sedi di arcivescovi e vescovi, non è essa occupata parte dai Mauri, seguaci di Maometto; parte dagli Etiopi, cristiani solo di nome, e già da tempo separati dalla vera Chiesa? Che diremo dell'Occidente?

Citi potrà contare le sette dei Confessionisti, degli Anabattisti, dei Calvinisti? Non è vero, che nello spazio di 50 anni sono sorte ai nostri giorni quasi tante eresie, quante dal tempo degli Apostoli per intieri 1500 anni? Inoltre l'avarizia, la superbia, la lussuria, l'ambizione, gl'inganni, le frodi, le menzogne, tutti i vizi, tutte le scelleraggini, tutte le azioni più vergognose hanno invaso il cuore e la mente dei mortali a segno tale, che ci sarebbe pericolo «da fare, che siano ingannati - se è possibile - gli eletti stessi» (Mt. 24, 24), e che comincino a dire: «ma c'è Dio in mezzo a noi?». Siamo o non siamo eredità e beni del Signore?

Quantunque ciò sia vero, resta l'asserzione di Nostro Signore Gesù Cristo: «Chi persevererà fino alla fine si salverà» (Mt. 10, 22). Resta il detto di S. Cipriano: «Chiunque sia e quale che egli sia, non è cristiano, chi non è nella Chiesa di Cristo» (Cypr. l. 4, epist: 2, et lib. de unitate Eccles.). E in un altro luogo: «Chiunque si separa dalla Chiesa e si unisce ad una adultera, si separa dalle promesse fatte alla Chiesa, e non appartiene ai tesori di Cristo. Chi abbandona la Chiesa di Cristo, è d'altri, è profano, è nemico. Non può aver per padre Dio, chi non ha per madre la Chiesa». Se non poté salvarsi chi si trovò fuori dell'arca di Noè; così non si salverà chi sarà stato fuori della Chiesa della pace. Dunque fuori della Chiesa di Cristo non si trova né salvezza, né remissione dei peccati. Oggi ci minaccia un gravissimo pericolo da parte di certi atrocissimi assassini delle anime. Nulla è oggidì più facile per gl'incauti, che l'allontanarsi dalla rocca della Chiesa, e incappare nei lacci e nelle reti della infedeltà.

Ho pensato perciò, che nei discorsi di quest'anno non avrei potuto trattare di altro con maggior frutto, che di alcuni argomenti, coi quali si dimostra ad evidenza che la religione, abbracciata da noi per beneficio di Dio, deve a ragione da tutti quanti hanno giudizio essere anteposta a tutte le sette e superstizioni dei Giudei e dei pagani: che anzi essa sola è quella, dalla quale Dio è onorato con pietà e santità: che essa altresì guida i suoi adoratori al vero porto della eterna felicità. Questa disputa verserà quasi tutta nella prova della fede: ma daremo qualche cosa alla morale. Divideremo i nostri discorsi in due parti, nella prima spiegheremo l'argomento, che abbiamo già detto: nella seconda (1) esporremo, per la edificazione dei costumi il primo pensiero della epistola, che si sarà letta nella messa cantata.

Ci sono due cose. che principalmente ci muovano a credere, e sono: il lume interno della fede, e certi argomenti esterni. Gli argomenti, di cui intendiamo trattare sono in tutto dodici, cioè: la verità della religione cristiana, l'efficacità, l'antichità, l'ampiezza, la saldezza, il lume profetico, la gloria dei miracoli, la bontà della vita, la testimonianza e l'approvazione dei nemici, i costumi della Chiesa antica, e i costumi degli eretici antichi. S. Agostino, uomo santissimo, e dottissimo, indica questi argomenti, non proprio tutti, ma alcuni di essi, nel libro che scrisse già contro la lettera di Manicheo, che chiamano «del fondamento». L'effetto, che produssero in lui tali argomenti, uditelo dalle seguenti sue parole: « Molte sono le ragioni, che mi tengono strettissimamente nel grembo della Chiesa Cattolica. Mi tiene il consentimento dei popoli e delle genti. Mi tiene l'autorità, cominciata coi miracoli, nutrita con la speranza, cresciuta con la carità, confermata dalla antichità. Mi tiene la successione, dei sacerdoti fino dalla sede di Pietro apostolo» (Aug. contro epist. fund. cap. 4). Così parla quel grand'uomo, che non era fornito meno di lume divino, che di acutissimo e sodissimo giudizio; e che assai meglio di tutti poteva giudicare della differenza che c'è ha la sono dottrina della Chiesa e gl'insani principi degli eretici.

Degli argomenti esterni parleremo in altro tempo, Oggi, secondo che ce lo permetterà il tempo, ragioneremo soltanto del lume della fede. Diremo, quanto esso sia eccellente, e quanto necessario dono di Dio, e con quanta sollecita cura si deve conservare.
A me pare, che il lume della fede sia altrettanto necessario per credere i dogmi, che ci vengono proposti dalla Chiesa cattolica, quanto il lume naturale della intelligenza per conoscere i primi principi. Tutti gli uomini sono forniti di un certo lume naturale, con il quale intendono senza fatica e senza argomenti, che i primi principi sono veri. Così non c'è nessuno, che domandi ragioni od argomenti, quando gli si propongono tali principi, per esempio: che si deve seguire il bene e fuggire il male: che tre è più che due, che tre più due fa cinque. Parimente tutti i cristiani, rischiarati da un cotal lume divino e soprannaturale, ammettono che sono verissimi e certissimi i primi principi della nostra fede, ancorché difficilissimi e trascendenti la ragione. Quale è la ragione, per cui non è possibile insegnare ai bruti una verità? Prendi un animale, un cavallo per esempio, o un nibbio.
Provati, se sei capace. di persuaderli di qualche verità. Non ci riuscirai, anche se vi adoperassi tutta la dialettica e tutta la retorica. Mancano del lume naturale della intelligenza. Allo stesso modo tutte le nostre prediche, e non solo le prediche, ma tutti i nostri prodigiosi miracoli non sono sufficienti a persuadere i pagani e gli eretici della nostra fede, se non viene Dio stesso come maestro, e illumini la loro mente con questo divino lume.

I Pelagiani, sprezzatori della divina grazia c superbissimi lodatori delle loro forze, non esitavano di affermare, che noi non abbiamo poi tanto bisogno di cotesto lume, e che la fede non si chiama nella S. Scrittura dono di Dio per altra ragione, se non perché per grazia e dono di Dio avviene, che abbiamo le SS. Scritture e la predicazione del Vangelo. Ma ben altro ci dimostrò Gesù Cristo, ben altro insegnarono gli apostoli, ben altro attesta la pratica esperienza. Che cosa non videro ed udirono quelli che videro ed udirono Cristo stesso in persona, cioè il Verbo e la Sapienza del Padre, a predicare e a far miracoli? Ciò nonostante S. Giovanni lasciò scritto di essi: «E avendo egli fatto sì grandi miracoli sotto i loro occhi, non credevano in lui». (Gv 12, 37), Che più sapiente della Sapienza? Che più eloquente del Verbo? Che più santo di chi poteva dire: «Chi di voi mi convincerà di peccato?» (Gv 8, 46). Che più meraviglioso di colui che con una parola, con un comando richiamava alla vita i morti da quattro giorni? Eppure, benché avesse fatto così grandi miracoli, e fosse egli tanto grande e tale, non credevano in lui. Giustamente Gesù diceva di loro: «Chiunque ha udito e imparato dal Padre, viene a me» (Gv. 6, 45). «Sono tra voi alcuni, i quali non credono: ma per questo vi ho detto, che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio» (Gv 6, 65).
L'apostolo Paolo prima della conversione certo aveva udito. Se non altri, almeno Santo Stefano pieno di Spirito Santo, che predicava in tal modo che nessuno poteva «resistere alla sapienza ed allo Spirito, che par1ava in lui» (At 6, 10): e l'aveva visto fare miracoli e prodigi grandissimi in mezzo al popolo, e ciò nondimeno perseguitava la nostra fede con tanto odio, che un tempo «spirando minacce e strage contro i discepoli del Signore» (At 9, 1), domandò al principe dei sacerdoti «lettere per Damasco alle sinagoghe; affine di menar legati a Gerusalemme, quanti avesse trovati di quella professione, uomini e donne» (At 9, 1). Ma dopo che «una luce del cielo gli folgoreggiò d'intorno» (At 9, 3), che gli accecò gli occhi, egli illuminò la mente, d'un tratto fu tutto cambiato. Ed egli che prima perseguitava il nome di Cristo, lo portò in tutta la terra innanzi ai re e ai principi. Egli che da prima con tutte le forze si sforzava di devastare la Chiesa, poscia lavorò più di tutti nell'edificare le chiese stesse. Egli, che diceva essere stolte e ridicole le cose, che si dicevano dai cristiani, di poi egli solo chiamò la sola Chiesa «colonna e appoggio della verità ». (1 Tm. 3, 15) Quale fu la causa di sì grande e meraviglioso cambiamento? Chi persuase Paolo in un istante, di ciò, che non avevano potuto persuaderlo, né le parole, né i miracoli? Sicuramente non altro, che l’unzione dello Spirito Santo. L'unzione giel'insegnò. Ebbe a interno maestro e testimonio quello, di cui diceva S. Giovanni: «Chi crede nel Figliuolo di Dio, ha in sé la testimonianza di Dio» (Gv 5, 10). Avrete letto quello che dice Sant'Agostino di questa testimonianza. Dice così: «Deh possa io, o Signore, ascoltare e capire in che modo al principio facesti il cielo e la terra. Scrisse questo Mosè, scrisse e se ne andò: passò di qui a te (o Signore): e certo non è ora dinanzi a me. Se fosse qui, lo afferrerei, lo pregherei e lo scongiurerei per te, che mi manifestasse queste cose, e porgerei le orecchie del mio corpo ai suoni che uscissero dalla sua bocca. Ma se parlasse in Ebraico invano colpirebbe il mio senso, e la mia mente non potrebbe afferrar nulla. Se però parlasse in latino, saprei quello che dice. Ma come saprei, se dice il vero? E sapessi anche questo, lo saprei forse da lui? Nell'interno, proprio dentro nella stanza della mente, la verità non ebrea, né greca, né latina, né straniera, e senza gli organi della bocca e della lingua, e senza il suono delle sillabe, mi direbbe: Dice il vero. Ed io senz’altro pieno di certezza direi francamente: Dice la verità» (Confess. Libro II, c. 3). Questo, uditori, è il lume della fede, cioè una testimonianza di Dio, con la quale dentro della stanza del cuore ci si dice: Così è, non esitare: E’ dimostrazione delle cose che non si vedono» (Eb 11, 1), e con essa naturalmente si crede ciò che non si vede: o piuttosto, come scrive S. Agostino, con essa «certissimamente si vede, che ancora non si vede, ciò che si crede» (Aug. ep. 85, ad Constant.).

Ora aggiungete questa dimostrazione, questo lume, questa testimonianza interna di Dio a quelle dimostrazioni e testimonianze esterne, di cui discorreremo negli altri discorsi che seguiranno. Esse faranno così manifesto ed evidente, che sono credibili e da anteporsi a tutte le dottrine delle sette e delle eresie, le cose che c'insegna la Chiesa Cattolica, che non ci sarà nessuno, che non erompa nel grido: «Le tue parole sono oltre modo degne di fede» (Ps. 92, 7).

Se così è, penso, che non ci dobbiamo affaticare più a lungo per esortarvi a conservare con ogni cautela questo esimio dono di Dio, questo celeste e divino lume: specialmente in questo tempo, nel quale vediamo, che così facilmente in tanti va spento da quel vento, che spira da Aquilone. E' una amara infelicità essere separato dal Signore con fare getto della carità: ma è molto maggiore e più amara la infelicità del naufragare intorno alla fede.
Che cos'è la fede? E' il seme, la radice, la base e il fondamento della giustizia. Chi fa maggior danno ad un albero, colui che ne taglia solo il tronco, o chi lo sradica del tutto? Chi nuoce più alle case, chi rotta giù il tetto, o chi le abbatta dalle fondamenta? Deh con quanta fatica si gettano le fondamenta! Certo non ha fatto poco chi ha gettato le fondamenta. Negli alberi, ancorché la radice senza il tronco e senza i rami non faccia frutti: tuttavia, se il sole la riguardi, se di nuovo sia innaffiato dalle piogge, ancora pulluleranno da essa e il tronco e i rami. Così anche quantunque la fede senza la carità sia morta, e non produca frutti di opere buone e gradite a Dio: pure se il sole di giustizia Cristo Signore Dio nostro rimiri un'altra volta il campo del cuore con i raggi della misericordia, e lo inebri con la pioggia liberale, cioè con l'acqua dello Spirito Santo, e con le lagrime della compunzione, oh con quanta prestezza ripullulerà la carità, e rimetteranno da essa e i fiori e i frutti delle buone opere! Quindi è un gran dono anche la fede morta ed informe, ed è da conservarsi a tutta possa, con tutte le forze.

Ma con quali mezzi si conserva la fede?

Con le buone opere, o uditori.
E come si perde finalmente? Con le opere cattive; con le vergogne, con i delitti, con il lusso, con l'avarizia, con l'ubriachezza. Non dico io già, come mentiscono e delirano i Luterani, che «ogni peccato sia perdita della fede, e che nei peccatori non ci può essere fede». Non dico io questo. So, che la Chiesa è una rete piena di pesci buoni e cattivi, e so anche, che nessuno può essere salvo nella Chiesa senza la fede. Che diciamo dunque? Appunto, che la moltitudine dei peccati, la facilità del peccare, l'abitudine del vivere una vita corrotta è la strada e quasi certi scalini, per cui si arriva alla infedeltà. Gli uomini sono fatti così, che credono facilmente ciò che bramano, ciò che loro piace, ciò che li diletta. Non è difficile persuadere i voluttuosi, che i sacerdoti dovrebbero ammogliarsi, che la castità è impossibile, che i digiuni sono superflui, che la differenza dei cibi è una superstizione. Non è difficile che gli avari scusino le usure, gli ambiziosi la simonia, i lussuriosi la fornicazione. Leggete l'evangelo di S. Luca, dove dice: «I Farisei, che erano avari, udivano tutte queste cose, e si burlavano di lui» (Lc. 16, ;13). non credevano i Farisei a Gesù, che ragionava e diceva: «Non potete servire a due padroni, non potete servire a Dio e all'interesse». Ed anzi si burlavano di lui. E perché? Perché erano avari e non potevano soffrire di essere strappati dal denaro. Di nuovo dice Gesù in un altro luogo agli ambiziosi: «Com'è possibile, che crediate voi, che andate mendicando gloria gli uni dagli altri, e non cercate quella gloria, che da Dio solo procede?». (Gv 5, 44). Non mi meraviglio, egli dice, che non crediate, mi meraviglierei piuttosto, se credeste, una volta che la superbia e l'ambizione ha accecato i vostri occhi sì fattamente, che non potete approvare un andar umile e un disprezzare gli onori. Avrebbero certo accolto volentieri Gesù i Farisei, se non avesse predicato la croce e l'umiltà, ma avesse promesso ai suoi seguaci «i primi posti nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, e di essere salutati nelle piazze»; (Lc 20, 46; 11, 43), insomma magnificenza e onori non fa meraviglia che tanti e così facilmente aderirono a Maometto prima, a Lutero poi nel nostro tempo, mentre essi predicavano la libertà della carne, e allentavano le briglie alle libidini.

Tanto è vero, che nell'un tempo e nell'altro, come si può conoscere dalle storie, erano corrottissimi i costumi dei cristiani in gran parte. Non si faceva conto dei sacramenti, della religione, della disciplina ecclesiastica, ansi si disprezzavano, e regnava ogni sorta di vizi; così che gli uomini, disposti già in questo modo, non potevano soffrire «la sana dottrina», ma cercavano «a sé stessi i maestri per prurito di sentire» (2 Tm 4, 3). Non diventavano eretici, perché qualcuno predicasse loro le eresie: ma perché essi stessi erano già abbastanza disposti ad accoglierle. Erano legna secche, e molto adatte a prender fuoco: solo mancava, chi gettasse il fuoco e li accendesse. Non mancò il diavolo al suo ufficio. D'un tratto eccitò i suoi ministri ad accendere il fuoco e con le parole e con le opere. E già vediamo eccitato in breve tempo e in molti luoghi tanto grande incendio, quanto in molti anni e a gran fatica non si potrà spegnere.

Perciò, fratelli miei, ammaestrati dall'esempio altrui «camminate, mentre avete lume, affinché non vi sorprendano le tenebre» (Gv 12, 35): faticate, lavorate, non vogliate intorpidire; affinché non sorprendano voi, come tanti altri, le tenebre della infedeltà. E come chi, andando di notte per la strada con la lucerna; quando soffia il vento, ne para il lume con una mano; così anche noi, uditori, difendiamo la santa fede con le mani delle buone opere, acciocché col soffio dei venti, che in queste regioni hanno cominciato a spirare, non si estingua, e non ci sorprendano le tenebre. Vuoi, fratello, non perdere la fede rispetto ai sacramenti? Onora i sacramenti, pratica i sacramenti, va con frequenza e di buon volere alla confessione e alla comunione. Vuoi non perdere la fede rispetto ai digiuni, alle indulgenze, alle buone opere? Ama i digiuni, acquista le indulgenze, quando ti si porge l'opportunità, esercitati assiduamente nelle buone opere. Altrimenti che meraviglia, se Dio permette che tu naufraghi circa la fede?

Sì fratelli, noi ci rendiamo ridicoli, perché pare che proponiamo più che paradossi, quando diciamo e certo asseriamo, che la sacra Eucarestia contiene il fonte stesso delle grazie e di tutte le buone opere. Eppure ci accostiamo a riceverla appena una volta l'anno e anche allora perché spinti. Che è ciò che facciamo? Intendiamo quello che diciamo? Chi ci crederà? Se dicessimo: In una tale parte della città c'è un enorme mucchio di danari. Ognuno ci vada. E' permesso. Prenda quanto ne vuole. Chi non ci andrebbe ben tosto? Le piazze non conterrebbero la gente che va e torna. Così anche gridiamo contro gli eretici: La sacrosanta eucaristia contiene il vero verissimo e stessissimo Dio ed uomo. Intanto però ci portiamo, come se paresse che non ci crediamo punto, i sacri altari nella maggior parte dei luoghi sono pieni di polvere, pendono di qua e di là le tele di ragno, i corporali, i purificatoi, i vasi sacri in molti luoghi sono così schifosi, da far dare di stomaco. Il sacerdote stesso compie quei misteri sacri e tremendi anche per gli angeli con tanta precipitazione, e tanto senza divozione e freddamente, che par che gridi a tutti: Io non ammetto la presenza, né di Cristo, né degli angeli. Oh che pene atroci subiranno quelli, che percepiscono i denari dei benefizi, e non spendono un centesimo in uso della Chiesa!

Se così è, non vi meravigliate, se è tolto da voi il regno di Dio, ed è dato ad altri, che ora di fresco si vanno convertendo in Oriente e in Occidente e nel Nuovo mondo. Dio fa con noi così. «Voi, egli dice, disprezzate la penitenza; Torrò da voi il sacramento della penitenza. Disprezzate l'Eucarestia? Ve la toglierò. Disprezzate i sacerdoti? Ve ne priverò. Voi vi portate quasi come se queste cose non valessero niente: ed io permetterò, che vengano uomini, che diranno sul serio, che queste cose non valgono niente: e vi persuadano di questa a rovina e dannazione delle vostre anime. Estinguerò il picciol lume, che è in voi. Lascerò, che vi sorprendano le tenebre, e che viviate nelle tenebre, moriate nelle tenebre, e dalle tenebre interiori scendiate nelle esteriori, nell'inferno. Né la mia fede patirà danno; se qui diminuirà, si propagherà altrove». E che così sia, chi non vede, uditori? Quanti non si convertano ogni dì nell'Oriente, nelle vastissime regioni dell'India! Quanti nel settentrione, nei regni del Giappone! Quanti nel mezzodì, nei regni del Brasile e nelle terre dell'Africa! La fede, uditori, si allontana, se ne va via da noi, senza che essa ne soffra danno, perché si propaga altrove. Ma siamo noi che ne soffriamo, noi resteremo involti nelle tenebre. Camminate «camminate, mentre avete lume, affinché non vi sorprendano le tenebre» (Gv 12, 35). Così sia.

Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:36

ANTICHITÀ DELLA CHIESA CATTOLICA

 

 

     Nel santo battesimo, ottimi uditori, abbiamo ricevuto la fede e la religione. La Chiesa cattolica ce le ha insegnate; e fino a questo dì le abbiamo professate. Due cose sopratutto giovano a conservarle, cioè: in primo luogo, il lume interno della fede, che è stato diffuso nel nostro cuore per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato: e in secondo luogo certi argomenti esterni. Se diligentemente esamineremo e considereremo e pondereremo anche i secondi, non poco di luce ci apporteranno ad illustrare la verità della nostra fede. Del lume della fede, della forza che ha, della gran cura e sollecitudine, con cui bisogna conservarla ci siamo occupati nel discorso passato. Qui non è il caso di ripetere il già detto. Ora sono da proporre e spiegare gli argomenti esterni. con questi armeremo il cattolico, amante della sua salvezza, contro i presenti e i futuri nemici della religione cristiana: e lo stabiliremo sopra quella salda pietra, su cui si trova già collocato per la grazia di Dio. Così non potrà essere smosso da nessuna violenza, da nessun urto di quei venti, che spirano continuamente da Aquilone, eccitati come sono dagli spiriti dell'errore e della seduzione.

     La radice e quasi fonte degli argomenti esterni è l'eccellenza e superiorità della nostra legge. Questa abbraccia molte cose, e per esse senza dubbio è superiore a tutte le sette e le superstizioni dei pagani e degli eretici. Esse sono: l'antichità, l'ampiezza, la saldezza, la verità, il lume profetico, lo splendore dei miracoli, la bontà della vita ed altre cose, che abbiamo enumerate nel discorso precedente. Oggi c'intratterremo solo intorno al primo argomento, cioè intorno alla antichità. Gli altri avranno il loro luogo nei discorsi seguenti.

     Anzi tutto la nostra legge è antichissima; sia che si voglia considerare la Scrittura, nella quale essa è contenuta sia la religione stessa. Come Dio è prima del diavolo, il bene prima del male e la verità prima della bugia; così la Scrittura di Dio, e la città e la religione di Dio sono del tutto prima della scrittura, della città e della superstizione del diavolo. Questo dimostrano ad evidenza Sant'Agostino e Tertulliano. I libri che scrisse il nostro Mosè, vincono di molti secoli non solo i libri dei gentili, ma anche gli stessi loro dèi, e gli oracoli e i templi. Quanto a tutti i filosofi dei Greci, essi non furono in alcun modo più antichi dei nostri profeti: ma solo parte contemporanei, parte posteriori. Orfeo, Museo, Lino, primi inventori delle favole greche, furono sì prima dei nostri profeti, ma non prima di Mosè (Aug. l. 18. de civ. c. 37. Tertull. Apol. c. 19). Dunque la superstizione dei Greci è senza alcun dubbio più recente della nostra religione. E' vero che si trova prima di Mosè una qualche sapienza, che è detta sapienza degli Egiziani. Altrimenti non direbbe Santo Stefano negli Atti degli apostoli, che Mosè fu istruito in tutta la sapienza degli Egiziani (At. 7). Ma i sapienti Egiziani vissero forse prima dei nostri patriarchi? Non attinsero anzi tutta la sapienza da essi, quando quelli venivano nella loro terra? Iside insegnò le lettere agli Egiziani. Ma non si conta che essa (Iside) nacque al tempo dei nipoti di Abramo? Che dire di Enoch, che fu settimo dopo Adamo? Era membro della nostra Chiesa, e profetò dei nostri tempi. Così lasciò scritto S. Giuda apostolo nella sua lettera canonica.

     Ma tralasciamo queste notizie troppo antiche, e non tanto necessarie al tempo presente. Consideriamo la Chiesa non dal principio del mondo, ma dal tempo, in cui il Salvatore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, cominciò a riunire quelli che erano dispersi. Certo la religione cristiana cominciò nella Palestina non ieri, né l'altro ieri, ma millecinquecentosettanta anni fa da Cristo, figlio di Dio e della Vergine Maria: poi fu seminata e propagata per tutto il mondo fino all'estremo della terra. Così avevano predetto i profeti. «Da Sionne verrà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2, 3). «Piccola cosa è, che tu mi presti servigio a risuscitare le tribù di Giacobbe, e a convertire la feccia d'Israele. Io ti ho costituito luce delle genti, affinché tu sia la salute data da me fino agli ultimi confini del mondo (Is. 49, 6).

     Ora chi non sa, che tutte le eresie sono posteriori? Certo gli Ariani non furono prima di Ario, né i Macedoniani prima di Macedonio, né i Nestoriani prima di Nestorio, né i Pelagiani prima di Pelagio, né i Maomettani prima di Maometto, né i Luterani prima di Lutero. Ma chi ignora, che tutti costoro sono venuti su dopo il 300, a il 400, o il 500, a il 1500 dalla venuta di Gesù Cristo in qua? Non è egli un grande argomento della verità, il poter noi far vedere l'origine di ciascuna eresia, così da nominarne l'autore, fissarne l'anno, designare il luogo, far conoscere la causa, o meglio l'occasione delle nuove dottrine? E per venire ad un particolare in Lutero, chi non sa che la setta, o anzi le sette di quelli, che si dicono Luterani, risalgono come a loro  prima autore a Lutero, già monaco agostiniano, nell'anno 1517 dal parto della Vergine, a Vittemberga, città della Sassonia, nella occasione delle indulgenze concesse dal pontefice Leone X? Prima di quell'anno non s'era udito mai neppure per sogno il nome dei Luterani: né Lutero stesso era allora Luterano: anzi si professava nella Chiesa cattolica sacerdote e dottore e manico e figlio ubbidiente del Ramano Pontefice. Poi, da principio, quando si separò dalla Chiesa Romana, non trovò assolutamente nessuna della sua setta, ma, come parla S. Cipriano, «egli per prima, senza succedere ad un altro, cominciò da sé stesso e diè principio a congregare un nuovo ceto di persone». Infatti vi erano al tempo di Lutero varie e moltissime sette, come per esempio quelle dei Giudei, dei pagani, dei Greci, dei Giacobiti, degli Armeni, dei Valdesi e dei Boemi ossia Ussiti, oltre alla vera e cattolica religione, la Romana.

     Ma è certo, e n'è testimonio lo stesso Lutero, che a Lui non piacque nessuna di quelle sette, che esistevano allora, e che si staccò dalla Chiesa Romana di sua volontà. Che resta dunque, se non che fondò egli una nuova eresia? E se non è così, ne mostri l'origine più antica, conti i suoi predecessori, noti i luoghi  e i tempi, dove e quando sussistettero. Sicuramente, se pur egli non avrà trovato maestri e sacerdoti capi della sua setta in qualche ripostissimo guardaraba, ed ivi li avrà tenuti sempre chiusi; non possiamo supporre, che qualcuno lo abbia preceduto in quella eresia.

    Dirà forse, che egli non ne ha trovato nessuno: ma che non per questo egli abbia incominciato una nuova religione: ma che anzi ha rimesso in vigore l'antica, che fioriva al tempo di Cristo e degli Apostoli. Sennonché è più chiaro della luce del sole, che nessuno ha mai più apertamente combattuto contro le dottrine di Cristo e degli apostoli. Od era forse estinta, sicché Lutero la dovesse richiamare per così dire dall'inferno? E se così è, dov'è quell'«Ecco che io sono con voi fino alla consumazione dei secoli?» (Mt. 28, 20). Dove quel «Sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa?; e le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa?» (Mt. 16, 18) Dove quell'«Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno?» (Luc. 22, 32). Dove Quel «il suo regno non avrà fine?» (Lc. l, 33). Dove quel di S. Cipriano «alla Chiesa Romana non può aver accesso la mala fede?» (Cipr. lib. l, epist. 5). E quel di S. Girolamo «che la fede Romana non ammette imposture: e che sebbene un angelo annunziasse diversamente da quello che fu predicato, non si potrebbe cambiare, secondo l'autorità dell'apostolo Paolo?» (Hierom Apol, contro Ruffin.). E quel di S. Bernardo «giudico», che sia ben degno di nota, come ivi «principalmente»; cioè nella Chiesa Romana, «si riparano i danni della fede, mentre in essa Chiesa la fede non può venir meno?» (Bern. ep. 190 ad Inn.). E se la Religione di Cristo non era perita, come realmente non era perita; dove si trovava prima che sorgesse Lutero? Forse presso i Giudei od i Maomettani? O presso gli Armeni e i Greci? O presso i Valdesi e gli Ussiti? Ma presso codesti mostruosi portenti non si trovava, come giudica perfino Lutero. Che resta dunque, se non che la vera fede e la Religione di Cristo continuò a durare nella Chiesa Romana, che è quella sola che ma rimane? Quale di queste cose si può negare o privare di autorità?

    Questo dunque io ritengo, uditori: qui mi attacco. O la vera religione era perita, quando uscì Lutero, o non era perita. Se era perita, è perita anche la promessa di Cristo, e ha mentito la verità, che affermò che non sarebbe perita. Se non era perita, si trovava presso qualcuno. Ma non presso i pagani, ad i Giudei, o i Greci, o gli Ussiti. Dunque presso i Romani. Dunque Lutero, allontanandosi dalla Chiesa Romana, si allontanò dalla vera ed antica Religione, e ne fabbricò una falsa e nuova.

    Mostrino ora gli eretici, se se la sentono, in qual tempo, in qual luogo, per autorità di chi ebbe principio quella religione e quella fede, che Lutero ha combattuto, e che noi chiamiamo antica, essi recente, noi vera, essi falsa, noi cattolica, essi papistica. Qual'è l'errore principale dei papisti? Certo, se qualche errore c'è, non è altro che questo; che, cioè, il Papa Romano è il capo di tutto il mondo in nome di Cristo, e che egli è vescovo, padre e dottore non solo dei popoli, ma anche di tutti i vescovi. Infatti da questa eresia, com'essi ritengono, quale prima e principale, ci chiamano papisti, e hanno deciso che dobbiamo essere chiamati così. Vediamo quando ebbe principio questo nostro errore; Dite voi, Luterani: quando fu introdotto il papismo in luogo del Cristianesimo? Forse il regno dei Pontefici ha preso le mosse dal regno dei teologi scolastici, giusto al tempo di Innocenzo III, quando si celebrò il Concilio di Laterano, ed in esso la Chiesa Romana fu chiamata Madre e Maestra di tutte le chiese, e sorsero le famiglie dei Predicatori e dei Minori? Ma io leggo che S. Bernardo, chiarissimo per dottrina, miracoli e santità di vita e più antico di loro tutti, scrisse al Romano Pontefice Eugenio così: «Ci sono al certo anche altri portinai del cielo e pastori di greggi: ma tu hai ereditato sopra gli altri l'uno e l'altro nome, tanto più gloriosamente, quanto anche più differentemente. Hanno essi greggi assegnati, uno per ciascuno: a te sono affidati tutti, come ad un solo pastore un solo gregge. E tu sei non solo pastore delle pecore, ma pastore unico anche di tutti i pastori. Dunque, secondo i tuoi canoni, gli altri sono stati chiamati in parte della sollecitudine, tu nella pienezza della potestà. La potestà degli altri è ristretta entro certi limiti, la tua si estende anche sopra quegli stessi, che hanno ricevuto la potestà sopra altri. Non potresti tu, se ci fosse motivo, chiudere il cielo ad un vescovo, tu deporlo dall'episcopato, ed anche darlo nelle mani di Satana?» (Bern. l. 2. De consid.). Ma forse S. Bernardo adulava Eugenio, monaco del suo ordine; e perciò non furono i teologi scolastici, ma fu S. Bernardo a ideare l'eresia dei papisti. Che diremo di S. Gregorio Magno? Questi, di molti secoli anteriore a Bernardo, scrive all'imperatore Maurizio in questa forma: «E' chiaro per tutti quelli, che sanno il Vangelo, che per la  parola del Signore la cura di tutta la chiesa è stata affidata all'apostolo Pietro principe di tutti gli apostoli·» (Greg. ep. ad Maur. imperat). Che diremo del santissimo Pontefice Leone? Egli nel dì anniversario della sua assunzione al trono pontificio parla così: «Da tutto il mondo viene eletto il solo Pietro, per essere messo a capo della vocazione di tutte le genti, e di tutti gli apostoli, e di tutti i Padri della Chiesa. Sì che, quantunque nel popolo di Dio siano molti i sacerdoti e molti i pastori; tutti però sono retti da Pietro quelli, che principalmente sono retti da Cristo» (Leo serm. D. de anniv. assump. suae). Ma forse e S. Gregorio e S. Leone trattarono la causa della propria sede, e per ciò inventarono essi per la prima volta questa eresia.

Che dunque risponderemo al grandissimo e santissimo concilio di Calcedonia, che chiamò il Pontefice Leone Patriarca universale, e la Chiesa Romana capo di tutte le Chiese»? (Conc. Calced. ep. ad Leo). Che cosa al concilio di Nicea, il primo e il più antico dei concili generali, che stabilì, che tutti i Vescovi da tutta la terra possono appellare al Romano Pontefice, come a giudice supremo, e ricorrere alla sede Romana come a Madre? (Iul. ep. 2, et 3) E ciò fecero più volte, e Atanasio, e Marcello, e Paolo, e Crisostomo; e Teodoreto ed altri Padri, quando erano cacciati dalle loro  sedi. Che risponderemo a San Cirillo, vescovo di Alessandria, che parlando nel «Tesoro» del Romano Pontefice, dice: «Rimaniamo come membra nel nostro capo, il trono dei Romani Pontefici; è nostro dovere il domandare a lui quello che dobbiamo credere» (Cyril. Thesauri). Che risponderemo al grande Atanasio? Chiama egli, nella lettera a Marco, il Romano Pontefice Papa della Chiesa universale, e la Chiesa Romana capo e maestra di tutte1e chiese (Atan. ad Marcunm). Che risponderemo al grande Crisostomo, che dice: «Cristo mise Pietro a capo di tutto l'universo»: (Crysost hom. 55. in Matth.): e ancora: «Padre e capo della Chiesa un uomo pescatore e ignobile». Che cosa a Sant'Ottato vescovo Milevitano, il quale dice: «Non puoi negare, che tu ben sai, che nella città di Roma a Pietro per primo fu posta la cattedra episcopale, su cui sedè Pietro, capo di tutti gli apostoli; onde anche fu chiamata pietra, affinché in una sola cattedra da tutti si conservasse l'unità; così che gli altri apostoli non occupassero una cattedra ciascuna per sé; una volta che sarebbe stato scismatico e peccatore, chi avesse collocato un'altra cattedra contro l'unica» (Opt. Milev. l. 2 contra Parmen). Che risponderemo al Santo Martire Ireneo mentre insegna: «che alla Chiesa Romana, la più grande e la più antica, per la più potente supremazia, è necessario che si unisca ogni chiesa, cioè i fedeli che si trovano dove che sia»? (Iren. l. 1. contra Valent.). Che risponderemo ad Anacleto, santissimo Pontefice e martire, e discepolo degli apostoli, che dice: «Questa sacrosanta Romana ed Apostolica Chiesa, non dagli Apostoli, ma dallo stesso Signore Salvatore nostro ha ottenuto e l'eminenza della potestà sopra tutte le chiese, ed ha conseguito tutto il gregge del popolo cristiano?» (Anacl. ep. 3). Che risponderemo ad altri antichissimi e santissimi Padri Greci e Latini, delle cui gravissime testimonianze abbondiamo tanto, che potremmo seppellire i nostri avversari: e ad una che essi mettano fuori, portarne noi cento ed anche più? 

    Sennonché, soggiungono: molti certo degli antichi dissero questo: ma adularono i Pontefici. Oh sfacciataggine eretica! Dunque Ireneo, Cirillo, Grisostomo, Ottato ed altri Padri giustissimi, sapientissimi ed ottimi, avrebbero adulato i Pontefici? E perché alla fin fine? Per conseguire ricchezze da loro? Ma in quel tempo i Pontefici erano poverissimi di ricchezze temporali: ed erano ricchi delle sole virtù. Per procacciarsi un vescovato? Ma allora il vescovato era porta alla morte. I primi che venivano trascinati alla morte e al martirio erano i vescovi. No, dunque quei santissimi Padri non adulavano i Pontefici, ai quali anzi avrebbero con somma libertà resistito in faccia, se avessero voluto usurpare per sé qualche cosa, oltre il lecito e il giusto. Ma sia, adulavano. Anche Cristo adulava S. Pietro? Che dunque risponderemo a Gesù Cristo? Come ricorda S. Giovanni, egli chiamò Pietro col suo nome proprio, aggiunse il nome del padre, e lo distinse così da un altro Simone. Poi gli fece una interrogazione e lo separò nettamente dagli altri apostoli, con dirgli: «Simone figliuolo di Giovanni, mi ami tu più che questi?» (Gv 21). E subito: «Pasci i miei agnelli». Poi per una seconda volta: «Pasci i miei agnelli». E a una terza domanda: «Pasci le mie pecorelle». A te, disse. Simone figliuolo di Giovanni, che mi ami più degli altri, a te affido da pascolare tutto il mio gregge, cioè gli agnelli e le pecore. Per gli agnelli intendo il Popolo ebreo e per gli agnelli ancora il popolo gentile: per le pecorelle intenda i vescovi, che sono quasi madri e nutrici dei popoli. Ditemi: che cosa si sarebbe potuto dire con più chiarezza? Che cosa con più evidenza? Che cosa con maggiore determinazione? Ricusano pertanto di essere pecore e agnelli di Pietro quelli, i quali non riconoscono Cristo pastore primo e principale, desiderano invece di essere collocati a sinistra coi capretti nel giorno del giudizio. Di certo quelli, che non seguono qui sulla terra quali pecore il Vicario di Cristo, nel dì del giudizio saranno messi a sinistra insieme coi capretti.

     E  non si deve credere, che questo ampissimo potere sia stato conferito da Gesù Cristo al solo Pietro e non ai suoi successori. Cristo non istituiva la Chiesa, che dovesse durare solo venti o trent'anni. E se ai tempi apostolici era necessario un capo, acciocché si togliesse l'occasione di uno scisma, come parla S. Girolamo contro Gioviniano, quando i cristiani erano pochi e buoni, ed erano vescovi gli apostoli, che né potevano errare contro la fede, né peccare mortalmente; certo nei tempi posteriori, la Chiesa abbisognava di un sommo Pontefice non meno che abbisogni un corpo della testa, un esercito del generale, le pecore di un pastore, una nave di un capitano e di un pilota.

     Ne viene dunque, che non il Papismo è nuovo, ma il Luteranismo. E a noi non fa nulla, che gli eretici ci chiamano ora omusiani, ora papisti. Anzi questi stessi vocaboli designano l'antichità e la nobiltà della nostra Chiesa. Infatti che significa che Gesù Cristo è omusios al Padre, se non che ha comune col Padre la natura e la divinità? Dunque, quando siamo detti omusiani. siamo chiamati (tali) dalla sostanza e dalla divinità di Cristo. Per eguale ragione, se noi siamo detti papisti dal Papa, come i Luterani da Lutero; chi non vede, di quanto i papisti sono più antichi dei Luterani e dei Calvinisti? In vero e Clemente e Pietro e perfino Cristo furono Papi, cioè Padri e Sommi Pontefici dei Padri. Ci chiamino gli eretici papisti, ci chiamino omusiani, mai non ci potranno chiamare con ragione da un qualche uomo determinato, come noi chiamiamo essi da Lutero e da Calvino.

     Così è, uditori. Noi stiamo al sicuro nella rocca della Chiesa, e ce la ridiamo di tutti gli eretici, uomini nuovi, e diciamo loro con Tertulliano: «Chi siete voi? Donde e Quando siete venuti? Onde siete sbucati or ora? Dove siete stati rimpiattati tanto tempo? Non abbiamo udito mai parlare di voi fin ora» (Tert. lib. de praescr.), e con Sant'Ottato: «Mostrate voi l'origine della vostra cattedra, voi, che volete attribuirvi la santa Chiesa» (Opt. Milev. contra Parmeniamunu); e col beatissimo Ilario: «Siete venuti troppo tardi, vi siete svegliati con troppa pigrizia. Noi abbiamo già da un pezzo imparato, ciò che abbiamo da credere di Cristo, della Chiesa, dei sacramenti. Non è un buon sospetto, che adesso per la prima volta vi fate vedere? Il buon frumento fu seminato e nacque non dopo, ma prima della zizzania».

