Il Concilio Vaticano II usato come Cavallo di Troia

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Caterina63
00venerdì 21 agosto 2015 13:26

Il Concilio Vaticano II come Cavallo di Troia


Il Concilio come Cavallo di Troia o, se preferite, il Concilio come un capro espiatorio

Sfogliando articoli di alcuni anni orsono, siamo circa nel 2001 a riguardo di quanto andiamo ad analizzare, abbiamo riesumato questa "lettera al direttore" da una rivista diocesana per evidenziare alcuni errori di valutazione espressi sia da colui che pone un elenco, sia però anche dal Direttore che non offre affatto dei chiarimenti e risponde in modo ideologico aumentando la confusione.

Veniamo subito al dunque, ecco la lettera e la risposta.

Gli errori del Concilio

Caro Direttore, se mi chiede che cosa resti del Concilio, non so rispondere ma posso elencare alcuni «effetti» prodotti da un sì grande avvenimento:

- vergogna e disprezzo dell’abito talare (preti e frati che gettarono la tonaca alle ortiche per abbandonare il sacerdozio o per ricoprirsi di stracci);
- altari trasformati in tavole o mense;
- canto gregoriano sostituito da lagne insopportabili;
- confessionali vuoti anche dall’altra parte;
- ci si accosta alla Comunione senza devozione e senza convinzione (e si consente che vi accedano anche i non cattolici);
- ecumenismo dissennato;
- senso di inferiorità e di colpa della Chiesa (conseguenza: nessuno si converte più alla religione cattolica);
- seminari vuoti;
- chiese sempre più vuote.
Non è tutto ma può bastare.

R. G.

LA RISPOSTA

Posso capire la difficoltà di una persona che è stata educata alla fede in epoca preconciliare e non si ritrova in alcuni aspetti esteriori della Chiesa di oggi. Ma trovo francamente assurdo, oltre che totalmente ingiusto, imputare al Concilio («il grande catechismo dei tempi moderni» come lo ha chiamato Paolo VI) tutti i difetti di una società sempre più secolarizzata, quale è la nostra.

Anzi, possiamo dire esattamente il contrario: senza quel grande evento di grazia, oggi, la Chiesa non avrebbe quella vitalità che invece mostra in tante parti del mondo. E se ci fosse bisogno di una riprova, basterebbe osservare cosa avviene nelle Chiese ortodosse, dove purtroppo non c’è stata una riflessione, come quella del Vaticano II, per cercare di parlare all’uomo di oggi: lì chiese e seminari sono più vuoti dei nostri, anche se si continua a cantare in gregoriano.

Come si fa poi a contrapporre il Vaticano II alla Tradizione? Ma tutta la Tradizione ci ripete, da sempre, che l’infallibilità promessa da Cristo alla Chiesa, oltre che appartenere al Papa, quando «quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli... proclama con un atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale» risiede «pure nel corpo episcopale, quando questi esercita il supremo Magistero col successore di Pietro soprattutto in un Concilio Ecumenico» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 891).

E chi siamo per poter dire di aver ragione noi anziché le migliaia di vescovi, riuniti in Concilio?

___________________

Ciò che abbiamo rilevato è che hanno sbagliato entrambi.

La risposta più onesta da dare (perdonateci ma questa non è superbia o presunzione, più semplicemente oggettività, acquisizione di informazioni e approfondimenti che forse, nel 2001, non c'erano ancora stati) era ed è la seguente:

Innanzi tutto non è corretto parlare di "effetti del concilio", tutta la serie di elenco che segue da parte del lettore che pone i quesiti, era già in atto ancor prima del Concilio Vaticano II, anzi bisognerebbe risalire al Protestantesimo con il suo liberalismo e il Sola Scriptura, giungere al Rinascimento e al suo umanesimo per spiegare la genesi delle idee che hanno trionfato poi al Concilio.

Ed è certo che se la Chiesa ha resistito agli assalti del protestantesimo nel XVI secolo, del giansenismo nel XVII secolo, del naturalismo filosofico nel XVIII secolo, senza dimenticare prima anche l'Illuminismo, del Romanticismo, del liberalismo nel XIX secolo e del modernismo nella prima metà del XX secolo, lo si deve alla Chiesa nel suo ministero petrino, in particolare da San Pio X con la sua denuncia del Modernismo nella Pascendi Dominici grecis che racchiude tutto un movimento detto anche "progressismo", e pure con Pio XII che condannerà la Nouvelle Theologiae e che avvertirà proprio sotto il suo Pontificato negli anni '50, gli anni d'oro del boom economico, l'affermarsi di una grave crisi interna alla Chiesa con l'inizio degli abbandoni religiosi, richieste di spretamento per sposarsi, aumento dei preti operai ed implicati nella politica, insofferenza fra coniugi e crisi matrimoniali (Pio XII è il Papa che ha dedicato un vasto magistero per gli Sposi cristiani), abbandono della dottrina e del catechismo, disertare dalla Messa della domenica a vantaggio delle "uscite fuori porta del week-end" la nuova forma festiva della domenica con annesse partite di calcio e della domenica lavorativa, tanto che fu Pio XII ad ufficializzare la Messa "prefestiva" del sabato sera per intenderci, per venire incontro a quanti - per motivo di lavoro domenicale - non potevano andare a Messa la Domenica... e non dimentichiamo il boom della musica e la nascita delle discoteche e del nuovo "sballo" giovanile....

Insomma, quelli che il lettore definisce "effetti del concilio" in verità erano già in atto nel mondo e dentro la Chiesa prima del concilio, solo che la Chiesa, effettivamente, li frenava. Ma non è stato alcun "decreto" del concilio a liberalizzare queste derive, la questione è molto più complessa.









Caterina63
00venerdì 21 agosto 2015 13:27

 

 

C'è una bellissima e recente espressione del Vescovo monsignor Athanasius Schneider, Segretario della Conferenza Episcopale del Kazakhstan e uno dei vescovi più impegnati in difesa delle verità cattoliche, che afferma e spiega  come "le buone intenzioni del concilio sono finite in mano di uomini senza Dio...".

Leggiamo un passo: «Per qualche misteriosa ragione – sottolinea Schneider – Dio ha permesso che le buone intenzioni dei Padri del Concilio Vaticano II cadessero nelle mani di uomini senza Dio e ideologi-rivoluzionari liturgici. Hanno messo la sacra liturgia di Santa Romana Chiesa in stato di prigionia, in una sorta di esilio ad Avignone». (1)

Perciò se da una parte è vero come ha risposto il Direttore che trova "assurdo ed ingiusto" dare la colpa al Concilio per quei difetti elencati, dall'altra parte non è una risposta vera dire che è "esattamente il contrario" ossia che la "salvezza" della Chiesa è venuta dal Concilio.... la Chiesa quella" vitalità" ce l'aveva, l'ha sempre avuta e l'avrebbe continuata ad avere anche senza il Concilio.

E se per questo Direttore la risposta è "guardare" alla Chiesa Ortodossa, bè, fa cadere un tantino le braccia e lascia alquanto perplessi sull'ignoranza dei fatti che dilagano nella Chiesa.

Se per "vitalità" si intende - come lascia intendere la risposta - la riforma liturgica dal momento che la Chiesa Ortodossa infatti non l'ha cambiata, dimostra una grande ignoranza perchè, se lì le chiese sono vuote è perchè non hanno mai avuto la Domenica come centro catalizzatore della comunità parrocchiale e diocesana, in tal senso le chiese ortodosse sono sempre state più "vuote" delle nostre (e non è neppure vero perchè nelle "feste comandate" quale sono il Natale, la Pasqua, e persino i Santi Patroni del loro calendario, le chiese ortodosse sono stracolme e per le feste dei Patroni non riducono tutto a tarallucci e vino come avviene da noi con le pro-loco, e da loro per fare la Confessione sacramentale si rispetta un periodo di digiuno e di penitenza). Ed è un paragone inutile ed assurdo dal momento che, avendo essi il clero sposato, ci si dovrebbe chiedere piuttosto come mai i seminari si sono svuotati anche da loro mentre da noi si svuotarono per il motivo opposto, ossia a causa del celibato?

Questa era la domanda da fare.

Non possiamo qui ora analizzare - punto per punto - le questioni sollevate dal lettore, ma possiamo fare una panoramica dando una risposta più oggettiva dei fatti.

Il concilio Vaticano II, senza dubbio, aveva come fondamento (dalle parole di Giovanni XXIII - vedi qui ) quanto espresso da Papa Giovanni XXIII che l'ha voluto: "Questo si richiede ora alla Chiesa: di immettere l’energia perenne, vivificante, divina del Vangelo nelle vene di quella che è oggi la comunità umana, che si esalta delle sue conquiste nel campo della tecnica e delle scienze, ma subisce le conseguenze di un ordine temporale che taluni hanno tentato di riorganizzare prescindendo da Dio. Per cui constatiamo che gli uomini del nostro tempo non sono progrediti nei beni dell’animo di pari passo come nei beni materiali. Ne consegue che essi ricercano più negligentemente i valori che non vengono meno; che, al contrario, aspirano ordinariamente ai molteplici piaceri del mondo che il progresso tecnico offre con tanta facilità, e che - ciò che va considerato nuovo e temibile - si è formata ed ha raggiunto molti popoli una corrente di persone, agguerrita come un esercito, che negano l’esistenza di Dio."

E quanto alla presunta carenza di "vitalità" scandita dalle parole del Direttore, è lo stesso Giovanni XXIII a smentirlo, dice infatti sempre nel medesimo testo riportato: "Quanto alla Chiesa, essa non è rimasta inerte di fronte alle vicissitudini dei popoli, al progresso delle scienze e delle tecniche, alle mutate condizioni della società, ma ha seguito tutto questo con vigile attenzione; si è posta con tutte le forze contro le ideologie di coloro che riducono tutto a materia o tentano di sovvertire i fondamenti della fede cattolica; ha attinto infine dal suo seno rigogliose energie che incitano al sacro apostolato, alla pietà, ad intervenire fattivamente in tutti i campi dell’attività umana; e questo anzitutto con l’opera del sacro clero, che con la dottrina e la virtù ha dimostrato di essere all’altezza di adempiere i suoi compiti, e poi con l’azione di laici che si sono resi sempre più consapevoli delle responsabilità loro affidate nella Chiesa, e in modo particolare del dovere, dal quale ognuno è vincolato, di impegnarsi nel collaborare con la gerarchia ecclesiastica." (Humanae salutis n.5)

ed anzi, rincara la dose Giovanni XXIII nel fare le lodi alla Chiesa prima del Concilio:

"Cosicché, se vediamo profondamente cambiato l’aspetto della società umana, anche la Chiesa cattolica si presenta ai nostri occhi ampiamente mutata e rivestita di una forma più perfetta: dotata cioè di una più robusta compattezza nell’unità, potenziata dal supporto di una più feconda dottrina, più bellamente fulgida per splendore di santità, sicché essa appare del tutto pronta a combattere le sante battaglie della fede." (Humanae salutis n.5)

A ben vedere, leggendo, è proprio la maturata " forma più perfetta: dotata cioè di una più robusta compattezza nell’unità, potenziata dal supporto di una più feconda dottrina, più bellamente fulgida per splendore di santità"che ora la Chiesa avrebbe potuto affrontare il mondo intero, la Chiesa, sottolinea il Pontefice era "pronta a combattere le sante battaglie della fede".