     Giustamente altresì con S. Girolamo li ammoniamo: «Chiunque tu sia sostenitore di nuove dottrine, ti prego di usar riguardo alle orecchie Romane: usa riguardo alla fede, che fu riconosciuta con lode della bocca apostolica. Perché tenti d'insegnarci, ciò che prima non abbiamo saputo? Perché metti fuori, ciò che Pietro e Paolo non hanno voluto dar fuori? fino a questo giorno il mondo è stato cristiano, senza codesta vostra dottrina. Quanto a me io terrò da vecchio quella fede, nella quale nacqui da fanciullo» (Himeron ad Pamm et Ocean). E bene udiamo il medesimo Girolamo ammonire paternamente così: «Se udirai in qualche luogo quelli, che si dicono cristiani, chiamarsi non dal Signore Gesù Cristo, ma da qualunque altro, come i Marcioniti, i Valentiniani, i Campesi ossia Montesi, sappi, che non sono la Chiesa di Cristo, ma la sinagoga dell'Anticristo. Da ciò stesso che sono stati istituiti più tardi, si giudicano, di essere quelli,  che l'Apostolo disse chiaro, che sarebbero venuti». Giustamente in fine temiamo l'apostolo Paolo, che terribilmente minaccia: «Ma quando anche noi o un angelo del cielo evangelizzi a voi oltre quello che abbiamo a voi evangelizzato, sia anatema» (Gal. 1, 8).

      Capite insomma, con quanto timore, con quanta cura, con quanta sollecitudine, con quanto zelo si deve fuggire la novità; quando non è libero, non è permesso neppure agli Apostoli né agli angeli stessi di insegnare diversamente da quello che hanno insegnato una volta? «Quand'anche noi», dice. Che intende dire con questo «noi?» Che, sebbene Pietro, sebbene Andrea, sebbene Giovanni, sebbene io, sebbene il coro Apostolico, fosse anzi tutto l’esercito degli angeli, «evangelizzi a voi oltre quello che abbiamo a voi evangelizzato, sia anatema». E affinché non credessimo per caso, che questa parola gli fosse sfuggita incautamente, e che non l'avesse detta a ragion veduta, lo ripete di bel nuovo: «Come dissi per l'innanzi, dico anche adesso: Se alcuno evangelizzerà a voi oltre quello che avete appreso, sia anatema». Perciò una volta che né agli Apostoli, né agli Angeli è lecito fondare una nuova fede; senza dubbio neppure a noi è lecito riceverla senza danno della nostra salvezza, e rovina della nostra anima.


Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:37

CATTOLICITÀ E PERENNITÀ DELLA CHIESA

 

 

    Sono certo, ottimi uditori, che apporteranno grande aiuto, per confermare la vera e antica fede, gli argomenti, che nel discorso d'oggi, coll'aiuto di Dio, sono da trattare e spiegare; se si spiegheranno con ogni accuratezza. Nel precedente discorso abbiamo dimostrato che la nostra cattolica ed ortodossa religione è antichissima. Segue che con ordine retto ragioniamo intorno alla ampiezza e saldezza della medesima. Questi due argomenti sono soprattutto potentemente efficaci per respingere tutte le profane novità degli eretici, e per ritenere nel primitivo stato ed onore l'antica fede e la sacrosanta religione.

    E primieramente la conversione di tutto il mondo è per molti un argomento invincibilissimo e che meritamente reca somma ammirazione e stupore. Stupisce, che una così innumerevole moltitudine di uomini di tutte le genti, di tutte le età, di tutte le condizioni, poveri e ricchi, nobili e plebei. dotti e ignoranti, uomini e donne, giovani e vecchi, si siano convertiti con tanta prestezza e facilità. Che inoltre alla predicazione di uomini sconosciuti, poveri ed abietti, e non gran che eloquenti, abbiano rinnegato le antiche leggi e i riti dei loro antenati. Terza, che abbiano accolto con tanta alacrità e devozione la legge di Cristo, legge contraria alla carne e al sangue, legge che contiene misteri che superano ogni capacità intellettuale, legge che non promette in questo mondo altro che croci e tribolazioni. Quarto, che non solo l'hanno accolta, ma l'hanno accolta così, che preferirono mille volte essere tormentati e morire, e versare tutto il loro sangue, anziché abbandonare una tal legge da loro una volta accolta. Che infine sia avvenuto proprio così, come i Profeti avevano prima predetto. E per non citare altri, Davide disse: «Lo adoreranno tutti i re della terra, e le genti tutte a lui saranno serve» (Ps. 71, 11): e più sotto: «Ei signoreggerà da un mare fino all'altro mare: e dal fiume fino alle estremità del mondo»: e altrove: «Chiedimi, e io ti darò in tua eredità le genti» (Ps, 2, 8). Di questo fatto si mostrò al mondo una chiarissima figura il dì della Pentecoste. Allora in una stessa e medesima casa, che era figura di tutta la chiesa, Dio era lodato dai fedeli con le lingue di tutte le genti. Non solo, ma anche quando per la prima volta gli apostoli si diedero a promulgare la legge evangelica nella città di Gerusalemme, v'erano radunati contemporaneamente Parti, Medi ed Elamiti, e abitatori della Mesopotamia e della Giudea e della Cappadonia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e della Libia, ed anche Romani, Arabi, Cretesi e, in una parola, uomini di ogni nazione, che vivono sotto il cielo. Ciò non significava altro, che l'universalità ed ampiezza della Chiesa. Davvero, chi da questo argomento non si persuade che la legge cristiana è la legge del vero e onnipotente Iddio; non vedo in che maniera non debba stimarsi, che manchi di ragione e di intelligenza.

      Se i filosofi e gl'inventori delle eresie arrivassero ad attirare molti ai loro errori, non dovrebbe parer meraviglia. Essi non insegnano nulla, che oltrepassi la ragione: nulla comandano, che non si possa fare facilmente. Insomma le loro sette sono strade larghe, e non hanno strettezze, né nelle cose da credere, né in quelle da praticare. Ma chi poté, se non Dio, persuadere, che una sola e medesima natura esista in tre persone, che un uomo sospeso su un patibolo sia Dio, che una vergine abbia concepito e partorito senza lesione della verginità, che tutti gli uomini risorgeranno nella loro propria carne, anche quelli che saranno stati inceneriti da incendio o divorati dalle belve? Che inoltre si devono amare i nemici, non rendere male per male, sopportare le calamità, perdonare le ingiurie, disprezzare gli onori, ed altre tali dottrine altissime e sottilissime? Onde Sant'Agostino, nel libro contro la lettera di Manicheo, che si chiama del fondamento, dice: «Chi, se non Dio, potrebbe indurre una sì gran moltitudine ad una legge contraria alla carne e al sangue?». E nel libro 22 della Città di Dio fa vedere chiaramente, come è certamente gravoso e quasi incredibile, che i morti risorgeranno: ma non meno incredibile, che quasi tutto il mondo abbia creduto una cosa tanto incredibile: anzi, il più incredibile di tutto, che di ciò fu persuaso il mondo non da filosofi eloquentissimi e sapientissimi, né in molte centinaia di anni, bensì da umili pescatori e in pochissimi anni. Dunque chi può essere, fuori di Dio, la causa per cui, in brevissimo tempo, ammutolirono in tutta la terra gli oracoli, come se fossero stati ostruiti con pietre. cessarono i culti e i sacrifizi ai demoni, e quasi tutti gli nomini accolsero la legge contraria alla carne e al sangue? 

     Leggete il libro di Sant'Atanasio intorno alla umiltà del Verbo, o almeno il discorso di Teodoreto ai Greci intorno alle leggi. Ivi vedrete, con quanti sforzi sommi filosofi di eccellentissimo ingegno e somma eloquenza, quanto poco ci cavarono. A stento c’è qualcuno di loro, che abbia potuto attirare alle sue leggi almeno pochi dei vicini. «Ma ora». dice Teodoreto «quei pescatori e quel cucitore di tende, portarono la legge evangelica a tutte le nazioni, e persuasero ad accettare la legge del Crocifisso non solo i Romani e quelli che vivono sotto i Romani: ma anche gli Sciti e i Sauromati e gl'Indiani: inoltre gli Etiopi, i Persiani, i Siri, gl'Ircani, i Britanni, i Cimmeri, i Germani, e, per dirla in una volta, ogni razza di uomini». E questo non è mica una amplificazione di Teodoreto, o uditori. Anche San Leone, testimonio degnissimo di fede. nel discorso della natività dei Santi Pietro e Paolo, rivolge il discorso alla città di Roma e dice: «In grazia della sede di S. Pietro, sei divenuta capitale del mondo. La tua sovranità si stende più, che non la signoria terrena. Quantunque cresciuta per le molte vittorie tu abbia disteso il diritto del tuo impero per terra e per mare: tuttavia è meno ciò che, ti ha soggettato il valore guerresco, che ciò che ti ha assoggettato la pace di Cristo». Da ciò si ricava, che al tempo di S. Leone: era maggiore il mondo cristiano, che il mondo Romano: e che più popoli ubbidivano al Pontefice Romano, che all'Imperatore Romano. Ed è cosa ancor maggiore quella che dice Sant'Ireneo martire, che fu vicinissimo ai tempi apostolici. Dice così: «Dacché la Chiesa, disseminata per tutto il mondo, ha ricevuto questa, fede, diligentemente la custodisce, quasi che abitasse una casa sola e crede similmente, quasi avesse un'anima sola e un cuor solo: e costantemente la predica, la insegna, la trasmette, quasi possedesse una bocca sola. Né credono diversamente le Chiese che furono fondate nella Germania, né quelle che nella Spagna, o nella Francia, o nell'Oriente, o nell'Occidente, o nell'Egitto, o nella Libia, o in quelle che sono poste in mezzo al mondo.

Ma come il sole è uno stesso per ogni creatura di Dio in tutto il mondo; così il lume e la predicazione della verità da per tutto manda luce e illumina tutti gli uomini, che vogliono venire alla conoscenza della verità» (Iren. l, 1. contra haeres. c. 3). Tanto Santo Ireneo. Che dire, se perfino già al tempo degli apostoli il Vangelo splendeva quasi in tutto il mondo? E l'apostolo S. Paolo, che, scrivendo alla Chiesa di Colossi, dice: «Se però perseverate ben fondati e saldi nella fede, e immobili nella speranza del Vangelo ascoltato da voi e predicato a tutte quante le creature, che sono sotto il cielo» (Col 1, 23). E' provata dunque la grande prestezza e il grande miracolo, con cui si è diffusa per tutta la terra la Religione santa, e come ha collegato genti diversissime per lingue, costumi o paesi, con pace sì grande, che parrebbe avessero un sol cuore, una sola bocca, un'anima sola. 

    Quale eresia mai, pur predicando cose facili e credibili, e accarezzando la carne e il sangue, e puntellata dalla protezione di principi e d'imperatori, ebbe tali successi? Quale mai occupò, non dico tutto il mondo, ma un'intera provincia? I Valentiniani e i Marcioniti erano cresciuti sì in gran numero, ma, secondo la testimonianza di Sant'Ireneo. appena appena due o tre dicevano la stessa cosa intorno allo stesso argomento. Gli Ariani avevano infettato quasi tutto il mondo: ma che? neppure essi parlavano allo stesso modo delle medesime cose. Non appena fu nata l'eresia Ariana, che andò divisa in varie sette dissenzienti. Altro dicevano intorno agli altissimi misteri della nostra fede gli Acazriani, altro gli Eunomiani, altro i Macedoniani. Con tutto ciò ognuno riconosceva per loro padre uno stesso Ario. La empietà Maomettana ha ingoiato gran parte dell'Africa e dell'Asia: ma anch'essa, oltre che si racconta, che fin dal principio si trovò divisa in più di settanta varie sette, ha forse occupato l'Italia, la Francia, la Germania, e gli altri paesi del mondo cristiano, come la Chiesa cattolica di Cristo occupò l'Oriente e il Mezzogiorno, e in parte lo tiene anche al presente? Gli eretici del nostro tempo quando hanno veduto l'Asia e l'Africa? Quando si è udito il nome di Lutero o di Calvino nell'Egitto, nella Libia, nell'Arabia. nell'Etiopia, nella Persia? E in questo angolo della terra, dove hanno posto il loro nido, non sono essi forse divisi tra loro così, che a mala pena si trovano due, che si accordino in tutto a vicenda? Non potremmo noi dir loro con Sant'Agostino: «Nessuno dubita, che voi così pochi, così turbolenti, così nuovi, non portate cosa alcuna degna di autorità» (Aug. de utii, cred. c. 14).
Non c'è dunque, né ci fu una qualche congregazione di uomini che affermasse e sentisse la stessa cosa, che onorasse il medesimo Dio con gli stessi riti e con le stesse cerimonie, e che abbia occupata tutta la terra; tranne la vera ed ortodossa Chiesa di Cristo. Essa sola con pieno diritto si è sempre acquistata il nome di cattolica ed universale, a marcio dispetto degli eretici.

     Ma forse che questa nostra religione, come crebbe in fretta, così si è estinta in fretta? Tutt'altro, uditori. Ha gettato radici così salde e profonde. che nessun impero mai, forte di armi e di eserciti, e governato da uomini eccellenti per prudenza ed eloquenza, ha potuto resistere e durare così a lungo. E questo è il secondo argomento che ora resta da spiegare. Lascio i regni e gl'imperi secolari. Questi cominciano e crescono con le armi, e con le armi altresì vengono indeboliti e distrutti. Parliamo delle eresie. Esse tutte non sono forse sorte dopo la Chiesa, ed estinte prima della Chiesa? Santo Ireneo conta circa venti varie sette di eretici dopo l'ascensione di Gesù Cristo. Tertulliano ne conta 27, Epifanio 80. Teodoreto 76, San Giovanni Damasceno 100, Sant'Agostino 88, Filastrio 128. Di tutte quelle non se ne trova per una, che non sia già perita del tutto. Dove sono ora i Simoniani, i Menandriani, i Marcioniti e tante altre razze di sette? Non sono rimasti né essi, né i loro successori, né i loro libri, né monumento alcuno. E se non leggessimo i loro nomi nei libri dei Padri cattolici, che contro di essi hanno combattuto, non potremmo sapere nemmeno, se fossero esistite tali sette. Sissignori si risvegliano in questo tempo e si richiamano dall'inferno gli errori degli antichi. Ma per questo non sono essi periti un dì? Certo Teodoreto attesta, che al suo tempo tutte le eresie antiche erano affatto scomparse. Che dire dell'eresia Ariana? Essa aveva infettato gran parte della terra, ed aveva ingannato imperatori, re e vescovi senza numero. Pareva immortale. Dov'è ora? S'è eclissata anch'essa finalmente, è morta e sepolta. Da molte centinaia d'anni non ne rimane neppure il nome sulla terra. Ma perché andar tanto lontano? La eresia Luterana, nata ai nostri dì, non si è già quasi disseccata? Sebbene ci siano molti, che chiamiamo Luterani; pure sono pochissimi quelli, che custodiscono pure e intere le dottrine di Lutero, come furono insegnate da lui. E se egli tornasse dall'inferno, ci sarebbe pericolo, che non trovasse nessuno, che lo riconoscesse. Ma neppure egli riconoscerebbe più i suoi stessi insegnamenti, tanto i suoi nipoti e i posteri hanno rimaneggiato in altra forma e la fede e il vangelo di Lutero.

    La chiesa di Cristo invece, edificata sopra una pietra salda, non poté mai essere rovesciata da nessuna procella, da nessuna tempesta. La Chiesa Romana che è capo delle chiese è rimasta sempre in piedi: e non è mai mancata la successione dei sacerdoti nella sede apostolica: né sono mai mancati alcuni uomini, anzi non sono mancati mai popoli e Vescovi, che stessero attaccati a questo capo, quali membra.

    Più volte fu presa e, abbattuta Roma, più volte mutò padroni. Ora la tennero i principi pagani, ora gl'imperatori cristiani, ora i re Ariani. Ma essa non mutò mai la fede. Cadde la sede di Augusta: ma non cadde mai la sede di Pietro. Poté essere interrotta la serie degli imperatori Romani: ma non la serie dei Pontefici e dei successori di Pietro. Ed è oggetto di maggiore ammirazione, che delle altre Chiese quelle poterono essere durevoli e stabili, le quali non si separarono da questo capo. Dove è ora il patriarca di Alessandria? Dove quello di Antiochia? Dove quello di Costantinopoli? Dove, quello di Gerusalemme? Dove sono le sedi e le chiese Africane? Dove sono le chiese fondate dagli Apostoli? Quella di Corinto, di Efeso, di Tessalonica, di Colossi, di Filippi? Non si sono esse disseccate, tosto che si furono allontanate dalla Chiesa Romana, appunto come rami tagliati fin dalla radice?     Or questa perpetuità, questa continuità, questa costanza della Religione, questa non mai interrotta serie e successione di sommi sacerdoti nella Chiesa principale, è quel valido argomento, con cui sempre i nostri antenati chiusero la bocca agli eretici. Quando gli eretici vantavano, che presso di loro si trovava la Chiesa vera e la dottrina genuina; domandavano a loro i nostri Padri, dottori cattolici: donde avete voi codesta dottrina? Per le mani di chi è arrivata a voi? da Cristo? Mostrateci la successione dei vostri vescovi. E non potendo far questo, si facevano muti. Viceversa gli stessi Santi Padri, benché non potessero forse additare chiaramente la perpetua successione dei vescovi nelle loro proprie Chiese e sedi; tuttavia: la facevano vedere chiarissimamente nella Chiesa Romana, di cui essi erano membri. Sant'Ireneo, nel libro terzo contro le eresie, dice: «Per mezzo della successione dei vescovi, che arriva fino a noi, veniamo a conoscere quella fede, che dagli Apostoli ha la Chiesa, la più grande, la più antica, conosciuta da tutti, fondata e costituita dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo.

Con tale successione facciamo arrossire tutti quelli, che in qualunque modo si formano un giudizio, contrario a quella che dovrebbero, per una loro mala compiacenza di sé, a per una vanagloria e cecità, e per un perverso concetto. E' necessario, che con questa Chiesa (Apostolica), per causa della sua alta dignità, si accordi ogni Chiesa (particolare), (cioè quei fedeli che sono ondechesia). La ragione è, perché nella Chiesa (Romana), nella quale da quelli che sono ondechesia, si è conservata sempre la tradizione, che viene dagli Apostoli. Così Sant'Ireneo. E, detto ciò, enumera ordinatamente i Romani Pontefici dall'Apostolo Pietro fino a Sant'Eleuterio, al cui tempo egli viveva. E allora finalmente soggiunge: «Adunque con quest'ordine di successione arriva fino a noi la tradizione e la pubblicazione della verità, che dagli Apostoli si trova nella Chiesa. E questa è una compiutissima dimostrazione». Settimio Tertulliano poi, nel libro della Prescrizione, dice: «Mettano. fuori gli eretici l'origine delle loro  chiese, svolgano la serie dei loro vescovi, ma che decorra dal principio per mezzo della successione in tal maniera, che quel prima vescovo abbia avuto per autore e antecessore qualcuno degli Apostoli o degli uomini Apostolici, e che sia perseverato con gli Apostoli. Giacché così mettono a conto della Chiesa il loro valore; (appunto) come la Chiesa dei Romani riporta S. Clemente ordinato da San Pietro. Inventino gli eretici qualche cosa tale. Che cosa sarebbe per loro illecito, una volta che sono stati capaci di bestemmiare?» Inoltre San Cipriano, nella lettera Sesta del libro primo, parlando dell'eresiarca Novaziano, dice: «Quando c'è il legittimo pastore e che presiede nella Chiesa di Dio per ininterrotta ordinazione; come può essere pastore, chi non succede a nessuno, ma comincia da sé stesso? J:' necessario che costui sia un forestiero e un profano». E non è vero, che queste parole possono con tutta ragione calzare e per Lutero e per Calvino, e per tutti gli eresiarchi? non cominciò da se stesso ciascuno di loro, senza succedere ad altri? Ma che diremo di Ottato, Epifanio, Agostino, Girolamo? Sant’Ottato nel libro secondo contro Parmeniano enumera tutti i Pontefici Romani, e (con ciò) dimostra l'origine e la continuazione della Chiesa Cattolica. Poi, quasi dando la sfida agli eretici, si esprime così: «Fuori l'origine della vostra cattedra voi che volete appropriarvi la Chiesa». Tesserono l'indice dei medesimi Romani Pontefici Sant'Epifanio, scrivendo contro l'eresia ventesimasettima, e Sant'Agostino nella lettera centosessantacinquesima al medesimo proposito.

E se domandiamo a S. Agostino che cos'è che lo tenne così fortemente nel grembo della Chiesa Cattolica, ci risponderà, ciò che ha lasciato scritto nel libro contro la lettera del fondamento: «La successione dei sacerdoti fino al presente episcopato è quella, che mi tiene nella sede stessa di Pietro Apostolo, a cui il Signore, dopo la sua risurrezione commise di pascere le sue pecore». Se in fine domandiamo un consiglio a S. Girolamo, in quale Chiesa principalmente bisogna rimanere e perseverare, risponderà con ciò che pose da ultimo nel dialogo contro i Luciferiani: «Ti manifesterò il breve e chiaro mio parere. Bisogna stare e perseverare nella Chiesa, che fu fondata dagli Apostoli, e dura fino a questo giorno».

     Se così è, chi non vede, o uditori, quale e quanto grande è questo argomento? Perché i Santi Padri tessevano con tanta sollecitudine l'indice dei Romani Pontefici? E se Sant'Ireneo stimò tanto la serie di tredici Romani Pontefici e la continuazione della Chiesa a centottant'anni: se Sant'Ottato, Sant'Epifanio, San Girolamo, Sant'Agostino tennero in tanto conto una serie e continuazione non molto più lunga, cioè di 460 anni e al più di 40 Romani Pontefici; che direbbero in questo tempo, come godrebbero, come trionferebbero, con che libertà turerebbero la bocca ai Luterani e ai Calvinisti, al veder essere durati nella medesima Chiesa 1570 anni, e contarsi più di 200 Romani Pontefici, e la loro serie e successine non mai interratta? 

    Ma forse  la Chiesa. Cattolica non ha avuto uomini, che la impugnassero?Anzi nulla fu mai impugnato da tanta moltitudine di nemici, con tanta potenza, con tanta ostinazione. Da principio furono i Giudei che cominciarono a devastare la Chiesa di Cristo, Ma, siccome ciò, come di solito, non aveva effetto, il diamolo eccitò gli imperatori della terra. Pertanto monarchi potentissimi, non uno o due, ma dieci o dodici in vari tempi si lanciarono con tutte le forze del loro impero alla distruzione del nome cristiano. Ma che ottennero alla fin fine? Oh cosa incredibile, ma pur vera! Distrussero gl'imperatori Romani città potentissime sbaragliarono innumerevoli eserciti di barbari, domarono con le armi ferocissime nazioni: e non poterono vincere la Chiesa, armata della sola pazienza e della fede, e senza che reagisse o facesse resistenza. Venivano sacrificati i santi martiri fino a stancarsi i carnefici e a rendersi ottuse le spade. E il numero dei cristiani si faceva vedere ognor più grande. Giustamente Tertulliano chiamò il sangue dei martiri seme di cristiani. E San Leone, nel discorsa di San Pietro e Paolo. dice: «Con le persecuzioni la Chiesa non diminuisce, ma cresce. Sempre il campo del Signore si veste di più ricca messe; mentre nascono moltiplicati i grani che cadono». Così è, uditori. Veniva ucciso uno, e se ne convertivano dieci. Venivano uccisi dieci, e se ne convertivano cento. Venivano uccisi cento, e se ne convertivano mille. E come le acque del diluvio coprivano e abbattevano i palazzi dei re e dei principi, ma sollevavano in alto l'arca di Noè; così, proprio così le persecuzioni abbattono i regni e gl'imperi del mondo, ma fanno sempre più sublime ed illustre la Chiesa di Cristo. Che diremo dei filosofi e degli oratori? Con quali fiaccole di sapienza e di eloquenza non si sforzarono quegli antichi filosofi e rettori di accendere nel petto degli uomini l'odio contro la religione cristiana?
Quante cose scrisse Porfirio! Quante l'apostata Giuliano! Quante il sofista Libanio! Quante l’epicureo Celso! Quante il platonico Proclo! Quante Luciano il più scellerato di tutti gli uomini! Che dire, che si pubblicavano gli atti di Pilato, nei quali s'inventavano attorno a Cristo molte cose turpissime e contumeliosissime: e venivano costretti i maestri a insegnarle ai fanciulli; affinché quasi proprio col latte li imbevessero dell'odio contro Cristo? Eppure di tutti trionfò l’invittissima Chiesa. Finirono finalmente una buona volta le guerre delle persecuzioni da parte dei pagani: ma a loro  successero le armi degli eretici molto più micidiali e pericolose. Oh quante volte il demonio degli eretici rinnovò la battaglia! Oh Quante vittorie, quante palme, quanti trionfi riportò, la Chiesa di Cristo! Restarono vinti i  Sabelliani, e succedevano a loro gli Ariani. Restavano vinti gli Ariani, e subentravano i Nestoriani. Vinti i Nestoriani, venivano gli Eutichiani. Aveva ragione Sant'Agostino a esclamare nel libro «intorno all'utilità del credere»: «Ed esiteremo noi di nasconderci nel grembo della Chiesa, la quale a confessione del genere umano, ha ottenuto dalla sede Apostolica il colmo della autorità per mezzo della successione dei vescovi, benché invano le abbaiassero intorno gli eretici?» (Aug. de ut. cred. c. 17).

    E noi, uditori, non crederemo, che la Chiesa abbia a trionfare della feccia dei Luterani, mentre ha trionfato di cento e più eserciti di eretici? Deh siamo pur certi, che la Chiesa Romana è quella, contro la quale «le porte dell'inferno. non prevarranno», e, secondo il profeta Daniele, questo regno è quello «che non sarà disciolto in eterno, e non passerà ad altra nazione, ma farà in pezzi e consumerà tutti i regni, ed esso sarà immobile in eterno» (Dan. 4, 44). Di esso l'Angelo a Maria: «E il suo regno non avrà fine».

 

Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:38

VERITÀ E CONCORDIA DELLA DOTTRINA CATTOLICA

 

 

     La commedia della dottrina, ottimi uditori, è segno certissimo della verità. Gli errori e le menzogne distruggono se stessi. Questo è così vero, che è noto e perspicuo a tutti. Lo insegnano non solo i sapienti, ma lo conferma anche il volgo. Perfino i mentitori, nemici della verità, sono costretti a confessarlo, loro malgrado. Tra le virtù e i vizi c'è questo divario; che le virtù fanno come un coro intonato, e sono unite tra loro con una cotal naturale parentela e società. Tutte sono aiutate da tutte, e nessuna, divisa e separata dalle altre, può ritenere la propria energia, dignità, e perfezione. Per l'opposto nella repubblica dei vizi non è rispettata nessuna legge e non ci sono alleanze di pace: sempre sono in lite l'avarizia con la prodigalità: l'audacia rissa con la pusillanimità: e così è degli altri vizi. In egual modo il vero non solo non combatte il vero, ma anzi la verità adorna e rischiara la verità. Viceversa le menzogne sono piene di superbia, e una non sopporta l'altra: sono sempre in disaccordo fra loro, e l'una viene abbattuta e distrutta dall'altra. Quindi è che comunemente udiamo dire anche gl'indotti: «Bisogna che il menzognero abbia memoria».E' cosa facilissima e quasi molto naturale, che, nel raccontare fiabe, specialmente se sono lunghe e intessute di molte bugie, cada in dimenticanza chi le racconta, e si contraddica. Ma non solo il popolino, sì anche i nostri avversari rendono testimonianza in favore di questa verità. In luogo di ogni altra vi farò sentire la testimonianza chiarissima e verissima di Martin Lutero. Così tutti capiranno, che i cattolici e gli eretici, dove in tutto il resto non vanno d'accordo; si trovano uniti a meraviglia in questo solo principio. Egli dunque, nel libro a cui diede per titolo «Dei voti monastici», ci avverte in questi termini: «Non potreste riconoscere le menzogne con più certezza, che quando sono contrarie a loro  stesse. E' stato ordinato da Dio, che gli empi sempre confondono se stessi, e che le menzogne non consuonino, ma provino sempre contro se stesse ». Questa testimonianza è vera, o uditori: e noi ce ne serviremo volentieri nel confutare le sue dottrine. Oggi infatti avremo da ragionare intorno alla verità, ossia consonanza e concordia ammirabile della dottrina cattolica. Questa è una delle dati della nostra religione, dopo l'antichità, la ampiezza e la saldezza, di cui abbiamo ragionato nei discorsi precedenti.

    Un incredibile e del tutto divino consenso, che si trova nelle sante Scritture e nelle dottrine cristiane, testifica abbastanza che le nostre Scritture e parimente i decreti dei Concili e le definizioni dei Sommi Pontefici sono verissimi e dettati dallo Spirito di verità. Diciamo in prima delle Scritture, per riguardo ai Maomettani ed ai Pagani; perché essi non le ammettono.

    Deh, di quanta meraviglia, anzi stupore, è degno il fatto, che gli scrittori sacri furono non uno o due, ma molti e diversi, e che scrissero in varie lingue, in varie occasioni, in vari luoghi e in vari tempi: e che ciò non di meno sono d'accordo in tutto così, che dal principio della Genesi alla fine della Apocalisse non si trova in essi nessun dissenso. E' una gran cosa, che una stessa: persona scriva molte cose, senza contraddirsi. Ma è cosa somigliante a prodigio, che molti trattino di molte e varie cose, e che uno non contraddica all'altro mai. Che diremo dunque degli scrittori sacri? Essi non solo furono molti e vari, ma così divisi per luoghi, che bene spesso fra l'uno e l'altro c'erano smisurati tratti di terra e di mare, e così lontani di tempo, che più volte uno non solo non vide mai l’altro, ma neppure udì mai nulla di lui. E con tutto ciò scrissero in modo, da sembrare che i libri santi siano stati scritti non da molti, ma da uno solo, quasi in più lingue e con più penne. Quindi davvero, come avverte Sant'Agostino nel libro decimottavo della città di Dio, per divino consiglio della Spirito Santo gli scrittori sacri non dovettero essere né troppi né troppo pochi. Non troppi, affinché non riuscisse vile quello, che conveniva che fosse nobile a cagione della religione. Non troppo pochi, acciocché in essi si avesse sempre a riconoscere e ammirare l'armonia.

    Ora diciamo, che le divine scritture sono così coerenti le une con le altre, le prime con le seconde, che non si combattono mai. E questo è un modo di concordia. Ma v'ha di più. Tutto ciò, che la scrittura antica predisse, che sarebbe avvenuto, la scrittura nuova dimostra essersi verificato. E questo è un altro modo di concordia, senza paragone molto più nobile. Di questo davano figura quei due Serafini, di cui leggiamo nel profeta Isaia, che con meraviglioso accordo gridavano uno all'altro: «Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli eserciti» (Is. 6): e così pure quei due Cherubini, che con le ali coprivano il propiziatorio, donde Dio parlava, e il volto di essi guardava sempre l'un l'altro. Questi sono i due testamenti, vecchio e nuovo. Essi si guardano a vicenda, e l'uno grida all'altro in guisa, che qualunque cosa dice uno e promette, ripete l'altro e adempie. Poniamo l’esempio in Gesù Cristo, il cui dì natalizio è imminente, e cui riguardano come a fine assolutamente tutte le divine Scritture. Il vecchio Testamento dice: «Ecco che una Vergine concepirà e partorirà un figlio» (Is. 7. 14): e il nuovo Testamento, risponde: «Ciò che in essa - cioè nella Vergine Maria ­ è stato concepito è dallo Spirito Santo». (Mt. l, 20). Il vecchio dice: «E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima» (2): il nuovo risponde: «Essendo dunque nato Gesù in Betlemme di Giuda». Il vecchio dice: (Nm. 24, 17) «Di Giacobbe nascerà una stella»: il nuovo risponde: (Mt 2, 2) «Abbiamo veduta la stella nell'Oriente». Il vecchio dice: (Is 60) «Verranno tutti i Sabei, portando oro ed incenso»: e il nuovo risponde: (Mt. 2, 11) «Gli offrirono oro, incenso e mirra». Il vecchio dice: (Is 62, 2) «Sarà imposto a te un nome nuovo, cui la bocca del Signore dichiarerà»: e il nuovo risponde: (Lc. 2, 21) «Gli fu posto nome Gesù. conforme era stato nominato dall'Angelo prima di essere concepito». Il vecchio dice: (Is 19, 1) «Ecco, che il Signore salirà sopra una nuvola leggera, ed entrerà in Egitto»: il nuovo risponde: (Mt. 1, 13) «Prendi il bambino e la sua madre, e fuggi in Egitto». Il vecchio dice: (Ps. 76, 19) «Tu camminavi pel mare: tu ti facesti strada per mezzo delle acque»: il nuovo risponde: (Mt. 14, 25) «Andò Gesù, camminando sul mare». Il vecchio dice: (Ger. 16. 16) «Manderò a loro pescatori, i quali li pescheranno»: e il nuovo dice: (Mt. 4, 19) «Venite dietro a me, e vi farò diventare pescatori d'uomini». Il vecchio dice: (Dt. 18, 18) «Un profeta farò loro nascere di mezzo ai loro fratelli»: il nuovo risponde: (Gv 6, 14) «Questo è veramente quel profeta, che doveva venire al mondo ». Il vecchio dice: (Ps. 77, 2) «Aprirò la bocca in parabole»: il nuovo risponde: (Mt. 13, 34) «Parlò ad essi di molte cose per via di parabole».

Il vecchio dice: (Is 35, 5) «Allora gli occhi dei ciechi si apriranno, e si spalancheranno le orecchie dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cerbiatto, e sarà sciolta la lingua dei mutoli»: il nuovo risponde: (Mt. 11, 5) «I ciechi vedono. gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, ecc. ». Il vecchio dice: (Zc. 9, 9) «Ecco, che viene a te il tuo Re giusto e salvatore: egli è povero, e cavalca un'asina ed un asinello»: il nuovo risponde: (Mt. 21. 7) «Menarono l'asina e l'asinello ... e lo fecero montar sopra». Il vecchio dice: (Zc. 11, 12) «Mi pesarono per mia mercede trenta monete d'argento»: e il nuovo risponde: (Mt. 22, 15) «Gli assegnarono trenta denari d'argento». Il vecchio dice: (Lam. 3, 30) «Porgerà la guancia a chi lo percuote: sarà satollato di ignominie»: il nuovo risponde: (Mt. 26. 67) «Allora gli sputarono in faccia, e lo percossero coi pugni, ed altri gli diedero degli schiaffi. ecc.» Il vecchio dice: (Dn. 9, 26) «Dopo sessantadue settimane il Cristo sarà ucciso»: e il nuovo risponde: (Fil. 2, 8) «Cristo si è fatto ubbidiente fino alla morte, e morte di croce». Il vecchio dice: (Dn. 9, 26) «E non sarà più suo il popolo, che lo rinnegherà»: e il nuovo risponde: (Gv 19, 15) «Gridarono tutti: Non abbiamo re, fuori di Cesare». Il vecchio dice: (Is 53, 12) «Ed è stato confuso cogli scellerati»: il nuovo risponde: (Mt. 27, 38) «Furono crocifissi con lui due ladroni». Il vecchio dice: (Ps. 21, 18) «Si divisero le mie vestimenta, e la mia veste tirarono a sorte»: il nuovo risponde: (Mt. 27, 35) «Si spartirono le sue vesti, tirando a sorte». Il vecchio dice: (Es 12, 4) «Non ne spezzerete alcun osso»: il nuovo risponde: (Gv 19, 33) «Quando videro che era già morto, non gli ruppero le gambe». L'antico dice: (Ps. 15, 10). «Tu non abbandonerai l'anima mia nell'inferno»: il nuovo risponde: (At. 3, 15) «E Dio lo risuscitò da morte, il terzo giorno». L'antico dice: (Mic 2, 13) «Ascenderà aprendo loro la strada»: il nuovo risponde: (At l, 9) «A vista di essi si alzò in alto: ed una nuvola lo tolse agli occhi loro». L'antico dice: (Gl 28) «Io spanderò il mio Spirito sopra tutti gli uomini»: il nuovo risponde: (At. 2, 33) «Ha spanto questo dono dello Spirito Santo, che voi vedete e udite». Il vecchio dice: (Is. 49, 6) «Ecco, che io ti ho costituito luce alle genti, affinché tu sia la salute data da me agli uomini fino agli ultimi confini del mondo»: Il nuovo risponde: (At. 13, 48) «E ciò udendo i gentili, si rallegrarono... e credettero tutti quelli, che erano preordinati alla vita eterna».

     Oh, consentimento incredibile! Oh concento Oh, armonia veramente divina delle divine Scritture! E chi sarà così stupido od ostinato, che, vedendo questa così ammirabile concordia delle nostre scritture, non confessi che esse vengono dallo Spirito Santo, dalla stessa Sapienza e Verità? Se volessimo percorrere tutti i passi, non basterebbe un giorno. E se tentassimo di confrontare non le parole soltanto, ma anche i fatti e le ombre e le figure con le cose figurate e adombrate, ci assumeremmo una enumerazione smisurata.

     Sennonché non sono coerenti solamente le sacre scritture: sì anche tutte le definizioni e i decreti dei Concili approvati dalla Chiesa cattolica, dal primo di Nicea, fino all'ultimo di Trento: e così pure le definizioni e i decreti di tutti i Sommi Pontefici, da S. Pietro fino a Gregorio XIII sono coerenti e consentono con se stessi in tutto e per tutto. E dire, che sono stati promulgati in diversi luoghi, in diversi tempi, da diversi Padri, contro diverse e spesso contrarie eresie! Eppure, lo diciamo arditamente senza paura di smentita, non si trova in essi nessuna ancorché minima contraddizione. Primo argomento di ciò è, che la Chiesa Cattolica di Cristo li accoglie e li venera tutti insieme. Questo certo essa non farebbe, se uno in qualche maniera facesse a pugni con un altro. Poi non c'è, né abbiamo letto o udito, che ci sia stato qualche concilio veramente cattolico, nel quale del tutto o in parte sia stato ripudiato o biasimato qualche concilio antecedente. Piuttosto vediamo, che i concili posteriori sempre venerano i precedenti, camminano sulle loro orme, e uniscono i loro decreti con quelli degli altri, quasi catene con catene, anelli con anelli. Con essi la Chiesa si sente fortissimamente stretta, legata, conservata, adornata.
Le cose dette spesse volte dai concili passati, vengono confermate, esposte, illustrate, accresciute dai susseguenti: mai distrutte o cambiate. Da ultimo i nostri avversari non hanno mai potuto dimostrare qualche incoerenza nelle nostre dottrine e nei nostri decreti. Ma forse che non ci si sono messi? Tutt'altro. Tanta luce di verità abbaglia tutti gli eretici, che in questi quarant'anni non hanno fatto altro che scorrere tutte le storie, rovistare con ogni diligenza tutti gli angoli delle biblioteche, affine di trovare finalmente qualche cosa, in cui intaccare i nostri concili. Ma in sostanza non hanno potuto cavar fuori altro che inezie stoltissime; sicché pare, che veramente di loro abbia detto il Profeta: «Lo vedrà il peccatore, e ne avrà sdegno, digrignerà i denti e si consumerà» (Ps. 111, 9), e in fine «il desiderio dei peccatori andrà in fumo»; dal momento che non è possibile, che non sia coerente a sé stessa la Chiesa, che per bocca apostolica fu chiamata «Colonna ed appoggio della verità» (1 Tm. 3, 15), e che va dietro, come a pastore, a colui, a cui fu detto: «Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga a mancare» (Lc. 22).

    Pochi anni fa sudarono e si stancarono in cercare: e trovarono un certo sinodo di Francoforte, che giaceva nella polvere: e forse faceva guerra con le piattole e con le tignole. In esso lessero, che i Padri avevano detto anatema ad un concilio di Costantinopoli nel quale si era decretato non so che intorno alle immagini. Subito trionfanti cominciarono a gridare: Ecco quali sono i concili dei Papisti! Uno dice anatema all'altro. Ecco come il Sinodo di Francoforte condannò il settimo sinodo, nel quale era stato ammesso e approvato l'uso delle immagini.

     Ma sapete, che cosa hanno guadagnato? Questo solo, che non possono sfuggire il marchio, o d'ignoranza, o di malizia. Tutto il mondo sa, che il settimo concilio non fu quello di Costantinopoli, ma il seconda di Nicea. Invece quel sinodo di Costantinopoli, condannato dal sinodo di Francoforte, non fu un concilio della Chiesa, ma un conciliabolo di Iconomachi, che fu ripudiato anche dal settimo concilio. Dunque, o gli avversari conoscono quella storia, a non la conoscevano. Se non la conoscevano, erano ignoranti. Se la conoscevano, e tuttavia con le loro menzogne volevano ingannare i popoli, sono maligni: e giustamente con Sant'Ilario passiamo dir loro: «O voi scellerati, così, eh, avreste voluto fare beffa della Chiesa?».