Caterina63
00venerdì 21 agosto 2015 13:29
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Ma qualcosa è andato storto e il primo a dirlo, a riconoscerlo, fu Paolo VI.

Riferendosi alla situazione della Chiesa di quegli anni, Paolo VI afferma nell'Omelia del 29 giugno 1972, Solennità dei Santi Pietro e Paolo, una vera catastrofe e non nasconde di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio».

C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita. E - continua sempre il Papa - non avvertiamo di esserne invece già noi padroni e maestri. È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Dalla scienza, che è fatta per darci delle verità che non distaccano da Dio ma ce lo fanno cercare ancora di più e celebrare con maggiore intensità, è venuta invece la critica, è venuto il dubbio. Gli scienziati sono coloro che più pensosamente e più dolorosamente curvano la fronte. E finiscono per insegnare: «Non so, non sappiamo, non possiamo sapere». La scuola diventa palestra di confusione e di contraddizioni talvolta assurde. Si celebra il progresso per poterlo poi demolire con le rivoluzioni più strane e più radicali, per negare tutto ciò che si è conquistato, per ritornare primitivi dopo aver tanto esaltato i progressi del mondo moderno.

Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza..."

Questo il quadro sconcertante descritto da Paolo VI.

«Per qualche misteriosa ragione – sottolinea Schneider – Dio ha permesso che le buone intenzioni dei Padri del Concilio Vaticano II cadessero nelle mani di uomini senza Dio e ideologi-rivoluzionari liturgici. Hanno messo la sacra liturgia di Santa Romana Chiesa in stato di prigionia, in una sorta di esilio ad Avignone»

Infine, il Direttore risponde al lettore:

"Come si fa poi a contrapporre il Vaticano II alla Tradizione? Ma tutta la Tradizione ci ripete, da sempre, che l’infallibilità promessa da Cristo alla Chiesa, oltre che appartenere al Papa, quando «quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli... proclama con un atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale» risiede «pure nel corpo episcopale, quando questi esercita il supremo Magistero col successore di Pietro soprattutto in un Concilio Ecumenico» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 891)."

Innanzi tutto non ci sembra che il lettore abbia fatto questa osservazione - a meno che una parte della lettera non sia stata censurata all'origine - ma ad ogni modo cosa c'entra questa risposta con i quesiti sollevati dal lettore?

E' vero, non si deve "contrapporre" il Vaticano II alla Tradizione, ma è vero quando parliamo di rottura con la Tradizione e a dirlo è stato anche Benedetto XVI. Lo stesso elenco drammatico riportato sopra da Paolo VI lo esprime chiaramente, una rottura c'è stata e negarlo è da stolti.




Caterina63
00venerdì 21 agosto 2015 13:30

 

 

L’antropocentrismo (denunciato anche da Papa Francesco nella recente Laudato sì) a discapito del cristocentrismo è un dato oggettivo responsabile della deriva che stiamo vivendo. Nell'intervista sopra citata è stato chiesto a mons. Schneider: cosa comporterà questo nel prossimo futuro della Chiesa?

“L’antropocentrismo, in ultima analisi, comporta:
– lo svanimento e la perdita della fede soprannaturale;
– l’eliminazione della grazia Divina e dei mezzi della grazia;
– l’eliminazione del senso soprannaturale dei sacramenti, dando loro un significato puramente sociologico;
– l’eliminazione della preghiera personale e delle concrete opere di penitenza e ascesi;
– l’eliminazione, col tempo, dell’adorazione di Dio, cioè della Santissima Trinità e favorisce l’adorazione dell’uomo e della terra (del clima, dell’oceano etc.);
– la dichiarazione pratica e anche teorica che questa terra è il giardino del paradiso, cioè il paradiso sulla terra (teoria dei Comunisti);
– l’apostasia.

L’antropocentrismo comporterà una spaventosa codardia davanti al mondo e la collaborazione dei fedeli e dei chierici con le ideologie anticristiane. Si verificheranno oggi queste parole del Nostro Divino Maestro e dell’apostolo san Paolo: “Quando si dirà: Pace e sicurezza, allora d’improvviso li colpirà la rovina” (1 Tess. 5,3), “Senza di Me non potete far nulla” (Gv 15,5) e “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8)”.

Per concludere, cosa c'entra il Concilio con tutto ciò?
Lo ha spiegato bene mons. Schneider e che abbiamo riportato sopra, e ancor prima di lui lo stesso Pontefice Paolo VI lo aveva detto senza mezzi termini.
Per questo preferiamo parlare più di un concilio usato come un Cavallo di Troia anzichè dare ad esso una colpa diretta (ossia oggettiva, quasi fosse stato indetto per rovinare la Chiesa, piuttosto è stato ed è il fatidico capro espiatorio attraverso il quale nascondere ed occultare le proprie responsabilità) della decadenza che stiamo subendo da cinquant'anni a questa parte.

Di recente è uscito allo scoperto anche il neo Prefetto per il Culto Divino, così riportato dall'Osservatore Romano:
Il cardinale Robert Sarah: “Basta con l’intrattenimento nelle liturgie, così non c’è più posto per Dio”
Sarah nota che troppo spesso il sacerdote cerca di tenere alta l’attenzione dell’assemblea con modalità per nulla ortodosse. “Il modo di pensare occidentale, infarcito dalla tecnologia e deviato dai media, vorrebbe trasformare la liturgia in una vera e propria produzione da spettacolo. In questo spirito, molti hanno cercato di rendere le celebrazioni delle feste. A volte i sacerdoti introducono nelle celebrazioni elementi di intrattenimento. Non abbiamo forse visto la proliferazione di testimonianze, scenette, applausi? Immaginano di allargare la partecipazione dei fedeli, mentre, nei fatti, riducono la liturgia ad una cosa del tutto umana. Corriamo il reale rischio di non lasciare spazio per Dio nelle nostre celebrazioni.” (2)

Forse potremo solo suggerire al cardinale Sarah che non "corriamo il rischio di..." e che non si tratta solo di "a volte i sacerdoti introducono nelle celebrazioni....", purtroppo è già avvenuto, è già accaduto e in molte parrocchie è diventata prassi, troppi preti non credono più nella Presenza reale di Gesù nell'Eucaristia ed usano i Sacramenti come proprietà privata, compiono abusi di potere sacerdotale e il clericalismo è triplicato e si è rafforzato, per non parlare dei Movimenti e dei vari Cammini dentro i quali la liturgia è proprietà privata e si fa tutto ciò che proviene dal liberalismo dottrinale. Si impone ai bambini della Prima Comunione di ricevere l'Eucaristia sulla mano, in piedi, nelle liturgie private dei Movimenti o dei Cammini si impone persino di inzuppare l'Ostia Santa in enormi brocche di vino consacrato, come se si stesse facendo una colazione al bar... con un cornetto! E tutto questo, infatti, non era previsto dalla Sacrosanctum Concilium, nè furono richieste dei Padri. Tutto è andato storto e bisogna agire non lamentarsi.



Caterina63
00venerdì 21 agosto 2015 13:31

 





A Padre Gabriele Amorth, noto e grande esorcista dei nostri tempi, la Rivista 30Giorni del 2001 - vedi qui - gli poneva questa domanda:


Lei col demonio ci combatte quotidianamente. Qual è il più grande successo di Satana?


Risponde Padre Amorth: "Riuscire a far credere di non esistere. E ci è quasi riuscito. Anche all’interno della Chiesa. Abbiamo un clero e un episcopato che non credono più nel demonio, negli esorcismi, nei mali straordinari che il diavolo può dare, e nemmeno nel potere che Gesù ha concesso di scacciare i demoni.."


parole gravissime e che ruotano attorno ad una conferma papale, quella delle parole di Paolo VI: «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio», perchè laddove entra in qualche modo il demonio, entrano le tenebre, la menzogna, la verità viene offuscata e noi "non vediamo più" dove alberga. Ma anche attraverso una teologia modernista attraverso la quale non si crede più nel Demonio, si predica che l'inferno non esiste e che se esiste è vuoto o si svuoterà alla fine del mondo, e tante altre amenità simili.


Il Demonio è entrato nel Concilio (come dentro un Cavallo di Troia appunto) attraverso i suoi servitori modernisti e progressisti i quali lo hanno strumentalizzato, usato, violentato trasformandolo in ciò che loro volevano, ma il Concilio in quanto tale resta valido strumento e supporto utile per la missione della Chiesa. In questo aveva tentato di rimettere le cose un pò in ordine Benedetto XVI con la sua "ermeneutica della continuità" a cominciare dal suo esempio - oggi vituperato dalla Gerarchia cattolica - dal suo Documento Sacramentum Caritatis e con il suo - seppur discusso - Summorum Pontificum con il quale ridava cittadinanza al Rito della Messa di sempre ingiustamente defenestrato, e per la qual cosa ricevette calci e pugni sia dai progressisti-modernisti quanto anche però da un certo mondo tradizionalista fondamentalista che a tutt'oggi continua ad accusarlo perfino di eresia.


Ci sarebbe molto altro da dire e non è escluso che non lo faremo in altri interventi. Ciò che vogliamo ribadire è che per rispondere a certe domande è sempre meglio usare le fonti dirette anzichè appoggiarsi esclusivamente alle proprie opinioni personali. I temi che si affrontano nella Chiesa vanno affrontati sempre in termini oggettivi e mai soggettivi, i quesiti vanno affrontati senza sentimentalismi e senza difese ad oltranza, ma con oggettività vanno valutati i veri problemi come ad esempio il crollo repentino di tutto ciò che nella Chiesa era sacro, ma di questo ci occuperemo a breve in un altro articolo. Un Concilio è uno strumento e non la causa. In questo caso senza alcun dubbio i servitori del Demonio hanno usato il Concilio per far passare le loro prassi e le loro dottrine, la colpa non fu del concilio ma di chi potendo fare qualcosa non la fece.


Sia lodato Gesù Cristo +


__________


NOTE


1) dal sito Lafedequotidiana.it l'intervista a Athanasius Schneider: “Travisati i documenti del Concilio Vaticano II” e qui " Dio ha permesso che le buone intenzioni dei Padri del Concilio Vaticano II cadessero nelle mani di uomini senza Dio e ideologi-rivoluzionari liturgici.."


2) dal sito Lafedequotidiana.it: Il cardinale Robert Sarah: “Basta con l’intrattenimento nelle liturgie, così non c’è più posto per Dio”


 



Caterina63
00mercoledì 2 settembre 2015 10:43
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LA PASTORALE INADEGUATA


 


Il Collegio dei Vescovi in unione col Vescovo di Roma continua e continuerà sempre a costituire la guida infallibile nella fede cattolica, quale che sia il modo col quale il Magistero si esprime, semplice o solenne, ordinario o straordinario.  Spetta dunque ai vescovi, fraternamente uniti nella collegialità, rimediare alla grave crisi di fede che oggi serpeggia nella Chiesa.