    E non sono migliori, o uditori, gli altri argomenti. Obbiettano il sinodo di Rimini, che fa a pugni con quello di Nicea: il sinodo secondo di Efeso con quello di Calcedonia: il sinodo di Cartagine, che il  Papa Stefano riprovò. Ma obbiettino codeste cose ai fanciulli e alle donnicciuole. Chi non sa, che il concilio di Rimini, il secondo di Efeso, quello di Cartagine sotto Cipriano ed alcuni altri, che ci gettano in faccia, non furono concili cattolici, né approvati dai Sommi Pontefici: ma anzi sempre rigettati e disapprovati dalla Chiesa? Noi asseriamo soltanto, e proviamo senza alcuna difficoltà, che non c'è nessun concilio, confermato dal Romano Pontefice, che non consuoni con un altro concilio parimente confermato. E questo è un argomento di cui meritamente esultiamo e trionfiamo. Infatti questa ammirabile concordia armoniosa delle dottrine cattoliche, è una testimonianza chiarissima ed evidentissima della assistenza dello Spirito Santo. Rincresce quindi e fa vergogna riferire le sciocchezze, che sogliono apportare gli eretici contro il primo, il quarto e il settimo concilio, contro quello di Roma sotto Nicolò II, contro quello di Costanza ed alcuni altri: anzi perfino contro il primo primissimo celebrato dagli apostoli nella città di Gerusalemme. Ecco qui un esempio. Da questo si potrà facilmente argomentare, quali siano gli altri. Biasimano. soprattutto codesti uomini santissimi e singolarmente amanti della castità, il concilio Calcedonese, il più numeroso di tutti, in cui si riunirono 630 Padri. Ma perché credete voi? Che dissonanza vi trovarono dagli altri concili? Oh meraviglia! Gran bestemmia parve loro, che in quel concilio si decretò, che non si ammettano in alcun modo al matrimonio i monaci e le Vergini consacrate a Dio, dopo aver promesso e consacrato a Dio la castità perpetua. Di grazia, quelli, che riprendono tali cose nei concili, hanno fronte, o sono uomini senza fronte? Sono sani, o sono insani? Sobri a ubriachi? Sono svegli, o dormono? Ma quando la Chiesa ha insegnato l'opposto? Quando l'ha approvato? Quando l'ha predicato? Che cosa dunque avrebbe dovuto decretare il santo Concilio? Che i monaci e le monache non osservassero la parola data a Dio? Si capisce. Questo avrebbero voluto i Luterani. Ma vi reclama la religione, la natura e lo stesso senso comune.

     Confrontate adesso, se non vi è discaro, Gerusalemme con Babilonia, la tanto ammirabile concordia della dottrina cattolica con le sette e con i dissensi degli eretici. Quando, di grazia, la Babilonia dei pagani e degli eretici non fomentò nel suo grembo ad un tempo innumerevoli controversie di uomini, che non si accordavano, non dico quanto a campi e case, ma quanto ai primi e più alti misteri della divinità? Lasciamo stare i dissensi degli antichi filosofi, noti a molti, e non pochi ne enumera Sant'Agostino nel libro diciottesimo della Città di Dio al capo quarantunesimo. Quale eresia ci fu mai, che fin dal suo inizio non abbia partorito molte sette e ripugnanti fra loro? Certo da Simon Mago, caporione degli eresiarchi, sono i Menandriani, i Basilidiani, i Saturniani. Dalla setta dei Gnostici vengono i Carpocratiani, i Caiani, gli Ofiti, i Seteani, i Valentiniani. A sua volta da Valentino i Secondiani, i Tolomei. i Marciti, i Colorbusii, gli Arecontici ed altri ancora più. Dall'eresia di Cerdone scaturirono i Marcionisti, i Lucianisti, gli Appellasti, i Manichei. Dall'eresia dei Catafrigi spuntarono le altre eresie di Eschine, di Blasto, di Florino, di Tertulliano e di altri senza numero. Sant'Agostino nel libro primo delle eresie attesta, che i Donatisti furono divisi in molte e varie sette. E' noto a quanti hanno anche una mediocre pratica delle storie, che dalla peste Ariana nacquero gli Eunomiani e i Macedoniani, e quasi tutte le eresie posteriori, che si ebbero in Oriente, e perfino il Maomettanismo. Sappiamo poi tutti, che gli Ussiti nella Boemia sono divisi e staccati in varie sette, come quella degli Orebiti, degli Adamiti e degli Orfani. In fine al nostro tempo le innumerevoli sette dei Confessionisti, Anabattisti e Sacramentari, fanno vedere abbastanza bene, quanto numerosa famiglia generò Lutero, e come vide i figli dei figli fino alla terza e quarta generazione. Vedete dunque, che gli eretici furono sempre simili a sé. E come sempre la pace, l'unità e la concordia furono il vincolo della Chiesa cattolica; così è chiaro, che nei covili degli eretici non mancarono mai le liti, i dissensi e la moltitudine delle sette.

    Si scandalizzano i Luterani per i dissensi dei teologi scolastici. Ma, poveretti, non capiscono, che vedono il fuscellino negli occhi altrui, e non vedono la trave negli occhi propri. I dottori scolastici, particolarmente San Tommaso e S. Bonaventura, uomini santissimi e dottissimi; dissentono sì qualche volta fra di loro: ma come anche S. Girolamo e S. Agostino, il Cristostomo e S. Epifanio. S. Cipriano e Santo Stefano, Sant'Aniceto e S. Policarpo: e per pigliar da più alto, il santo apostolo Barnaba e S. Paolo. Ma per prima cosa si osservi. Dissentivano, conservando la compagine della carità. Poi con umiltà e moderazione senza insulti né maldicenze. In fine in quelle cose per lo più, che non molto appartenevano alla fede e alla salvezza. Giacché in quelle, che non si possono ignorare senza danno della salvezza eterna, e che appartengono agli stessi fondamenti della fede, tanto gli antichi, quanto i più recenti si accordano meravigliosamente. Per gli antichi ne è garante Sant'Agostino nel libro primo contro Giuliano: per i moderni si può vedere dai loro libri. E se alcuni la vedano alquanto diversamente in qualche cosa; assoggettano però sé e il loro giudizio alla definizione della Chiesa. Questa poi, come quella che vive dello Spirito di Dio, ed è retta in tutto da lui, facilmente separa il vero dal falso, l'oro dall'ottone, il frumento dal loglio. Perciò rimane sempre nella Chiesa il lume, la pace, il gaudio nello Spirito Santo; e, in quel che riguarda la fede, vi è sempre «un cuor sole ed un'anima sola nella moltitudine dei credenti». Viceversa i settari si accaniscono con sì grande odio, con tale acrimonia, che nei loro libri ci sono quasi più insulti, che parole. E non mettono mica in dubbio e in questione certe cose piuttosto leggere e di dottrina un po’ recondita per esercizio d'ingegno, come fanno gli scolastici: ma gli articoli stessi del simbolo apostolico, affine di abbattere e far vacillare la fede. Girate per la Germania, e troverete tante religioni, quanti luoghi.

     Che dico luoghi? Non vi è città, non villaggio, non casa, non camera così piccola, dove si trovino almeno due - e sono sempre almeno due; perché nessuna osa giacere a letto senza una compagna: forse per paura dei ladroni! ­ non vi è, dico, camera così piccola, dove non ci sia urna piccola torre Babilonica. Essi stessi confessano, che dissentono fra loro così, che non vi è speranza di pace né di concordia. Ma sarebbe poco, se solo gli uni dagli altri discordassero, quando non discordasse ognuno da se stesso. E affinché possiate giudicare di tutte le sette, toccherò, per amore di brevità, solo della prima, di quella di mezzo e dell’ultima. La prima di tutte fu l'eresia di Simon Mago. Egli, come fu il primo a fondare l'eresia, guarda se non fu anche il primo a contraddirsi. Come ci attestano Sant'Epifanio e Sant'Agostino, egli insegnò già, che la legge di Dio non è da Dio: ma da una virtù sinistra, e che periranno in eterno tutti quelli che ammettono il Vecchio Testamento. Poi, dimentico di sé, non temé di affermare, che egli era Iddio sommo e vero, e che era apparso nella Samaria come Padre, nella Giudea come Figlio, e fra i Gentili come Spirito Santo: e che egli stesso sul monte Sinai aveva dato ai Giudei la legge antica per mano di Mosè. - Gli Ariani, la cui setta nella serie delle sette tiene quasi il luogo di mezzo, non furono essi così leggeri ed incostanti, da cambiare e la fede e il simbolo quasi ogni anno? E oramai non dicevano: Così insegna la fede Apostolica: ma così insegna la fede edita il tale e tal anno. Di qui è quel giustissimo lamento di Sant'Ilario a Costanzo. Augusto nel libro primo, dove dice: «La fede di tempi piuttosto che di vangeli è una setta, dal momento che si scrive secondo gli anni, e non si ritiene secondo la confessione del battesimo, E' cosa molta pericolosa per noi ed anche lacrimevole, che ora ci siano tante fedi, quante volontà. Mentre se ne foggiano tante, riusciremo a non averne neppure una».
E di nuovo, nel libro primo al medesimo Costanzo, paragona gli Ariani ai fabbricatori inesperti, ai quali dispiacciono sempre le cose loro, e sempre distruggono, per rifabbricar sempre. Dice così: «Colle nuove butti giù le vecchie, e con una nuova correzione rovini da capo codeste nuove. E disapprovi di nuovo quello che hai corretto col voler correggere ancora». Questo dice egli degli Ariani, ma non meno si attaglia ai luterani, la cui setta quanto è più recente, tanto è più pestilenziale. Guardate un po’, quante volte hanno cambiato quella loro tanto decantata confessione Augustana. Non è forse anche presso di loro la fede di anni, anziché di Evangeli? Non sono anch'essi, che sempre distruggono, per edificare sempre? Quanto leggero Spirito Santo, se pur Spirito Santo, e non piuttosto. malvagio, hanno i Luterani!

     Si dirà forse: sono gli scolari di Lutero che non sono coerenti con se stessi: ma Lutero, che insegnò essere certissimo contrassegno di menzogna il non essere coerente con se stesso, non si contraddisse mai. Tutt'altro! Si può dire senza mentire e senza amplificazione che mai nessuno degli eretici fu tanto poco ricordevole di sé e dei suoi detti, quanto Lutero. E che? Non ci sono libri intieri, che non contengono altro, se non antilogie di Lutero e sue sentenze, che si combattono a vicenda? Che dire, che di un solo articolo, cioè della comunione sotto una delle sue specie, o sotto tutte due, si trovano nei suoi libri trentasei sentenze contrarie? Alle volte volle, che la messa è non solo la parte più alta, ma anche il compendio del Vangelo: altre volte null'altro detestò ed esecrò maggiormente. Dei sacramenti della Chiesa ora affermò che sono sette, ora tre ora due, ora uno solo. Qualche volta asserì, che veramente non si può dir niente contro il primato del Romano Pontefice: altre volte ne disse tante e tanto contumeliose, quanto le orecchie dei buoni non potrebbero tollerare. Talora pubblicamente mostrò orrore di Giovanni Hus, come di seduttore e di eretico: talora invece chiamò il medesimo Giovanni santo martire, e tutti i suoi articoli cattolici ed apostolici. Come anche di Giovanni Viclefo suo maestro disse, che era stato condannata dalla Chiesa a ragione: ma talvolta disse alto, che quello era un santissimo ed ottimo dottore, e avrebbe bramato che l'anima sua fosse con l'anima di lui. Ma consideriamo più particolarmente il Suo opuscolo «Della schiavitù Babilonese». Udite ciò che dice della virtù ed efficacia della fede. «E' tanto ricco l'uomo cristiano ossia battezzato, che anche volendo non può perdere la sua salvezza per quanta si voglia grandi peccati (ch'egli abbia), salvochè non volesse credere». E di nuovo: «Non può l'uomo unirsi ed operare con Dio per altra via, che per la fede, senza curarsi delle opere».

Ma nel libro della visita della Sassonia, che scrisse di poi, udite, quanto apertamente rovescia questa sua principale dottrina. Dice così: «Molti, quando odono dire, che vengono loro rimessi i peccati, solo che credano, s'immaginano (di aver) fede, e pensano di essere mondi. Con ciò diventano temerari e trascurati. Ma una tale sicurezza carnale è maggiore di ogni errore, che fu mai prima di questo tempo». Ditemi, che altro potremmo dir noi contro di lui, da quello che dice egli stesso? Se il pensare, che con la sola fede ci si perdoneranno i peccati è immaginazione, è temerità, è trascuratezza carnale, è errore gravissimo, come pur dice egli stesso; perché mai edificò il suo vangelo e tutta la sua dottrina su questo fondamento? E che dire, che in quello stesso libro della visita della Sassonia rovescia affatto tutta la sua dottrina?  In quel libro insegna, che l'uomo è di libero arbitrio a fare o tralasciare le opere, come egli parla, esterne. In Quel libro insegna, che Dio richiede da noi non solo la fede, ma anche la giustizia esterna. In quel libro riprende quelli, che credevano essere libertà cristiana il non ubbidire ai superiori, il non digiunare, il non confessare i peccati. Nel medesimo libro insegna e consiglia che si deve opporre resistenza ai Turchi, e far guerra contro di loro arditamente. Da ultimo ha ammassato in un solo libro più nuovi precetti e decreti, quali non trovò mai nella parola di Dio, più dico, che non abbiano mai stabilito tutti i Romani Pontefici intorno alle messe, alla salmodia, ai giorni festivi, alla scomunica, alle campane, alle scuole, ai sopraintendenti - così con nuovo nome credette bene di chiamare i vescovi - e inoltre intorno all'inno Te Deum laudamus e al cantico Benedictus da leggersi nelle preci mattutine. E con tutto questo anche i fanciulli sanno, che Lutero insegnò prima sempre il contrario.
Che cosa ripete egli più frequentemente, che il libero arbitrio è una cosa di salo lustro o una finzione nelle cose, e un nome senza realtà? Che ammonisce più spesso del non esigere Dio da noi niente oltre alla fede? Che insegna più volte dell'aver la libertà cristiana fatto eguali tutti gli uomini, tutti i sacerdoti, tutti i vescovi, tutti i Pontefici, anche le femmine e i fanciulli? Che grida con più frequenza, che l'opporre resistenza ai Turchi è far guerra contro Dio? Che inculca con maggior insistenza, che, l'Evangelo non tollera nessuna legge o precetto umano? E che neppure lo stesso Vangelo contiene alcuna legge o precetto: e che bisogna guardarsi bene dal fare di Cristo Mosè, e del Vangelo una legge? Di che cosa si ride più che delle messe, delle campane, delle salmodie, dei giorni, festivi, delle scomuniche? Se è così, chi sarà tanto cieco, che, dal contrassegno, che egli ci ha dato, per riconoscere le menzogne, non veda facilmente, che è finzione e menzogna tutto quello che egli ci ha insegnato?

    Leggiamo nell'Apocalisse: «E il quinto angelo diede fiato alla tromba: e vidi la stella caduta dal cielo sopra la terra, ed a lui fu data la chiave del pozzo dell'abisso: ed aprì il pozzo dell'abisso: e salì il fumo del pozzo, come il fumo di gran fornace: ed il sole e l'aria si oscurò pel fumo del pozzo». Chi non vede, che questo vaticinio si è compiuto in Lutero ai nostri dì? Prima della caduta di Lutero quasi tutto l’occidente era di un sol labbro e di un medesimo parlare: vi era anche nella  Chiesa somma luce di concordia e di unità. Cadde Lutero dal firmamento della Chiesa Cattolica, dove splendeva quasi stella col lume della vera fede e per l'erudizione della dottrina ortodossa. Ricevé la chiave dell'errore e della seduzione: aprì il pozzo dell'abisso, ed ecco uscì dal pozzo tanta quantità di fumo, che involse quasi tutta la Germania, sicché essa non solo non vede più il sole di giustizia Cristo Gesù Dio nostro, oscurato dalle tenebre degli errori: ma nemmeno l'amico riconosce l'amico, né il fratello il fratello, né il padre il figlio, né il figlio il padre, né la madre la figlia, né la figlia la madre. Eccovi quanto grande miracolo ha fatto Dio rispetto alle possessioni di Israele e le possessioni degli Egiziani, e con quanto gran miracolo ha separato Israele dall'Egitto. Dovunque ci sono Egiziani, cioè eretici, che siedono sopra le caldaie piene di carni» (Es 16, 3), e «il Dio dei quali è il loro ventre» (Fil. 3, 19), ivi ci sono tenebre così orrende e palpabili, che non si riconoscono vicendevolmente quelli della medesima casa. Nella terra di Iesse invece, dove sono i veri Israeliti, ossia i figli della Chiesa Cattolica, ivi è luce, e tanta luce, che riconosciamo anche i nostri fratelli, che si trovano nell'India e nell'Estremo Oriente.

     Conserviamo dunque, uditori, questa luce, sforziamoci con le buone opere di splendere «in mezzo a una nazione prava» (Fil. 2, 15), affine di essere quasi lucerne ardenti «in luogo oscuro» (2 Pt. 1, 19), e si veda, che la Chiesa Cattolica è un vero cielo e un vero firmamento, pieno di molti e grandi lumi; sicché in fine vedano i pagani e gli eretici il lume della fede c delle nostre opere, e riconoscano le loro tenebre, e da esse si rivolgano una buona volta alla vera luce col favore del Signore.

 

Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:40

PURITÀ DELLA DOTTRINA CATTOLICA

 

 

     Solo la religione cristiana è la religione vera ed istituita da Dio. In essa sola si trova il perdono dei peccati, la speranza della salvezza e il pegno della eterna eredità. Ciò abbiamo dimostrato a sufficienza e senza contrasto come penso, nei discorsi passati, dalla antichità, dall'ampiezza, dalla saldezza e dalla consonanza e concordia ammirabile della dottrina cattolica: doti queste, per cui essa va innanzi a tutte le sette e superstizioni. Ora segue, ottimi uditori, che col favorevole aiuto di Dio dimostriamo la stessa cosa dalla purità e sincerità della medesima dottrina. Questa è la quinta cosa, che nel nostro primo discorso, ci siamo proposti di spiegare.

     E' dunque singolare privilegio della nostra legge una esimia parità. Tutte le sette e le leggi dei filosofi, dei pagani e degli eretici, insieme con alcune sentenze vere, contengono degli errori certi: e con pochi indirizzi non inutili per la vita umana immischiano molti insegnamenti contrari alla onestà dei costumi. La sola «legge del Signore» (Ps. 18, 7), veramente «immacolata», non ha affatto nessun errore. Ha invece tante e sublimi sentenze vere: essa le va annunziando, senza frammischiarvi alcun insegnamento impuro: e vi fioriscono in mezzo mille istituzioni santissime e insieme utilissime e salutarissime alla società umana. Ciò è un argomento ben chiaro e molto grande, che la sola nostra legge è legge del vero Dio. Le opere di Dio sono perfette; egli è la stessa sapienza e bontà. Dunque non è possibile, che egli ammetta cosa falsa ed immorale. E non solo i nostri, ma anche gli avversari ammettono, che basta un solo errore certo, per giudicare con ragione, che una legge non è legge di Dio, ma degli uomini, od anche dei demoni. Certo Martin Lutero, scrivendo contro il libro di Emsero, parla così: «Se una volta sola io fossi colto d'aver mentito in modo, da avere ingannato e di essere stato grossolanamente stolido; senz'altro la mia dottrina, il mio onore, il mio credito, la mia fedeltà, cesserebbe affatto. Ciascuno mi riterrebbe, come è giusto, per un tristo e infame impostore». Inoltre egli stesso, parlando della cena di Cristo, dice: «Quando i Suermeri manifestamente fossero colti quali ingannati (anche) in un solo articolo; per ciò stesso saremmo avvertiti da Dio, a non creder loro». Parimente contro Enrico re di Inghilterra dice: «Chi crederebbe, che in altro luogo volesse dire la verità, chi mente in un luogo così manifestamente e spudoratamente?» Queste testimonianze tanto aperte e tanto vere di Martin Lutero sono da conservarsi accuratamente nella  memoria; ci saranno non poco utili per la nostra causa.

    Or bene senza alcuna difficoltà si può dimostrare e difendere anche da uomini mediocremente istruiti, che la dottrina cattolica della nostra Chiesa risplende per quella che diciamo purità e sincerità. Leggete le Sacre Scritture, leggete i canoni e i decreti dei Pontefici e dei Concili, leggete le istituzioni dei Santi Padri, per esempio, di S. Basilio, di Sant'Agostino, di S. Benedetto, di S. Francesco; e certo vedrete, come non s'insegna nella  Chiesa cattolica niente di brutto, di vergognoso, di ingiusto. Al contrario è messa in luce perfettamente la legge naturale, che cioè Dio si mette innanzi a tutte le cose quale fine che egli è, e poi che tutti gli uomini sono congiunti col vincolo della pace e della carità, che sono coltivate e lodate tutte le virtù, ripresi e proibiti tutti i vizi. Testimoni ne sono la vita e i costumi dei santi. Nessuno mai si sforzò di osservare perfettamente la legge Evangelica, senza che sia diventato integerrimo e santissimo venerando e ammirabile a tutti. Si propongono certo nella Chiesa dei misteri sublimi, e che superano ogni intelligenza della ragione. Ma che importa? San Tommaso d'Aquino, come altri non pochi, ha fatto veder chiaramente, che non c'è nessun mistero dei Cristiani, il quale ripugni alla evidente e chiara ragione naturale. Sarebbe uno stolto, chi non intendesse, che Dio può fare molte cose anche più sublimi ed astruse, di quanto noi possiamo capire, mentre vediamo, che abbiamo in vista più corta d'una spanna, anche in cose molto vili. Chi potrebbe a mo d'esempio spiegare pienamente e perfettamente la natura anche solo di una formica o di un'ape?

     In egual modo la dottrina cattolica comanda a consiglia molte cose difficili assai: tra queste l'amare i nemici, il celibato perpetuo, la povertà volontaria. Ma quale di queste cose fa a pugni con la bontà e con l'onestà? Che cosa non v'è da ammirare e da pregiare, anziché da vituperare e disprezzare? Si aggiunge, che i nostri avversari fin qui non hanno potuto trovare niente, da riprendere nelle nostre leggi: e se l'hanno fatto, apparvero a tutti ridicoli. Rincresce invero e fa vergogna ribattere le loro sciocchezze. Ma, oppongono essi, molte sono le scelleratezze e le vergogne dei Papisti: e specialmente negli ecclesiastici regna l'ambizione, signoreggia l'avarizia, è in vigore il lusso, l'usura, la simonia; e le concubine hanno oscurato e contaminato tutta la Religione. Non possiamo, né vogliamo negare, che molti vivono nella Chiesa in maniera tristemente corrotta. Ma donde proveranno. gli eretici che codesti cattivi costumi, che essi riprendono negli uomini di chiesa, provengano dalla dottrina della Chiesa? O non riprendiamo sempre anche noi stessi i medesimi mali costumi? non proibisce sempre la madre Chiesa, non punisce sempre, non deplora, non detesta le usure, le simonie, i concubinati e gli altri disordini, che ci si rinfacciano? Se dunque ai Luterani dispiacciono i nostri mali costumi; perché non piacciano loro le leggi e i precetti della Chiesa, con i quali vengono proibiti e puniti? Fu infame incoerenza di Lutero quella, quando con grande zelo appassionato accusava i costumi corrotti degli Ecclesiastici: e nel tempo stesso in pubblico dava alle fiamme i canoni dei Santi Padri, coi quali si proibivano quei cattivi costumi. Non condannava forse ad un tempo. tutti quei suoi detti e tutto quel suo zelo appassionato? Non vi pare che con quelle fiamme egli gridava alto a tutti, che, bruciati i canoni, contenenti la legge del vivere, ormai era lecito ad ognuno vivere impunemente senza leggi e senza regola, e che non vi era più nulla di ingiusto, di empio, di sacrilego?

      Confrontiamo ora, se non vi dispiace, la castità della Chiesa con le corruzioni delle sinagoghe di Satana. Leggete il libro prima di Teodoreto ai Greci, e capirete da esso, che non ci furono mai leggi degli antichi pagani, che non avessero alcuni errori quasi loro macchie. E quelle stesse leggi erano disonestissime e sommamente dannose al genere umano: e proprio quelle erano in grandissima pregio. I Persiani si univano alle madri con incestuose nozze contro ogni legge di umanità. Dagli Ircani e dai Battri si gettavano ai cani, nutriti a questo scopo, i vecchi ad essere divorati, non per scostumatezze, ma per consuetudine di religione. Presso gli Sciti venivano sotterrati vivi nei sepolcri con i morti, quelli che erano amati più degli altri da chi esalava l'anima. Presso i Massageti dagli stessi parenti, per legge della stato, e coll'intenzione di onorarli, venivano ammazzati e divorati i vecchi. E questo per dare ai loro dei sepolcri non morti e senz'anima, ma vivi e animati. Dai Cartaginesi e da molti altri popoli venivano sgozzati i propri figli.

     Ma forse si dirà; queste nazioni erano barbare, e perciò vivevano con leggi barbare e crudeli: però erano ritenute ottime e innocentissime le leggi di Licurgo, di Platone, e di Aristotele. Ma che? Niente di più sozzo, niente di più vergognoso, niente di più disumano. Le leggi di Licurgo permettevano non solo gli adulterii, ma anche quell'azione infame per la quale Sodoma e Gomorra furono bruciate col fuoco e con lo zolfo mandato dal cielo. Platone voleva che le mogli fossero comuni, e che le donne: non meno che gli uomini, si esercitassero nude nelle palestre e che imparassero l'arte del cavalcare, cose tutte vergognosissime e sconcissime. Anzi promulgò quella legge crudelissima e più che barbara, che gli uomini e le donne, dopo che avessero oltrepassato l'età capace di generare, compissero bensì, secondo che volessero, i loro bassi piaceri, ma che, se avessero concepito, non dessero mai alla luce il feto vivo: o se per caso lo dessero alla luce, lo uccidessero con la fame e col freddo. E vediamo, che questa legge piacque anche ad Aristotile, il più sapiente dei filosofi! E dire, che Platone non solo permise con Licurgo quel vizio orrendo e contro natura: ma anche promise, che sarebbero stati beati dopo questa vita, e che avrebbero ricevuto grandi premi, quelli che l'avessero messo in pratica. Ecco dunque quali furono le leggi di quell'uomo, che gli antichi giudicarono doversi chiamare divino e dio dei filosofi.

     Eppure ho toccato soltanto poche cose intorno ai costumi. A bella posta ho tralasciato i sogni e i deliri dei filosofi intorno a Dio, per non parere, che io stesso delirassi, qualora mi occupassi nel passarli in rassegna. Mi sembra davvero, che una volta fosse più savio il volgo dei pagani, che veneravano Giove adultero, Venere meretrice, Mercurio ladro, Vulcano zoppo, o certo il sole, la luna, le stelle, che non codesti filosofi, che con tanto fasto vantano la loro sapienza. Quelli almeno veneravano alcune cose, che esistevano, o che erano esistite. Ma questi sapientoni veneravano in luogo di Dio i loro sogni e i loro fantasmi. Di questi scrive l’Apostolo ai Romani: «Infatuirono nei loro pensamenti, e si ottenebrò lo stolto loro cuore. Or dicendo di essere saggi, diventarono stolti. Perciò Dio li abbandonò ai desideri del loro cuore, alla immondezza: talmente che disonorassero in se stessi i corpi loro. Li abbandonò Dio ad un reprobo senso in modo da fare cose non convenevoli» (Rm. 1, 21).

      Quante cose ha la legge dell'impurissimo Maometto, che ripugnano alla manifestissima ragione e all'onestà dei costumi! La legge di Maometto, come si può rilevare dal libro di S. Giovanni Damasceno intorno alle cento eresie, non è altro che un mostro orrendo, deforme, smisurato, fuso insieme di molte eresie e superstizioni. Dai Giudei ha l'orrore per la carne di maiale, la moltitudine delle mogli, il divorzio, la circoncisione, i frequentissimi lavacri. Dagli eretici Ariani ha, che il Verbo di Dio non è figlio né consustanziale al Padre, ma creato e schiavo. Dai Nestoriani, che Cristo Signore è nato sì da una Vergine, ma che è solo uomo, e non anche Dio. Dai Manichei, che Cristo né ha patito, né è morto: e che bisogna astenersi sempre dal vino. Da Aristippo e da Epicuro ha, che la più grande beatitudine è riposta nella amenità dei giardini, nella moltitudine delle mogli, nel mangiare e nel bere e negli altri piaceri del corpo. I Maomettani praticano sì religiosamente il digiuno: ma dalla levata al tramonto del sole. Di notte, quando non c'è pericolo d'esser visti neppure dal sole, né d'essere accusati dinanzi al loro dio della inosservanza del digiuno, hanno libertà di mangiare e bere a crepapelle. E non digiunano in ogni tempo, ma solamente nei giorni canicolari, contro ogni ragione ed umanità; perché allora il digiuno è assai nocivo al corpo umano, e non tanta necessario per comprimere gli appetiti bestiali. Finalmente combatte - ed è segno della più grande stoltezza - contro la legge di Mosè e contro il vangelo di Cristo: e con tutto ciò venera Cristo e Mosè, come profeti veracissimi e santissimi. Appare quindi, che lo scopo di Maometto non fu altro, che annientare ogni difficoltà, che i cristiani hanno nel credere e nell'operare. Perché era difficile contentarsi di una sola moglie, aderì ai Giudei. Perché era difficile credere, che una essenza sussiste in tre persone, aderì agli Ariani. Perché era difficile credere, che una persona è in due nature, aderì ai Nestoriani. Perché era difficile credere, che Dio Cristo abbia valuto patire e morire, aderì ai Manichei. Perché era difficile per le cose spirituali e future che non si vedono, disprezzare le corporali e presenti che si vedono, aderì ad Aristippo e ad Epicuro. In fine perché era difficile non ammettere Cristo e Mosè così perspicuamente santi e amici di Dio, ed altrettanto era difficile unire la sua legge con quella di Mosè e con il Vangelo di Cristo, accolse Cristo e Mosè, ma ripudiò la legge e il Vangelo. 

    Vengo ora agli eretici. Ha certo ogni eresia qualche aspetto di buono e di vero, o per lo meno ha la promessa di verità e di rettitudine: altrimenti non avrebbe seguaci. Ma c'è Questo divario tra la Chiesa di Cristo e la sinagoga degli eretici, che la dottrina della Chiesa non ha affatto nulla di contrario, o alla retta ragione, o ai buoni costumi. Invece non c'è eresia, che non contenga degli errori evidentemente manifesti. Sono tutti gli eretici simili a quelli, che sono detti lunatici, che talora hanno dei lucidi intervalli e par che abbiano giudizio, tal altra delirano. Per amore di brevità lasciamo i Gnostici e i Manichei. Questi, per ciò stessa che si staccarono dalla Chiesa, dimostrarono bastantemente, che non hanno mai avuto la vera fede e la vera religione. Giovanni Wiclefo, patriarca degli eretici del nostra tempo, non asseriva egli forse fra le altre dottrine vergognosissime, che sono enumerate nel concilio di Costanza, e con parole chiare ed esplicite, che «Dio deve ubbidire al diavolo»? Quale frenetico, quale furioso, anche se invasato dal diavolo, direbbe queste cose? E che dubbio ci può essere, se una tale asserzione sia vera o falsa? Giovanni Hus, benché non insegnasse altro, non manifestò se stesso empio e nemico di Dio e della verità con ciò stesso di avere ritenuto Wiclefo quale apostolo ed evangelista? Martin Lutero, veneratore e lodatore di ambedue costoro, cioè di Wiclefo e di Hus, non è vero, che s'impiglia insieme anche nei loro insani errori o piuttosto follie?      

    Ma qui mi si offre una sì vasta, ma pur confusa selva di errori e di menzogne, che, se vi entrassi, non facilmente spererei di poterne uscire. Ometto primieramente, che Lutero ha allentato le briglie alle passioni a tal segno, che, stando al suo vangelo, è lecito adulterare e fornicare: mentre il Vangelo di Cristo ha proibito perfino il guardare impudico. E’ lecito secondo lui non osservare la promessa fatta a Cristo della verginità, anzi non è lecito osservarla: mentre Cristo stesso e l'Apostolo hanno levato a cielo la verginità con tante lodi: e con la parola e con l'esempio hanno infiammato gli uomini a praticarla. E' lecito in fine per Lutero commettere impunemente tutti i delitti e tutte le vergogne; anzi non è lecito fare alcunché di bene, ma pecca chiunque si forza di operar bene. Eppure tutto il Vangelo, e tutta la divina Scrittura ci esortano a fuggire i vizi, a praticare le virtù, e ad unire le buone opere con la fede retta e sana. Ometto in secondo luogo, che Lutero non ha nessuna stima non solo della lettera di S. Giacomo e di S. Giuda e di alcune altre cose; ma perfino anche degli Evangeli di S. Matteo, di S. Marco e di S. Luca. Non esagero. Nella prefazione sopra il Nuovo Testamento con parole chiare insegna, che si deve abolire la comune opinione, che ci sono solo quattro Evangeli: ma che unico, bello e vero è il Vangelo di S. Giovanni. Da ciò segue, che i Vangeli dei Santi Matteo, Marca e Luca, o non esistono, o sono cattivi. Ma non per altro motivo fu così severo contro questi tre Evangelisti, se non perché, secondo lui, gli Evangeli scritti da loro. contengono leggi e insegnamenti di ben vivere, e persuadono la necessità delle buone opere. Ometto ancora, che Lutero insieme con Wiclefo e Calvino e con quasi tutti gli altri settari ed anzi con gli stoici e con i Manichei, non teme di affermare, che nulla è libero o contingente, ma che tutto avviene per fatale ed assoluta necessità. Ometto, che riprende Zuinglio di Nestorianismo: ed egli stesso cade, non so se volendo o senza volere, nell'errore molto maggiore, cioè nell'Eutichianismo.

Dice infatti: «Ho avuto da fare in qualche luogo con Nestoriani (intende Zuingliani) , i quali con somma pertinacia disputavano, che la divinità di Cristo non poteva patire». Dunque Lutero, fu di parere, che la divinità di Cristo potesse patire. Di qui scaturì quella magnifica dottrina di Andrea Muscolo, che la divinità patì e morì sulla croce. Che cosa si può pensare di più falso di questa follia? Credete voi, che capiscano, che casa si'gnifichi «la divinità è morta in croce?», La divinità non è la stessa eternità? Non è della sua essenziale natura l'esistenza sempre? Come dunque potrebbe morire la divinità? Potrebbe l'eternità non esistere in qualche tempo? Che è questa pazzia di Lutero e dei suoi scolari? Se si lasciano allucinare in cosa così facile tanto facilmente, che faranno nelle cose più difficili? Ometto altresì, che Filippo (Melantone) nella  apologia in favore della sua confessione Augustana sostiene a spada tratta, che prima del tempo di San Gregorio, cioè prima del seicento, nessuno degli antichi ha fatto menzione della invocazione dei Santi. Invece tutti gli antichi ne hanno fatto menzione. Ne ha fatto menzione Sant'Agostino nel trattato ottantesimoquarto in S. Giovanni: S. Girolamo nel discorso funebre di Santa Paola: Sant'Ambrogio nel libro delle vedove: S. Massimo nel discorso di Santa Agnese: il Nazianzeno nel discorso per San Basilio: San Basilio stesso nel discorso dei quaranta martiri. In breve, tutti ne hanno fatto menzione. Ometto ancora ciò, che Calvino insegna in quella sua famosa Istituzione, che cioè il numero degli ordini minori è un trovato dei Canonisti e dei Sorbonisti: laddove ricorda in particolare tutti gli ordini minori Sant'Ignazio martire nella lettera agli Antiocheni: li ricorda il Romano Pontefice S. Clemente, secondo dopo S. Pietro, nella lettera a Fabiano di Antiochia: li ricorda il quarto concilio Cartaginese; li ricordano più altri, che di molti secoli furono prima dei Sorbonisti e dei Canonisti. Eusebio di Cesarea non riferisce egli nel libro sesto delle Storie Ecclesiastiche da una lettera di Cornelio, che nel clero della sola Chiesa Romana vi erano in quel tempo, circa l'anno di Cristo duecentocinquanta, quarantacinque sacerdoti, sette diaconi, sette suddiaconi, quarantadue accoliti, esorcisti con lettori ed ostiarii cinquantadue?
Avrebbe dunque potuto Calvino mentire più splendidamente in questa parte? facilmente lascio passare sotto silenzio tutte queste ed altre innumerevoli manifestissime menzogne, che in nessun modo si possono né difendere, né scusare, ancorché mettessero sossopra il cielo e la terra, e chiamassero dall'inferno tutti i demoni: intantoché però purtroppo con esse ingannano miseramente i popoli ignoranti.

     Ricorderò solamente una cosa, in cui quasi tutti i settari si accordano. Come abbiamo appreso da Lutero, allorché scopriamo in alcuno un errore certo, sufficientemente siamo messi da Dio sull'avviso, di non credergli più niente in avvenire. Ora Lutero nel libro del libero arbitrio, e Calvino nel libro primo delle Istituzioni al capo ottavo ed altrove frequentemente difendono a tutto potere la dottrina ricevuta da Wiclefo, che cioè «Dio è la causa efficiente di tutte le scelleratezze e di tutte le brutture, e che egli stesso vuole, egli stabilisce che si facciano i peccati». Filippo Melantone vuole illustrare questa sentenza in una annotazione alla epistola ai Romani: e con bocca sacrilega non temé di affermare «che non fu opera meno propria di Dio il tradimento di Giuda, che la vocazione di S. Paolo». Che pare a voi di queste dottrine? Non hanno trovato i settari del nostro tempo maestri più infami da imitare dei Manichei, che sempre dalla Chiesa furono avuti in orrore, per i più scellerati ed impuri di tutti. Eppure, non contenti di imitarli quanto a empietà e bestemmia. li hanno lasciati dietro a sé di un lungo tratto. I Manichei sì è vero, dicevano Dio autore dei peccati, ma un Dio, che essi si fingevano cattivo di sua propria natura, e che da essi era chiamato materia e demone. Non furono mai tanto stolti i Manichei, da attribuire al Dio buono e vero la causa dei peccati. Ma codesti nuovi maestri in Israele attribuiscono la causa dei peccati al sommo, buono e vero Iddio. Inorridisce davvero l'anima, rifugge la mente al riferire queste cose tanto profane, tanto nefande, tanto dannose. O non filosofeggiano spesso di Dio più rettamente i perfidi Giudei, i Turchi brutali e le genti barbare? Chi non vede, che da costoro, che si arrogano tutta la sapienza, o si ignorano i primi elementi della fede, o pazzamente si disprezzano, o superbamente si insozzano? Se Sant'Ilario fosse adesso qui,  non proromperebbe in quel suo motto consueto: «O povere mie orecchie, che hanno udito il suono di una voce così funesta!». E Sant'Ireneo non direbbe forse, ciò che disse contro Fiorino, che introduceva questa stessa eresia: «Questi insegnamenti non contengono la dottrina sana, questi insegnamenti discordano dalla Chiesa, questi insegnamenti spingono in una somma empietà quelli che li ascoltano. Neppure gli eretici avrebbero mai osato pronunziare questi insegnamenti»?

     Dunque non sono eretici, ma più che eretici quelli, che dicono queste cose. Che se ora fosse qui anche quell'apostolico uomo di carattere di S. Policarpo, non turerebbe egli le sue orecchie, e gemendo, com'era solito, non direbbe di nuovo: «O buon Dio, a quali tempi mi avete riservato, che mi toccasse udire queste cose!». Infatti che cosa è più intollerabile di questa bestemmia? Ma dunque sarà Dio autore dei peccati? Dunque dalla verità nasce la menzogna, dalla stessa bontà la malizia, dalla luce le tenebre, dalla dolcezza e dalla soavità il fiele e l'assenzio dei peccati? Perché Sant'Ireneo, S. Basilio ed altri Padri intitolano i loro libri, che Dio non è autore dei peccati? Perché la stessa Sacra Scrittura dice tanto espressamente: «A nessuno ha comandato di vivere da empio, e a nessuno ha dato un tempo. per peccare» (Eccli, 15, 21), e «Dio odia l'empio e la sua empietà?» (Sap. 14, 9). Perché l'Apostolo grida: «E' in Dio ingiustizia? Mai no» (Rm. 9, 14). «Altrimenti in che modo giudicherà Dio il mondo?» (Rm. 3, 6). Se Dio, dice egli, è autore dei peccati, con che fronte nel giudizio punirà i peccatori? Se non è meno opera di Dio il tradimento di Giuda, che la conversione di Paolo, con che giustizia condannerà Giuda ai tormenti, e a Paolo darà la gloria sempiterna? Quale più crudele tirannia si può pensare, del punire Dio vivi e morti i peccatori, cui, se diamo fede ai settari, egli costrinse a peccare? Or voi vedete certo, quali siano le dottrine dei settari. E pensereste che sia credibile, che per bocche tanto empie e sacrileghe abbia potuto parlare lo Spirito Santo?