 


 


Autore Giovanni Cavalcoli OP
Autore
Giovanni Cavalcoli OP
giovanni XXIII apertura vaticano II
San Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II

Il Santo Pontefice Giovanni XXIII nel famoso discorso di apertura Gaudet Mater Ecclesia del Concilio Vaticano II, evidenziava come scopo del Concilio non fosse tanto quello di condannare specifici errori del presente, quanto piuttosto quello di proporre il messaggio cristiano in uno stile ed in un linguaggio moderni, adatti all’uomo del nostro tempo. Egli precisava come esistessero già le condanne; esse erano presupposte e non dovevano essere dimenticate; si trattava invece di dare la prevalenza al tono propositivo, senza per questo escludere totalmente ― il che non avrebbe avuto senso proprio per il carattere pastorale del Concilio ― la condanna degli errori, e questa condanna effettivamente ci fu, anche se il Concilio si limitò a denunce generiche senza entrare in dettagli e senza citare i nomi degli autori. Inoltre il Concilio ritenne di abbandonare la formula tradizionale del canone e dell’anathema sit, il che non significava assolutamente che le condanne conciliari potevano essere prese alla leggera.

Così nel Concilio troviamo la condanna dell’ateismo, del materialismo, dell’individualismo, del secolarismo, dell’antropocentrismo, del liberalismo, del relativismo dogmatico e morale, dello sfruttamento dei lavoratori, del disprezzo per poveri e i deboli, del delitto politico, della corsa agli armamenti, della guerra di aggressione, dell’aborto, delle dittature, del totalitarismo statale, del razzismo, dello sfruttamento della donna e dei minori, dell’ingiustizia sociale, delle sperequazioni economiche. Inoltre il Concilio si guardò bene, nel riformare la Curia Romana, dall’abolire il Dicastero addetto alla sorveglianza dottrinale ed alla difesa della fede, che fino ad allora era chiamato “Sant’Offizio”. Invece questo ufficio, col nuovo nome più chiaro di “Congregazione per la Dottrina della Fede”, fu adeguato allo spirito del rinnovamento conciliare col perdere quel carattere di esclusivo ed eccessivo intervento repressivo e sanzionatorio ed acquistare un’impostazione ed uno stile più umani ed evangelici, per i quali la confutazione ragionata e motivata dell’errore era finalizzata alla valorizzazione dei lati positivi delle dottrine erronee e delle qualità umane e culturali dell’errante, mediante l’uso di procedimenti interpretativi e correttivi più aggiornati e l’assicurazione all’errante di una maggiore possibilità di difendersi e di spiegare le sue posizioni. Le pene poi venivano mitigate. Nel contempo veniva abolito l’Indice dei libri proibiti.

Questa saggia impostazione del Concilio si sarebbe dovuta assumere con quell’equilibrio che esso suggeriva; e invece purtroppo spesso negli ambienti dell’episcopato e delle istituzioni accademiche, sotto la spinta dei cosiddetti “progressisti”, che in realtà erano dei cripto-modernisti, nacque l’uso, aggravatosi in questi ultimi decenni, di tollerare il rifiorire di vecchi errori e il sorgere di nuovi, per timore si essere trattati da Pastori pre-conciliari e nella convinzione di riconoscere così il pluralismo e la libertà di espressione.

epicuro
busto marmorei di Epicuro

Che cosa allora è successo? È accaduto che numerosi errori già condannati nel passato sono risorti e, non venendo condannati, hanno provocato in molti la convinzione o l’impressione che la precedente condanna fosse stata superata o annullata dal nuovo clima dottrinale e pastorale avviato dal Concilio. Ciò si è accompagnato al risorgere di quelle idee moderniste che sostenevano la mutabilità dei concetti dogmatici, senza che anche questo increscioso fenomeno sia stato adeguatamente represso, il che ha generato in molti una mentalità storicista, relativista ed evoluzionista, che ha favorito il disprezzo delle antiche condanne e la tranquilla assunzione degli errori moderni, riconosciuti peraltro come tali solo dagli esperti della storia delle idee e delle eresie, giacché in realtà molte dottrine presentate come nuove ed avanzate, agli occhi degli storici seri del pensiero, sono quasi sempre il ritorno, magari con termini o sfumature diversi, di errori di tempi immediatamente precedenti il Concilio o anche antichi o antichissimi risalenti a volte addirittura ai filosofi presocratici, come per esempio gli aforismi di Eraclito, Anassagora, Pitagora, Epicuro, Democrito, Parmenide o Protagora o le mitologie dell’antica India o della Cina.