     Se è così, non fa meraviglia, se ormai le dottrine profane abbiano introdotto costumi del tutto profani e pagani. E non siamo noi soli a lamentare e deplorare questo: fanno. anch'essi lo stesso. E' Lutero stesso, che si lamenta in un discorso dell'Avvento, che gli uomini al tempo del suo vangelo, sono malto peggiori. che non fossero mai al tempo del papato. Paolo Hubert fu archisinagogo dopo Lutero e Filippo. Udite, quanto seriamente egli deplora i costumi dei suoi nella prefazione ai commentari di Filippo all'Epistola ai Corinti. «Giornalmente, dice, vanno crescendo in copiosissima messe innumerevoli vizi. In particolare un tristissimo abuso della religione e della libertà cristiana, il disprezzo e la trascuraggine del santo mistero, la profanità delle dispute, il saccheggio dei beni della Chiesa, la ingratitudine verso i fedeli ministri, il rilassamento della disciplina e la sfrenata caparbietà della gioventù. Al veder certi mali l'anima non può non restarne sgomenta, e alle volte scossa dalle onde dei dubbi, nella incertezza, se questa adunanza possa essere la Chiesa, dato che in essa ci sono tante discordie, confusioni ed enormi vizi». Così egli.

     Ma cessino codeste vane lagnanze dei Luterani. Chi ha tolto a loro e a noi la pace e la serenità? Chi ha eccitato tanti commovimenti, tanti tumulti, tante tempeste, che non possono finir di quietarsi? Chi fu causa di tanti latrocini ed uccisioni e di tanti sacrilegi? Chi ha fatto tanto fango e lordura di fornicazioni e di adulteri? Chi ha introdotto nell'Europa tanta corruzione di costumi e un sì gran cumulo di vizi? Non forse Lutero e la sua posterità, dal momento che hanno insegnato, che Dio non richiede le buone opere, anzi le rigetta? Perché dunque dovrebbero gli uomini operar bene? Hanno gridato perfino dal pulpito, che è impossibile la castità: e, che, se non vuole la moglie, venga la serva. Perché dunque si meravigliano, che tutto è pieno di adulterii? Hanno fatto capire agli uditori, che la libertà cristiana ha fatto uguali tutti gli uomini, e che non c'è nessun superiore. nessun inferiore. Perché si lagnano, se i popoli non li ubbidiscono? Hanno persuaso la gente sventurata, che l'uomo non ha libero arbitrio, che da Dio stesso è costretto a peccare: che, quando poi fa quello che è in lui, pecca mortalmente: che con la sola fede si rimettono i peccati, che non si richiede contrizione di sorta, né confessione, né soddisfazione. Domando io: che segue da ciò, se non che gli uomini si precipitino in tutti i baratri dei vizi, senza alcun timore, senza alcun pudore, senza alcun freno, con sommo libertinaggio e audacia? Perché avrebbero a far bene forzatamente, se né possono, né è necessario, ed è tutt'uno, qualunque cosa facciano? S'accorse di questo l'infelice Lutero, e perciò con tanta fatica tentò poi in quella sua visita della Sassonia di ovviare ai vizi e alle scelleratezze contro il suo stesso vangelo, con tanti precetti ed istituzioni. Ma vanno a vuoto tutte queste cose, se non tornano alla vera, pura e santa dottrina. E' impossibile, che una cattiva semenza di dottrina produca un buon raccolto di opere: né che un cattivo corvo faccia un buon uovo. Come dice il Signore: «Non può un albero cattivo far frutti buoni» (Mt. 7, 18), Basti questo intorno alla purità della dottrina cattolica.

 



Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:40

GLORIA DEI MIRACOLI

 

 

    Dio, ottimo e sapientissimo artefice, ha adornato Questo grande globo che noi vediamo e in cui abitiamo, con due chiarissimi lumi, quasi con due occhi, cioè col sole e con la luna. Ciò serve non solo a magnifico decoro dell'universo, ma altresì per utile comodità dei viventi. Anche in cima del corpo umano, che è come un piccolo mondo, e che gareggia con lo stesso mondo grande per la moltitudine e varietà delle parti, ha posto Dio i due occhi, quasi sole e luna. Parimente, ottimi uditori, Gesù Cristo ha voluto, che la sua Chiesa fosse a guisa di un corpo ottimamente costituito, e come un cielo e un firmamento. Egli quindi l'ha rischiarata con due grandissimi lumi, voglio dire con lo splendore dei miracoli e con la luce profetica. Con ciò l'ha separata da tutte le sinagoghe di Satana. Quelli dunque, che non la vedono, devono essere ciechi davvero: «Sorgi, ricevi la luce, o Gerusalemme.... perché ecco che in tenebre sarà involta la terra, e in oscurità le nazioni: ma sopra di te nascerà il Signore, e la gloria di lui si vedrà in te» (Is 60, 1). Ecco la differenza tra Gerusalemme. che è la Chiesa di Cristo, città del Signore, città santa, città del gran Re, città posta sul monte, e le terre e le nazioni dei pagani e degli eretici. Le tenebre hanno coperto le loro terre e le loro nazioni, e le ha involte l'oscurità. Solo Gerusalemme risplende di luce celeste, solo essa è chiara per i miracoli, solo essa rifulge per il lume delle profezie, solo essa diffonde i suoi raggi in ogni parte dell'orbe terracqueo: rischiara gli occhi sani dei cattolici, acceca gli occhi malati degli eretici.

     Questi sono due di quei dodici argomenti, che abbiamo proposto al principiare dell’Avvento. Essi sono da spiegare nel discorso di oggi e nei due seguenti, a conferma della nostra fede e religione. Diciamo in primo luogo dei miracoli. Mostreremo anzitutto che fino dai tempi apostolici in nessun secolo sono mancati mai alla Chiesa cattolica molti e chiarissimi miracoli. Vedremo poi quello, che gli eretici sogliono obiettare contro i miracoli. In fine per non defraudare neppure gli eretici della loro gloria, ricorderemo brevemente i loro miracoli.

     Percorriamo sedici secoli. Di questi dalla venuta del Salvatore sono già trascorsi quindici; ora siamo nel decimosesto. Del primo secolo non abbiamo nulla da dire. Tutti hanno tra le mani e in tutto il mondo si leggono i volumi degli Evangeli, il libro degli Atti degli Apostoli, le storie di Egesippo, di Eusebio e di altri antichi, dove si contengono i miracoli, o di Gesù Cristo, o dei suoi Apostoli.

    Il secondo secolo, che durò dall'anno cento di Cristo fino al duecento, fu segnalatissimo per il sangue e per i prodigi dei santi martiri e dei personaggi apostolici. Allora era comune a quasi tutti i santi martiri, che il fuoco e i leoni e le altre belve feroci non osassero toccarli. Di questa miracolo fa menzione, come di un miracolo molto comune e quasi volgare anche il Santo martire Ignazio nella sua lettera ai Romani. Di questo secolo riferirò un solo miracolo. Ce lo lasciò scritto Eusebio nel principio del libro quarto delle storie Ecclesiastiche. Fiorì in quel tempo nelle Gallie, tra gli altri celeberrimi martiri di Lione, una donna di nome Blandina. Era essa di una eccessiva delicatezza di corpo. Tutti credevano, che ai primi supplizi essa avrebbe tradito la sua fede. Ma la virtù di Dio la fortificò, con meraviglia di tutti per molti giorni dalla mattina alla sera. Sostenne da forte inauditi e svariatissimi tormenti. Interrogata, onde avesse tanta forza per patire, rispondeva: Tutte le volte che dicevo: «sono cristiana», mi sentivo tornare da capo tutte le forze. E portò all'apice questo miracolo con un altro ancora più chiaro. Più volte fu gettata davanti alle belve ferocissime: e non ne poté mai soffrire alcuna lesione o molestia. Or bene, come ho detto, queste due specie di miracoli furono comunissime in quel tempo alla maggior parte dei martiri. Nel medesimo tempo l'Imperatore Marco Aurelio faceva guerra nella Germania. Da ogni parte era chiusa dai monti. Egli, con tutto il suo meschino esercito, soffriva una grandissima fame e sete. Sentiva di essere stretto e schiacciato da una grande moltitudine di Marcomanni, di Quadi, di Vandali, di Sarmati, di Svevi. Faceva voti agli dèi della sua patria secondo il costume dei pagani. Ma gli dèi pregati e scongiurati erano sordi e non porgevano alcun aiuto a tanti mali. Sapeva egli, che nell'esercito vi erano alcuni cristiani. Li pregò che essi supplicassero Cristo per la salute loro e di tutto l'esercito. Ed ecco che, non appena quei soldati cristiani si furono inginocchiati ed ebbero cominciato a innalzare preghiere al vero Dio, si riversò uno scroscio ingente di pioggia e di strana qualità. I Romani restarono largamente ristorati senza alcun danno.
I barbari ne andarono tutti atterriti pel fuoco, e per la grandine, moltissimi restarono uccisi dalle frequenti scariche di fulmini, e gli altri si voltarono in fuga. I Romani li inseguirono alle spalle e li tagliarono a pezzi fino a strage completa. Con un rozzo e piccolo numero di soldati, ma col potentissimo aiuto di Dio, riportarono una gloriosissima vittoria da eternarsi nei quadri degli antichi. La verità di questo fatto è attestata da Tertulliano a Scapula nell'Apologetico, da Eusebio nel libro quinto della Storia Ecclesiastica al capo quinto, da Paolo Orosio nel libro settimo della sua storia, dallo stesso imperatore M. Aurelio nella lettera d'ufficio mandata al senato, e che poco tempo fa venne alla luce dalla biblioteca Vaticana: da ultimo è attestata dal nuovo nome di quella legione che da allora fu chiamata legione dei cristiani e fulminea o fulminatrice.

     Il terzo secolo produsse molti ed illustri personaggi, chiari per santità e miracoli. Il più famoso di tutti fu quel grande Gregorio, vescovo di Neocesarea. Egli dai Greci fu detto il Grande per le sue opere meravigliose che compì. Trasportò monti, asciugò laghi, trattenne l'impeto di un fiume col ficcare in terra il suo bastone, che poi crebbe in albero; richiamò dalla morte alla vita una donna e quando gli piacque, tolse all'oracolo di Apolline la facoltà di dar risposte. e, quando gli piacque, gliela restituì. Ma queste cose non sono invenzioni di Rufino, come sognano le storie dei Magdeburghesi. Sono provate dalla testimonianza di S. Basilio Magno nel libro dello Spirito Santo, dal Nisseno nella storia che scrisse con buona critica della vita e delle opere del grande Gregorio, di cui stiamo parlando, inoltre da S. Girolamo nel libro degli uomini illustri, e da altri antichi e santi Padri.

     Il quarto secolo, se altro mai, fu feracissimo per meravigliosi miracoli di uomini santissimi e segnalatissimi. Allora in Oriente si segnalarono i Santi: Antonio, Ilarione, Nicolò di Mira, e in Occidente Martino di Tours, Ambrogio di Milano ed altri ancor più. Dei miracoli innumerevoli e grandissimi di costoro lasciarono ricordo: San Girolamo, Gregorio Nisseno. Sulpizio; Palladio, Sozomeno, Socrate, Teodoreto e S. Paolino.

     Nel quinto secolo, come in altri luoghi, così massimamente nell'Africa al tempo della persecuzione dei Vandali risplendettero molti santi uomini per straordinari prodigi. Tra essi ci fu Sant'Eugenio. Di lui scrisse Vittore di Utica, nel libro secondo «Della persecuzione Vaudalica», come all'invocazione dell'Augustissima Trinità, che gli Ariani allora combattevano. restituì la vista, facendo il segno della croce, ad un cieco conosciutissimo in tutta la città. Ma famosissimi sono quei ventidue miracoli, che Sant'Agostino ricorda nel libro ventiduesimo della «Città», e che avvennero al suo tempo, appunto in questo secolo quinto. Aggiunge anche, che egli ha toccato appena una minima parte dei miracoli, e afferma, che sarebbero stati da scrivere molti libri, se si fossero dovuti riferire anche solo i miracoli, che nella sola Africa in soli due anni erano accaduti dinanzi alle sole reliquie del protomartire Santo Stefano.

     Facilmente si può venir a conoscere dai quattro libri dei «Dialoghi» di S. Gregorio Romano, e dalla storia di Gregorio di Turone, per quanto gran numero di grandissimi prodigi fu illustre il secolo sesto. So, che questi libri sono messi in burla dagli eretici. Ma essi piuttosto sono da berteggiare e da compiangere ad un tempo. S. Gregorio scrive di quelle cose, ch'erano avvenute non due o tremila anni prima, ma dei fatti, e dei miracoli operati dai santi del suo secolo e specialmente degli Italiani, dei cui fatti e miracoli aveva conoscenza egli stesso meglio di ogni altro, e che con grande facilità si sarebbero potuti negare da molti come falsi, stante il loro recente ricordo. E propria in questo secolo, a marcio dispetto degli eretici, si rinnovarono tutti i miracoli degli apostoli. Allora S. Giovanni Pontefice Romano a Costantinopoli, spettatore tutto il popolo, restituì la vista ad un cieco. Allora Sant'Agapito, anche egli Pontefice Romano, nel medesimo luogo, alla presenza del medesimo popolo, dopo le solenne funzioni, curò uno zoppo e muto insieme. Allora il monaco Marco col pregare rimosse dal suo luogo una gran rupe. Allora S. Mauro, discepolo di S. Benedetto, camminò sulle acque a piedi asciutti. Allora S. Benedetto, padre di innumerevoli santi, tra gli altri miraceli, di cui ogni dì risplendeva, richiamò alla vita e alla sanità con la preghiera un fanciullo. Notate, che questo povero fanciullo era rimasto sotto un muro, che casualmente gli era caduto addosso. Era il poverino non solo morto, ma tutto rotto e in brandelli, tanto che non fu potuto portare altro che in un sacco. Allora in Africa alcuni vescovi cattolici, parlavano benissimo e molto spiccatamente, benché fosse stata loro dagli Ariani tagliata la lingua fino alle radici. E S. Gregorio nel libro terzo dei Dialoghi al capo terzo afferma di aver visto un Vescovo vecchio, il quale aveva udito a parlare quei santi vescovi senza lingua. Asserisce altresì, che uno di quelli era caduto in peccato di lussuria, e che tosto aveva perduto il dono del parlare, ossia la lingua. E ciò affinché capiscano i fornicatori e gl'impudichi, quanto dispiace a Dio la nostra vita sregolata ed impudica; mentre per causa della fornicazione aveva tolta quel dono, che aveva dato per la buona confessione.

     Nel secolo settimo la Chiesa non perì no, come molti degli eretici mentiscono: anzi ebbe una grande crescita. Ne fa testimonianza l'Inghilterra, che in quel secolo, per la predicazione e i miracoli di Sant'Agostino e dei suoi compagni, ricevé la fede di Cristo. Ne è testimonio il Venerabile Beda, che nella storia del suo popolo ricorda i miracoli del medesimo S. Agostino, di S. Melitto, del gran santo re Osvaldo e di altri.

    Nel secolo ottavo la medesima isola Britannica, allora di fresco convertita alla fede - e tralascio per ora altre parti della Chiesa cattolica - diede molti uomini chiarissimi è principalmente S. Cutberto e S. Giovanni. Il già nominato Ven. Beda lasciò ricordo nella detta storia della loro vita e miracoli, tra cui di aver risuscitato dei morti.

    I tre seguenti secoli furono chiari non tanto per uomini santi e autori di miracoli, quanto per buoni e accurati scrittori. Ha tuttavia il secolo nono, benché sembri molto sterile, con alcuni altri quel grande Tarasio patriarca di Costantinopoli, chiaro per miracoli non piccoli. Combatté egli con estremo vigore in favore della fede contro gli Iconomachi nel settimo concilio, che oggi è impugnato dai seguaci di Calvino. Tanto si può rilevare da Ignazio di Nicea, che ne scrisse la vita. Vide anche questo stesso secolo nono essere guarite prodigiosamente da Dio quasi tutte le specie di malattie nella seconda traslazione del corpo dell'arcivescovo S. Remigio. 

     Il secolo decimo sta male quanto a scarsezza di scrittori: ma in compenso, ha, oltre ad altri, il chiarissimo re dei Boemi S. Venceslao; ha S. Corrado, ha Sant'Udalrico: da ultimo, senza parlare di altri. ha quel celeberrimo S. Romualdo di Ravenna, la cui vita e miracoli furono scritti da S. Pier Damiano.

     L'undicesimo secolo ha in Inghilterra il felicissimo re e vergine Edoardo, e il santissimo e tanto dotto vescovo Anselmo: in Italia San Pier Damiano e S. Giovanni Gualberto. Di questi abbiamo molti e insigni miracoli, scritti da autori riguardevoli e degni di fede, sia pur non eloquenti.

     I cinque ultimi secoli sono singolarmente bistrattati dagli eretici del nostro tempo. A me per contrario sembrano fiorentissimi e felicissimi, se parliamo di miracoli. Ebbe la Chiesa Romana nel secolo dodicesimo, per non toccare d'altri quasi innumerevoli, quei due chiarissimi luminari, S. Bernardo e S. Malachia, ambedue attaccatissimi alla Sede Romana. Ciò non negano neppure gli eretici. Ambedue si illustrarono per innumerevoli prodigi. E anche questo non possono negare gli eretici, ancorché volessero. Di S. Malachia parla così S. Bernardo, dopo aver numerato alcuni suoi miracoli: «Tra i molti ho detto questi pochi, ma molti per la circostanza. Di qui appare, quanto grande fu il mio Malachia in meriti, se fu così grande in miracoli. In quale genere di miracoli antichi non fu chiaro Malachia? Se avvertiamo bene, anche quei pochi, di cui ho parlato, chiaramente lo fanno sapere. Non gli mancò la profezia, non la rivelazione, non il castigo degli empi, non la grazia delle sanità, non il cambiamento delle menti, non infine il risuscitare i morti». E in S. Bernardo stesso fu unita così una eccelsa religiosa bontà con una somma erudizione ed eloquenza, che meritamente fu da alcuni chiamato il decimoterzo apostolo. I suoi miracoli poi furono tanti, tanto vari e tanto ammirabili, che, se si riferissero, come meritano, potrebbero empire molti libri. Certo io in questi giorni m'ero mosso a contare i miracoli fatti da lui, e che si narrano nei cinque libri della sua vita. Ma confesso, che desistetti, vinto dalla loro moltitudine. Come contarli, quando in un sol giorno e in un sol luogo nelle vicinanze di un villaggio della diocesi di Costanza, attestano quelli che li videro, guarì con la sola imposizione delle mani undici ciechi, dieci storpi: diciotto zoppi?

     Nel secolo decimoterzo Dio suscitò nella sua Chiesa due altri chiarissimi luminari, San Domenico e S. Francesco. Questi così da per sé, come per mezzo di altri uomini molto santi delle loro famiglie, illustrarono tutto il mondo con miracolosi prodigi grandi davvero e che non si possono contare. S. Domenico, finché fu in vita, oltre ad altri minori miracoli, risuscitò tre morti. E ancora più ne risuscitò dopo la morte con la sua intercessione presso Dio.  S. Francesco non passava quasi giorno senza molti e straordinari miracoli. E non solo mentre era in vita fra gli uomini, ma anche dopo passato alla dimora celeste, splendé per gloria di prodigi a vantaggio degli uomini. Sopra a novanta ne ricorda S. Bonaventura, che scrisse la sua vita con molta critica: tra essi otto morti risuscitati e sette ciechi curati. Ma miracolo grandissimo e singolare e quasi prodigio dei prodigi furono quelle sacre stimmate. Deh che era mai vedere un uomo, che esprimeva al vivo nel suo corpo Cristo stesso e proprio crocifisso! «Le mani e i piedi - mi servo delle parole di S. Bonaventura - si vedevano trapassate divinamente dai chiodi. Apparivano le capocchie dei chiodi nella parte interiore delle mani, e nella  parte superiore dei piedi. Le punte dei chiodi erano bislunghe, ritorte e come ribadite, e sporgenti dalla stessa carne, uscivano dal resto della carne. Anche il lato destro, quasi ferito dalla lancia, aveva una ferita rossa rimarginata, che spesso lasciava uscire sacro sangue». Davvero, chi non crede, che quest'uomo così umile, così santo, così sapiente, rifulgente per tanta gloria di miracoli, segnato con le stesse stimmate di Gesù crocifisso in prova della sua ardentissima carità fosse un amico e amico singolare di Dio, e professasse e insegnasse la vera fede; si può a buon diritto mettere nel numero dei demoni ostinati. Gli eretici non negano, che la sua fede è la nostra fede: e quando anche negassero, grida il suo testamento. In esso nulla raccomandò ai suoi frati e a noi tutti maggiormente, quanto la fede della Chiesa Romana. Quanto al Santissimo sacramento del corpo del Signore aveva tale sentimento, che diceva, che quelli, i quali vedono la parvenza del pane con gli occhi esterni, e con l'occhio interno non credono, che sotto quella parvenza c'è il corpo di Cristo, non meno sono da condannarsi all'inferno, che gli Scribi e i Farisei, i quali vedevano l'umana natura di Gesù, e non volevano credere, che in essa stesse nascosta la natura divina. 

     Nel secolo decimoquarto oltre ad altri santi, meno illustri, furono chiare due ammirabili donne, S. Brigida di Svezia e S. Caterina da Siena. S. Caterina, che io conosco meglio, non solo amò con incredibile fervore fin dalla infanzia Gesù Cristo, sposo dell'anima sua, e fu chiara per molti e grandi miracoli: ma, cosa anche più meravigliosa, fu arricchita da Dio di tanta sapienza infusa, e di tanta efficacia di parola, che convertì più peccatori essa con i privati discorsi, che non ne avrebbero potuto convertire molti predicatori insieme. Ricorderò di lei un fatto solo. C'era in quel tempo un notissimo peccatore, la cui conversione quasi tutti avevano per disperata, S. Caterina si diè un giorno a fargli visita, e a dirgli molte cose della salute dell'anima di Lui. Quello, come un sasso, non si piegava alle parole della santa vergine. Allora essa si raccolse un poco nello spirito, e pregò. Subito il Signore percosse la pietra e ne uscirono acque. Quello infatti tutto bagnato di lagrime cambiò con repentina mutazione il cuore di pietra in cuore di carne, promise penitenza, e l'incominciò. Allora la santa, quasi sorridendo, disse: Impara, quanto ci passa tra la dolcezza del nostro Padre Iddio e la durezza degli uomini. Ho trattato con te in un lungo discorso, e non mi hai voluto ascoltare mai. Ho pregato Dio con una  brevissima preghiera, e subito mi ha ascoltato.

     Nel secolo quindicesimo Dio accese nella sua Chiesa molti lumi. Fra questi ora mi si rappresentano S. Vincenzo dell'ordine dei Predicatori e S. Bernardino dell'ordine dei Minori. La vita di ambedue fu scritta dall'arcivescovo Sant'Antonino, che nel medesimo secolo, rifulse per santità, dottrina e miracoli. Gli eretici non solo non credono tali cose, ma neppure si degnano di saperle; perché secondo essi hanno un autore più recente, ma così sono privi delle testimonianze degli antichi. Quasi che gli antichi avrebbero potuto scrivere delle cose vicine a noi. Ma, in fede vostra, o eretici, perché non dovrei credere a Sant'Antonino intorno ai miracoli dei santi, che fiorirono al suo tempo: e dovrei credere a questi insani, nati ieri e l'altro ieri?

     Finalmente in questo nostro secolo, quasi quando Martin Lutero cominciò a seminare la sua zizzania, fiorì in Italia un altro Francesco, autore e padre di quei Religiosi, che in Francia sono detti Buoni uomini, e in Italia Minimi. Esso brillò per tanti e sì esimi prodigi, che non c'è nessuno degli antichi con cui si possa a ragione paragonare. Ancora oggi sopravvivono alcuni che in persona hanno veduto alcuni di quei miracoli, o ne hanno sentito parlare da quelli che li hanno visti.

    Notate bene, signori, queste discordanze. Quasi nel medesimo tempo sorsero due uomini affatto contrari fra loro. Lutero nella Germania. Francesco di Paola nell'Italia. Lutero gettò alle ortiche la cocolla che aveva: Francesco, che non l'aveva, se la mise. Lutero insegnò, che il digiuno non vale niente, e che la differenza dei cibi è superstiziosa: Francesco ha istituito un Ordine, nel quale chi vuol vivere deve digiunare frequentemente e astenersi sempre dalle carni e dai latticini. Lutero ha detestato il celibato, l'ubbidienza, la povertà volontaria come cose sciocche e invenzioni di uomini: Francesco abbracciò le medesime cose con incredibile divozione, come utilissimi consigli di Cristo. Lutero fece uscire dai monasteri al secolo quanti più ne poté: Francesco attrasse quanti più poté dal secolo ai monasteri. Lutero volle, che Leone decimo paresse e fosse creduto l'anticristo: Francesco predisse il pontificato al medesimo Leone. quando ancora non era Pontefice, e assoggettò il suo Ordine con la devota umiltà e divozione a lui, come a vero Vicario di G. Cristo. Quali di questi due deviò dalla strada diritta? Francesco o Lutero? Senza dubbio non procedevano tutti e due per la diritta via. La loro vita, i loro costumi, le loro tendenze erano del tutto contrarie. Ma perché restare impacciati e indecisi davanti a un fatto manifesto? C'è da confondersi in pieno meriggio? Dio stesso ha sciolta questa questione, dal momento che adornò uno di grandissimi miracoli, e permise che l’altro si coprisse di vizi e scelleraggini.

Guarda un po’. Predica questo S. Francesco, che bisogna stare attaccati alla sede Apostolica, digiunare frequentemente, onorare il celibato, invocare i santi, venerare le loro reliquie ed immagini, ed egli brilla per miracoli: predica Lutero tutto il contrario, e non poté mai risuscitare neanche una pulce. E staremo noi in forse, da che parte stia la verità? Quando Dio confermava dal cielo coi miracoli la dottrina e i costumi di S. Francesco di Paola, non condannava forse tutto insieme la dottrina e i costumi di Lutero assolutamente contrari a quelli del santo? Che dire, che anche al nostro tempo nell'estremo Oriente e nel Settentrione, nelle Indie e nelle isole del Giappone, si sa, che si sono fatti ogni sorta di miracoli dai predicatori cattolici in prova di quella fede, che è combattuta da Lutero e da Calvino?

    Porto un esempio solo in prova: e finisco. Il Beato Francesco Saverio del nostro ordine ha seminato il Vangelo di Cristo dall'India al Giappone per un immenso tratto di mari e di terre. Ha tirato dalle tenebre alla luce della verità molte migliaia di persone. Scrisse egli allo stesso Preposito Generale della nostra Compagnia. A lui non avrebbe certo osato di mentire: e scrisse così: «Sono quasi solo. Non posso soddisfare a tutti quanti domandano la cura del corpo e dell'anima. Ho mandato fanciulli battezzati di fresco, perché recitassero sopra i malati il simbolo degli Apostoli e le preghiere cristiane. In questo modo molti non solo sono rimasti guariti dal corpo, ma anche, mossi da questo benefizio, sono venuti alla fede e al battesimo». Dello stesso Saverio, uomo santo, scrivono quelli che si sono trovati con lui, e che spesso lo hanno veduto e udito, che egli molto raramente recitava il Pater noster sugli infermi senza che restassero sani sull'istante. Che anzi con qualche preghiera e col mettere sopra le mani curava non solo malati ordinari, ma anche muti, sordi, ciechi, paralitici e cacciava demoni, risuscitava morti. E, meraviglia ancor più grande, il suo corpo verginale - perché sì era vergine - ancora al presente perdura intiero, incorrotto, come fosse vivo, e manda un soave profumo; benché dopo morto fosse giaciuto da principio per quindici interi mesi nella calce. Quando mai hanno fatto qualche cosa tale gli eretici? Mettano fuori essi i loro miracoli. Fanno tali cose non Lutero, non Calvino, ma quelli che sono mandati a predicare del Romano Pontefice, e che conducono il nuovo mondo dal culto degli idoli non al Luteranismo o al Calvinismo, ma all'ubbidienza della sede Romana.

    Perciò, ottimi uditori, noi che abbiamo la fede, confermata da tanti miracoli, possiamo dire in verità con Riccardo di S. Vittore: «Se è errore quello che riteniamo, ci avete ingannato voi, o Signore». Abbiamo le Scritture suggellate divinamente col sigillo di Dio gran Re. Deh conserviamole con ogni diligenza. Ah non commettiamo la colpa, che, per inganno degli eretici, ci siano strappate le Scritture di Dio, con le quali sole siamo stati istituiti eredi del regno celeste: ed essi ci facciano prendere per forza le loro scritture non munite di alcun sigillo. Le scritture degli eretici sono scritture di morte e testimonianze infernali, similissime a quella lettera, che portava Uria Eteo, e che non conteneva altro, che la sua condanna alla morte.

 



Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:41

MIRACOLI DEGLI ERETICI

 

 

   La fede apostolica che ha sempre insegnato e insegna la Chiesa cattolica, ha brillato in ciascuna età per una stragrande gloria di miracoli. Questo abbiamo fatto intendere da questo luogo nel passato discorso: ve lo ricorderete, ottimi uditori.

    Ora sono da dissipare con la luce della verità, alcune nebbie, tenuissime a dir vero, con le quali gli eretici tentano di oscurare il fulgore dei nostri miracoli.

    Che cosa dunque portano in primo luogo? Dicono, che non sono avvenuti i miracoli, che noi abbiamo riferito, Asseriscono, che Santo Atanasio e S. Girolamo raccontano molte cose favolose di Sant'Antonio e di Sant'Ilarione; che S. Girolamo non ha scritto sul serio la storia per quanto concerne Paolo e Malco; ma che se la diverte da bravo retore, quale egli era; che San Gregorio nei Dialoghi ha detto molte bugie; che Palladio ha pubblicato la vita di molti, che non sono mai esistiti. In modo somigliante se la cavano con poca fatica riguardo ad altri. Che fare con simil gente? Quale argomento non scioglieranno essi con questa risposta? Proponiamo la vita di S. Paolo e il miracolo dei due leoni, che alla presenza di Sant'Antonio scavarono con gli artigli il sepolcro a S. Paolo. Dicono che quella dei due leoni è una favola, e che S. Paolo stesso non è mai esistito. Ma l'ha scritto San Girolamo. Rispondono: San Girolamo non l'ha fatta sul serio, ma scrisse da retorico. Ma San Girolamo alla fine del racconto esprime il desiderio di avere la tonaca di San Paolo con i suoi meriti. Soggiungono: E' stile retorico. Ma S. Girolamo nella prefazione alla vita di Sant'Ilarione si lamenta di quelli, che dicevano, che S. Paolo non era mai esistito. E' nel libro «Degli uomini illustri» in Sant'Antonio afferma che Sant'Antonio stesso aveva raccontato di S. Paolo quelle cose, che egli aveva messe in iscritto. Ripigliano: Anche codesto è colorito retorico. Ma, se si va di questo passo nel disputare, che cosa c'impedisce, che anche noi diciamo, che è favola la storia dei Magdeburgesi, dai quali abbiamo imparato codesti stili retorici; che l’Illirico non ha scritto la storia sul serio, ma per divertimento? E' davvero una pazzia troppo manifesta, voler negare cose, che scrittori chiarissimi e degnissimi di fede raccontano essere avvenute. Ma che? Non crederemo a un Sant'Atanasio, a un S. Basilio, a un S. Girolamo, a un Sant'Agostino, a un S. Gregorio, a un Venerabile Beda, a un S. Bernardo, a un S. Bonaventura? non ad altri personaggi santissimi e dottissimi e che scrissero miracoli del loro tempo? E crederemo ai Magdeburgesi, dei quali ogni dì si scoprono grossolanissime ed evidentissime menzogne? E crederemo di cose accadute mille anni prima? Quale maggiore stoltezza si può pensare del non credere a Sant'Atanasio di Sant'Antonio. a S. Girolamo di Sant'Ilarione, a S. Bernardo di S. Malachia,  che vissero al loro tempo: e credere poi degli stessi ad uomini, che non li hanno mai visti neppure in sogno? Si aggiunga, essere credibile, che molti di quei miracoli, che menzionammo verso la fine del discorso precedente, abbiano ancor oggi dei testimoni viventi ed oculari.

     Una seconda trovata degli eretici è, che dai nostri si sono fatti sì alcuni prodigi: ma per prestigio dei demoni, non per virtù divina; come anche l'Anticristo farà prodigi, se crediamo all'Apostolo. I Magdeburgesi vogliono anche, che S. Martino fu negromante, e Santa Brigida maga. Anzi Martin Lutero e Calvino a ogni piè sospinto attribuiscano a prestigio i miracoli dei santi. E quanto a Calvino, nella prefazione alle sue «Istituzioni», gli pare di aver dimostrato con un argomento invincibilissimo, che alle volte si fanno dei veri miracoli per arte dei demoni. In conferma di ciò ci fa sapere, che tempo fa gli Egiziani venerarono con sacrifizi ed altri onori il profeta Geremia, sepolto presso di loro: che anzi hanno abusato del santo Profeta a scopo di idolatria: e ciò non di meno con quella venerazione del sepolcro, che era una manisfestissima idolatria, conseguirono molti benefizi quasi per miracolo divino.

     Ma volete, che vi dica quello che ottengono codesti nobili ingegni con questa così acuta trovata? Che si manifestano veri nipoti ed eredi dei Giudei, dei pagani e degli antichi eretici. Non dicevano anche i Farisei di Cristo: «Egli scaccia i demani per Beelzebub principe dei demoni?» (Lc. 11, 15). O non chiamavano i pagani ad ogni passo maghi e negromanti i santi martiri, per causa dei meravigliosi miracoli che facevano, allorché non osavano toccarli i leoni affamati, né il fuoco, la più vorace cosa che ci sia? Non ci fa sapere S. Girolamo, nel libro contro Vigilanzio, che ad Eunomio e a Vigilanzio, impurissimi eretici, piacque questa eresia dell'ascrivere a prestigio dei demoni i miracoli dei santi? Non è anche Sant'Ambrogio, che nel discorso cinquantesimosesto intorno ai SS. Gervasio e Protasio inveisce contro gli Ariani del suo tempo; perché solo da loro venivano calunniati e si negava che fossero veri miracoli quelli, che avvenivano alle reliquie dei santi in vista di tutto il popolo? Non è altresì testimonio degnissimo di fede S. Vittore di Utica nel libro secondo «della persecuzione dei Vandali»? Aveva Sant'Eugenio - così racconta S. Vittore - nella  fede della Trinità restituito la vista ad un cieco conosciutissimo. Subito gli Ariani alzarono la voce: Oh questo si è fatto per malefizio di Eugenio!
E gli Ariani tormentarono tanto questo già cieco con varie domande, che più non avevano fatto già i Farisei con quel cieco curato da Gesù. Si potrebbero apportare molti esempi tali, da cui facilmente apprenderemmo, che gli eretici del nostro tempo non hanno degenerato punto dai loro maggiori. Ma, quando tutto questo non contasse nulla, chi ha mai udito, che coi prestigi dei demoni vengono curati i ciechi, o i sordi, o che i morti vengono richiamati alla vita? Altre sono le cose, che si sogliono fare dai prestigi dei dèmoni; ma né superano la potenza della creatura, né riescono a vantaggio degli uomini, anzi a rovina. Potrà un mago coi prestigi dei demoni darti stagno per argento, rame od anche carboni invece d'oro; potrà, col permesso di Dio. tribolare gli uomini e i giumenti; privarli delle funzioni dei sensi, ferire anche ed uccidere; potrà dar fuoco alle messi, sradicare gli alberi, abbattere le case; mandare, come venisse dal cielo, il fuoco portato altronde: potranno fare queste cose ed altre simili, e le fanno alle volte i demoni e i maghi cultori dei demoni. Infatti nella storia di S. Giobbe leggiamo, che si fecero cose tali. Ed anche S. Paolo abbastanza apertamente ci informa, che tali saranno i miracoli dell'Anticristo, benché li taccia da menzogneri. Parla egli così nella seconda lettera ai Tessalonicesi: «L'arrivo del quale, per operazione di Satana sarà con tutta potenza e con segni e prodigi bugiardi» (2 Ts. 2, 9). Ma non possono ascriversi a prestigio dei demoni i veri miracoli, che superano ogni potenza creata degli uomini, dei demoni, degli angeli e di tutte le creature, e che si fanno a vantaggio degli uomini, come sarebbe il risuscitare i morti, il sanare i ciechi e i sordi, la penetrazione e la conversione delle menti, secondo che abbiamo detto, essere stato fatto dagli uomini santi. Quanto poi a quello che apporta Calvino dei miracoli di Geremia, che avvenivano quasi divinamente in favore di quelli, che veneravano il santo Profeta quale un Dio con sacrifizi ed altri onori divini; non è un argomento, ma una menzogna di che sono pieni gli scritti dei settari. Epifanio ed Isidoro nella vita di Geremia scrivono sì bene, che egli era in pregio e in venerazione presso gli Egiziani, e che perciò non immeritevolmente avvenivano dei miracoli, e che ricevevano molti benefizi non solo i Cristiani ma anche i pagani. Ma questo è molto in favore della nostra causa.

Non si legge in nessun luogo, altro che in Calvino, che o gli Egiziani od altri quali si siano abbiano venerata Geremia e il suo sepolcro con sacrifizi ed onori divini. Questo argomento nuoce loro moltissimo. Se Dio in vista dei meriti del santo Profeta faceva benefizi anche ai pagani, come non è credibile, che per l'intercessione e i meriti dei santi martiri si possano rendere i medesimi benefizi agli stessi cristiani e fedeli? Eppure gli eretici non credono questo. Dicono che non sono da tenersi in gran conto i miracoli anche veri; perché a volte essi sono sì testimonianze divine, ma né necessarie né sicure. Non necessarie: e lo deducono anche dal solo Giovanni Battista, che «non fece alcun prodigio», (Gv 10, 41), come parla il Vangelo: eppure fu uomo mandato da Dio per rendere testimonianza alla verità. Di più sono deboli e malsicure. Infatti Dio fa talora miracoli per opera di uomini malvagi e scellerati. Dice Gesù: «Molti mi diranno, in quel giorno: Signore, Signore. non abbiamo noi profetato nel tuo nomee non abbiamo nel nome tuo cacciato i demoni e fatto molti miracoli? E allora io protesterò ad essi: Non vi ho mai conosciuti» (Mt. 7, 22). 

     Ma è facile e chiara la riposta. La sacra Scrittura è tanto chiara, che non può essere oscurata dalle tenebre degli eretici. Badate se i miracoli non sono necessari a persuadere la fede, perché mai disse Gesù Cristo: «Se non avessi tra loro compito opere, che nessun altro mai fece, sarebbero senza colpa»? (Gv 15, 24). Perché il medesimo Gesù diede agli apostoli il potere di fare miracoli, quando li mandò a predicare? «Andate, disse, predicate e dite: Il regno dei cieli è vicino. Rendete la sanità ai malati, risuscitate i morti, mondate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt. 10, 7).

    Se poi i miracoli sono testimonianze deboli e incerte; perché volle il Signore per mezzo di Isaia distinguere il vero Cristo dai falsi profeti, e diede come segno certissimo il far miracoli? Dice il Profeta: «Dio verrà egli stesso, e vi salverà» (Is 35, 5). E' come se qualcuno avesse domandato: qual segno ci dai della sua venuta? Risponde: «Allora gli occhi dei ciechi si apriranno, e si spalancheranno le orecchie dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cerbiatto, e sarà sciolta la lingua dei mutoli» (Is 35, 5). Se i miracoli non sono testimonianze salde, perché Gesù Cristo Signor nostro, al domandargli i discepoli di Giovanni, se egli fosse il vero Messia; alla loro presenza, come dice San Luca: «In quella stesso tempo egli liberò molti dalle malattie e dalle piaghe e dagli spiriti maligni e donò la vista a molti ciechi» (Lc 7, 21): e allora rispose loro: «Andate, riferite a Giovanni quello che avete udito e veduto: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risuscitano, e si annunzia ai poveri il vangelo» (Lc 7, 21). Se i miracoli non fossero testimonianze salde, perché il Salvatore rimproverò l'incredulità dei Giudei con quelle parole: «Quando non vogliate credere a me, credete alle opere»? (Gv 10, 38). E: «Io ho una testimonianza maggiore di quella di Giovanni. Perché le opere, che mi ha dato il Padre da adempire, queste opere stesse che io fo, testificano a favore mio» (Gv 5, 36).
Se i miracoli non sono testimonianze forti; perché l'Apostolo ci spaventa con quelle terribili parole: «Come avremo noi scampo, se poco conto faremo di salute sì grande? La quale avendo principiato ad essere annunziata dal  Signore, è stata a noi confermata da quelli le l'avevano udito, rendendo Dio testimonianza per mezzo di segni e di prodigi e di vari miracoli e dei doni dello Spirito Santo distribuiti secondo la sua volontà»? (Eb 2, 3). E nella legge antica, perché il Signore frequentemente richiama il ricordo di quei prodigiosi miracoli, che fece nell'Egitto. se non per contenere i Giudei nella fede e nella religione?

     Però io non nego, uditori, che i Luterani hanno una fede così grande, che davvero non hanno bisogno di miracoli. Chi negherebbe infatti, che essi hanno una gran fede; mentre credono, che, sebbene vivano nel modo più disonesto, pure sono amici di Dio, e che avranno un ottimo posto nel regno dei cieli? Siamo stolti, se non crediamo enormemente creduli i Luterani, i quali hanno potuto credere senza segni e senza prodigi a un apostata come Lutero, che predicava, che il male è bene, e il bene male, il bianco nero e il nero bianco, e rovesciava ogni insegnamento religioso. Ma noi, che siamo uomini di poca fede, e ci fa paura quel detto del savio: «Chi è corrivo a credere, è leggero di cuore» (Eccli. 19, 4), col favore di Dio non abbandoneremo quella fede che sappiamo confermata da innumerevoli e grandissimi miracoli, e propri solamente di Dio.

    Ma S. Giovanni Battista non fece alcun miracolo. Così è: ma né era necessario, né conveniva. Affinché non accadesse (se si fossero aggiunti i miracoli a quella esimia santità), che i popoli, o disprezzassero, o non stimassero tanto Gesù Cristo, che più tardi avrebbe fatto cose simili. Di poi non ci stupiamo. che i popoli udivano e veneravano Giovanni anche senza miracoli. Si sa; menava egli una vita santissima e innocentissima, e aveva dalla sua la testimonianza della Chiesa di quel tempo, e dei principi, dei sacerdoti, e degli Scribi e dei Farisei, presso i quali allora si conservava la vera fede. Ma noi come potremo dar retta a questi novatori, che dalla Chiesa di Cristo, e dal Sommo Sacerdote sono stati colpiti col fulmine dell'anatema, e sono stati separati dal resto della greggia, come pecore ammorbate; e mentre di essi sappiamo, che non solo non fanno miracoli, ma anche vivono una vita scelleratamente corrotta?

     Facilmente poi si annienta l'obiezione che fanno, che cioè talvolta si fanno miracoli anche per opera di uomini perversi: e che per ciò gli uomini, che nella Chiesa cattolica risplenderono per segni e prodigi, con tutti i loro segni e prodigi poterono essere empi e nemici di Dio. Eccoci. I veri miracoli sono testimonianza del vero Dio; non si fanno però mai per niente: ma, o confermano la vera fede, e allora possono essere fatti e dai buoni e dai cattivi: ovvero dichiarano non tanto la fede, quanto la santità della vita del servi di Cristo, e allora nessuno dubita, che si fanno solo dai veramente buoni. Dio, che è la stessa verità, non può essere testimonio della menzogna. Scelgano dunque gli eretici quello che vogliono. I miracoli di S. Benedetto, di S. Francesco, di S. Bernardo, di S. Malachia e di altri, o confermano la fede di Cristo, o dichiarano la loro santità. Gli eretici, diciamolo tra parentesi, concedono volentieri a noi, cioè alla Chiesa Romana, tali ed altri santi. Ora, se i miracoli confermano la fede, è vera la nostra fede, falsa quella dei Luterani; dato che i santi non confessavano altra fede, che la loro, e che è poi anche la nostra. Se poi Dio dichiarava col mezzo dei miracoli la loro santità, dunque erano veramente santi e amici di Dio: Benedetto, Bernardo, Malachia, Francesco e gli altri. di cui abbiamo parlato. Chi non sa che non avrebbero potuto essere santi gli amici di Dio senza la vera fede e la vera religione? La fede è la radice, il principio e il fondamento della giustizia. Dunque, come dice l'Apostolo «E' impossibile piacere a Dio senza la fede» (Eb 11, 6). Che se la fede dei nostri padri era vera, è falsa la fede degli eretici, che diametralmente si oppone ad essa, Pertanto, dovunque si volgano, qualunque cosa eleggano o dicano, troveranno di essere presi nella rete.

     Ma io insegnerò loro un'ottima via d'uscita. Non vi adirate con me, se reco loro qualche aiuto. Dobbiamo aver pietà anche dei nemici. Che opporranno essi? Se avranno senno, opporranno miracoli a miracoli. Molti invero e stupendi sono i miracoli degli eretici. Cominciamo dagli antichi. I profeti di Baal gareggiarono con Elia, profeta del Signore (1 Re, 18). Avrebbero voluto far venire giù dal cielo la fiamma per dare fuoco all'olocausto. E l'avrebbero fatto, se in quel tempo Baal non fosse stato dormendo. Stupefacente il miracolo di Datan ed Abiron. che vestiti e calzati, insieme con i loro figliuoli, con le mogli e con tutte le loro sostanze, vivi vivi discesero nell'inferno (Nm. 16). Belli i miracoli dei maghi Egiziani! Essi col permesso di Dio, cambiarono coi loro prestigi le verghe in dragoni: ma, senza il permesso di Dio, non poterono far uscire le minutissime mosche (Es 8). Ma tralasciamo questi ed alcuni altri miracoli dei falsi profeti dell'Antico Patto. Chi non ammirerebbe il celeberrimo, prodigio di Simon Mago, primo eresiarca? Come racconta Egesippo, avrebbe egli voluto richiamare alla vita un uomo morto: ma questo non si mosse, Allora lo risuscitò l'apostolo S. Pietro. Simone si tenne offeso, dalle ingiurie dei Galilei. Così chiamava egli i due santi apostoli Pietro e Paolo. Decise dunque di volare in cielo. Ma voi sapete quello che accadde. Il miracolo sarebbe dovuto avvenire in vista di tutta Roma. Ci furono anche i due Galilei. Ed ecco Simone, portato dai diavoli, comincia a volare per aria, e San Pietro inginocchiato in terra a pregare il Signore. Ma arrivò in cielo prima la preghiera, che il volo, ed impetrò da Dio, che colui che già sapeva volare e non abbisognava di piedi, immediatamente con una troppo grave caduta perdesse i piedi. L'infelice Simone, gettato a terra quasi da un fulmine, sopravvisse sì per un certo tempo: ma con le gambe rotte; sicché egli, che, non contento di camminare, avrebbe voluto anche volare, non poté più né volare né camminare.

     Sentite un miracolo di Manicheo. L'hanno lasciato scritto Epifanio nella eresia sessantesimasesta, e Teodoreto nel libro secondo delle favole degli eretici. Andava egli divulgando di essere lo Spirito Santo, e di conoscere tutte le cose. Era malato il figlio del re di Persia, non so di che malattia, ma per fortuna non così grave. Quello spirito santo di Manicheo fu pregato dal re, di prendersi cura di suo figlio, e mostrare così la sua sapienza e potenza. Accettò. Dopo pochi giorni coi suoi rimedi lo curò così, che in avvenire non ebbe più bisogno mai non solo di medico, ma né di cibo, né di bevanda. Adirato all'estremo il re, com'era naturale, contro Manicheo. subito gli fece strappare la pelle con una aguzzatissima canna, così com'era vivo e veggente, e ordinò che fosse divorato dai cani.

     Non molto dopo l'eresia dei Manichei sorse quella dei Donatisti. Questi fecero due miracoli, ma contro la loro volontà, e perciò non meritarono lode. Ne scrisse Sant'Ottato nel secondo libro contro Parmeniano. Avrebbero voluto i Donatisti, con un miracolo più che empio e scellerato, tentare, se il santissimo corpo del Signore, che si contiene nel sacramento dell'Eucarestia, possa essere divorato dai cani: e parimente. se l'ampolla del sacro Crisma, col quale i cristiani vengono cresimati, sia tanto resistente, che sbattuta contro le pietre, non si rompa. Vennero al fatto. Rabbrividisco al dirlo. Offersero ai cani la sacrosanta Eucarestia, e per la finestra gettarono giù con violenza l'ampolla del sacro Crisma. All'istante quei cani stessi, accesi dalla rabbia, dilaniarono i propri padroni: e l'ampolla del sacro Crisma, presa in mano da qualche angelo, si posò intera ed illesa sulle durissime pietre.

    Ario, il gran principe degli eretici, è risuscitato ai nostri dì, come dimostreremo a suo luogo, in Lutero e Calvino. Fu egli uno di quelli che in morte primieramente cominciano a risplendere per miracoli. Un giorno, nella città di Costantinopoli, attorniato da una gran moltitudine di vescovi e di altri eretici della sua setta, si avviava solennemente alla chiesa, per essere riammesso nella comunione dei fedeli anche contro il volere del vescovo (cattolico). Avvenne, che d'improvviso, per una necessità di natura si sentì costretto a ritirarsi. Intanto - spettacolo il più bello che mai - quel magnifico corteo di vescovi e di magnati stava aspettando in piazza Ario, che si alleggeriva. Aspettarono un bel po’. Pareva che Ario non volesse tornare. Mandarono a chiamarlo. Ma il valent’uomo aveva già versato, nel luogo comodo con verissimo miracolo tutti gli intestini e tutte le viscere, e aveva reso ai demoni la schifosa anima per essere tormentata nelle fiamme eterne. Che il fatto sia vero, è attestato da Epifanio nell'eresia settantesimanona, e da Rufino e da Teodoreto: l'uno e l'altro nel libro primo delle «Storie Ecclesiastiche».

     Ma in che posto metteremo il famosissimo prodigio di Cirola, vescovo Ariano? Ce ne ha lasciato memoria S. Gregorio Turonese nel libro secondo delle storie. Il Cirola aveva visto Sant'Eugenio, vescovo cattolico, restituire con il solo segno della Croce la vista e gli occhi ad un conosciutissimo cieco. Volle anch'egli fare altrettanto. Subornò con cinquanta monete d'oro un tale sconosciuto a fingersi cieco, e a dire, che improvvisamente avesse ricevuto da lui il lume degli occhi. Combinato il trucco in questo modo, un giorno passa il Cirola eretico in compagnia di Sant'Eugenio e di altri due vescovi. Quello che s'era finto cieco, cominciò a chiamare Cirola a voce alta e piagnucolosa. Ascoltatemi, andava dicendo, o santo sacerdote di Dio, guarda la mia cecità: faccia io sperimento dei tuoi rimedi, che spesso gli altri ciechi meritarono da te, che sperimentarono i lebbrosi, che sentirono perfino i morti. Allora il Cirola, uomo misericordioso, non si lasciò pregare a lungo. Subito si accostò, e, applicandogli la mano agli occhi: Per la nostra fede, disse, e per il retto concetto che abbiamo di Dio, se ne vadano le tenebre dai tuoi occhi. Appena aveva detto questo, che il disgraziato impostore fu preso da un così grande strazio agli occhi, che si sentiva costretto da comprimerli con la mano con quanta forza poteva, affinché per sventura non gli uscissero dal capo. Poi cominciò subito a gridare: Guai a me, che volli beffarmi di Dio per il denaro. E al Cirola: Eccoti il tuo denaro: rendimi la vista, che mi hai tolta. In quella il Santo vescovo Eugenio, per eterno scorno degli Ariani, col fare il segno della croce restituì la primiera sanità a quel miserabile, che, già cieco di mente, prese a detestare l'eresia Ariana.

     Quasi nel medesimo tempo, o non molto prima, come sappiamo dalla Collazione decimaquinta di Cassiano, un tale Eunomiano si sforzava di tirare dalla fede ortodossa alla sua eresia i popoli dell'Egitto col mezzo di sillogismi aristotelici. Udì ciò San Macario, si abboccò con l'eretico, e, imitando il profeta Elia, lo invitò a fare un miracolo, cioè a risuscitare un morto. Gli diede retta l'eretico. Che altro avrebbe osato alla presenza dei popoli, che aveva ingannato? Capì saggiamente, che coi sillogismi aristotelici non s'erano mai risuscitati i morti. Se la svignò. Con la fuga provvide al suo onore e alla sua confusione. Non si fece più vedere in quei paesi.

     Fu divulgatissimo il miracolo di Policronio: ma ve l'ho raccontato un'altra volta da questo luogo. Egli al tempo del sesto concilio, come si può vedere all'Azione decimaquinta di quel concilio, in mezzo a una immensa affluenza di popolo si accinse a risuscitare un morto, affine di confermare l'eresia dei Monoteliti. Avvenne a lui quello che ai precedenti. Cercò la gloria falsa, e trovò la vera ignominia. Il morto non rivisse: ma egli si buscò il soprannome di Simon Mago, e con sommo. smacco fu deportato in esilio.

    Fu più avveduto un eretico della greggia degli Iconoclasti. Un suo miracolo viene descritto da Paolo Diacono nell'ultimo libro «Delle cose Romane». S'era colui nascosto in un sepolcro, e di là faceva udire delle voci, con meravigliose lodi dell'imperatore Costantino Copronimo, che allora faceva guerra contro le sacre immagini. Con tale astuzia intendeva atterrire il popolo, affinché credesse, che l'eresia degli Iconoclasti era confermata anche dai morti.

    Eccovi i ridicoli ritrovati e i miracoli fanciulleschi degli eretici.

    Ma che diremo degli eretici del nostro tempo? Degenerano forse dai loro antenati? Niente affatto. Questa razza di uomini è intimamente invasata dal demonio. Va per le bocche di tutto il mondo anche il miracolo di Calvino, del quale si racconta, che uccise un uomo veramente vivo, mentre morto. lo voleva risuscitare simulatamente. Martin Lutero e in vita e in morte fu chiaro per miracoli. Veniamo a sapere per una lettera di un certo Germano di Mansfeld, scritta intorno alla morte di Lutero, quanto segue, e dice così: Mentre egli  viveva, oltre a molte altre cose, in ciascun pranzo e in ciascuna cena beveva un sestiere di vino dolce e forestiero. Ciò dovete intendere senza contare la birra ed altre qualità di vini. In morte, oltrechè non fu malato se non poche ore, morì con la bocca scontorta e con tutto un fianco annerito. E non fu forse un gran miracolo, che laddove durante i più gran freddi sogliono i cadaveri durare dei mesi incorrotti, quello di Lutero, il quarto o il quinto giorno, mandava un fetore intollerabile quantunque fosse stato chiuso con somma accuratezza in una cassa di stagno? Dopo più di cent'anni fa, morì S. Lorenzo Giustiniani, primo patriarca di Venezia, papista e monaco. Come scrive chi vide il fatto, e aveva sperimentato i miracoli di lui nel proprio figlio, rimase insepolto il santo per sessantasette giorni, sempre spirando un soavissimo odore, incorrotto, come fosse vivo, colle guance rosseggianti. E sì che era stato malato di febbre putrida, per cui i medici credevano, che sarebbe durato senza fetore appena appena un'ora. Tali miracoli sono propri dei nostri santi.

     Ma torno a Lutero. Chi non ammirerebbe la grazia di discacciare i demoni, di cui era fornito Lutero? Udiamo Stafilo, che fu presente a tutta la scena. Volle una volta scacciare il diavolo da una donnicciuola. Ma immantinente fu spaventato dal demonio e fu ridotto a tanta necessità di corpo, che dovette più che in fretta scappare di là. Ma che? Il demonio gli chiuse la porta in tal modo, che a Stafilo fu bisogno fracassare i battenti con la scure, e in quel modo aprir la via al grande esorcista.

    Aggiungo un solo miracolo molto più recente e più famoso, e finisca. Quattordici anni fa, tra l'Ungheria e la Polonia, non lontano dalla città di Cracovia, uno dei fratelli evangelici s'era sentito ardere di un grande desiderio dì propagare una tal nuova dottrina. Che fece? Volle servirsi perfino di un finto miracolo a rovina di innumerevoli anime. Si accordò con un certo Matteo e con sua moglie, che Matteo un dato giorno sarebbe portato come morto al sepolcro: e la moglie, come di consueto, seguisse il funerale, mostrandosi afflitta con alto pianto simulato. Il defunto vien portato alla chiesa. Quel novello Simone sale il pulpito. Con una lungo discorso amplifica la gloria del rinascente Evangelo. Afferma, che egli è così certo e sicuro della sua dottrina, che non dubita punto, che Dio stesso l'avrebbe confermata con un miracolo. Bella occasione gli si porge del defunto allora portato. Rivolto a lui, grida forte: «In nome di Cristo, al cui vangelo oggi ho reso testimonianza. Matteo, sorgi». Guardano tutti. Matteo non si alza. Quello a voce più alta: «Sorgi ti dico, Matteo». Ma certo avrebbe potuto gridare fino a morire lui stesso. Matteo era già morto davvero, davvero era sceso all'inferno.

     Stando così le cose, che dubbio può rimanere, se i settari sbaglino e dispiacciano a Dio, o no? Chi non vede chiaro, in quanto oscura notte si trovino quelli, che non solo non vedono la Chiesa di Dio vivo, che rifulge per nuova luce di nuovi miracoli in ogni età, ed è posta sul monte; ma anche abusano di finti e bugiardi segni e prodigi, affine di stornare da Essa gli occhi dei cattolici? Riflettete, di grazia, con che veemenza ha tormentato gli occhi malati degli eretici, lo splendore, la gloria, il fulgore di grandi miracoli, pei quali in tutti i secoli la Chiesa Cattolica fu illustre. Lutero non sapeva a che partito appigliarsi. Desiderò con estrema voglia di trovare qualcosa da apporre a noi, fosse pure con inganni. Non si vergognò di predicare qual miracolo perfino la vergognosissima fuga dal monastero di una monaca vergine. «Questi, egli disse, sono veri miracoli. Che sono le contorsioni e le espulsioni dei demoni, se si confrontano con questa mirabile opera di Dio»? ah, tenebre palpabili! Oh castigo di cecità! Oh peccato contro lo Spirito Santo! Attribuisce a miracolo divino un'opera iniquissima, scelleratissima, procurata con arte diabolica! E già! Restava questo, che chi aveva attribuito a prestigi di demoni le vere opere di Dio, ora, con inaudita bestemmia, ascrivesse a Dio un'opera chiarissimamente diabolica. Davvero che Dio li ha percossi con flagello crudele, nel suo furore li ha percossi col flagello della cecità e dell'induramento sì, da dire bene il male, e male il bene. Miracoli sono cotesti? fuggire dal monastero, di monaca diventare apostata, di vergine donna da trivio, di sposa di Cristo meretrice dell'Anticristo? Si tengano pur essi tali miracoli. Un tale miracolo fece Satana, quando di angelo bellissimo ed ottimo si fece bruttissimo e pessimo diavolo: Questi miracoli empiono l'inferno. Tali miracoli sono pianti dalla Chiesa. Troppo spesso, troppo facilmente si fanno tali miracoli.

 

Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:42

IL DONO DELLA PROFEZIA

 

 

     Lo splendore dei miracoli e il lume profetico, ottimi uditori, spiccano quasi due bellissimi e chiarissimi occhi nel corpo della Chiesa, e rischiarano coi loro fulgori tutta la terra. Chi non è del tutto cieco, deve giudicare così. Noi, per benignità di Dio, ci dilettiamo un mondo nella contemplazione di questi due occhi. Per essi ci sentiamo rapire ognor più dall'amore della bellezza della Chiesa Cattolica. Godiamo sì noi di questo bene: ma vorremmo comunicarlo ad altri e specialmente agli infelici eretici, che sono aggirati dagli inganni di Satana. Due settimane fa cominciammo a parlare dell’uno e dell'altro lume. Dello splendore dei miracoli abbiamo detto nel discorso ultimo e nel precedente, poco del molto, che si sarebbe potuto dire: abbastanza però, ne son certo, data la brevità del tempo. Ora il filo degli argomenti richiede, che c'intratteniamo a ragionare brevemente del secondo occhio, cioè della luce profetica.

     Cominciamo dalla eccellenza del lume del predire il futuro. Essa è tanto sublime che può convenire al solo vero Dio, e a quelli ai quali egli dà questo privilegio singolare. Ci sono delle cose future, che hanno cause create non già necessarie, ma libere, o certo tali, che possono essere impedite. Parliamo di queste, che né in sé, né nelle loro cause esistono con certezza. Tali cose future non si conoscono, né in sé, né nelle loro cause da nessuna intelligenza, né umana né angelica. La sola causa ne è la volontà di Dio. In essa certamente esistono e già dall'eternità esisterono tutte le cose, che in qualunque modo hanno da avvenire, sia liberamente, sia necessariamente. «Giacché chi ha conosciuta la mente del Signore? O chi a lui diede consiglio?» (Rm. 11, 34). Certo, come nessuno conosce ciò che è nell'uomo; così nessuno conosce ciò che è in Dio, se non lo Spirito di Dio, e a chi lo Spirito lo voglia rivelare. «Poiché non per umano volere fu portata una volta la profezia: ma, ispirati dallo Spirito Santo, parlarono i santi uomini di Dio» (2 Pt 1, 21). E «Benedetto il Signore Dio d'Israele....conforme annunziò per bocca dei santi profeti suoi, che sono stati da antico» (Lc. 1, 70). «Iddio, che molte volte e in molte guise parlò un tempo ai padri per i profeti» (Eb. 1, 1). Di qui in Isaia al capo quarantuno parla lo Spirito Santo e dice: «Annunziate le cose che verranno in futuro, e conosceremo, che voi siete dii» (Is 41, 23). E di nuovo nel capo seguente: «Io il Signore, questo è il mio nome, non cederò ad un altro la mia gloria, né il mio onore ai simulacri. Quelle prime cose, ecco che sono avvenute, nuove cose ancora io annunzio: a voi le svelo avanti che avvengano» (Is 42, 9). Questa è dunque gloria singolare del vero Dio, che certo non darà ai simulacri, e non permetterà agli dèi falsi, né ai falsi profeti di arrogarsi di annunziare le cose che hanno da venire, e farle udire prima che nascano. Perciò nel libro del Deuteronomio al capo diciottesimo il medesimo Spirito Santo dice: «Se un profeta corrotto da arroganza vorrà annunziare nel nome mio quello, che io non gli ho comandato di dire, o parlerà a nome degli dèi stranieri, sarà messo a morte. Che se il tuo pensiero ti suggerisce: come posso io conoscere che il Signore non ha detta quella parola? Eccoti il segno. Se Quello che il profeta ha predetto nel nome mio non sia avvenuto, il Signore non ha parlato: ma il profeta per la sua superbia ha inventata tal cosa, e perciò tu noi temerai» (Dt. 18, 20).

     Uditori, la predizione delle cose future è così propria di Dio, che ad essa non possono in alcun modo aspirare, senza rivelazione di Dio, né gli uomini, né i demoni, e neppure di angeli santi. Quindi nessuno può dubitare che quella sola è la Chiesa del vero Dio, nella quale si trova il vero lume profetico. Dimostriamo, che la sola Chiesa Romana fu sempre adorna di questo chiarissimo lume: e necessariamente e manifestamente si conchiuderà, che la sola Chiesa Romana è la vera Chiesa di Dio; qualunque cosa latrino tutte le sinagoghe dei demoni.

    Chi può negare, che nella Chiesa Cattolica, in cui, ci troviamo, fiorì la profezia in quasi tutti i secoli, non solo dopo la venuta del Salvatore, ma anche dal principio del mondo? Prima del diluvio furono profeti: Adamo, Enoch e Noè. Adamo perché predisse il matrimonio di Cristo e della Chiesa. E ciò per testimonianza di S. Girolamo al capo Quinto nella Epistola agli Efesii, e di S. Prospero al principio del libro delle promesse e predizioni di Dio. Che Enoch fosse profeta, e che predicesse molte cose dei tempi avvenire, n'è garante l'apostolo San Giuda nella  sua lettera. Di Noè testifica l'apostolo S. Pietro nella sua prima lettera, che mentre fabbricava quella immensa arca, predisse con le parole e poi fatti, il futuro diluvio generale: e che gli uomini di quel tempo non gli credettero. Quasi nessuno dei cristiani ignora, che dopo il diluvio hanno profetato molte cose di Gesù Cristo, della Chiesa, degli eretici, del futuro giudizio, o con le parole, o coi fatti, o coi libri scritti: Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe. Mosè, Davide, Salomone, i quattro profeti maggiori, i dodici minori, e inoltre molti altri.

     Prendiamo ad esempio Gesù Cristo, la cui Passione e Risurrezione fra breve festeggeremo, e a cui mirano come a fine e a bersaglio tutte le pagine divine. Chi non ammirerebbe, come nulla si legge nel Nuovo Testamento, che non si legga predetto nei libri del Testamento vecchio? figura di ciò erano quei due Spiriti Serafini, che, come si può vedere nel profeta Isaia, con mirabile consenso «gridavano l'uno all'altro: Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli eserciti» (Is 6): e similmente i due Cherubini, che, come leggiamo nell'Esodo con le ali coprivano il propiziatorio, e di essi uno guardava sempre l'altro (Es 37). Questi sono i due Testamenti, il vecchio e il nuovo, che talmente si rimirano a vicenda, e uno grida all'altro così, che tutto quello che dice l’uno promettendo e predicendo, l'altro ripete asserendo, che già è avvenuto e s'è adempiuto. E' stato concepito Gesù Cristo dalla Vergine? Lo predisse Isaia: «Ecco che una Vergine concepirà e partorirà» (Is 7). Nacque in Betlemme di Giuda? Lo predisse Michea: «E tu Betlemme terra di Giuda» (Mic 1). I re, primizie della gentilità, gli porteranno doni? (Mt 2). Lo predisse Davide: «I re di Tarsi e le isole a lui faranno le loro offerte: e i re degli Arabi e di Saba porteranno i loro doni» (Ps. 71, 10), fu presentato Gesù nel tempio? (Lc. 2). Lo predisse Malachia: «Subito verrà al suo tempio il Dominatore cercato da voi, e l'Angelo del Testamento bramato da voi» (Ml 3, 1). Poi fuggì in Egitto? (Mt, 4). Predisse questo Osea: «Dall'Egitto richiamai il mio figliuolo» (Os 11, 1). Parlò in parabole? Lo predisse Davide: «Aprirò in parabole la mia bocca: dirò cose recondite dei primi tempi?» (Ps. 77, 2). Curò ciechi, sordi, zoppi, mutoli? Ma questo fu profetato da Isaia: «Dio verrà egli stesso, e vi salverà. Allora gli occhi dei ciechi si apriranno, e si spalancheranno le orecchie dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cerbiatto, e sarà sciolta la lingua dei mutoli» (Is 35, 4). Camminerà sulle acque? (Mt 14). Lo predisse Davide: «Tu camminavi pel mare: tu ti facesti strada per mezzo alle acque» (Ps. 76, 19). Sedé sull'asina e sul suo puledro? (Mt. 26) La predizione è di Zaccaria: «Ecco che viene a te il tuo Re giusto e Salvatore: egli è povero, e cavalca un'asina e un asinello» (Zc 9, 9). Fu tradito da un discepolo? (Mt. 26). Ciò fu preannunziato da Davide: «Chi mangiava il mio pane, mi ha ordito un gran tradimento» (Ps. 40, 9). fu venduto per trenta monete d'argento? Zaccaria lo predisse: «Ed essi mi pesarono per mia mercede trenta monete d'argento» (Zc. 11, 12). fu ingiuriato e schiaffeggiato? Lo predisse Geremia: «Porgerà la guancia a chi lo percuote: sarà satollato di ignominie». (Lam 3, 30). Cospireranno alla sua morte i re delle genti e i principi dei Giudei? Lo seppe tanto prima Davide: «Si sono levati su i re della terra, e i principi si son collegati insieme contro il Signore, e contro il suo Cristo» (Ps. 2, 2). Fu battuto coi flagelli? Isaia l'ha presentito: «Ho dato il corpo mio a quelli, che mi percuotevano, e le mie guance a quei che mi strappavano la barba» (Is 90, 6). Che se volessimo percorrere tutti i vaticini che riguardano Gesù Cristo, non basterebbe un giorno. E se confrontassimo non le parole soltanto, ma anche i fatti e le ombre e le figure con le cose adombrate e figurate, faremmo un discorso senza fine. Dunque noi deduciamo un grande e invincibile argomento contro i Giudei ed i Pagani da questo adempimento di tanti e così grandi vaticini, e a ragione ci gloriamo con l'apostolo S. Pietro, perché noi abbiamo «più fermo il parlar dei profeti, a cui» ben facciamo «prestandovi attenzione, come ad una lucerna, che risplende in un luogo oscuro» (2 Pt 1, 19).

    Veniamo al Nuovo, Testamento. Non predisse Gesù Cristo stesso, maestro il più sapiente di tutti i profeti, con parole ben chiare la distruzione della città di Gerusalemme? E non avvenne forse dopo quarant'anni, come aveva egli predetto? (Lc. 19). Poniamo pure, che non avessimo Giuseppe ed Egesippo, che con somma diligenza ne scrissero il fatto: basterebbe abbondantemente il famoso arco trionfale eretto a Vespasiano e a Tito, che ancora a Roma dura iutiero e visibile, mentre gli altri quasi tutti sono stati o abbattuti o sepolti. In esso si vedono sempre a ricordo dei posteri l'Arca del Testamento, il candelabro ed altri ornamenti degli Ebrei, ed anche una turba degli stessi Ebrei con le mani legate dietro la schiena.

     Nei tempi apostolici non hanno forse predetto gli apostoli Pietro, Paolo, Giovanni e Giuda, con un medesimo spirito, molte cose dei futuri eretici, che coi nostri occhi vediamo adempirsi? Non splenderono anche nel medesimo tempo con questo lume profetico il profeta Agabo e le figlie del diacono Filippo ed alcuni altri? Di più S. Basilio Magno scrive, che fu grande e ammirabile profeta quel grande San Gregorio di Neocesarea. Di Sant'Antonio, celeberrimo e conosciutissimo in tutto il mondo, riferisce Sant'Atanasio, che predisse il guasto della Chiesa, che avvenne dagli Ariani, quando distrussero gli altari, imbrattarono i vasi sacri, uccisero i sacerdoti, disonorarono le sacre vergini, insomma misero a soqquadro tutto il mondo con i loro tumulti e sedizioni: come oggi fanno i Calvinisti.

     Ci fu un santo anacoreta. chiamato Giovanni. Di lui ci hanno tramandato Palladio, Teodoreto ed altri storici parecchi, che fu celebre pei vaticini. L'imperatore Teodosio, non intraprese mai una guerra senza consultarlo quale oracolo, e senza aver udito da lui tutto il successo della guerra. 

     S. Gregorio attesta che S. Benedetto predisse al re Totila, che avrebbe occupato Roma, che poi avrebbe passato il mare, avrebbe regnato solo nove anni, da ultimo il decimo anno sarebbe morto, e che tutto si verificò, come S. Benedetto aveva predetto.

     Che S. Malachia, vescovo d'Irlanda splendesse per lume profetico, n'è testimonio degnissimo di fede S. Bernardo. Che S. Bernardo stesso abbia predetto non una cosa, ma molte, e che siano avvenute tutte conforme alla sua predizione, ce ne assicurano i libri scritti della sua vita e delle sue gesta. Di lui ricorderò una sola predizione. Ad un certo Andrea predisse un dì, che egli si sarebbe fatto Cistercense. Colui, all'udir questo, restò smarrito. Nulla aveva mai sognato meno: anzi nulla aveva mai maggiormente aborrito. Quindi con sdegno gli disse: Da questo capisco, che sei un falso profeta. Son certo. che tu hai detto una parola, che non si verificherà mai e poi mai. Io non te la perdonerò. Ti svergognerò alla presenza del re e dei principi in pubblico convegno, sì che si faccia palese la tua falsità. Poi se ne andò quasi furioso, bestemmiando e imprecando a quel santo monastero l'estrema rovina. Desiderava anzi, che non solo quel monastero, ma tutta quella valle andasse radicalmente distrutta. Che avvenne di poi? Oh cosa meravigliosa e quasi incredibile! Era passata appena la notte, anzi non era ancora passata: colui, tutto mutato, insofferente d'indugio, prima che facesse giorno, corre al monastero, domanda l'abito, si fa monaco. Che diranno qui gli eretici? Chi, all'infuori di Dio. fece conoscere a S. Bernardo un così grande cambiamento, che era possibile solo per la destra dell'Eccelso?

    Che diremo di S. Francesco? Oh quante predizioni riferisce di lui S. Bonaventura! Ci fu già guerra tra i pagani e i cristiani. Il giorno della battaglia era imminente. Il servo di Dio antivide tutto l'esito della guerra. Intimò ai cristiani, di astenersi quel giorno dal combattere; altrimenti egli vedeva, che si sarebbe fatta una grande strage di cristiani. Non credettero all'uomo di Dio. Fidati della potente moltitudine, entrarono in battaglia. In un batter d'occhio, secondo la predizione del sant'uomo, l'esercito dei cristiani restò sbaragliato, e quasi tutti o uccisi, o prigionieri.

    S. Caterina da Siena non predisse ella apertamente quello scisma tra Urbano e Clemente, il più penoso, il più orribile, il più lungo che vedesse mai la Chiesa?

    Ma sarebbe troppo lungo, e niente affatto necessaria passare in rassegna tutti i profeti della Chiesa Cattolica. Questo solo oserei dire insomma e senza esagerazione, ottimi uditori, che sono quasi senza numero i vaticini dei santi, e di quei santi, che tutti gli eretici ammettono, essere stati nostri, vogliamo dire, della Chiesa Romana. Ho letto ben io una buona parte delle storie, nelle quali si contengono le vite dei santi della Chiesa Cattolica: e senza menzogna posso affermare, che a stento non ci fu un sant'uomo, e principalmente in questi ultimi cinque secoli, che tanto dispiacciono agli eretici, il quale non fosse arricchito di questo tanto eccellente e nobile dono di Dio. Potrei inoltre contare molti uomini santi della nostra fede e religione, i quali furono ornati non solo del dono della profezia, ma altresì di altre ammirande visioni e rivelazioni, e, ciò che è anche più sublime, della grazia del conoscere i cuori e della discrezione degli spiriti. E non soltanto nei secoli passati, ma anche in questo nostro tempo, come i miracoli, così non mancò alla Chiesa Cattolica il dono della profezia. Abbiamo, oltre molti altri, quei due Franceschi: il fondatore dell'ordine dei Minimi, e il Saverio, tra i Padri della Compagnia di Gesù, antesignano e nuovo apostolo dell'India. Ma di loro abbiamo parlato altra volta. Questi nel secolo presente, e quasi al nostro tempo, furono chiari, e per molti e grandi miracoli, e perché previdero molte cose per divina rivelazione, le quali avvennero, come essi avevano predetto.

     Qual cosa tale hanno mai avuto le sinagoghe dei demoni? Sù mettano fuori le loro predizioni. Chi non istupirebbe, che i nostri papisti, idolatri, nemici di Dio, splendono non solo per miracoli, ma anche per lume profetico; e codesti fratelli evangelici non sanno altro, che dir menzogne? Sempre, a dir vero, i demoni pretesero questa gloria, di predire le cose future, quale vero distintivo della divinità. Di qui è, com'è chiaro, che prima della venuta di Cristo, si ricorreva in tanti luoghi agli oracoli di Apollo Clario, Pizio, Delio, Dodomeo: ma tutti essi alla venuta di Dio in carne improvvisamente ammutolirono. Notarono questa fatto, come sommamente meraviglioso e prodigioso non solo fra i nostri, Sant'Antonio presso Sant'Atanasio; ma anche tra i gentili, Plutarco. Da ciò Plutarco, come sappiamo da Teodoreto, intitolò «il libro degli oracoli che cessarono»: e cerca la causa di così nuovo e ammirabile mutamento. Infatti quale meraviglia maggiore, dell'essere stato imposto silenzio in ogni parte del mondo a tutti gli oracoli con tanta prestezza e dell'essere chiusa in eterno, quasi con pietre, la loro bocca?

     Ma, ditemi, quali erano le predizioni dei demoni? Alcune volte rispondevano con oscurissimi equivoci ed indovinelli; sicchè qualunque cosa avvenisse, paresse che essi avessero detto la verità; ma tutta la colpa cadesse sugli interpreti. Altre volte parlavano sì in modo chiaro: ma predicevano cose, che essi col permesso di Dio, avevano intenzione di fare, o che già si erano cominciate a fare. Ma questo non è tanto profetare né congetturare, quanto annunziare agli assenti le cose presenti.

     Né migliori sono i vaticini degli eretici. Potrei recarvi molti esempi, se potessimo percorrere i vaticini falsi dei pseudo-profeti così dell'antico, come del nuovo testamento. Ma siamo stretti dalla brevità del tempo. Diremo solamente qualcosa delle false predizioni degli eretici del nostro tempo.

     Martin Lutero fu profeta secondo l'opinione sua e dei suoi. Ecco com'egli scrive in un libro ai Tedeschi, per erigere scuole cristiane: «Non vi dev'essere d'impedimento, il gloriarsi alcuni dello Spirito e lo stimar poco le sacre scritture. Ma, buon amico, spirito qua, spirito là. Anch'io fui in ispirito, ed anche ho veduto spiriti forse più di quanti questi stessi ne vedranno ancora entro un anno». Poi niente ripete più spesso, che la sua bocca è la bocca di Cristo, e le sue parole sono parole di Cristo, e che egli è certo, di aver la sua dottrina dal cielo. Vediamo dunque ciò che gli ha rivelato lo Spirito.

     Che cosa dunque predisse di futuro cotesto insigne profeta, che fu in ispirito e vide spiriti più che altri entro un anno. Predisse primieramente, nel libro contro Tomaso Munsero, che due anni dopo il vaticinio la Chiesa Romana sarebbe andata in rovina a tal segno, che non si sarebbero trovati più in nessun luogo, né Pontefici, né cardinali, né vescovi, né sacerdoti, né monaci, né monache, né chiese, né campanili; né campane. Dice inoltre nella risposta contro il re Enrico d'Inghilterra: «Le mie dottrine staranno in piedi, e il Papa cadrà, a dispetto di tutte le porte dell'inferno, e delle potestà dell'aria, della terra e del  mare». Ma dopo tutto che cosa è avvenuta? Sono passati quarantasei anni, e il Papa sta in piedi, o piuttosto siede, e i cardinali, i vescovi, i preti, i monaci, e le monache vanno crescendo di giorno in giorno. Ha veduto ristorar chiese e campanili, se stavano per cascare e fabbricarne di sana pianta. Che ne cadessero, o che ne siano caduti dei campanili, non so, se non in parte qui in Lovanio il campanile di S. Pietro. Ma che sia andata in malora la dottrina di Lutero, si può conoscere anche solo da ciò, che pochissimi sono i veri luterani. E quelle stesse massime, che Lutero avrebbe voluto stimare quali oracoli, oramai le mandano al diavolo, non i cattolici soltanto, ma anche i suoi discepoli. Dunque non è il Signore che ha fatto quel vaticinio: ma lo ha inventato per sua superbia il profeta; e perciò egli non ci fa paura.

     Un'altra volta, nella prefazione all'Alcorano, predisse il medesimo Lutero, che di lì a non molto i Maomettani si sarebbero convertiti alla fede di Cristo secondo il suo vangelo, non secondo la Chiesa Romana. Ma non s'è trovato bugiardo il profeta anche in questo? Io stesso ho veduto a Roma essere battezzati dei Maomettani: e non è raro il caso, che alcuni vengano alla fede. Nelle Indie poi non già pochi, ma molti cultori di Maometto si sono convertiti e si vanno convertendo giornalmente alla fede di Cristo, e all'ubbidienza della Chiesa di Roma. I Luterani ne mettano innanzi almeno uno, se possono. Neppure questo dunque ha parlato il Signore: ma l'ha inventato il profeta per superbia sua; e perciò egli non ci fa paura.

     Da ultimo, senza parlare di altre sue profezie, alcuni anni fa avvenne, che i contadini, messi sù dai Luterani, tumultuarono, e presero le armi contro i loro principi e contro i loro padroni. Allora Martin Lutero si fece vedere profeta, e andava dicendo, che non erano i contadini, ma Dio stesso a combattere contro i principi. E prediceva ai principi l'estrema rovina. Ma che avvenne in fine? I contadini furono disfatti e i principi ne uscirono vittoriosi. Che fece allora Lutero? Arrossì forse? Si riconobbe profeta falso? Ma che! Come se prima non avesse detto niente in favore dei contadini, si diede ad esercitare la sua maldicenza contro i contadini stessi. Visto, che non gli era riuscito il vaticinio del futuro cominciò a vaticinare del passato. «Io credo certo, disse, che non è rimasto nessun demonio nell'inferno, ma che tutti sono venuti sù dentro a questi contadini sediziosi e pessimi farabutti». Non dunque fece Dio neppure questo vaticinio: ma l'aveva inventato il profeta per la sua superbia. Noi non abbiamo paura di lui.

     Che dire di Tomaso Muncero, discepolo carissimo di Lutero? Non prometteva lui a quella ciurmaglia di contadini, dei quali era a capo, in nome e autorità di Dio, come uno dei profeti, la vittoria certissima? E tanto certa l'asseriva, che egli si diceva un altra Gedeone: e si vantava, che avrebbe ricevuto in una sua manica, senza averne danno, tutte le palle delle bombarde. Ma con tutto ciò i contadini restarono battuti, ed egli stesso non poté sostenere senza lesione neppure un colpo di spada. Non fu dunque il Signore a dire quella vittoria: ma l'aveva finta il profeta per la superbia del suo spirito: perciò noi non abbiamo paura di lui.