Potremmo fare molti esempi di questi errori condannati dalla Chiesa prima del Vaticano II risalendo nei secoli sino agli inizi del cristianesimo, errori che restano tali e che quindi il Concilio non ha affatto smentito, ma che anzi esso presuppone, almeno implicitamente: la negazione della dimostrabilità razionale dell’esistenza di Dio; la negazione della trascendenza, della immutabilità e dell’impassibilità divine; la negazione della divinità di Cristo; la negazione dei miracoli e delle profezie; l’idea che in Cristo Dio si muti in uomo; la negazione della Redenzione e quindi della Messa come sacrificio espiatorio e riparatore; la negazione della corporeità sensibile di Cristo risorto; la negazione della gerarchia ecclesiastica; l’idea che tutti e sempre sono in grazia; la possibilità di salvezza anche per gli atei e per chi è fuori della Chiesa; l’identificazione della Chiesa col mondo; l’idea che ogni religione sia salvifica; la negazione della coppia primitiva e della trasmissione della colpa originale per generazione; l’idea che Dio non castiga ma fa solo misericordia; Dio perdona anche chi non si pente; la negazione dell’esistenza di dannati nell’inferno; la negazione dell’esistenza del diavolo; la concezione dell’uomo come essere soprannaturale o divino; la negazione dell’immutabilità del dogma; la concezione della fede non come verità ma come esperienza o come prassi, oppure la fede come essenzialmente legata al dubbio o all’incredulità; la negazione della legge morale naturale; l’esaltazione dell’omosessualità; la liceità della fecondazione artificiale, dei rapporti sessuali extra matrimoniali e dell’uso degli anti-fecondativi; l’aborto e l’eutanasia intesi come diritti; il sacerdozio della donna, etc ..

concilio calcedonia
il Concilio di Calcedonia in una icona bizantina

Così similmente si crede che la dottrina delle due nature nel Concilio di Calcedonia non sia più attuale, si rifiuta il dogma dell’anima umana come forma sostanziale del corpo insegnato dal Concilio di Viennes nel 1312; si respinge la condanna di Eckhart fatta da Clemente V nel 1329; si nega il dogma dell’immortalità dell’anima proclamato dal Concilio Lateranense V nel 1513; si pensa che la condanna di Lutero fatta dal Concilio di Trento sia sbagliata; si crede che la condanna del liberalismo fatta dal Beato Pio IX sia superata; non si tiene conto della condanna del panteismo fatta dal Concilio Vaticano I e da San Pio X; si disprezza l’enciclica Pascendi Dominici Gregis di San Pio X; non si tien più conto degli errori di Rosmini condannati dal Sant’Offizio nel 1887; non ci si cura della condanna della massoneria fatta da Leone XIII, del comunismo fatta da Pio XI, nonché della scomunica dei comunisti fatta da Pio XII nel 1949; non ci si cura della condanna dello spiritismo fatta dal Sant’Offizio nel 1918; non si bada ai pericoli di un certo ecumenismo segnalati da Pio XI nell’enciclica Mortalium animos; ci si è dimenticati degli errori segnalati da Pio XII nella Humani Generis; si rifiuta il monito circa il teilhardismo fatta dal Sant’Offizio nel 1959.

Non parliamo poi delle contaminazioni del cattolicesimoche sorgono dal fatto di mescolarlo col pensiero del Rinascimento italiano, di Cartesio, di Lutero, dell’illuminismo, dell’empirismo, di Kant, di Fichte, di Schelling, di Hegel, di Marx, di Freud, dell’esistenzialismo, di Husserl, di Heidegger, di Severino, dello storicismo di Bohnöffer, del pensiero indiano, del buddismo e di altri.

La mancanza di interventi correttivi o critici da parte di vescovi o istituti accademici o uomini di cultura cattolici porta molti a credere che tutte queste teorie e queste idee tutto sommato siano divenute ammesse ed accettabili: la Chiesa, si pensa, ha mutato opinione o si è corretta in seguito a studi più critici e più documentati. Se vogliamo essere moderni, aggiornati e seguaci del Concilio ― tale è il pensiero di molti ―, dobbiamo seguire questi pubblicisti, giornalisti, filosofi, teologi, moralisti, esegeti, vescovi e cardinali che oggi hanno assunto posizioni contrarie a quelle tradizionali presentate qui sopra. Il fatto che Roma o altre autorità ecclesiastiche non intervengano si crede essere segno che Roma tacitamente riconosce di essersi sbagliata.

Questa crisi della fede all’interno della Chiesa stessa e tra gli stessi pastori, esclusi, s’intende, il Papa, nonché lo stesso Magistero, che godono del carisma dell’infallibilità, può essere caratterizzata con cinque attributi: soggettivismo, buonismo, relativismo, modernismo, secolarismo.

Soggettivismo. La fede non viene concepita più come ascolto di una dottrina insegnataci da Gesù Maestro, per il tramite della Chiesa, ma come incontro immediato, esistenziale, affettivo ed esperienziale con Cristo, anche senza passare attraverso il Magistero della Chiesa: un concetto tipicamente protestante della fede, la quale appare congiuntamente non come l’adeguarsi del nostro intelletto ad una verità oggettiva ― ciò che San Paolo chiama “obbedienza della fede” ―, ma come libera espressione della coscienza soggettiva, che si ritiene direttamente illuminata da Dio, eventualmente per mezzo della Scrittura, ma nel senso di sola Scriptura.

Buonismo. La fede quindi non è virtù dell’intelletto, alla quale segue la carità come effetto della volontà, ma la fede è risolta nella carità e con essa confusa. La fede non è atto del conoscere, ma è coinvolgimento pratico dell’intera persona, ciò che in realtà appartiene alla carità e non alla fede. La carità in qualche modo si sostituisce alla verità. Non si fonda sulla verità, non presuppone la verità, ma appare essa stessa come fondamento della verità.

Alla base di questa visione c’è una disfunzione e un disordine nel rapporto tra intelletto e volontà. Bisogna dire che in passato si mancava alla carità in nome della verità, si veda per esempio il processo a Giordano Bruno; oggi si manca invece alla verità in nome della carità, si pensi per esempio al rahnerismo oggi a piede libero.