     Pochi anni addietro certi Anabattisti, avevano occupato la Calabria, provincia d'Italia. Furono arrestati. Stando per subire l'estremo supplizio andavano dicendo: «Anche se verremo gettati giù dalle torri, non patiremo alcun danno. Tosto verranno gli angeli, e ci accoglieranno, sì che non abbiamo a urtar coi piedi contro le pietre» (Ps. 90, 12). Ho saputo questo da un grande personaggio, che, se ben mi ricordo, fu presente al supplizio. Quegli sciagurati, furono davvero precipitati dalle torri, ed ebbero contusi non i piedi soltanto, ma anche la testa e il collo. Arrivati in terra, ebbero tutti spaccata la testa, e sparsero la piazza delle loro cervella, prima che gli angeli avessero il tempo di portare loro aiuto. Esempi tali se ne possono portare senza numero. E come le profezie vere dei Santi cattolici sono quasi infinite; così le bugie e le false predizioni degli eretici eccedono ogni numero. Quanti falsi martiri in questi nostri giorni asseverarono. che anch'essi non sarebbero rimasti bruciati in mezzo alle fiamme! Eppure rimasero bruciati fino alle ceneri. Quante volte al contrario affermarono, che essi si sarebbero bruciati in un istante! E poi, sebbene fossero carichi di polvere da fucile, prima di poter morire erano tormentati molto a lungo. Da ciò, certo, se non fossero affatto accecati ed ostinati, capirebbero una buona volta, di aver abbandonato lo spirito della verità, e di aver aderito agli spiriti dell'errore e della seduzione a rovina eterna loro e di altri.

 

Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:43

BONTÀ DEI DOTTORI DELLA CHIESA

E MALIZIA DEGLI ERETICI

 

 

    Noi veneriamo Dio Uno nella Trinità e Trino nella Unità. In esso spiccano tre cose singolarmente: la potenza, la sapienza e la bontà! Dio, ottimi uditori, volle, che anche i suoi singolari amici e figli, cioè i nostri Padri e Dottori, fossero potentissimi. sapientissimi, ottimi e santissimi. E volle questo, affine di renderli e similissimi a lui, e venerandi e ammirabili a tutte le genti. In primo luogo li armò di potenza. Con essa faceva molte cose del tutto ammirabili e singolari oltre al solito corso ed ordine della natura negli elementi, negli alberi, negli animali bruti e perfino negli uomini. In secondo luogo fornì la loro mente di sapienza. Con ciò videro non solo le cose presenti e passate, ma anche previdero e predissero molto prima le future. In terzo luogo dilatò il cuore con una somma e ardentissima carità. E ciò affinché ed essi si accingessero al lavoro con animo grande, e quelli, che avevano ad essere convertiti da loro, si sentissero mossi non solo dalle parole e dai miracoli ma anche dagli esempi della bontà della vita, Queste tre cose: splendore dei miracoli, lume profetico e bontà di vita sono tre argomenti di quei dodici,  che ci siamo proposti di spiegare. I predicatori e i dottori della nostra legge ne furono ben forniti: mentre ne furono privi tutti gl'inventori di sette e di eresie. Nei passati discorsi abbiamo ragionato della gloria dei miracoli e della luce profetica, cioè della potenza e della sapienza dei dottori della Chiesa. Resta ora a trattare della loro bontà e interezza.

     Sa il mondo tutto, quali furono, quanto pii, quanto giusti, quanto religiosi i predicatori della nostra legge; così quelli, che prima portarono a noi la fede e il Vangelo, come quelli, che poi in ciascun secolo furono suscitati da Dio a confermare o a propagare la medesima fede.

    Mirate dapprima gli Apostoli. Quale cosa più sublime ed eccellente della condotta degli apostoli? Erano uomini divini. Non cercavano nulla in questo mondo, disprezzavano l'oro, fuggivano gli onori, sopportavano tutto, ardevano di carità, osservavano perfettissimamente la legge della natura, avevano pace con tutti, desideravano salvi tutti. Perciò percorrevano tutte le province, tutti i paesi per quanto barbari, tutte le terre, tutti i mari. Pronti alle fatiche, imperterriti nei pericoli, dispostissimi a morire; insomma, vivi e morti, chiari per miracoli. Li portava l'amore di Dio, come se fosse un cocchio di fuoco. Non v'era assolutamente nulla: né la morte, né la vita, né il presente. né il futuro, né i demoni, né gli uomini, che potessero ritrarli dal corso intrapreso di propagare l'onore di Dio e di salvare le anime. Questi sono i nostri Padri, questi i banditori della nostra fede, questi avemmo a maestri e dottori.

    Mirate poi quegli uomini santi, che chiamiamo Padri e Dottori, quei lumi chiarissimi. che Dio volle che splendessero nel firmamento della Chiesa; acciocché per mezzo di essi fossero dissipate le tenebre tutte degli eretici: come per esempio, i santi Ireneo, Cipriano, Ilario, Atanasio, Basilio, i due Gregori, il Crisostomo e Cirillo. Non vi pare, che la loro vita e i loro costumi risplendono quasi in specchi tersissimi, in quei monumenti, che ci hanno lasciato? Giacché «dalla pienezza del cuore parla la bocca» (Mt. 12, 34). Deh quanta umiltà traspare nei libri dei santi Padri, congiunta con una somma erudizione! Quanta purità d'intenzione! Quanta sobrietà! Niente vidi osceno, niente di turpe, niente di maligno, niente di arrogante, niente di superbo. Oh in quanti modi si manifesta nelle loro pagine lo Spirito Santo, che abita in loro! Chi può leggere attentamente S. Cipriano senza ardere subito di amore pel martirio? Chi si sarà dato allo studio diligente di Sant'Agostino, che non abbia imparato una profondissima umiltà? Chi ha avuto per mano con frequenza S. Girolamo, e non cominci ad amare la verginità e il digiuno? Spirano gli scritti dei santi: religione, castità, integrità, carità. E, per servirmi delle parole di Sant'Agostino: «Questi sono dunque i vescovi e i pastori dotti, gravi, santi, zelantissimi difensori della verità, che succhiarono col latte la fede cattolica, e la mangiarono in cibo: e somministrarono il suo latte e il suo cibo ai piccoli e ai grandi» (Aug. lib. 2 contra Iulian), Dopo gli Apostoli la Chiesa santa crebbe con tali piantatori, irrigatori, edificatori, pastori, nutritori.

     Mirate in fine i capi degli anacoreti e degli altri uomini religiosi. Dio li ha donati in diversi tempi alla sua Chiesa, che andava invecchiando, quali tante colonne saldissime: a mo d'esempio, i santi Antonio, Ilarione, i due Macari, Benedetto, Bernardo, Domenico, Francesco. Che più perfetto, che più grave, che più maturo del loro portamento? Erano uomini integerrimi, pazientissimi, congiuntissimi con Dio, disprezzatori della gloria e dei piaceri fino allo stupore e al miracolo. Passavano le notti nella preghiera, si gloriavano della croce e delle fatiche, si nutrivano di digiuni, si rallegravano delle contumelie e dei disprezzi. Quasi carboni infocati e tutti accesi da una immensa fiamma di amor divino, si sentivano portati, anzi rapiti in Dio. Chi ha mai udito di loro o contese, o risse, o clamori, o parole, non dico superbe od oscene o buffonesche, o volgari, ma oziose? Finalmente, come nota Sant'Agostino nel libro delle «costumanze della Chiesa cattolica», tanto era progredita la temperanza e la continenza dei santi cristiani della fede cattolica, che ad alcuni pareva, che si dovessero stringere e ritenere nei confini umani. Così viene giudicato da quelli, ai quali dispiace, che si sia spinta tanto oltre la generosità di quegli uomini.

    Volesse il cielo, che gli eretici, e quelli tra i cristiani Cattolici, che vivono una vita scorretta, si degnassero di leggere la vita dei santi! Certo non molto avremmo da affaticarci nella loro conversione. Assolutamente più parlano e persuadono più le virtù quei semplici racconti, e quei fatti ed esempi dei santi, che non tutte le prediche. So io di alcuni, che avevano udito prediche mille volte, e avevano letto molti libri, e tuttavia erano sempre gli stessi. Pregati poi di leggere qualche volta le vite dei santi, da principio si rifiutarono; ma poi, dopo aver cominciato a leggerle, in brevissimo tempo, tutti si cambiarono e diventarono uomini di grande santità e perfezione. Avete Atanasio, Girolamo,  Sulpizio, Palladio, Teodoreto, Gregorio Romano, Gregorio Turonese Beda, Menefraste, e testè Lippomano e Surio, i quali, o essi stessi scrissero vite di santi, o raccolsero quelle scritte da altri. Da esse prendano il cibo sodo per l'anima quelli, che vogliono profittare nella fede viva e vera. I teologi e i dottori confutano le eresie con argomenti di parole; ma i santi le confutano con gli argomenti dei fatti. Bramerei, che leggeste le vite dei santi. Quelli mostrano in certo modo col dito la via che mena al cielo: questi camminano proprio per essa, e con i loro passi e con le loro orme ce la insegnano con molto maggior facilità e fedeltà.

    Confrontate ora, se non vi dispiace, con uomini tali e sì grandi i predicatori del paganesimo, o gl'inventori delle eresie e delle sette. Quali erano i predicatori del paganesimo? Una turba di poeti, cioè di uomini leggeri, bugiardi, scorretti. Per approvare i vizi più scellerati degli uomini rappresentarono certi dèi coperti di tutti i vizi; e col canto e coi versi fecero arrivare fino a noi i loro furti, i loro adulteri, le loro guerre, liti. Contese, inganni, frodi e menzogne. Sicché, chiunque avesse fatto quelle cose, paresse aver imitato non uomini corrotti, ma dèi celesti!

     Di Maometto, sebbene io avessi da riferire molte cose turpi e orrende: tuttavia, perché quella setta, come abbiamo dimostrato altra volta, non è altro che un mostro, composto di Giudaismo, Arianesimo, Nestorianismo, Manicheismo e di alcune altre eresie; affine di confutarlo, basta ribattere quelle sette.     

    Veniamo agli eretici. Tutti gli eresiarchi, chi non lo sa?, furono ambiziosi, tutti superbi, tutti impuri, tutti scellerati. Come vissero da scostumati, così morirono anche da infelici. Consideriamo il principio, il mezzo e il fine dei principali eresiarchi. Quanto al principio, se vi dimostrerò, che tutti i principali eresiarchi si allontanarono dalla Chiesa, o per ambizione, o per contesa, o per invidia, o in fine per qualche passione privata; sarà molto chiaro, che le loro sette non sono da Dio, ma dal diavolo. Vediamo i primi dieci e più famigerati eresiarchi. Per tutti non c'è tempo.

     Chi fu il prima di tutti gli eretici? Se crediamo ad Egesippo e ad Eusebio, fu Tebulo. Ma questi, come riferisce Eusebio da Egesippo, immaginò un'eresia, e tentò di corrompere la Chiesa, fino a quel tempo vergine, per la ragione, che ebbe una ripulsa nel chiedere il vescovato. Dunque la superbia e l'ambizione diedero il principio alle eresie (Euseb. c. 4. Hist. c. 22).

     Chi fu il secondo? Simon Mago. Ma costui avrebbe voluto comperare a denari l'autorità Pontificia di comunicare lo Spirito Santo. Ciò non gli riuscì, e fabbricò un'eresia.

     Chi fu il terzo? Valentino. Ma Tertulliano, nel libro che scrisse contro l'eresia di questo Valentino, attesta, che egli uscì dalla Chiesa e divenne eresiarca, perché vide, che un altro aveva conseguito il vescovato, che egli stesso ambiva.

     Chi è il quarto? Marcione del Ponto. Ma questi fu escluso dalla comunione della Chiesa; perché s'era offerto a violare l'innocenza di una vergine. Andò a Roma, e non solo domandò l'assoluzione, ma anche ambì una prelatura ecclesiastica. Non l'ottenne. Sdegnato, disse ai preti Romani: «Me ne andrò dunque; e lacererò la vostra chiesa». Da quel tempo cominciò a disseminare la sua eresia tanto pestilenziale e dannosa. Che il fatto sia vero. si può verificare facilmente. parte dalle Prescrizioni di Tertulliano contro gli eretici, parte da Epifanio nella eresia di Marcione.

     E il quinto chi è? Montano. Di lui riferisce Teodoreto nel libro terzo delle «favole degli eretici», che fondò la sua eresia per la sola voglia di ottenere il primo posto.

     Il sesto fu Novaziano. Eusebio, nel libro sesto delle Storie Ecclesiastiche, riferisce da una lettera di S. Cornelio, che Novaziano s'era sentito ardere di un grandissimo desiderio del vescovato Romano. Non lo poté conseguire. Introdusse nella Chiesa un'eresia e insieme lo scisma.

     Anche Ario, che è il settimo, si staccò dalla Chiesa, agitato dagli stimoli dell'invidia. Colse l'occasione a far ciò dall'essere stato preferito a Lui e innalzato al vescovato il sacerdote Alessandro, suo collega.

     Macedonio viene all'ottavo posto. Egli, chi non sa?, inventò una nuova eresia, per vendicarsi dell'ingiuria, d'essere stato dagli stessi Ariani privato del vescovato di Costantinopoli.

     Nestorio. Eccovi il nono. Tutti sanno, con quanta ipocrita finzione ambisse il vescovato di Costantinopoli. Sentite ciò che ne riferisce Teodoreto nel libro quarto delle «Favole degli eretici». Per molti anni e col colore del vestito, e col pallore del volto, e coll'artifizio delle parole manierate, e con ogni finzione di santità, si insinuò nell'animo e nella benevolenza del volgo a quello scopo. 

    Chi sarà il decimo? Martin Lutero, ideatore e padre di tutti gli eretici del nostro tempo. Ma egli nella disputa di Lipsia, gettò fuori questo motto: «Né per Dio ho cominciato, né per Dio cesserò». Occorre altro di più chiaro, più aperto, più luminoso? Ancora, Nella lettera, conosciutissima a quelli di Strabudgo non afferma forse espressamente, che egli aveva eccitato quella scena spaventosa non per amore a Cristo, ma infiammato d'odio contro il Papa? A tutti poi è noto, che concepì da prima quell'odio per ambizione e per avarizia. L'impegno di pubblicare le indulgenze era stato trasferito dal suo monastero, che ne traeva onore e guadagno ai frati Predicatori. Lutero, insofferente di quello smacco e di quella perdita, cominciò a scrivere, insegnare e predicare prima contro le indulgenze, poi contro il Pontefice, in fine contro tutti i dogmi cristiani.

     Questo, rispetto agli inizi delle eresie. Quanto al proseguimento della vita degli eresiarchi, se altri volesse enumerare tutte le scelleraggini di tutti essi, non finirebbe più. Toccherò solo poche cose di alcuni di loro, e facilmente si potrà giudicare del resto. Deh quanta fu la vanteria di tutti gli eresiarchi, e principalmente di Lutero e di Calvino! Simon Mago si vantava Dio. Ne è testimonio S. Ireneo nel libro primo «Contro le eresie». Menandro, scolaro di Simone, asseriva di essere stato mandato quale salvatore del mondo. Lo attesta Eusebio al libro quinto delle storie. Teodoreto testifica, che alcuni dei Carpocraziani si vantavano uguali al Signore Gesù, altri anche maggiori e più potenti. Montano strombazzava di essere lo Spirito Santo Paracleto. N'è testimonio S. Basilio Magno nel libro secondo contro Eunomio. Noeto si faceva Mosè e suo fratello Aronne. Ce ne assicura Epifanio nella eresia del medesimo. Manicheo faceva anche se stesso Spirito Santo, come tempo addietro Montano. Di ciò fa fede Sant'Agostino nel libro delle eresie. Nestorio spacciava, che egli solo aveva capito bene le scritture, e che prima di lui avevano sbagliato tutti i Padri, i Martiri e i Confessori e tutta la Chiesa. Lo sappiamo da Vincenzo Lirinese nel Commonitorio. Dalla Azione prima del settimo concilio si può vedere, come Aria, Discoro ed Eutiche con incredibile superbia, disprezzarono i Padri. E, per venire, ai nostri, forse che si vergognarono di vantarsi apertamente Lutero bocca di Cristo e un terzo Elia, Osiandro un secondo Enoch, Tomaso Muncero un secondo Gedeone, Serveto l'unico profeta del mondo. David Giorgio il vero Messia, ed altri nuovi profeti, apostoli, evangelisti? Non dice Lutero spesso nel libro contro Enrico re d'Inghilterra e altrove: «La divina Maestà sta dalla parte mia; sicché io non mi curo affatto, se stessero contro di me mille Agostini, mille Cipriani. mille chiese Enrichiane? Agostino e Cipriano, come tutti gli eletti poterono sbagliare, ed hanno sbagliato». E novamente: «Io per me pongo contro i detti dei Padri, degli uomini e degli angeli non l'uso antico della Chiesa, ma la parola e il Vangelo della sola eterna Maestà» (Tt. 1, 12). O ventre pigro, cattiva bestia! Come se i Santi Padri, i Santi, Angeli e l'antico uso della Chiesa si opponessero alla parola di Dio e al Vangelo. E tali parole tumide, roboanti, superbe si trovano ad ogni pagina dei suoi libri. Calvino poi, nel libro della Cena del Signore, non confessa egli forse apertamente, che tutti gli antichi hanno chiamato la messa sacrificio? Eppure dice: «Io non l'approvo affatto!». E nelle Istituzioni non dice per ventura: «Questa favola del limbo dei Padri, per liberare i quali si dice che Cristo vi discendesse, sebbene abbia grandi patroni; con tutto ciò non è niente altro che una favola?». E ivi stesso uscì in tanta superbia, da chiamare asino San Girolamo. O uomo sapientissimo, Calvino, che poté veder solo più, che tutti i Padri e tutta insieme la Chiesa: e, in cui confronto, S. Girolamo, che pure è il Dottore Massimo e santissimo, non è altro, che un asino! O singolare amico di Dio, a cui finalmente fu rivelato, che sono favole quelli, che fin qui la chiesa ha tenuto per veri dogmi!

    Ma torniamo un poco a Lutero. C'è un libro di ciò che s'è fatto nella dieta di Worms. Ivi da prima fu istruito il processo di Lutero dall'imperatore Carlo e dagli altri principi di Germania. In quel libro s'innalza Lutero con lodi meravigliose. Il nome di quel potentissimo imperatore si pone quasi sempre nudo; per esempio: «Carlo dice questo, Carlo ha fatto quello». Quando invece si fa menzione di Lutero alcuna volta si scrive: «il dottore Martin Lutero, gentile e cortese com'è, rispose benignamente». Altre volte: «il benignissimo padre benignissimamente rispose». Oh! e chi scrive quel libro? Non altri che Lutero. Non sarebbe credibile. Eppure è così. Hanno finto i poeti un tal Trasone: ma tale realmente ci si è mostrato Lutero. Sebbene il libro sia uscito senza nome dell'autore, è certo che esso è parto di Lutero. Infatti, in quello stesso libro, Lutero, dimentico della persona finta, dice in un luogo di sé: «Dopo questi atti l'amministratore dell'impero mi assalì con parole molto aspre, e, mi disse, che io non avevo risposto nulla a proposito: che io non dovevo rievocare in questione quello, che una volta era stato definito. nei concili ecumenici. Che perciò aspettava da me una risposta chiara e semplice, cioè, se volessi rinunciare agli errori, o no. Allora io risposi così». Che vi pare? Si potrebbe esprimere a parole la superbia di codesti uomini con maggiore arroganza e fasto? Non erano forse tutti pieni di quello spirito, che è «re di tutti i figliuoli della superbia?» (Gb 41, 25). O non vuoti del tutto di Spirito Santo, che «resiste ai superbi, ed agli umili dà la grazia?» (Gc 4, 6), e non riposa fuorché sopra gli umili e i contriti e che temono le parole di Dio? (Is 66, 3).

     Ma che diremo delle maldicenze, delle buffonerie, dei motti pungenti, della disonestà nelle parole? A stento si trova nei loro libri un periodo intiero senza motteggi e insulti. Lutero poi non poteva parlare, se ad ogni due parole non nominasse i porci, gli asini, i diavoli, il concime, gli escrementi. Pareva, che il suo petto, quasi sentina puzzolente, o immondissima latrina, non potesse mandare altro che orribili fetori. Quindi alcuni vennero nella determinazione, che Lutero si dovesse chiamare profeta letamoso. Sì davvero, non tante volte l'apostolo S. Paolo e i nostri santi Padri lasciarono nei loro volumi il nome di Dio e di Gesù Cristo. Quante questi nuovi evangelisti lasciarono nei loro scritti il nome del diavolo. E che meraviglia? «La bocca parla dell'abbondanza del cuore» (Mt. 12). Infatti costoro non erano meno familiari del diavolo e dei suoi angeli, che i santi Padri di Dio e degli spiriti beati. Quanto a Lutero, egli confessa molto ingenuamente, che tra lui e il diavolo era passata grande famigliarità, e che egli aveva mangiato con lui più che un moggio di sale, come dice Cicerone (Cic. De Am. 19), che cioè aveva avuto grande e lunga dimestichezza col demonio, e che da un tale maestro aveva imparato molte cose. Anche Zuinglio non oscuramente, nel libro che intitolò «Supplemento dell'Eucarestia»; ci fa sapere, di essere stato aiutato da uno spirito notturno nel ritrovare argomenti contro i sacramenti: ma che non aveva potuto distinguere se esso fosse nero o bianco. Ma chi potrebbe stare in forse, che fosse nero e infernale e bruttissimo? L'angelo della luce non nasconde la sua chiarezza, e non lascia nell’errore e nella oscurità la mente che egli visita. Anche Calvino, scrivendo a Bucero, dice apertamente, che non era costume del suo ingegno, ma del suo genio, non astenersi mai dalle villanie e dagli insulti.

      Un'altro vizio comune a tutti gli eresiarchi tanto antichi, quanto moderni fu l'essersi sempre studiati di promuovere le loro sette con le frodi, con l'inganni, con le astuzie, coi falsi miracoli, con le aperte menzogne, col falsare le scritture. Sappiamo da Ruffino al libro decimo delle Storie, capo ventuno, che gli Ariani avrebbero voluto, che si abolisse quella parola omusios con la quale si asserisce la divinità e la maestà di Gesù Cristo. Perciò nel concilio di Rimini domandavano ai vescovi latini, che non sapevano il greco, se volessero credere piuttosto in Cristo, o nell'omusios. Quasi che ci fosse tanta differenza tra Cristo e l'omousios, quanta tra Cristo e l'Anticristo. Facevano così per ingannare i vescovi cattolici, come di fatto ne ingannarono. Parimente è conosciutissima, come sappiamo dal medesimo Ruffino nella Apologia in favore di Origene, l'inganno tramato dagli Apollinaristi. Ricevettero costoro una volta in prestito dai cattolici coi quali disputavano, un libro di Sant'Atanasio. Che fecero? Cancellarono tutti i passi che facevano contro di loro. Poi con incredibile scaltrezza li scrissero di nuovo; affinché paresse, che non tanto fossero stati scritti da Sant'Atanasio, quanto sostituiti dai nostri, e che il libro fosse stato corrotto non dagli eretici, ma dai cattolici. Sant'Ambrogio, nel libro «Dallo Spirito Santo», è testimonio degnissimo di fede, che gli Ariani cancellarono dal Vangelo di S. Giovanni le parole «Dio è spirito». Sant'Ireneo nel libro primo: contro Valentino, e Tertulliano nel libro quinto contro Marcione, sono testimoni, che Marcione raschiò via da tutte le Scritture ciò che era contro la sua eresia. Anche S. Cirillo, in ambedue le lettere a Successo. si lamenta, che la lettera di S. Atanasio ad Epitteto sia stata storpiata dai Nestoriani, col togliere alcune cose e sostituirne altre, in maniera tale che non conteneva più altro, che l'eresia Nestoriana. Nel concilio sesto, all'Azione nona, dagli stessi legati del Pontefice furono del tutto convinti gli eretici, di avere, o tolto, o corrotto molti passi dei Santi Padri Atanasio, Ambrogio e Crisostomo. Ma gl'inganni, le furberie, i guasti dei Luterani e dei Calvinisti sono quasi infiniti. Quindi Girolamo Emsero, nella prefazione alle note del Nuovo Testamento di Lutero, ammette, che Martin Lutero ha corrotto non solo tutti i libri, ma quasi tutti i capitoli della Bibbia, e che vi ha mescolato circa millequattrocento errori eretici e menzogne. E, per non andare troppo lontano, nella epistola di oggi, che stiamo per spiegare, tolse via quelle parole: «che stiate lontani dalla fornicazione» (1 Ts. 4, 3). E a ragione davvero. Troppo ripugnavano con quel principio di Lutero: «Se non vuole la moglie, venga la serva». Perciò dovettero essere soppresse. Così nell'epistola di San Giacomo (la quale però egli chiama da strame) le parole «mostrami la tua fede senza le opere», da Lutero furono sconciate così: «mostrami la fede con le opere». Nella lettera ai Romani, dove leggiamo: «Giudichiamo, che l'uomo è giustificato per mezzo della fede» (Rm. 3, 28), egli sconciò così: «Giudichiamo, che l'uomo è giustificato solo per mezzo della fede». Un amico gli domandava, perché avesse aggiunto quella parola solo, rispose con arroganza intollerabile: «Se il tuo papista vuole biasimare questa parola solo, rispondigli subito: Il dottore Martin Lutero vuole che stia così, e dice, che papista ed asino sono una cosa sola. Così voglio, così comando, valga la volontà per ragione. Non vogliamo essere scolari dei papisti, ma maestri e giudici» (Surio pag. 261).

     Poi tutti i settari persuasero i miseri papali, che noi crediamo cose, che non abbiamo mai sognato. Così per esempio dissero. che furono trovate da poco tempo molte cose, come gli ordini minori, l'invocazione dei santi, la venerazione delle immagini. Mentre invece si trovano nei libri degli antichi ad ogni passo. Vollero inoltre propagare la loro fede con miracoli finti, come altra volta: abbiamo dimostrato. Affine di persuadere i loro, che anch'essi hanno un gran numero di santi, di martiri e di confessori; non solo Foxo, ma anche altri composero martirologi, e li empirono di ogni sorta di impostori. Certamente Foxo mise nel novero dei santi martiri un tale - di nome Guglielmo Cubrisio. Ma, se il volgo degli eretici sapesse, chi fu quel Cubrisio, sono certissimo, che straccerebbe all’istante tutto il martirologio. Colui, come si può vedere dalla sua stessa confessione, fu bruciato vivo, perché sosteneva, che Cristo non era venuto quale Redentore del mondo, ma quale ingannatore del mondo, e che il nome di Cristo era sconcio, e che egli lo aveva fatto scomparire, dovunque l'avesse trovato nei libri, e che tutti quelli, che avessero creduto in Cristo, erano condannati all'inferno; che in fine egli non avrebbe mai confessato il nome di Cristo. Eccovi quale demonio, da onorare per santo martire, ha colui proposto, e con quali perfidie gli altri ingannano i popoli. Di grazia, si potrebbe scusare in qualche modo codesta perfidia? Ancorché fosse vera la dottrina degli eretici, avrebbero dovuto confermarla con finti prodigi, con aperte menzogne. con scritture falsate? Non è meglio mille volte essere muti, che mentire una sola volta? Non avranno certo trovata mai una cosa tale nei libri dei cattolici. E se questa non è opera del diavolo, quale sarà mai?

    Veniamo all'ultima parte del discorso. Fu forse mai la morte degli eretici diversa dalla loro  vita? In nessun modo. Altra volta abbiamo discorso della orrenda morte di Simone, di Manicheo e di Ario. Martin Lutero come visse da Epicureo, così anche morì da Epicureo. Una notte, dopo avere cenato ottimamente, com'era sempre solito, e dopo aver fatto ridere tutti i commensali con fiabe e facezie, rese l'anima al diavolo in un letto soffice è prezioso, come un dì quel ricco epulone, e dopo poche ore, colla bocca storta. Quale mai dei santi è morto così? Calvino spirò roso dai vermi, come già Antioco ed Erode. Così riferirono e ne scrissero persone degnissime di fede. Zuinglio rimase miseramente trucidato nella  guerra, che i cattolici Svizzeri fecero felicemente per la fede contro gli eretici Svizzeri. Ecolampadio, udita la morte di Zuinglio, dopo tre giorni morì repentinamente. Quanto a Carlostadio, gli ecclesiastici di Basilea, nella lettera che pubblicarono intorno alla morte di lui, vogliono, che sia stato ucciso dal diavolo. Eccovi, quali predicatori ha avuto sempre la Chiesa e quali gli eretici. Fra questi vi è tanta differenza, quanta fra il giorno e la notte, tra la luce e le tenebre, tra Dio e il diavolo, tra Cristo e Belial, tra il bene e il male, tra il vero e il falso, tra l'oro e il carbone.

 

Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:44

CONFRONTO DEGLI ERETICI ANTICHI E NUOVI QUANTO ALLA FEDE

 

 

    Abbiamo da ribattere molti e molto vari errori di diversi eretici del nostro tempo. Parmi di avere a riuscir bene nell'intento, se mi servirò dello stratagemma, di cui si servì a suo tempo per sconfiggere gli eretici, il cristianissimo e potentissimo imperatore Teodosio il vecchio, per ciò stesso potentissimo, perché cristianissimo. Socrate lasciò ricordo del fatto nel libro quinto delle Storie. Vide quel zelante imperatore, che le Chiese d'Oriente si trovavano divise in innumerevoli sette ed eresie per causa di Ario, di Eunomio e di Macedonio. Che fece? fa chiamare a sé i sostenitori di ciascuna setta. Domanda loro, se sono disposti ad udire e seguire quei dottori, dei quali si era certi, che, prima che fosse sorta l'eresia Ariana, erano stati cattolici ed ortodossi, ed avevano molto bene governato la Chiesa di Dio. Bella! in quante angustie non mise l'Imperatore quella turba di eretici con quella sola domanda! La consapevolezza delle novità profane non li lasciava accettare i giudizi proposti dall'imperatore: né al contrario potevano per alcuna giusta od apparente ragione non accettare il loro giudizio. In modo simile ci porteremo noi con gli eretici del nostro tempo oggi e nel seguente discorso, Confronteremo la fede e i costumi, così dei cattolici, come degli eretici recenti, con la fede e con i costumi dei cattolici e degli eretici antichi. La fede ed i costumi della Chiesa antica e degli eretici antichi - credo, che ve ne ricorderete - sono due argomenti, Quasi gli ultimi, di quei dodici, che ci siamo impegnati di spiegarvi nei discorsi di quest'anno. Ora se potremo dimostrare, che la fede e la religione, la vita e i costumi dei Luterani, dei Zuingliani, degli Anabattisti, dei Calvinisti sono non simili, ma in tutto gli stessi con la fede e con la religione, con la vita e con i costumi degli antichi empissimi e mille volte condannati eretici; allora finalmente domanderemo, che, come a voti unanimi esecriamo, anatematizziamo, condanniamo agli eterni tormenti tutti quegli eretici; così voi giudichiate degno dello stesso anatema e supplizio questi nuovi eretici che hanno professato e tenuto la stessa fede, la stessa religione e gli stessi costumi. Al contrario domanderemo che giudichiate, doversi ritenere e conservare, come retta e santa la fede e la religione della Chiesa cattolica, che dai santi Padri fu tenuta un dì e venerata: Padri, che abbracciamo e veneriamo tutti, come veramente pii ed ortodossi, tanto noi cattolici quanto gli eretici.

    Diciamo prima della fede, poi diremo dei costumi. Lutero al nostro tempo insegnò e volle che fosse come un fondamento della sua dottrina, che la fede, senza le opere, è sufficiente per la salvezza eterna. Inoltre, che l'uomo cristiano è tanto ricco, che, anche volendo, non può perdere la sua salvezza, per quanto grandi peccati commetta, salvo che se· non volesse credere. Gli pseudo-apostoli e gli Eunomiani insegnarono già allora tempo lo stesso. Sant'Agostino parla così dei falsi apostoli nel libro «della fede e delle opere» al capo quattordici, «Bisogna scuotere dai cuori religiosi il pensiero, che per salvarsi basti la sola fede, trascurando frattanto di viver bene e di tener la via di Dio con le buone opere. Anche al tempo degli Apostoli, certuni non capirono alcuni punti oscuri dell'apostolo Paolo, e cedettero, che egli dicesse questo». E un poco più giù aggiunge. «Appunto, perché allora era sorta questa opinione, altre lettere degli apostoli Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda hanno per iscopo di combattere una tale opinione, e fortemente sostengono, che non giova nulla la fede senza le opere. E così anche S. Paolo stesso si spiegò che, non qualsivoglia fede, con la quale crediamo in Dio, è salutare e veramente evangelica, ma (solo) quella, le cui opere procedono della carità». Così parla Sant'Agostino e Santo Ireneo, nel libro primo contro Valentino, capo venti, attesta che questa stessa eresia fu anche di Simon Mago.

     Sant'Epifanio al principio del libro terzo contro le eresie, e Sant'Agostino al capo 55 delle eresie, ci fanno sapere, che Eunomio, lebbroso d'anima e di corpo, e quasi il più scellerato di tutti gli eretici, fu così nemico delle buone opere, che diceva, bastare la sola fede: ma che le opere tanto non sono necessarie; che l’andare a donne e gli altri peccati non nuocciono punto, purché l'uomo creda. Come si vede ciò è lo stesso di quello che dice Lutero, che «non può l'uomo perdere la sua salvezza, per quanto grandi peccati egli commetta, salvo che se non volesse credere». Dunque i Luterani non possono negare (se pure non avessero perduto il pudore) d'essere prole dei pseudo-profeti, e insieme discepoli di Simone e di Eunomio, i quali furono condannati dagli stessi Apostoli

     Inoltre Lutero e Calvino e quasi tutti i settari insegnano, che l'uomo non ha libero arbitrio, e che tutte le cose accadono per assoluta necessità. E questo è un secondo fondamento della nuova dottrina. Nel passato proprio questo fu insegnato prima dai Simoniani, e ce ne fa fede S. Clemente nel lib. 3° delle Ricognizioni: poi dai Manichei, di che ci assicura S. Girolamo nella prefazione al suo dialogo contro i Pelagiani. 

     Viclefo, Lutero. Melantone, Calvino e gli altri insegnano, che Dio veramente e propriamente, non col permettere, ma coll'operare,è causa di tutti i peccati. A suo tempo insegnò questo Simon Mago come ci fa sapere Vincenzo nel Commonitorio: poscia lo insegnò anche Florino, come ce ne fa certi Eusebio nel lib. 5° delle storie al cap. 20. I Libertini e Serveto nelLa Francia - e lo attesta Calvino stesso - negano, che ci sarà la risurrezione dei corpi. Ma questa è eresia antichissima, ripresa da S. Paolo apostolo in Imeneo e FIlato, e da Epifanio in Simon Mago e Menandro. I Sacramentarii insegnano, che la santissima Eucarestia non è la vera carne di Cristo. Insegnarono questo stesso, con le stesse parole, al principio della Chiesa, alcuni uomini scellerati. Te li riprende Sant'Ignazio. discepolo di San Giovanni apostolo: e ce ne fa testimonianza Teodoreto nel dialogo 3. intitolato «impatibile». Alcuni degli Anabattisti vanno insegnando, che Gesù Cristo è solo uomo e non anche Dio: e che egli non esistette, prima che nascesse dalla Vergine. Ebbene nulla di nuovo. Insegnarono così gli Ebionisti. Paolo di Samosata e Fotino. Ancora: gli Anabattisti insegnano, che Gesù Cristo non ha tolto nulla dalla Santissima, Vergine Maria: ma che ebbe un corpo o celeste, o dagli elementi, e che passò attraverso alla Vergine, come per una fessurina o per un tubo.

     Or che altro è questo, se non riaccendere i furori estinti, e rinnovare gli orrendi deliri degli empi dottori, Valentino ed Apelle, affine di abolire intieramente la verità del Verbo di Dio e la cristiana religione? Tertulliano nel libro «delle Prescrizioni» degli eretici, è testimonio di tali aberrazioni. E non crediate già, che questo pazzo furore degli Anabattisti sia sopito. Tutt’altro. Non è un anno, che fu permessa di disputare in pubblico intorno a questa questione, cioè «se Gesù Cristo abbia assunto la sostanza della sua carne da Maria Vergine, o altronde». Ecco a che siamo ridotti da codesti innovatori, che oramai fra i cristiani si metta pubblicamente in questione, se Gesù benedetto sia uomo e figlio di Maria! Ma andiamo innanzi a vedere il resto. I settari oggi tolgono di mezzo la penitenza e la confessione. Fecero il medesimo, tempo addietro; i Montanisti e i Novaziani. Ne siamo assicurati da S. Girolamo in una lettera a S. Marcella intorno agli errori di Montano, e da Teodoreto al libro terzo «delle favole degli eretici». Michele Serveto, che fu fatto morire dal suo condiscepolo Calvino, negò apertamente da empio la sacrosanta Trinità. In cielo gli spiriti sublimi dei Serafini vanno confessando giorno e notte, che essa è tre volte adorabile. E quest'uomo impuro e pieno dello spirito di bestemmia osa chiamare la SS. Trinità non solo un mostro di tre teste e un cotal cerbero tripartito, ma anche un'illusione di Satana, e dii immaginari, e tre spiriti di demonii, e un mostro di Gerione. Ecco perché oggi esistono nella Transilvania dei ministri, che chiamano Trinitarii e sofisti Sant'Agostino e gli altri antichi, che pongono in Dio tre vere e sussistenti Persone. Or chi non vede, che questa è la stessa stessissima eresia di Noeto e di Sabellio, che la Chiesa ha sempre avuto in orrore? E che fu condannata da S. Basilio, da Sant'Agostino, da tutti i Padri e da tutti i concili?

    Inoltre Lutero e Calvino non vogliono, che sia necessario il battesimo di acqua. Ma non bestemmiavano ed insegnavano la stessa cosa con le stesse parole i Manichei? Di questi Teodoreto, nel lib. 1° «delle favole degli eretici», riferisce, che essi avevano per consuetudine di servirsi a meraviglia dei prestigi, e che tenevano certi misteri ed orge scellerate, con cui facevano uscire di senno i loro uditori, e li davano in possesso di Satana, in modo, che assolutamente a stento e difficilmente si riusciva a convertirli. Chi potrebbe dubitare, che tutte queste cose convengono altrettanto ai nostri Anabattisti, quanto ai Manichei? Infatti tutti sanno, che gli Anabattisti hanno i loro segreti, le loro orge; i loro incantesimi; ed essi si consegnano ai demoni in tal maniera, e sono tanto posseduti da loro, che sono i più ostinati di tutti gli eretici, benché non ci sia stata mai una setta più turpe, né più assurda. 

     Ma andiamo innanzi. Lutero insegnò, che anche i fanciulli e le donne sono sacerdoti. La sinagoga Anglicana poi insegna, che non solo una donna, ma una donna bastarda ed eretica è capo supremo della chiesa anglicana. Il medesimo tale e quale insegnarono già i Pepusiti. Ce ne rendono testimonianza Sant'Epifanio e Sant'Agostino nel catalogo degli eretici. I settari insegnano oggi, che non si hanno da offrire i suffragi per i morti, e che non sono da osservare i digiuni stabiliti dalla Chiesa. Insegnarono proprio lo stesso gli Ariani mille anni fa. Ma per questo furono ritenuti quali eretici della Chiesa; e Sant'Epifanio e Sant'Agostino li hanno messi nel catalogo degli eretici. Lutero insegnò, che la verginità non è da più del matrimonio: che i peccati sono eguali, che tutti sono egualmente santi, e che i digiuni non giovano niente. E così insegnò anticamente Gioviniano, stoico ed epicureo ad un tempo. San Girolamo lo confutò, con due assennatissimi libri. I Luterani, i Zuingliani, i Calvinisti, tutti i settari insieme fremono contro i santi e contro le loro reliquie, e vogliono, che né s'invochino come intercessori ed avvocati presso Dio e neanche si onorino. E Vigilanzio fu quello che volle già la stessa cosa con simile follia. San Girolamo, acerrimo difensore della verità, rigettò e mandò in frantumi la sua audacia col libro, che scrisse contro di lui, con tanta dottrina ed eloquenza, I Centuriotori Magdeburgesi. seconda la loro divozione a Dio e ai Santi, con incredibile metamorfosi, non si peritano di anteporre Vigilanzio, o diremmo meglio il briaco dei sonnecchianti, a San Girolamo. E pretenderebbero, che non tanto sembrasse Vigilanzio confutata da S. Girolamo, quanto S. Girolamo corretto da Vigilanzio. E tuttavia salta loro la mosca al naso, se li chiamiamo innovatori. Che cosa è innovare e capovolgere il mondo, se non è questo? Chi ha mai udito in questi mille anni, non che Vigilanzio fu eretico e S. Girolamo cattolico: ma S. Girolamo eretico e Vigilanzio cattolico? Con questa legge dovremmo fare S. Leone Magno eretico ed Eutiche cattolico, S. Cirillo eretico e Nestorio cattolico. Sant'Agostino eretico e Pelagio cattolico, S. Basilio eretico ed Eunomio cattolico, Sant'Atanasio eretico ed Ario cattolico, Sant'Ireneo eretico e Valentino cattolico. S. Cipriano eretico e Novaziano cattolico, e, alle corte! S. Pietro eretico e Simon Mago cattolico!

     Ma torniamo al filo del discorso. Zuinglio, Bucero, Calvino e certi altri sostengono, che i figli dei cristiani nascono senza peccato ed eredi del regno (eterno). Aggiungono, che l'uomo può con le sole sue forze della natura guadagnarsi la beatitudine eterna; Zuinglio poi pensa, che se la guadagnò Catone e Scipione, Ma oh! non è questa l'eresia Pelagiana, che Sant'Agostino annienta in quasi tutto il settimo tomo delle sue opere? Lutero, nell'esporre la lettera agli Ebrei, asserisce, che Cristo non è un uomo onnipotente. Ne segue, che Gesù Cristo Salvatore nostro non è uomo-Dio, e che in Cristo ci sono due persone. Di qui oggi non mancano di quelli, che dicono che Maria Santissima non è Madre di Dio. Or questa è tale e quale l'eresia Nestoriana. Tutta la Chiesa la condannò nel primo concilio di Efeso. Molti dei Luterani insegnano, che non c'è il corpo del Signore nell'Eucarestia fuori del riceverla e del servirsene. E non insegnarono un tempo il medesimo due individui, di cui San Cirillo, in una lettera a Colosirio, dice che sono mentecatti? Lutero, nel libro dei concili, insegna, che la divinità di Cristo ha patito: e Serveto è Svencfeld, e certe altre teste ancor più balzane confondono la natura umana e divina di Cristo. Questa, è chiaro, è l'eresia di Eutiche, che fu condannata dal concilio di Calcedonia, il più grande ed illustre di tutti. I Calvinisti infieriscono con gran furore contro le immagini dei santi: e vorrebbero veder tolta del tutto ogni memoria della croce di Cristo e della nostra Redenzione. Ma questo è quello stesso pazzo furore, che 800 anni fa si spargeva in Oriente, e contro il quale si radunò il numerosissimo e santissimo concilio secondo di Nicea.

     Che diremo ormai della peste Ariana? L'abbiamo voluta riservare per ultima, come la più grave e perniciosa di tutte. Certo fu eresia principale di Ario, il più pestilenziale di tutti gli eretici, che il Figlio di Dio non è omousio al Padre, cioè che non è della stessa natura ed essenza del Padre. Contro di lui si tenne il primo e più antico concilia di Nicea. Testimoni ne sono: i Santi Agostino ed Epifanio e quasi tutti i Padri. Non c'è quasi nessuno degli antichi, che non abbia confutato questa eresia. Facilissimamente, si può far vedere, che questa eresia, la quale rovescia tutta la religione cristiana, piacque a Lutero, a Calvino e ai loro discepoli. Primo viene Lutero. Scrive egli contro Giacomo Latomo, persona eruditissima, e dice: (3) «L'anima mia odia questa parola omousio». Deh! di che parere sarebbe Ario e che altro direbbe, se venisse qua redivivo dall'inferno? Tutti quei fatti tragici deturparono e desolarono miseramente e in gran maniera la Chiesa, e furono eccitati, perché? per causa di questa sola parola omousio. Perciò i Padri cattolici altro non avevano di mira nei loro libri e nei concili, fuorché di assodare questo principio, che insegna, essere Gesù Cristo omousio al Padre, cioè Dio vero, eguale e consustanziale al Padre. Al rovescio gli eretici osarono tutti gli organi in dieci conciliaboli, con la mira di non ottener altro, che l'abolizione di questa parola. E fecero di tutto per toglierla non solo dal Simbolo e dai concili, ma perfino dai dizionari. Quindi anche chiamavano per ischerno i cattolici col nomignolo di Omousiani.

     Ma udite inaudita empietà, calunnia e menzogna perniciosissima del medesimo Lutero. In quello stesso libro contro il Latomo, non contento di aver detto: «L'anima mia odia questa parola omousio», aggiunge pure, che anche S. Girolamo non volle accettare una tal parola; perché credeva, che nelle sillabe di essa parola stesse nascosto non so che di veleno. Che fare dunque di questa razza di gente, che non sa difendere la sua causa altro, che con le menzogne? S. Girolamo in quello stesso passo, addotto da Lutero, e che si trova nella lettera a S. Damaso intorno alla ipostasi, spesso ammette, abbraccia, loda chiaramente la omousio Trinità. Crede poi, che ci stia nascosto alcunché di veleno nelle sillabe, non già della parola omousio, ma della parola ipostasi. Ecco come parla il santo: «Ahi dolore! Dopo la fede di Nicea, dopo il decreto di Alessandria, a cui va unito del pari l'Occidente, un presule degli Ariani e i Campesi esigono da me, Romano, un nome nuovo per le tre ipostasi. Di grazia, quali Apostoli hanno tratta fuori tali cose? Quale nuovo Paolo, maestro delle genti, ha insegnato questo? Suvvia, interroghiamolo, che cosa crede egli, che si possa intendere per tre ipostasi. Dicono: tre persone. Rispondiamo: siamo noi, che crediamo così. Non basta il senso, Domandano con insistenza: proprio un nome; perché nelle sillabe sta nascosto non so che di veleno». Ecco avete udito, dove dice San Girolamo, che sta nascosto il veleno, si pensi! nel nome ipostasi. che è ambiguo, perché può significare e sostanza e persona. Gli Ariani desideravano, che le tre persone si dicessero tre ipostasi, affinché si credessero in Dio tre sostanze, e perciò si togliesse l'omousio. Invece è tanto lungi, che a S. Girolamo dispiacesse la parola omousio, che anzi per il solo timore, che quella parola ci fosse tolta dagli Ariani; paventò dire tre ipostasi le tre persone. Ditemi in fede vostra, signori miei: che scelleraggine è questa; con una menzogna fare ariano San Girolamo, martello degli eretici, e ad un tempo con quella calunnia ingannare l'anima dei semplici? Che dire, mentre a Lutero dispiacque non solo la parola omousio, ma anche il nome Trinità? Ciò egli apertamente confessa col togliere dalle litanie dei Tedeschi quella bellissima ed antichissima formola di preghiera «Sancta Trinitas unus Deus miserere nobis».

     Ma veniamo a Calvino. Cosa che non è priva di grande sospetto, egli, quando scrive intorno alla Genesi e a S. Giovanni, devia altrove, ad altro senso, le testimonianze, che non poco fanno chiaramente intendere la Santissima Trinità e la divinità di Cristo. Pietro Carlo, che intervenne al sinodo di Losanna, scrisse al cardinale Lotaringo: che Calvino non volle mai confessare, che Gesù Cristo è Dio da Dio e dalla sostanza del Padre: ma chiamò assurda e ridicola ripetizione quelle bellissime e significantissime parole del Simbolo «Dio da Dio, Lume da Lume, Dio vero da Dio vero», Non  approvò il nome Trinità, perché non usato da Cicerone! non ammise il Simbolo di Nicea, pubblicato contro gli Ariani mille ducent'anni avanti. Al Simbolo di Sant'Atanasio. disse, che né ci credeva, né discredeva, finché non l'avesse esaminato alla stregua delle Scritture. Ditemi: che fecero, o che dissero di più gli Ariani? Ma, quando non ci fosse nulla di tutto questo; in che modo potranno scusare Calvino della empietà Ariana; mentre egli con termini chiari e precisi vorrebbe, che quelle parole di S. Paolo: «Allora anche lo stesso Figlio sarà soggetto a lui, che gli ha assoggettata ogni cosa» (I Cor 15, 28), si debbono riferire ad ambedue le nature di Cristo? Se Calvino insegna, che Gesù Cristo dovrà essere assoggettato al Padre secondo l'una e l'altra natura, la divina e l'umana; come non insegna anche che la divinità di Cristo è diversa dalla divinità del Padre, e che perciò Dio Figlio è minore di Dio Padre, il che poi è l'identicissima eresia Ariana?

    Vedete dunque, dove tendono codesti novatori. Cominciarono, dalle indulgenze, e a poco a poco arrivano a toglierci la Trinità, l'Incarnazione, tutti i misteri, tutti i sacramenti, a fare Ariano il mondo e ad estinguere affatto la Religione di Cristo. Da queste sorgenti sono zampillati quelli, che ora predicano ai quattro venti, che l'unico e solo Dio è il Padre e che Cristo Figlio di Dio è minore del Padre: e perciò il Simbolo di Sant'Atanasio lo chiamano per ischerno Simbolo Satanasio. Orbene, non vi pare, che l'Arianesimo conduce dritto al paganesimo, quale già udiamo dire, che è stato suscitato nella Polonia? Ivi non mancano di quelli, che insegnano, esserci tre onnipotenti, tre eterni, tre essenze, tre dii. E dal paganesimo non si arriverà all'ateismo? Questo il bersaglio, questo il fine, questa l'intenzione di Satana: far diventare e finalmente atei i cristiani. Lutero ci è testimonio, che fu tale Carlostadio, il quale è poi il padre di tutti i sacramentari di questo tempo. E Lutero asserì con serietà, che Carlostadio fu ateo a tal segno, da credere, che non c'è Dio, né in cielo, né in terra. E la Germania e la Francia ancora non capiscono, miseramente sedotte, da quale spirito siano menati gli stolti ed empi pseudoprofeti, che le hanno ingannate. E se costoro non fossero stolti ed empi, non così alla cieca darebbero addosso ai primi e principali articoli della fede, nei quali si contiene in compendio la nostra eterna salvezza: e non ci tirerebbero fuori dallo spirito di Satana quei dommi profani, che un dì i bestemmiatori eresiarchi, condannati tante volte dal giudizio di tutto il mondo, sacrilegamente fabbricarono, per distruggere le basi della religione e i primi fondamenti della dottrina cristiana.

     Chi non crederebbe, che in questo tempo Satana sia stato sciolto da tutti i legami; dato che infuria contro il Signore e contro il suo Cristo con guerra così aperta, e con tanta successo di cose, e si burla di Dio immortale e beffeggia tutta la Chiesa, per mezzo dei suoi satelliti e ministri? Ora rinnova egli tutte insieme le eresie, che altre volte in diversi tempi sollevò. Ciò fa, affinché quanto meno tempo vede, che gli sopravanza nel suo regno, con tanto maggior ardore si lancia con tutto se stesso a questo solo scopo, cioè di lavorare bravamente nei suoi figli e veramente precursori dell'Anticristo, quello che San Paolo chiama «mistero d'iniquità» (2 Ts. 2, 7). Ma finiamo. Se non mi inganno, credo, che ormai capite, che la fede degli eretici antichi e dei moderni è assolutamente la stessa: appunto perché tutti ebbero per padre il medesimo spirito di seduzione e di menzogna. Perciò dobbiamo noi esecrare Lutero, Zuinglio, Calvino e le altre pesti per la stessa ragione, per la quale esecriamo Simone, Manicheo, Ario e gli altri eretici mostruosi.

 

Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:48

COSTUMI DEGLI ERETICI ANTICHI E MODERNI

 

 

     La sapienza e la giustizia, la fede ed i costumi, fin dalla venuta del Salvatore, distinsero i cattolici da tutte le sette. Queste stesse due cose sono quelle che principalmente separano i medesimi oggi nella Chiesa. Sempre ottimi uditori, la sapienza della Chiesa cattolica ebbe a combattere con la ignoranza degli eretici: sempre la verità con gli errori, la fede con la infedeltà: sempre la bontà, l'integrità, l'innocenza, il pudore, l'umiltà, la gravità della Chiesa venne in urto con le scelleratezze, con le corruttele, con le infamie, con la sfacciataggine, con l'arroganza, con la leggerezza degli eretici. Quanto alla fede, o piuttosto perfidia degli eretici antichi, l'abbiamo confrontata nel discorso precedente con le varie opinioni ed eresie, che in questo nostro calamitosissimo tempo si vanno spargendo per l'Europa. E, se non mi sbaglio, abbiamo messo in evidenza sufficientemente, che i settari non insegnano al presente niente, che la Chiesa, a giudizio di tutto il mondo, non abbia condannato mille anni fa nei loro primi ideatori, cioè in quegli eresiarchi bestemmiatori, i cui nomi appena sussistono oggi. In questo giorno, come abbiamo promesso, metteremo di fronte i costumi degli eretici antichi con i costumi degli eretici moderni. Così si paleserà per ogni parte la somiglianza: e nessuno potrà stare in forse, che questi nuovi eretici sono figliolanza del medesimo Satana, di cui furono figli già quegli antichi.

     Cominciamo da questi. Nulla ebbero di più comune gli eretici antichi, dell'odiare e perseguitare la Chiesa Romana e la fede Apostolica. E non fa meraviglia. Anche i ladri odiano il pretore e i giudici. Inoltre sa bene il demonio, dove sta il fondamento della Chiesa, dove è la rocca della religione, dalla quale derivano le fontane dell'acqua della sapienza celeste. Questa è la ragione, per la quale là diresse sempre esso le sue schiere, le sue armi, le sue macchine guerresche. Potremmo addurre molte testimonianze, se la brevità del tempo ce lo consentisse, e il caso lo richiedesse. Non posso, né voglio indugiarmi troppo. Mi accontenterò nel ragionare di ciascun punto, di servirmi di alcuni pochi testimoni, ma conosciuti a prova. Si faccia avanti il beatissimo e dottissimo Santo Agostino. Questi, nel libro secondo contro una lettera di Petiliani al capo quinto, parla così all'eretico Donatista: «Che cosa ti ha fatto la cattedra della Chiesa Romana, sulla quale sedé Pietro, e oggi siede Anastasio? Perché chiami cattedra di pestilenza la cattedra Apostolica? Forse a cagione degli uomini, dei quali pensi, che hanno sempre in bocca la legge, ma non la mettono in pratica: o forse che il Signore Gesù, a cagione dei Farisei, dei quali disse: "Dicono e non fanno" (Mt. 23 3), fece qualche torto alla cattedra, su cui sedevano? O non piuttosto raccomandò la cattedra di Mosè, e riprese essi, pur conservando l'onore della cattedra? Disse infatti: Siedono sulla cattedra di Mosè; fate quello che dicono: ma non vogliate fare quello che fanno essi; poiché dicono e non fanno. Se rifletteste a queste cose, non bestemmiereste la cattedra apostolica, con la quale non comunicate, per causa degli uomini; che voi infamate». A Sant'Agostino possiamo unire Sant'Ottato Milevitano, che nel libro contro Parmeniano, ci fa sapere con le seguenti parole: che i Donatisti erano nemici della cattedra Apostolica: «Leggiamo, che Pietro, nostro, sissignori, ricevette le chiavi salutari. Qual è dunque la ragione, che voi, Donatisti, vi sforzate di usurpare per voi le chiavi: mentre con le vostre audaci pretensioni militate sacrilegamente contro la cattedra di Pietro?». Sant'Ambrogio, nel discorso funebre per suo fratello Satiro. dice, parlando di lui: «Chiamò a sé un vescovo: ma gli domandò con istanza, se andasse d'accordo coi vescovi cattolici, e intendeva, con la Chiesa Romana; perché non credeva genuina altra grazia da quella infuori della vera fede». Dunque per Sant'Ambrogio erano vescovi cattolici quelli, che erano d'accordo con la Chiesa Romana: eretici quelli, che avevano un altro sentire. A questi tre aggiungiamo un Quarto testimonio: Girolamo gran santo. Di lui è quel famoso detto, conosciuto da tutti: «Chi sta unito con la cattedra di Pietro, è mio». Egli dunque, scrivendo il discorso funebre di Santa Marcella, parla di Sant'Atanasio e di S. Pietro suo successore. Afferma, che quei due tanto santi e tanto dotti patriarchi fuggirono l'eresia Ariana, e si recarono alla Chiesa Romana, come a sicurissimo porto della loro comunione. Da ciò facilmente intendiamo, quanto in quel tempo la Chiesa Romana e l'eresia Ariana erano in contraddizione, dal momento che i più fieri nemici degli Ariani si rifugiarono alla Chiesa Romana, come ad un accampamento opposto, o, seconda che parla S. Girolamo, come ad un tranquillissimo e sicurissimo porto.

     Or bene non c'è nessuno. che non veda, come gli eretici del nostro tempo perseguitino la Chiesa Romana con eguale odio ed anche maggiore. Berengario, primo padre dei Sacramentari, oltraggia la Chiesa Romana con vera contumelia, quando dice di Leone nono, tanto santo e venerando, e specchia della Chiesa di Dio, che «non era sommo PontefIce, ma pompefice e polpefice». Sono parole di Guilmundo, che fiorì e scrisse in quel tempo. Ora i Luterani e i Calvinisti e gli altri settari, verissimi eredi degli Ariani e dei Donatisti, non per altro motivo s'indussero a chiamarci papisti, se non perché noi stiamo attaccati alla sede apostolica con Sant'Atanasio, con Sant'Ambrogio, con S. Girolamo, con Sant'Agostino, con Sant'Ottato e con gli altri Santi Padri.

     Ma sapete, che cosa fanno tutti gli eretici con questo loro odio contro la Chiesa Romana? Nient'altro che farci intendere, quasi per un contrassegno certissimo, che proprio la Chiesa Romana è la vera Chiesa del vero Dio. Così infatti Sant'Agostino fece notare sapientemente nel libro primo del simbolo ai Catecumeni: «E' senza dubbio la vera Chiesa quella, che combatte contro tutti gli eretici. e che è assalita da tutte le eresie: ma non ne è espugnata. Essa è fondata sopra una pietra salda; non cade mai: le porte dell'inferno non passano prevalere contro di lei». Di più questo stesso rabbioso furore di tutti gli eretici contro di lei sola ci fa vedere, che questo contrassegno conviene ottimamente alla Chiesa Romana. Scorrete gli indici degli eretici, tanto antichi, quanto recenti: leggete un po’ bene le storie e i concili, e con evidente chiarezza vi persuaderete, che non sorse mai eresia, che dalla comunione della Chiesa Romana non si sia separata, e che non sia stata condannata dai Romani pontefici, o da 1oro stessi, o dai concili, ai quali presiedettero, o in persona o per mezzo dei loro legati.

    La Chiesa Romana, quasi saldissimo scoglio emerge sempre nel vastissimo oceano di questo mondo, e contro di essa cozzano e s'infrangono in ogni secolo i gonfi e spumeggianti flutti delle varie eresie, spinti dallo spirito di Satana. Cozza contro di lei l'eresia Simoniana, flutto immenso certo e orribilmente mugghiante: ma al primo cozzo si infrange. Cozza l'eresia Ariana: ma cozza e s'infrange. Cozza l'eresia Nestoriana: ma cozza e s'infrange. Cozza l'eresia Eutichiana, l'eresia Pelagiana e le altre eresie: ma tutte finalmente con gran fragore cozzano e s'infrangono al medesimo scoglio.

    Ond'è che quanto più fremono gli eretici contro questa Chiesa, tanto più gridano ai savi intelligenti che è essa la vera Chiesa, e insieme ci spingono maggiormente e ci costringono di andare ad essa, sì da dire con Sant'Agostino: «Esiteremo noi di nasconderci nel grembo della Chiesa? Essa ha ottenuto dalla sede apostolica per mezzo della successione dei vescovi il colmo della maestà. Ciò confessa perfino il genere umano. Senza pro le abbaiano intorno gli eretici». Ma veniamo oramai ad altri costumi degli eretici.

    Fu comune a tutti gli eretici l'appellarsi dalle Tradizioni, dai Concili, dai Padri alle Scritture: e quindi il voler ammettere solo la parola di Dio scritta. Così fecero Valentino e Marcione, eretici antichissimi secondo la testimonianza di Santo Ireneo nel libro terzo contro le eresie, e di Tertulliano nel libro delle Prescrizioni degli eretici. Così Ario ed Aerio, come attesta Sant'Epifanio nelle eresie di loro due. Così Nestorio, Eutiche, Dioscoro e gli Iconomachi. Ne abbiamo la testimonianza di Basilio di Ancira, il cui discorso è inserito per iscritto nel settimo concilio generale. Ma udiamo le parole stesse di uno dei primi satrapi degli Ariani. Quando le avremo udite, ci parrà di aver udito non tanto quell'Ariano antico, quanto qualche nuovo Luterano. Sant'Agostino dunque, nel libro primo contro Massimino, introduce a parlare e a gettare il fondamento della sua dottrina Massimino stesso, vescovo degli Ariani. «Massimino dice: Se metterai fuori qualche cosa dalle Scritture, che è comune a tutti, è necessario che ascoltiamo. Ma queste voci, che sono fuori delle Scritture, in niun caso si ammettono da noi. Il Signore stesso ci ammonisce e ci dice: Senza ragione mi onorano, insegnando dottrine e comandamenti di uomini» (Mc 7, 7). Così egli. E Lutero non disse tante e tante volte queste stesse parole? Non sono esse le stesse oggi e non furono sempre di tutti i settari? Al sorgere la setta di Lutero, non si scriveva in Germania a grandi caratteri: «La parola di Dio rimane in eterno?».

     Sebbene, sono stolti e ridicoli tutti gli eretici, mentre vogliono legare la parola di Dio alle sole Scritture, e tutto ciò, che non è scritto, chiamano essi, non parola di Dio, ma comandi e precetti di uomini. Come se le genti barbare, alle quali fu predicato il Vangelo, senza che esse avessero mai visto le Scritture. non abbiano avuto la parola di Dio. Di costoro Santo Ireneo, nel libro terzo contro le eresie al capo quarto, dice così: «E che? Se neppure gli apostoli ci avessero lasciate le Scritture, non si sarebbe dovuto seguire l'ordine della tradizione, che essi consegnarono a quelli, ai quali commettevano le chiese? A questa tradizione danno il loro assenso molte genti barbare, che credono in Cristo, e per opera di Cristo tengono scritta nel loro cuore la salvezza senza alcun carattere od inchiostro, e custodiscono con cautela la tradizione antica. Or se alcuno annunziasse ad essi quelle cose, che sono state inventate dagli eretici, e parlasse secondo il loro modo di parlare, subito si turerebbero le orecchie e fuggirebbero più che lontano; perché non sopporterebbero nemmeno di udire un discorso blasfemo». Ecco il valore che ha la tradizione! Essa non può essere e, adulterata, come la parola scritta.

     Che diremo se, come fa notare il grande s. Basilio, dovessimo ripudiare le tradizioni, dovremmo ripudiare necessariamente anche le Scritture? Infatti non in altro modo, che per via di tradizione, sappiamo quali Scritture siano le vere, quale Vangelo sia il vero, quali lettere degli Apostoli siano le vere. Come va, che ammettiamo la lettera ai Romani, e non ammettiamo la lettera a quelli di Laodicea, benché sussista tuttora l'una e l'altra, e l'Apostolo nella lettera a quei di Colossi fa menzione di una lettera a quei di Laodicea: mentre della lettera ai Romani non fa mai menzione? Certo, o tutte le scritture sono da rigettare, o sono da accettare tutte le scritture apocrife, o bisogna ricorrere alla tradizione non scritta. Udiamo il grande S. Basilio, al capo 27 della Spirito Santo: «Dei dogmi, che si conservano, e si predicano nella Chiesa, parte li riceviamo dalla dottrina scritta, parte li abbiamo dalla tradizione degli Apostoli, arrivataci misteriosamente. Tutte e due hanno uguale valore per la religione. Non contraddice ad esse, chiunque abbia almeno una piccola pratica delle leggi ecclesiastiche. Se tentassimo di rigettare le consuetudini non uscite per iscritto, come se non avessero gran valore, senza giudizio recheremmo danno anche ad alcune parti dello stesso vangelo.».

     Poi S. Basilio conta alcune tradizioni, e mette quelle stesse, che gli eretici del nostro tempo vorrebbero, con mostruosa menzogna, essere state inventate ieri o ieri l'altro: per esempio il segnarci con la croce, il benedire l'acqua, similmente il benedire l'olio, il rinunciare al diavolo e ai suoi angeli quando stiamo per ricevere il battesimo, il venir immersi tre volte nel sacro fonte, l'essere unti col sacro crisma dopo il battesimo, il pregare in ginocchio, il mostrare al popolo la santissima Eucarestia nella  santa Messa e l'adorarla con certe parole, il passare in letizia spirituale 50 giorni dopo la Pasqua, il fabbricare le chiese e gli oratori verso oriente. Queste ed altre tali cose afferma il grande S. Basilio, essere non invenzioni nuove, come delirano gli eretici, ma tradizioni antiche. Così anche, per testimonianza di Tertulliano, nel libro della corona dei soldati, sono tradizioni apostoliche l'offrire il santo sacrificio (della messa) per i defunti, il non digiunare la Domenica, l'aver somma avvertenza, che il corpo del Signore non cada in terra. Che osserviamo una sola quaresima, è tradizione apostolica per testimonianza di San Girolamo nella lettera a Marcello intorno agli errori di Montano. E se veneriamo la croce, e le immagini di Cristo e dei Santi, è tradizione apostolica, e lo testifica S. Giovanni Damasceno nel libro quarto della fede al capo terzo. Lo stesso potremmo far vedere delle altre osservanze della Chiesa cattolica. Di qui vedete, chi sono quelli, che in questo tempo si accordano con gli antichi eretici nel temere e ripudiare le tradizioni: e chi sono quelli, che con gli antichi cattolici ammettono le tradizioni e le venerano.

     In terzo luogo fu comune agli antichi eretici ammettere quei soli libri della divina Scrittura, che non facevano contro la loro eresia, e guastare destramente quegli stessi. Questa fu sempre una delle scaltrezze del diavolo. In prima persuase gli eretici ad accogliere, come parola di Dio, le sole Scritture: e in questo modo tolse loro una gran parte della dottrina sana. Poi li indusse a tagliar via dal corpo delle sacre Scritture, ora un libro, ora un altro: e così tolse loro un'altra parte della parola di Dio. Li persuase infine, allo scopo di difendere comodamente le loro opinioni, a guastare senza alcuno scrupolò in vari luoghi quegli stessi libri che abbracciavano: e in tal guisa finalmente il diavolo lasciò il solo e nudo nome di parola di Dio a loro, che tanto si vantavano della parola di Dio. E con tutto questo essi non capiscono tali cose. Continuano a folleggiare da furiosi per loro rovina, e a precipitare se stessi e molti altri là, dove li spinge lo spirito dell'inganno e della menzogna. Che le cose stiano così, si può dimostrare senza alcuna difficoltà. Santo Agostino. nell'opera delle eresie al cap. 21 e 46, ci assicura, che i Cordoniti e i Manichei avevano rigettato tutto il Testamento vecchio. Sant'Ireneo, nel lib. 4° contro Valentino, ci assicura che gli Ebioniti ammettevano dei quattro Evangeli il solo S. Matteo, i Marcioniti invece il solo S. Luca. Eusebio, al libro quarto delle Storie ecclesiastiche, ci fa sicuri, che i Severiani avevano ripudiato gli Atti degli Apostoli e tutte le lettere di S. Paolo. Finalmente Sant'Agostino, nel capo 40 del discorso di Gesù sul monte, c'informa, che gli Alogiani avevano dato un addio al Vangelo secondo S. Giovanni e all'Apocalisse.

      Confermeremo non con altra testimonianza, che con quella di Lutero stesso, che egli batté la stessa strada, e che la insegnò ai suoi scolari. Anzitutto in un discorso intorno a Mosè, che si dice, tenesse a Vittemberga l'anno 1526, si portò così dissennatamente contro il Vecchio Testamento, che non vuole ammettere neppure i dieci comandamenti: e con argomenti del tutto ridicoli si sforza di provare, che Mosè non ci riguarda punto. Sicché, chi legge quel discorso, crede che parli non un cristiano, ma o non so qual Turco, a un Cerdone, o un Manicheo. Poi nella prefazione al Nuovo Testamento non cura, anzi disprezza i Vangeli di San Marco, di San Matteo e di San Luca in tal maniera, che è un fatto meraviglioso. Avverte in prima, che dobbiamo abolire la falsa idea, che gli Evangeli siano quattro. Indi aggiunge, che l'Evangelo di S. Giovanni è l'unico, bello, vero, e principale vangelo, e da preferirsi di gran lunga agli altri tre. Così che anche le lettere di S. Pietro e di S. Paolo sono superiori a quei tre vangeli di S. Matteo. S. Marco e S. Luca. Che bestemmia  è questa, uditori? Non vi pare, che ripudi molto apertamente tre Evangeli? Chi oppone il Vangelo, di S. Giovanni agli altri tre, e quando afferma, che quello ora è l'unico, il bello e il vero; non insegna egli insieme, che gli altri tre né sono belli, né veri e neppure Evangeli? Non basta. Nel discorso del Fariseo e del pubblicano apertamente prende in giro San Luca, e lo biasima, perché da per tutto fa sentire l'eco delle opere. E che vi pare? Chiaramente e senza sottintesi tolse ai suoi Luterani i libri dei Maccabei, la lettera agli Ebrei, la lettera di San Giacomo, la seconda di S. Pietro, la seconda di S. Giovanni. Quegli stessi libri, che ha loro lasciato, li ha conciati in mille modi. Eccovi a quali e quante strettezze hanno essi ridotto la parola di Dio! Eppure non hanno altro in bocca che: Parola di Dio, parola di Dio.

     Non così la Chiesa di Dio vivo non così: ma fin dal principio ricevette tutto intiero il canone della sacra Scrittura, ella conserva fino a questo giorno. Quello stesso numero di libri santi, che mille anni fa vediamo, essere stato ammesso dalla Chiesa nel concilio terzo di Cartagine, anche ai nostri dì è stato ammesso nel concilio di Trento, e non molto prima in quello di Firenze.

    In quarto luogo, uditori, fu molto comune agli eretici antichi e specialmente ai Donatisti e agli Ariani, ciò che ai nostri Luterani e Calvinisti fu sempre ed è comune, e che noi abbiamo non udito, ma veduto, non letto, ma provato. Che cosa? L'eccitare sedizioni, il rovesciare altari, insozzare i sacramenti, vendere i calici, uccidere i sacerdoti, spogliare le chiese. Udite ciò, che dice il grande Atanasio nella storia della vita e delle opere del grande Sant'Antonio:  «Due anni dopo si sferrò la crudele pazzia degli Ariani. Allora ci furono rapine di chiese, allora profanazione di vasi sacri, allora con le mani lorde dei pagani furono insozzati i sacri misteri. Ahi scelleratezza! Rabbrividisce l'anima al ridire le cose che furono fatte. Fu tolto il pudore alle vergini e alle matrone: il sangue delle pecore di Cristo, versato nel tempio, bagnò i venerandi altari!». Così Sant'Atanasio. Ma egli riferisce, atrocità simili ed anche maggiori nella apologia della sua fuga. Teodoreto poi, nel libro quarto delle Storie, rapporta, che gli Ariani oltre alle stragi aggiunsero la vergogna alla crudeltà. Mandavano nella chiesa stessa al pulpito qualcuno tutto nudo. Ivi costui esortava alla impudicizia più svergognata. Pareva quindi, che, quale oratore di Venere, parlasse alle meretrici in un lupanare, anziché in una chiesa. Ascoltate ora ciò, che dice degli stessi Ariani S. Vittore al principio del libro primo della Persecuzione Vandalica: «Incrudelivano nelle chiese, nelle basiliche, nei cimiteri e nei monasteri ancor più scelleratamente. Deh quanti illustri pontefici e nobili sacerdoti furono allora spenti con diverse sorta di strazi, acciocché consegnassero, se ne avessero, l'oro e l'argento loro proprio o quello della chiesa. E affinché consegnassero più facilmente queste cose, finché ce n'erano, con la spinta delle pene, di nuovo costringevano gli offerenti con crudeli tormenti, pensando, che fosse stata offerta una parte e non tutta. E quanto più davano, tanto più credevano, che qualcuno ne avesse. Ad alcuni, per aver confessato di avere del denaro, aprivano la bocca con leve di legno, e cacciavano nella gola della lordura fetente. Altri erano tormentati alla fronte e alle tibie, torcendole, fino a far scricchiolare i nervi. A molti davano senza compassione da bere acqua di mare, ad altri aceto, morchia, grassume liquefatta e molte altre crudeltà. Quei cuori duri non si sentivano rammollire, né dal sesso più debole, né dalla stima della nobiltà, né dalla riverenza al sacerdozio. Anzi si accresceva l'ira furibonda, dove scorgevano onoratezza. Il barbaro furore strappava perfino i bambini dal petto delle madri e scaraventavano in terra l'innocente infanzia. Altri, tenendo un pargoletto per i piedini te lo squartavano addirittura dal meato naturale fino al vertice del capo». E un po’ più sotto dice: «Nel tempo, in cui si davano i sacramenti al popolo di Dio, entrarono gli Ariani con grandissimo furore, sparsero sul pavimento il Corpo e il Sangue di Cristo, e li calpestarono cogli immondi piedi». Tanto ci racconta S. Vittore. I suoi tre libri della Persecuzione dei Vandali non contengono quasi altro, che crudeli ed orribili delitti degli Ariani. Essi veramente dicevano di combattere per la fede: ma frattanto in realtà combattevano per l’oro, per il denaro, per appagare le loro basse passioni.

     I Calvinisti imitano la fede degli Ariani, come abbiamo fatto capire nel discorso precedente. Se ne imitino anche i costumi, i fatti gridano alto. Ma prima due parole dei Donatisti. Sentite che cosa dice dell'empietà dei Donatisti Sant'Ottato, nel libro sesto contro Parmeniano: «Che cosa: è l'altare, se non la sede del Corpo e del Sangue di Cristo? Ebbene, tutte queste cose sono state o rase, o rotte. o portate via dal furore di costoro. E questa mostruosa scelleraggine venne raddoppiata, quando faceste in pezzi i calici, in cui suol essere il sangue di Cristo. Della materia dei calici faceste una, massa, e così vi procacciaste una merce per un empio traffico: e per questo traffico non voleste nemmeno fare una scelta fra i compratori. Ma, sacrileghi come siete, vendeste il tutto a caso. Comprarono una tal merce a loro uso forse, sordide megere: la comprarono i pagani, da farne vasi, in cui accendere il fuoco ai loro idoli. O enorme scelleratezza! O delitto non più udito! Togliere a Dio, per dare agli idoli: rubare a Cristo ciò, che debba servire per un sacrilegio!». Ma udiamo ciò, che dice dei medesimi Donatisti Sant'Agostino. nel salmo decimo: «O dirai forse ciò che è scritto: Dalle loro opere li conoscerete? Vedo sì le meravigliose gesta e le violenze quotidiane dei Circumcellioni sotto la guida di vescovi e di preti volare qua e là d'ogni intorno, e darsi il nome di terribili bastoni d'Israele». Lo stesso Santo Agostino, nella lettera cinquantesima al conte Bonifacio, dice: «Taccio le crudelissime uccisioni e le depredazioni delle case con notturne aggressioni ed incendi non solo di abitazioni private, ma anche di Chiese, nelle cui fiamme non mancarono di quelli, che gettarono i libri del Signore». E prima aveva detto: «Irruppero con orrendo impeto all'altare, e con crudele furore percossero spietatamente il vescovo di Vaga con bastoni e simili armi, ed anzi con i legni dell'altare fracassato, e lo colpirono anche di pugnale».

     Avete udito quello, che gli eretici antichi fecero anticamente, e come col pretesto del Vangelo e della religione insozzarono in modo nefando le chiese e le devastarono. Ora non vi pare, che tutte queste belle imprese, cambiando solo i nomi, corrispondano ai novatori; sì che par che quelli si possano dire antichi Luterani  e Calvinisti, e questi nuovi Ariani e Donatisti? Non asserì una volta seriamente Lutero, che indole del Vangelo è di muovere guerre e sedizioni? E coll'occasione delle sedizioni Luterane non abbiamo noi perduto il fiorentissimo regno d'Ungheria, e tanto necessario alla repubblica cristiana? Non furono forse le occasioni delle stesse sedizioni, che attirarono fino a Vienna l'imperatore dei Turchi, con un innumerevole esercito, e lo misero in grande speranza di occupare tutta l'Europa? In Germania non restarono uccisi in brevissimo tempo più di centomila, contadini per le sedizioni Luterane? Non furono molestati, derubati, abbattuti in tutta la Germania e monasteri e castelli; sì che nella sola Franconia alcuni ne contarono circa trecento? E non va per le bocche di tutti il motto: «Il Vangelo vuol sangue?». Il Vangelo di Zuinglio sanguinario, chi non sa? ha empito di uccisioni e di sangue tutto il territorio della Svizzera.

    Ma veniamo alla Francia. Chi può negare, che dieci anni fa, nella stessa città di Parigi, scellerati Calvinisti andavano gridando per le strade, tutti furore, con le spade sguainate:  Evangelo. Evangelo? Quanti santuari, quanti monasteri, quanti villaggi, quante città spogliarono e saccheggiarono i Calvinisti! In quanti luoghi rovesciarono gli altari, rapirono i sacri calici, stracciarono le immagini sacre, dispersero le reliquie dei santi! E di quali santi? Dei più illustri, dei più grandi! Di Sant'Ireneo, di S. Martino, di Sant'Ilario, e le bruciarono e le gettarono o nell'acqua, o nelle cloache. Sparsero per terra i sacramenti celesti, li pestarono coi piedi, li gettarono agli uccelli, li colpirono con le palle dei fucili. Ma che diremo delle orrende uccisioni, e più orrende della stessa crudeltà, che fecero in innumerevoli 1uaghi, o per dar prova di forza, o per estorcere danaro, o per pigliarsi diletto? Non hanno anch'essi diviso per metà i bambini, come già fecero gli Ariani? Non tolsero ai sacerdoti la pelle dalla faccia? Non spaccarono loro la testa in due parti con un colpo? Non portarono come collane le orecchie degli ecclesiastici? Non tirarono fuori ad alcuni ancor vivi adagia adagio e sotto i loro occhi le viscere? non colpirono molti, legati ad un palo, con le bombarde così per divertimento? Non gettarono molti nei pozzi? Non seppellirono anche alcuni vivi? In una città del «La Maine» non tagliarono ad un prete le parti che si nascondono, costringendolo a divorarsele? E poi? E poi non aprirono a viva forza il ventre, per vedere, se il corpo umano digerisce un tal cibo? Vicino a Orleans alcuni ingenui fanciulli, per paura dei Calvinisti, stavano nascosti nel campanile di una chiesa. Gli empissimi Calvinisti li bruciarono insieme con la chiesa. Alcuni erano riusciti a fuggire per una finestra. Ma furono agguantati e gettati nelle fiamme. Tutte queste scelleratezze, e molte più hanno ancor oggi testimoni vivi e oculari. E non superano forse  ogni crudeltà dei barbari tiranni, delle belve feroci, ed anche perfino dei demoni? Leggete tutti gli annali di quanti furono mai tiranni, ed anche tutte le imprese più crudeli dei barbari e degli eretici, e parimente le favole tragiche inventate dai poeti, che essi immaginarono per spaventare gli uomini: visitate le spelonche e gli antri delle tigri, degli orsi, dei leoni; non troverete certo mai tali esempi di crudeltà, né tra gli uomini, né tra le fiere, né fra gli stessi demoni dell'inferno. Sicché ormai mi paiono migliori e più umani dei Calvinisti gli antropofagi, le tigri ed anche i demoni; tanto io son lungi dall'attribuire loro pur una briciola di religione divina, o di pietà cristiana. E non crediate mica, che i Calvinisti siano sazi di uccisioni. Non sono ancor due anni, che quaranta miei confratelli insieme, e poi dopo alcuni mesi altri quindici o sedici della medesima nostra Compagnia, furono presi in viaggio tra il Portogallo e il Brasile. E perché navigavano a scopo di propagare la fede cristiana furono finiti con molte ferite e gettati nel mare, sicché morissero di doppia morte, provando il ferro e l'acqua. Degli Anabattisti non dirò nulla. Quella sola storia tragica di Munster, e che tutti conoscono, ci capacita abbastanza, che gli Anabattisti, se si permettesse loro una volta di alzare la testa, sarebbero dieci volte più selvaggi e crudeli dei Calvinisti.

 

Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:49

COSTUMI DEGLI ERETICI, EFFICACIA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.
TESTIMONIANZA DEGLI AVVERSARI

 

 

     Domenica, per causa della dedicazione di un altare che si festeggerà: in questa chiesa, non si potrà tenere il discorso; come anche, se vi ricordate, fu tralasciato nei due anni passati, per la stessa ragione. Il prossimo discorso si differirà alla Domenica delle Palme. In essa, coll'aiuto di Dio, diremo qualche cosa intorno alla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, e forse spiegheremo brevemente le sette parole, che il Signore disse sulla croce: Oggi nella seconda parte del nostra discorso abbiamo creduto di dover terminare necessariamente gli argomenti contro gli eretici; primo perché la celebrità del tempo, in cui cadono i seguenti discorsi, li vuole essa di suo diritto tutti per sé: secondo perché l'epistola di oggi è oscura e intralciata di grandi questioni. Essa si può spiegar meglio nelle scuole col metodo scolastico, che non con una predica in questa riunione popolare.