Relativismo. Poiché ogni uomo ha bisogno di verità, si crede che di fatto tutti sono nella verità intesa come carità. Quindi tutti sono buoni e in buona fede, seppure ognuno a modo proprio. Infatti il rispetto della diversità, della libertà e del pluralismo richiede che la verità non sia un dato oggettivo, universale, vincolante, uno per tutti, ma sia qualcosa di relativo alla coscienza soggettiva e creativa di ciascuno, in quanto ognuno è diverso dagli altri.

liberta religiosa
la libertà religiosa si basa anche e soprattutto sul riconoscimento da quella reciprocità dalla quale nasce poi la vera pace …

Da qui un falso concetto della libertà religiosa, che praticamente è l’assolutizzazione della coscienza individuale, è liberalismo ed indifferentismo religiosi: perché affannarsi ad annunciare il Vangelo? Tanto tutti conoscono già la verità, tutti si salvano, tutti sono in grazia, tutti sono perdonati, tutti hanno buona intenzione e buona volontà. Nessuno fa il male volontariamente. Secondo costoro tutti sono nella verità, anche se la mia verità contraddice alla tua. Ma comunque Dio è in tutti e salva tutti. Non esiste un’opposizione netta, assoluta, immutabile, universale ed oggettiva tra vero e falso: una medesima cosa può essere vera per me e falsa per te. Tutti abbiamo ragione. Dipende dal punto di vista. Quindi non si devono condannare errori ed eresie. Tutt’al più si può esprimere il proprio parere ma si devono rispettare anche le idee degli altri, per quanto contrarie alle nostre.

Sarebbe bene quindi per alcuni chiudere la Congregazione per la Dottrina della Fede,organismo che ancora riflette una superata mentalità pre-conciliare, inquisitoriale. La fede non è una certezza, ma una semplice opinione tra le altre, per sua natura è dialogo, confronto, convive col dubbio e con la stessa incredulità. Solo così si è aperti e tolleranti; altrimenti si diventa degli integralisti e dei talebani.

Secolarismo. Osserviamo che la fede ha perso il suo orientamento speculativo, contemplativo, spirituale, trascendente, soprannaturale, escatologico, benché si continui ad usare questi termini, come fa Rahner, ma falsificandoli e secolarizzandoli. In realtà Rahner ― e lo dice esplicitamente ― non crede affatto nell’immortalità dell’anima e in una vita dopo la morte, ma per lui la salvezza è solo qui.

cristo storico
Cristo Dio è nella storia

Dio non è al di sopra o al di là della storia, ma solo nella storia. Non c’è un altro mondo oltre a questo e superiore a questo, ma il cristianesimo è solo per questo mondo che è l’unico mondo. Non c’è un sacro oltre al profano, ma lo stesso profano è sacro (Rahner). Il sacerdozio non è fondato da Cristo, ma emana dal Popolo di Dio (“Chiesa dal basso”), per cui non esistono gerarchie (“struttura piramidale”), ma tutti siamo fratelli ugualmente sacerdoti (Schillebeeckx). L’azione della Chiesa è un’azione politica e non soprannaturale (teologia della liberazione).

Cristo non trascende il mondo ma è il vertice evolutivo del mondo ―“Punto Omega” ―: cristologia “cosmica” (Teilhard de Chardin). Infatti non è lo spirito (divino) che crea la materia, ma è la materia che si trasforma in spirito e diventa Dio (ancora Teilhard, con riferimento a Darwin, Schelling e Bruno).

Modernismo. Tutte queste idee e prospettive sono elaborate nella convinzione di essere moderni e di intrattenere un dialogo e un confronto con la modernità, sulla scia dell’impostazione innovativa del Concilio. L’idea in se stessa è buona, ma il guaio è che qui la “modernità”, invece di essere vista come un complesso di dati da vagliare alla luce del Vangelo, onde tenere il positivo e respingere il negativo, è considerata essa stessa un assoluto, alla luce del quale prendere dal Vangelo solo quello che si concilia con la modernità. È l’errore gravissimo del modernismo di ieri e di oggi.

Sorgono spontanei dei filiali suggerimenti ai vescovi: il Collegio dei Vescovi in unione col Papa continua e continuerà sempre a costituire la guida infallibile nella fede cattolica, quale che sia il modo col quale il Magistero si esprime, semplice o solenne, ordinario o straordinario. Può sbagliare solo il singolo vescovo o un gruppo di vescovi (per esempio una conferenza nazionale) se non sono in comunione col Papa. Spetta dunque ai vescovi, fraternamente uniti nella collegialità, rimediare a questa grave crisi di fede. Benedetto XVI non per nulla indisse l’Anno della Fede ed aveva in programma la pubblicazione di un’enciclica sulla fede, se i modernisti, evidentemente allarmati, non lo avessero fermato. Tuttavia ritengo che sia bene che il nuovo Papa metta in atto il progetto di Papa Benedetto, senza paura dei modernisti. Sono loro che devono cedere, non certo Roma.

salto della fede
il grande salto della fede …

Bisogna tornare ad avere autentica stima per la virtù teologale della fede, che è l’inizio della salvezza. Se la fede è sana e forte, allora possono esercitarsi tutte le altre virtù, innanzitutto la carità. Ma se la fede è annacquata o confusa con altre cose per quanto importanti, tutto crolla e nulla si può costruire. La fede può stare senza la carità benché con difficoltà: ma la carità non può assolutamente esistere senza la fede, se non vuol decadere a mera filantropia, a emozione o, peggio, a sfogo di istinti soggettivi. Ma la fede è verità, per cui occorre tornare ad aver rispetto per la verità, certo nella carità. Ma non c’è carità senza la verità. Il giusto rispetto per la coscienza soggettiva e per la libertà religiosa non deve essere una scusa per disprezzare la verità oggettiva, universale ed immutabile. L’Autorità Ecclesiastica deve saper contemperare saggiamente il rispetto per la coscienza soggettiva con la cura del bene comune in fatto di dottrina della fede, promovendo la sana dottrina e sostenendo i suoi divulgatori ed apostoli, e confutando con buone ragioni e in modo persuasivo gli errori continuamente insorgenti, opponendo opportuni rimedi e correggendo amorevolmente con giustizia gli erranti e i ribelli.