     Torniamo al nostro argomento. Abbiamo esposto quattro costumanze principali tanto degli eretici antichi, quanto dei recenti. In quinto luogo fu comune agli eretici antichi, subito al bel principio scindersi in varie sette e del tutto discordanti fra loro. Dei Valentiniani testimonia Sant'Ireneo, nel libro primo contro le eresie. che non ci furono tra loro due o tre, che dessero le stesse risposte intorno alle stesse cose. Tutti sanno, che gli Ariani subito si trovarono divisi in Acaciani. Erunomiani e Macedoniani, come anche i Manichei in Cataristi, Macarii e Manichei propriamente detti. Dei Donatisti - e lascio altri dei quali ci siamo occupati altra volta - così parla Sant'Agostino nel libro terzo, capo quarto. contro la lettera di Parmeniano: «Dicono i Donatisti Cartaginesi, o chiunque si trova nella città di Cartagine, quanti partiti si sono fatti dello stesso partito di Donato anche solo nell'Africa per la Numidia e per la Mauritania». E di nuovo nel lib. 1° del battesimo contro i Donatisti al capo 6° ricorda, che al suo tempo l'eresia di Donato era frastagliata in minutissimi frammenti.

     Non è necessario dire degli eretici del nostro tempo. Chi non sa, che al giorno presente la famiglia dei Luterani è cresciuta a quasi cento sette di vari e opposti colori? Quando mai fu così palese la nota del falso vangelo? Sono di parere, che certo i nostri posteri stenteranno a credere, che entro lo spazio di 50 anni una eresia si sia potuta disgregare e spezzare in 100 eresie diverse e opposte. Noi con molto maggior ragione potremo dire degli eretici ciò, che il grande S. Basilio, nel discorso dell'opera dei sei giorni, afferma dei filosofi, bastare per la loro rovina il loro dissenso, dal momento che, ciò che asserisce uno, viene immediatamente negato da un altro.

     In sesto luogo fu distintivo comune degli eretici antichi, quando non potevano rispondere agli argomenti dei dottori cattolici, asserire impudentemente, che la Chiesa aveva errato per l'innanzi, ed anche che era perita del tutto. Vincenzo nel commonitorio depone, che soleva dir questo Nestorio. Il medesimo attribuisce ai Donatisti Sant'Agostino, nel capo dodicesimo dell'unità della Chiesa, dicendo: «Costoro operano con fallacia. Raccolgono dalle divine Scritture passi che vanno intesi, o contro i cattivi mescolati coi buoni fino alla fine, o che si intendono del guasto del primo popolo dei Giudei. E vorrebbero far intendere altrettanto contro la chiesa di Dio; così che sembri, che essa sia venuta meno e sia scomparsa da tutta la terra». Questo dice Sant'Agostino dei Donatisti. Ma il medesimo si adatta a puntino ai nostri Luterani e Calvinisti. Quando i cattolici domandano, dove mai fosse la Chiesa, prima che nascesse Lutero, non si vergognano di rispondere, che essa allora era morta e giaceva sepolta in non so quale oscurità. Or questa è una chiarissima ed enorme bestemmia contro la promessa del Signore: «Io ho pregato per te, o Pietro, che la tua fede non venga meno» (Lc 22, 32). E ancora: «Ecco che io sono con voi in ogni tempo fino alla consumazione dei secoli» (Mt 28, 20).

     In settimo luogo fu usanza comune degli eretici antichi odiare sommamente i monaci e la vita monastica. Lasciamo gli Ariani, che penetravano perfino nei deserti, per pigliare e uccidere i monaci. Ruffino, nel libro decimo primo delle storie al capo terzo, ci fa fede, che una volta si diedero a distruggere tutto insieme tremila monaci. E udite ciò che dice Sant'Agostino dei Donatisti nel salmo 123: «Quando voi vi mettete a rimproverare gli eretici per rispetto ai circumcelliani, affinché arrossendo si salvino; essi insultano noi per rispetto ai monaci. Primieramente guardate voi, se sono costoro da mettere a confronto coi monaci. Che bisogno c'è di confrontare noi con le nostre parole gli ubriaconi con i sobri, i precipitosi con i considerati, i furibondi con i semplici, i vagabondi con quelli che stanno uniti in congregazione? Ma pure essi sono soliti dire: Che significa il nome di monaci? Quanto meglio domandiamo noi: Che significa il nome circumcellioni?». Certo voi vedete di chi sono prole quelli, che oggi con tanto furore si adirano contro i monaci, talmente che neppure tollerano di udirne il nome.

     Ben altra fu la religione della Chiesa antica, altre le divozioni, altra la pietà, mentre essa, fino dai tempi apostolici, ha sempre ammirato la vita monastica. Certo tali encomi dei monaci antichi si leggono ad ogni passo nei libri dei SS. Padri, che ad alcuni sembrano anche eccessivi. Dice Sant'Agostino. nel libro delle costumanze della Chiesa: «Chi, non li ammirerebbe, e non li encomierebbe, dato che essi disprezzano e abbandonano le attrattive di questo mondo, e congregati insieme menano in comune una vita castissima e santissima, sempre occupati in preghiere, in letture, in sagge conversazioni, senza alcun livore di superbia, ma modesti, verecondi e quieti offrono il sacrifizio gratissimo di una vita concorde e tutta applicata in Dio, dal quale meritarono di essere capaci di tanto. Nessuno possiede cosa alcuna come propria, nessuno è di peso ad alcuno». Questo dice Sant'Agostino. Ma gli eretici hanno sempre guardato torvo i monaci. Oh perché? domando io. Che male hanno loro fatto? Che cosa hanno loro rubato? Insomma in che cosa li hanno offesi? Se avessero senno, non dovrebbero anzi ringraziare molto il regno dei monaci, come essi lo chiamano? Se non ci fossero stati i monaci, forse essi non avrebbero mai avuto il loro apostolo Lutero, né, tanti altri profeti ed evangelisti. Ma vedo, chi è stato a spingere ad odiare tanto acerbamente i monaci: fu quello spirito menzognero, che, come presso Sant'Atanasio dice il grande Sant'Antonio, odia intensamente tutti i cristiani: ma non può tollerare i monaci e le vergini, che in terra imitano la vita degli angeli.

    In ottavo ed ultimo luogo è costume comune dei nuovi eretici, il non avere, né vescovi, né preti, né diaconi, né altri ordini. In ciò si differenziano non solo dai cattolici, ma anche dagli eretici antichi. Prima tutti, tanto cattolici, quanto eretici, ebbero sempre i loro vescovi, i loro preti, i loro diaconi e gli altri ordini ecclesiastici; gli eretici del nostro tempo con la fede e con la religione hanno perduto perfino i nomi della religione. E come da cristiani si sono fatti luterani e Calvinisti; così da vescovi si sono fatti sopraintendenti e da preti ministri. E, ditemi, perché hanno rigettato questi nomi? Forse perché non li hanno trovati nelle sacre lettere? Certo io non ho mai letto sopraintendenti nella sacra Scrittura: ma ben ho letto in più luoghi vescovi, preti e diaconi negli Atti e nelle lettere di S. Paolo. Sentite ciò che Santo Ignazio, discepolo degli Apostoli, scrive a quelli di Antiochia, di cui egli era vescovo: «Saluta il santo vostro prete, saluto i vostri diaconi, saluto i suddiaconi, i lettori, i cantori, gli ostiarii, i lavoranti, gli esorcisti e i confessori: saluto le purissime vergini: saluto la plebe del Signore dal più piccolo al più grande, e tutte ne mie sorelle nel Signore». Inoltre la Chiesa Romana, al tempo di S. Cornelio Pontefice e Martire, secondo che c'informa Eusebio nel libro sesto delle Storie, aveva 24 preti, 7 diaconi, 7 suddiaconi; 42 accoliti, 52 tra esorcisti; lettori ed ostiarii, 1500 vedove con poveri. Nei libri poi dei S. Padri non vi è quasi una pagina, in cui non si nominino con amore i vescovi, i preti, i diaconi, i suddiaconi, e gli altri ordini, ma anche i sacerdoti, il qual nome massimamente è detestato dagli eretici. Dunque è evidente, che i novatori ed i settari del nostro tempo, i quali non hanno nulla di tutto questo, hanno perso affatto e la materia e la forma, e la cosa e il nome, e la fede e i costumi dell'antica e cristiana vera religione. E avete inteso fino a questo punto dieci degli argomenti, coi quali volevamo dimostrare, e, se non m'inganno, abbiamo dimostrato, che la sola Chiesa cattolica e Romana è la vera Chiesa di Dio vero. Restano gli altri due, cioè l'efficacia della nostra dottrina, e la testimonianza e l'approvazione dei nemici. Ma in tre parole ce ne possiamo sbrigare.

     Una delle doti principali e singolari della dottrina cattolica è l'efficacia, se è vero, che «La legge del Signore è immacolata, che converte le anime: la testimonianza del Signore è fedele e ai piccoli dà sapienza» (Ps. 18, 7), e «viva è la parola di Dio ed attiva e più affilata di qualunque spada a due tagli» (Eb 4, 12). Le scritture profane sono quasi statue, lavorate con grande arte, e dipinte con ottimi colori: ma, morte come sono, non hanno spirito di vita, né senso. né moto. E quella beltà esteriore appaga un poco i sensi esterni dell'uomo: ma, fuori di questo, nulla. Invece «la legge immacolata del Signore», non con lo sfoggio dei vezzi artificiali della parola, non con l'armonia e coi colori: ma con lo spirito di Dio vivo che contiene in sé, converte le anime illumina le menti, accende le volontà, innalza gli uomini a Dio, fa disprezzare tutte le cose caduche e mortali. Oh Quanti, all'aver udito o letto perfettamente una sola sentenza di questa Scrittura, si sono convertiti a Dio! Questo leggiamo di Sant'Antonio. questo di Sant'Agostino, questo di S. Benedetto, questo di molti altri. Non avete mai provato, che non potete leggere la S. Scrittura, e in particolare l'ultima parte del vangelo di S. Giovanni, senza che il cuore si sciolga in lagrime dolcissime come il miele? Chi fa questo? Donde sì gran virtù di quelle parole? Non c'è ivi la rettorica di Tullio, ma la rettorica dello Spirito Santo, che non ha bisogno dei lumi del discorso, né dei colori, né dei ritmi per commuovere. La rettorica di Tullio è tutta esterna, come anche la sapienza del mondo è tutta sulla superficie: ma dentro non ha niente. Viceversa tutto il decoro della rettorica divina sta dentro. Le perle, e le perle grosse, che sono tanto stimate dagli uomini, nascono in un guscio vilissimo di una conchiglia, e in esso si nutrono, crescono e stanno nascoste. Le pietre preziose e le gemme brillanti, che sono destinate ad ornare la testa dei re, sono rivestite di qualche altra pietra molto vile ed oscura. L'oro e l'argento, pel cui amore gli uomini quasi impazziscono, si trovano coperti di terra e di arena, le più vili delle cose.  L'oro però, anche dopo essere stato coniato e segnato con i caratteri del re, non si ripone in scrigni di oro, ma si conserva in scatole di legno o di cuoio. Finalmente l'anima umana, la più nobile ed eccellente delle cose create, è stata chiusa da Dio, artefice sapientissimo, non in qualche corpo stellare del cielo, o almeno d'oro o d'argento, ma in membra di fango e mortali. Così pure quei sentimenti arcani e divini, sublimissimi ed efficacissimi delle divine Scritture dovettero essere contenuti in parole semplici e piane, senz'essere viziate da alcun belletto.

     Ma se desiderate conoscere bene la forza efficace della dottrina cattolica, confrontate i tempi cristiani con quei tempi antichi, quando da per tutto fiorivano e regnavano le dottrine dei filosofi. Se allora si fosse visto almeno uno disprezzare le ricchezze e gli onori, ne faceva le meraviglie tutto il mondo. Tanto che Luciano racconta, che la luce del solo Epitteto fu venduta a 3.000 dramme per l'ammirazione della sua vita. Ma ai tempi cristiani, allo splendore smagliante della dottrina cristiana, quante migliaia di uomini hanno fatto questa e fanno ogni giorno? Allora se uno o due fossero stati visti menar vita celibe erano come un prodigio. Nei tempi cristiani, o Dio! quante migliaia non solo di uomini, ma anche di donne, di nobili, di ricchi, di giovani, solo per amore di Cristo hanno vissuto una vita castissima, o nella verginità, o nella vedovanza? Allora, se fosse accaduto, che alcuno avesse incontrato la morte con fortezza, tutti ne stupivano, e quello veniva lodato dalla bocca di ognuno. Ma ai tempi cristiani, quante migliaia, o piuttosto milioni di santi martiri, di ogni classe e di ogni età, sopportarono per amore di Cristo nonché fortemente, ma anche allegramente le croci, i fuochi, le belve, le spade? Questa sì che è virtù efficace della dottrina cattolica. Le sinagoghe degli eretici non hanno certo tali virtù eroiche. Non hanno uomini, che, conforme al consiglio di Cristo, lasciano il padre e la madre, i fratelli e le sorelle, le case e i campi. Non hanno eunuchi, che si son voluti fare eunuchi da loro stessi per amore del regno dei cieli (Mt. 19, 12). La Chiesa cattolica li ha, vogliano o non vogliano gli eretici. Ha anche oggi molte migliaia di sacerdoti, di santi religiosi; di vergine santissime; i quali tutti confutano gli eretici non con le parole, ma con i fatti: e mostrano, aiutati da Dio, essere possibile ciò che gli eretici bestemmiano, che non è possibile. Nella sola Firenze, città d'Italia, non sconosciuta, si contano non meno di sessanta monasteri di vergini: in parecchi di essi duecento o trecento, od anche più vergini consacrate a Dio emulano la vita e la purità angelica.

    Vengo ora al dodicesimo ed ultimo argomento. Tanta è, uditori, la forza della verità e della santità, la quale si trova nella sola chiesa cattolica, che i nostri nemici si sentono costretti ad approvarla e a lodarla. «Giacché non è il nostro Dio, come gli dèi loro: e ne siano pur giudici i nostri nemici» (Dt. 32, 31). E' nota la lettera di Plinio secondo a Traiano. In essa testimonia l'innocenza dei cristiani, che egli torturava con vari supplizi per ordine di Traiano. Afferma, che i cristiani non erano ladri, non adulteri, non parricidi. non sediziosi: ma che mancavano solo in questo, che nelle ore prime di giorno onorano Dio con inni e lodi: e che conservano con grande costanza fino alla morte la parola che una volta hanno dato a Cristo. E' nota altresì la lettera di Marco Aurelio, savissimo imperatore, al senato e al popolo Romano. Con essa mostra splendidamente la debolezza dei loro dèi, e la potenza di Cristo, che egli aveva conosciuta a prova nella guerra contro la Germania. Anche Tertulliano riferisce, che l’innocenza dei cristiani era tanta ben provata dai persecutori di Cristo, che, sebbene incrudelissero contro di tutti e generalmente li facessero ammazzare; tuttavia non volevano, che si discutesse la loro causa; perché sapevano con certezza, che essi non potevano esser convinti di alcun delitto. Secondo che ci fanno sapere Sant'Atanasio e S. Girolamo, anche i pagani veneravano Sant'Antonio e Santo Ilarione. S. Francesco aveva navigato al Sultano, cultore di Maometto, per predicargli il vangelo. E' incredibile, con quanto ardore ammirasse quell'infedele e venerasse la santità e il disinteresse di quel santo servo di Dio: sicché allora si poteva dire: «Non è il Dio nostro, come gli dèi loro, ecc.». Anche oggi, nel mondo scoperto da poco, quando i pagani vedono la gravità religiosa dei nuovi cristiani, la modestia, la sobrietà, la castità, la carità, la pazienza, il disprezzo del mondo, e ben altra la santità,  altra la severità, altri i costumi dei sacerdoti cristiani, da quelli dei sacerdoti pagani; inarcano le ciglia, restano stupefatti, si convertono, e dicono: Davvero che non v'è Dio, come il Dio dei cristiani. In fine non s'è trovato mai uno, che si sia acquistato piena notizia della nostra legge, e non l'approvasse e lodasse. Né ci fu mai alcuno seriamente desideroso e sollecito della sua salvezza, il quale finalmente non eleggesse la religione cristiana, e non la preferisse a tutte le sette e superstizioni. 

    Che se alcuni ciò non ostante odiano la nostra legge e l'aborriscono accanitamente; ne sono cagione in prima i costumi guasti di certi cristiani. Se questi vivessero conforme alla nostra legge e conforme al Vangelo, oh quanto facile sarebbe, a convertire tutti i pagani e gli eretici, o confonderli! Sì che non oserebbero nemmeno di aprir bocca contro la Chiesa e contro la nostra religione. Ma perché noi viviamo da scapestrati, e quelli, che non conoscono la nostra legge, credono, che si faccia per comando a permesso della legge ciò, che facciamo contro la legge; perciò la maledicano, quale fonte e radice della nostra malvagità. Poi sono anche in causa le innumerevoli menzogne, che il diavolo suole sempre spargere per opera dei suoi ministri. Perché al principio della Chiesa nascente alcuni avevano in sommo odio i Cristiani? Perché per opera del diavolo s'era sparso pel volgo, che i cristiani adoravano la testa di un asino, e che perciò erano idolatri. Perché oggi molti eretici sempliciotti detestano il Pontefice come l'Anticristo, e la Chiesa come una Babilonia? Perché i banditori del nuovo Vangelo persuasero i popoli, che noi abbiamo mandato in bando il Vangelo: che non spieghiamo altro, che sapienza umana e questioni di sofisti; che abbiamo abbandonato Dio, e invochiamo i soli uomini santi; che onoriamo le immagini invece di Dio; che non curiamo la passione di Cristo; che vogliamo meritare la grazia e la giustificazione mediante le proprie opere, di guisa che la grazia non è più grazia ma paga. Che in altre noi abbiamo introdotto molte cose, di cui gli antichi non hanno fatto mai menzione, come per esempio: l'offerta per i defunti, il segno della croce, l'invocazione dei santi, il culto delle immagini, la benedizione dell'acqua e dell'olio, e certe altre cose. Eppure queste sono evidentissime menzogne e molto grossolane, tanto che si possono quasi toccar con mano e sentire. Poco innanzi abbiamo dimostrato da S. Basilio Magno, che tutte queste usanze sono tradizioni apostoliche. Eppure queste bugie sono tanto radicate nella loro anima, ed hanno messo così salde radici, che anche se ci udissero gridar forte e giurare, che noi non crediamo così, che quello non è insegnamento cattolico, che tali cose sono menzogne: e ancorché vedessero, che noi confermiamo le nostre dottrine con innumerevoli testimonianze della Sacra Scrittura e dei Padri, e con la ragione; pure non crederebbero, e preferirebbero prestar fede ai loro ingannatori, che a noi stessi. Essi credono di confutare abbastanza fortemente tutti i nostri argomenti, con dire: «Tu sei un papista; dunque un asino: e un asino non sa ragionare; dunque il tuo argomento non vale niente». Ma su via, aprano gli occhi questi infelici, depongano la falsa persuasione, intendano ciò che la Chiesa ha sempre insegnato, e vedranno di essere stati troppo ingannati. 

    Eccovi i dodici argomenti. Ciascuno di essi basta per confermare un cattolico nella sua fede, e a convertire un eretico dalla sua mala fede; se pure non voglia di proprio capo chiudere gli occhi alla luce della verità. Se ci fosse qui tra noi taluno, che avesse un concetto cattivo della fede, o certo esitasse e dubitasse; io lo vorrei pregare, per la salvezza della sua anima, a deporre le passioni e gli affetti privati, che offuscano anche gli occhi dei sapienti: e a considerare posatamente per solo zelo della verità e per amore di Colui, che ci ha amato ed ha dato se stesso per noi, questi dodici argomenti. Pensi e rifletta a ciò che noi abbiamo dimostrato, e che siamo pronti a dimostrare anche più apertamente ed ampiamente, se occorresse, che cioè la Chiesa cattolica ed apostolica, il cui pastore è il Vescovo di Roma, prima di tutto è antichissima, e non si trova altro suo autore, se non Dio. Secondo che essa si è diffusa già per tutta la terra, conforme ai vaticini dei profeti, e che anche oggi si estende in una gran parte dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa. Terzo che essa non è mai venuta meno del tutto, benché i Giudei, i pagani, gli eretici, i filosofi, gl'imperatori, i tiranni abbiano tentato spesse volte di distruggerla intieramente. Quarto, che non ha mai combattuto contro di sé, né ha mai insegnato il contrario, come chè abbia insegnato molte cose, in molti concili, in vari tempi. Quinto, che non ha mai insegnato nulla, che si opponga, o alla ragione certa, o alla onestà e alla bontà dei costumi. Sesto, che in tutti i secoli risplende e risplende ancora in questo nostro secolo per grandissimi e innumerevoli miracoli. Settimo, che fu in tutti i secoli, ed è anche in questo nostro, fornita e adorna del lume profetico, cioè del dono di prevedere e predire il futuro. Ottavo che i predicatori e propagatori della nostra legge furono di una santità così eccellente, che è certo, che essi non poterono in verun modo essere altro che uomini di Dio. Nono, che la Chiesa Romana mantiene ora perfettamente la stessa fede e religione, che tenne mille anni addietro la vera chiesa di Cristo. Decimo, che i costumi della Chiesa presente, sono quegli stessi che furono della Chiesa antica. Però questi due argomenti io non ho potuto spiegare, come avrei voluto, per la strettezza del tempo. Undicesimo, che la dottrina della nostra Chiesa è efficacissima. Dodicesimo, che anche i nemici pubblici e privati danno testimoniata alla verità ed innocenza della nostra Chiesa.

     Pensi inoltre chi esitasse nella fede, e rifletta, che noi abbiamo dimostrato, e siamo pronti a dimostrare di nuovo, se ce ne fosse bisogno, che ogni eresia, e perciò tutti gli insegnamenti dei Luterani, degli Anabattisti e dei Calvinisti sono novità, e che in nessun modo hanno avuto principio da Cristo, ma da Lutero. Secondo che non hanno mai invaso per intero neppure una provincia a regione. Terzo, che tutte le antiche eresie sono venute meno, e che al presente non sussistono: ma che vengono rievocate, e chiamate come dall'inferno. Quarto che ogni eresia, ma specialmente quella dei Luterani continuamente si combatte, e dice il contrario intorno a una stessa cosa. Quinto, che ogni eresia insegna sempre qualcosa contraria alla retta ragione e ai buoni costumi. Sesto, che gli eretici, e particolarmente quelli del nostro tempo, non risplendono per miracoli, se non finti e ingannevoli. Settimo, che gli eretici predicano molte cose future, ma non se ne avvera nessuna. Ciò si può quasi toccare con mano in Lutero e nei Luterani. Ottavo, che tutti gli eresiarchi furono uomini pessimi. Ciò tutti vedono in quelli del nostro tempo. Tanto è vero, che tutta la feccia del mondo cristiano, cioè gli apostati, gli avidi di sangue, i rapaci, gli ambiziosi, i dediti ai piaceri passarono a loro. E poi vollero promuovere le loro sette non in altro modo, che con le menzogne, con le frodi con la corruzione delle Scritture e con i falsi miracoli. E tutte queste cose sono più chiare del sole. Nono, che gli eretici del nostro tempo insegnano ed hanno insegnato le stesse eresie, che insegnarono un tempo Simone Mago. Manicheo, Ario. Nestorio e gli altri, che noi tutti concordemente detestiamo. Decimo, che i medesimi nostri novatori non solo imitano, ma anche superano nei costumi corrotti, nelle scelleraggini, nelle azioni vergognose, negli orrendi delitti gli stessi antichi eretici. Decimo primo, che la dottrina degli eretici è sterile ed inefficace. Decimo secondo, che gli eretici hanno testimonianza solo da se stessi: ma meritamente sono malvisti da tutti gli uomini, anche dai Turchi e dai Pagani. 

     Se quelli che si sono allontanati dalla Chiesa antica e Cattolica e Apostolica, penseranno queste cose, e le penseranno seriamente, se ci rifletteranno e le esamineranno; troveranno certo, che camminano fuori di strada. E questo sia detto agli eretici.

    A voi, che mi ascoltate, richiamerò alla mente quello, che spesso avete udito da me, che cioè pensiate, che il dono della vera fede è un grandissimo e singolare dono di Dio: e che vogliate essere ardentissimi amanti e del tutto gelosi di lei, come di una sposa bellissima e carissima. Avevano ragione i Santi Padri, che non volevano neppure parlare con gli eretici. Il grande Sant'Antonio, scrive che Sant'Atanasio non disse mai parole amichevoli agli eretici: e prescrisse ai suoi discepoli di non accostarsi nemmeno mai agli eretici; non altrimenti che temiamo di accostarci a quelli che sono tocchi dalla peste. E' vero; l'eresia, peste, peste perniciosa e contagiosa, si attacca alle parole, si attacca ai libri, si aspira col solo conversare. Perciò dobbiamo fuggire i libri, le conversazioni, le famigliarità di tutti gli eretici, e odiare intensamente, non già gli uomini, ma la loro peste, ma la loro eresia, i loro vizi. Teodoreto, nel libro quarto delle Storie al capo quattordicesimo, scrive un bellissimo esempio, e degnissimo di essere imitato. L'imperatore Valente eretico aveva cacciato in esilio il santo vescovo Eusebio, ed aveva surrogato in suo luogo l’eretico Eunomio. Il Popolo di quella città, ricordando i salutevoli ammonimenti dell'antico e vero Pastore Eusebio, non andò mai dal vescovo eretico, non lo udì mai, non lo salutò mai, quantunque sapesse che era uomo molto piacevole e mite. Predicava l'eretico, ma alle panche e alle muraglie. Fece una volta un bagno nei bagni pubblici: ma nessuno volle immergersi in quei bagni, finché non fosse stata gettata via tutta quell’acqua, che aveva toccato l'eretico. Eunomio non poté vivere così isolato e inviso a tutti e se la svignò spontaneamente. Gli Ariani allora mandarono colà un altro vescovo eretico, chiamato Lucio. Ma il popolo perseverò nella sua prima costanza e fermezza della fede cattolica. Una volta Lucio a cavallo d'un asino passava per la piazza, dove, giocavano alla palla molti ragazzi. Una palla toccò un piede dell'asino, che montava l'eretico. All'istante i fanciulli alzarono un grido, presero la palla, accesero un gran falò, e te la gettarono nelle fiamme. Tale fervore, tale zelo, tale ardore fu quello della Chiesa antica. Se l'avessero voluto imitare i Tedeschi, se i Boemi, se gl'Inglesi, se i Francesi, vedremmo un'altra faccia della Chiesa. Essi furono stolti: almeno noi al loro esempio siamo assennati. Specialmente i giovani si guardino dai libri proibiti; fuggano le conversazioni di coloro, dei quali sentono dire, che parlano male della religione. Sappiamo che le eresie, che si vanno allargando in questo tempo, sono le più pestilenziali di tutte quelle che mai furono: capiscano, che l'amicizia con gli eretici è per loro rovina certissima. Si guardino quindi da essi in guisa, da mantenere la parola data al Signore stesso nel santo battesimo.

    E il Signore dia loro la gloria e la beatitudine eterna. Così sia.

 

[SM=g1740738]


Caterina63
00domenica 2 giugno 2013 16:51

Note

 

 

(1) La seconda parte non si trova in nessuno di questi discorsi. Eppure il Santo deve aver mantenuta la sua promessa, come accenna più avanti.

 

(2) Ma queste sono parole di S. Matteo (2, 6), non di Michea (5, 2) il quale dice: "Ma tu, Betlemme Efrata, tu sei piccolissima".

 

(3) Gli eretici ora leggono: "che se l'anima mia ecc." Vedi Gretser Tomo 2 Defens. Bell.


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Chi era san Roberto Bellarmino?



Roberto Francesco Romolo Bellarmino (Montepulciano, 4 ottobre 1542 – Roma, 17 settembre 1621) è stato un teologo, scrittore e cardinale italiano, venerato come santo dalla Chiesa cattolica e proclamato dottore della Chiesa.
Dopo l’ordinazione sacerdotale avvenuta a Gand il 25 marzo del 1570, domenica delle palme, guadagnò notorietà sia come insegnante sia come predicatore; in quest’ultima veste era capace di attirare al suo pulpito sia cattolici che protestanti[1], persino da altre aree geografiche.

Gli fu conferito l'insegnamento della teologia a Lovanio nel 1570, e qui rimase per sei anni, fino al 1576, distinguendosi per l'eloquenza e per la capacità di controbattere le tesi calviniste, che si diffondevano ampiamente nei Paesi Bassi spagnoli, Venne quindi richiamato a Roma da papa Gregorio XIII che gli affidò la cattedra di "controversie" (apologetica), da poco istituita nel Collegio romano, attività che svolse fino al 1587. Da poco tempo si era concluso il concilio di Trento e la Chiesa cattolica, attaccata dalla Riforma protestante aveva necessità di rinsaldare e confermare la propria identità culturale e spirituale. L'attività e le opere di Roberto Bellarmino si inserirono proprio in questo contesto storico della Controriforma.

Gli studi che intraprese per applicarsi nell'insegnamento e nelle lezioni, confluirono successivamente nell'opera di più volumi Le controversie(Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos), che rappresenta il primo tentativo di sistematizzare le varie controversie teologiche dell'epoca, ed ebbe risonanza in tutta Europa. Nello scritto Bellarmino esponeva in modo chiaro le posizioni della Chiesa cattolica senza polemica nei confronti della Riforma, ma solo usando gli argomenti della ragione e della tradizione. Presso le chiese protestanti in Germania ed in Inghilterra furono istituite specifiche cattedre d'insegnamento per tentare di fornire una replica razionale agli argomenti dell'ortodossia cattolica difesi da Bellarmino. L'opera è ritenuta la più completa nel campo apologetico[1], anche se l’avanzamento degli studi critici ha diminuito il valore di alcuni degli argomenti storici. La sua azione a difesa della fede cattolica, gli valse l'appellativo di "martello degli eretici".

Nel 1592 Bellarmino divenne rettore del Collegio romano, incarico che svolse per circa due anni fino al 1594. Nel 1595 divenne preposito dell'ordine gesuita per la provincia di Napoli.

Nel 1597 papa Clemente VIII lo richiamò a Roma, dopo la morte nel settembre 1596 del suo consultore teologo pontificio, il cardinale gesuita Francisco de Toledo Herrera. Bellarmino fu allora nominato consultore teologo, oltre che "esaminatore per la nomina dei vescovi" , "consultore del Sant'Uffizio" e teologo della sacra penitenzieria. Sempre nel 1597 dopo la morte senza eredi del duca Alfonso II d'Este, lo Stato della Chiesa rientrò in possesso dei territori del ducato di Ferrara e Bellarmino accompagnò il papa in visita nel nuovo territorio.

Nel concistoro del 3 marzo 1599 il papa lo fece cardinale presbitero e il 17 marzo gli consegnò la berretta rossa con il titolo di Santa Maria in Via, indicando la motivazione di questa nomina con le parole: La Chiesa di Dio non ha un soggetto di pari valore nell'ambito della scienza. Si racconta che Bellarmino tentò in tutti i modi di far cambiare idea al papa, non volendo ricevere questa carica, ma il pontefice alla fine glielo impose con la superiore autorità. Negli anni successivi Bellarmino fu bonariamente descritto come "il gesuita vestito di rosso", in relazione all'abito cardinalizio che contrastava con la tonaca nera dei gesuiti. Nonostante questa nomina, egli non cambiò il suo austero e sobrio stile di vita, e tutte le sue rendite e gli introiti economici conseguenti alla sua nomina e alle sue attività furono massimamente devolute per i poveri.

Il papa lo nominò il 18 marzo 1602 arcivescovo metropolita di Capua, sede resasi proprio allora vacante. Clemente stesso volle consacrarlo con le sue mani, un onore che abitualmente i papi concedono come segno di stima speciale. Durante il suo ministero episcopale a Capua si distinse per santità e dottrina. Appena arrivato in diocesi volle conoscere le famiglie più povere che visitava e sosteneva regolarmente. Celebrò diversi sinodi diocesani suscitando una nuova ondata di cristianesimo già molto presente in quella terra della Campania che ha conosciuto in età apostolica l'annuncio del Vangelo. A lui si deve la fondazione del seminario di Capua, uno dei primi dopo la riforma tridentina. Visitava molto spesso le parrocchie e per i parroci scrisse un catechismo che fosse loro di aiuto per la catechesi e la predicazione. Roberto Bellarmino "era amato dal popolo e lui, da parte sua amava il popolo". La Chiesa di Capua entrò nel suo cuore e non la dimenticò più. Quando fu richiamato a Roma non fu facile per lui lasciare questa gloriosa arcidiocesi alla quale per tre anni si era dedicato con tutte le sue energie, tanto che ebbe a dire:" La mia patria è Capua, la mia casa la sua cattedrale, la mia famiglia il suo popolo". Il cardinale Bellarmino ricorderà per sempre la comunità che ha guidato come successore degli Apostoli e per la quale fu consacrato vescovo. Persino prima poco di morire dirà che a Capua avrebbe fatto ancora molto più bene rispetto a ciò che aveva realizzato a Roma. Il suo spessore umano, culturale e teologico ancora oggi fanno di Capua una arcidiocesi ricca di cultura. A lui l'arcivescovo Luigi Diligenza ha dedicato l'Istituto Superiore di Scienze religiose, scuola di teologia per i fedeli di Capua e di alcune diocesi limitrofe. Per volontà dell'arcivescovo Bruno Schettino, in suo onore il 17 settembre la comunità diocesana si riunisce in Cattedrale per dare inizio all'anno pastorale ed affidare la vita dell'arcidiocesi alla protezione del suo santo pastore San Roberto Bellarmino.

Nel marzo del 1605 Clemente VIII morì e gli succedettero prima Leone XI, che regnò per solo ventisei giorni, e poi Paolo V. Nel primo e nel secondo conclave, ma soprattutto in quest'ultimo, il nome di Roberto Bellarmino fu spesso dinanzi alle intenzioni degli elettori, specialmente a motivo delle afflizioni subite, ma il fatto che fosse un gesuita costituì un impedimento secondo il giudizio di molti cardinali. Racconta Ludwig Von Pastor, storico vaticanista,[senza fonte] che nei primi giorni del secondo conclave del 1605 un gruppo di cardinali tra i quali Baronio, Sfondrati, Aquaviva, Farnese, Sforza e Piatti, si adoperarono per far eleggere il cardinale gesuita Bellarmino, ma che questi fosse contrario, tanto che saputo della sua candidatura rispose che avrebbe volentieri rinunciato anche al titolo cardinalizio. Il suo appoggio durante il conclave sembra fosse rivolto verso il cardinal Baronio.

Il nuovo papa Paolo V, eletto con l'accordo delle maggiori potenze cattoliche, insistette nel tenerlo con sé a Roma, e il cardinale chiese di essere dunque esonerato dal ministero episcopale. Fu nominato membro del Sant'Uffizio e di altre congregazioni, e successivamente consigliere principale della Santa Sede nel settore teologico della sua amministrazione.

Negli ultimi anni il cardinale Roberto Bellarmino continuò il suo austero modo di vivere che aveva sempre praticato, dedicando molto del suo tempo alla preghiera e ai digiuni, nonostante la sua salute piuttosto precaria. Continuò a fare molte elemosine ai poveri, ai quali lasciò praticamente tutti i suoi averi, tanto che fu sempre molto amato dai romani; contribuì a far concedere l'approvazione pontificia alla fondazione del nuovo Ordine della Visitazione di San Francesco di Sales; si impegnò per la beatificazione di San Filippo Neri; inoltre portò a termine la stesura di un "grande catechismo" e di un "piccolo catechismo", quest'ultimo in particolare ebbe notevole successo e fu ampiamente utilizzato fino a tutto il XIX secolo; infine compose un piccolo e anch'esso famoso testo "De arte bene moriendi" oltre che una sua "Autobiografia".

Un episodio importante lo vide protagonista il 29 maggio 1608 durante un Concistoro presieduto dal Papa Paolo V in onore di Francesca Bussi dei Ponziani la famosa Santa Francesca Romana, dove Roberto Bellarmino espose un elogio alla religiosa che convinse la maggior parte dei partecipanti a chiudere definitivamente il processo di beatificazione che era giunto ad una fase di stallo da quasi due secoli. Fu la prima donna beatificata dopo Santa Caterina da Siena nel 1461.

Il cardinale Bellarmino fu nominato Camerlengo del Sacro Collegio dal 9 gennaio 1617 all'8 gennaio 1618; successivamente fu Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti e poi della Sacra Congregazione dell'Indice.

Egli visse ancora per assistere ad un altro conclave, quello che elesse Gregorio XV nel febbraio 1621. La sua salute stava rapidamente declinando e nell’estate dello stesso anno gli fu permesso di ritirarsi a Sant’Andrea al Quirinale, sede del noviziato dei gesuiti, per prepararsi al trapasso. Qui spirò il 17 settembre 1621 tra le ore 6 e le 7 del mattino. Alla sua morte il suo corpo fu deposto nella cripta della casa professa, la Chiesa del Gesù a Roma e dopo circa un anno fu posto nel sepolcro che aveva ospitato il corpo di Sant'Ignazio di Loyola. Di lui disse Francesco di Sales che era "fontana inesauribile di dottrina". È il Patrono, insieme a Santo Stefano Protomartire, dell'Arcidiocesi di Capua.[7]

Poco dopo la sua morte la Compagnia di Gesù ne propose la causa di beatificazione che ebbe effettivamente inizio nel 1627 durante il pontificato di Urbano VIII, quando gli fu conferito il titolo di venerabile. Tuttavia un ostacolo di natura tecnica, proveniente dalla legislazione generale sulle beatificazioni, emanata da Urbano VIII, comportò una dilazione. Poi l'iter si arenò e anche se la causa fu reintrodotta in numerose occasioni negli anni 1675, 1714, 1752, 1832, e nonostante ad ogni ripresa la grande maggioranza dei voti fosse favorevole alla sua beatificazione, l'esito positivo arrivò solamente dopo molti anni. Il motivo fu in parte legato al carattere influente di alcuni prelati che espressero parere negativo, e in particolare il cardinale e santo Gregorio Barbarigo, il cardinale domenicano e tomista Girolamo Casanate, il famoso cardinale Decio Azzolino juniore nel 1675; il potente cardinale Domenico Passionei nel 1752; quest'ultimo in particolare in frequente contrasto con i gesuiti e vicino alle tesi gianseniste opposte alla tesi molinista della grazia efficace. Comunque secondo molti storici, la causa principale nella dilazione della beatificazione fu il parere negativo circa l'opportunità politica internazionale, dal momento che il nome del cardinale Bellarmino era strettamente associato ad una visione dell’autorità pontificia in netto contrasto con i politici regalisti della corte di Francia dei secoli XVIII e XIX. A tal proposito basti la citazione di Papa Benedetto XIV che scrisse al cardinale de Tencin:
« Noi abbiamo confidenzialmente detto al Generale dei Gesuiti che il ritardo della causa è motivato non da materie di poco conto attribuite a suo carico dal cardinale Passionei, ma dalle infelici circostanze dei tempi »
(Études Religieuses, 15 aprile 1896).)

Il 22 dicembre 1920 papa Benedetto XV riassumendo l'iter per la sua beatificazione, promulgò il decreto della eroicità delle sue virtù; poi il 13 maggio 1923, durante il pontificato di Pio XI, fu celebrata la sua beatificazione e dopo sette anni, il 29 giugno 1930 fu canonizzato. Più breve è stato quindi il processo di canonizzazione e ancora più rapida la nomina a Dottore della Chiesa, conferitagli il 17 settembre 1931 sempre da parte di Pio XI.

La sua festa liturgica è attualmente il 17 settembre giorno del suo trapasso mentre in passato era il 13 maggio giorno della sua beatificazione; è santo patrono della Pontificia Università Gregoriana, dove è comunque commemorato il 13 maggio, dei catechisti, degli avvocati canonisti, dell'arcidiocesi della città di Cincinnati negli USA.

Dal 21 giugno 1923 il suo corpo è venerato dai fedeli nella terza cappella di destra della chiesa di Sant'Ignazio di Loyola a Roma, chiesa del Collegio Romano che conserva le reliquie di altri santi gesuiti tra cui San Luigi Gonzaga. Le ossa del suo scheletro sono state ricomposte ed unite con fili d'argento e rivestite con l'abito cardinalizio mentre il volto e le mani sono state ricoperte d'argento; così appare sotto l'altare a lui dedicato.

Alcuni fedeli a lui devoti usano fare questa preghiera: "O Dio, che per il rinnovamento spirituale della Chiesa ci hai dato in San Roberto Bellarmino vescovo un grande maestro e modello di virtù cristiana, fa' che per sua intercessione possiamo conservare sempre l'integrità di quella fede a cui egli dedicò tutta la sua vita".

A lui è intitolato il "Collegio Bellarmino" sito nel Palazzo Gabrielli-Borromeo a Roma in via del Seminario, di antica storia e appartenente ai gesuiti. Qui attualmente risiedono i giovani padri gesuiti che frequentano i corsi della Pontificia Università Gregoriana e di altre pontificie università a Roma.

Tomba di San Roberto Bellarmino nella Chiesa di Sant'Ignazio di Loyola in Campo Marzio a Roma

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