pastorale
il bastone pastorale del vescovo, uno strumento di grande carità che all’occorrenza dovrebbe servire anche per correggere i ribelli

Questa funzione dei vescovi, per quanto oggi soffra una grave crisi,è una funzione vitale di quella Chiesa che Cristo ha fondato garantendole che non sarà vinta delle forze dell’inferno. Per quanto dunque oggi la situazione sia angosciante e scandalosa, come cattolici siamo assolutamente sicuri che questa crisi sarà superata con la forza dello Spirito Santo per una Chiesa più santa e più forte di prima, vera luce delle genti e sacramento universale di salvezza.

Varazze, 27 agosto 2015









Caterina63
00sabato 19 dicembre 2015 10:02

Papa Benedetto XVI
 

Il 22 dicembre 2005, Benedetto XVI rivolgeva uno storico discorso alla Curia Romana, nel quale offriva le “chiavi” della storia e della fede, per la corretta interpretazione del Concilio ecumenico Vaticano II e sulla presenza della Chiesa e dei cattolici nel mondo. Nel suo discorso, Benedetto XVI si chiedeva: qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? E in ciò, cosa è stato buono e cosa sbagliato? Cosa resta da fare? 

di mons. Nicola Bux
 

Il 22 dicembre 2005, Benedetto XVI rivolgeva uno storico discorso alla Curia Romana, nel quale offriva le “chiavi” della storia e della fede, per la corretta interpretazione del Concilio ecumenico Vaticano II. Cosa ha prodotto? Una parte della Chiesa cattolica lo ha condiviso, mentre l'altra ha continuato a percepire quell'avvenimento come una rottura con la Chiesa precedente. Il solco si è approfondito, quasi uno scisma di fatto. 

Per questa parte della Chiesa, viene da dire che in principio era ilVerbo, ora è il Concilio, con la C maiuscola e senza specificazioni, mitizzato come un super-dogma, in rottura con la sacra Tradizione e in apertura al mondo. Il contenuto dei documenti è ridotto a slogan: profezia, segni dei tempi, dialogo, comunione, senza aggiungere “gerarchica”, spirito del Concilio contro la lettera. Nel suo discorso, Benedetto XVI si chiedeva: qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? E in ciò, cosa è stato buono e cosa sbagliato? Cosa resta da fare? Quindi, citava san Basilio a sostegno della percezione che si sia falsata per eccesso o per difetto la retta dottrina della fede. Perché è avvenuto questo? Il Concilio non è stato interpretato in modo univoco e si è sdoppiato in modo contrastante, causando per un verso confusione – quella più visibile – e per l'altro una promettente rinascita spirituale. 

La «ermeneutica della discontinuità e della rottura» si è avvalsa della simpatia dei mass-media e diparte della teologia moderna – questo è oggi evidente –; l'«ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato» - la frase-chiave del discorso - è invece guardata con sospetto ed emarginata.  È certezza di fede che la Chiesa non cambia, cresce nel tempo, si sviluppa, rimanendo sempre lo stesso popolo in cammino. Tutti conoscono san Vincenzo di Lerins: quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditur, id est catholicum. Ma oggi si sostiene che la Chiesa cambia e deve cambiare: chi dice questo, propone un’eresia, in quanto la Chiesa è donata, scende dall'alto, è definita da Dio, per essere segno e strumento di salvezza del mondo. Gli uomini che le appartengono devono sempre convertirsi, ma essa è senza macchia né ruga, splendente di bellezza.

Dal post-Concilio, è proprio l'idea di Chiesa il perno della crisi cattolica: si tende a scinderla dal popolo di Dio, da cui pure è costituita; a sostituirla con altri enti mondani, allorché si devono affrontare i problemi della giustizia e della pace; attraverso il malinteso dialogo inter-religioso, la si vuol far diventare una Onu delle religioni, non un vessillo elevato tra le nazioni. Eppure la Chiesa è il corpo di Cristo, fondata su dodici uomini, chiamati a sé dal mondo per poi inviarli ad esso quale luce e sale, non certo per confondersi con esso: «Non abbiamo bisogno di una Chiesa che si muova col mondo», diceva Chesterton. «Abbiamo bisogno di una Chiesa che muova il mondo».

Nel discorso in oggetto, papa Benedetto, addita un paradosso: siamo arrivati a teorizzare – e praticare - la rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. In tal modo è stata fraintesa «in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituente deve servire. I padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno del resto poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso». Dunque, la discontinuità va contro la fedeltà dinamica che caratterizza la Tradizione.

Il Concilio Vaticano II, si noti, ideato e fatto da una Chiesa “pre-conciliare”, finirebbe per indurre laChiesa odierna a non riconoscersi in continuità con quella; il Concilio costituirebbe lo spartiacque, come se la Chiesa nascesse ora. Finalmente si attua l'idea di Gioacchino da Fiore? Ne ha di sostenitori: una nuova Chiesa che propugna il primato del cosiddetto spirito del Concilio sulla lettera dei documenti, il Concilio dei media su quello dei padri. Lo dicono, forse, per superare l'imbarazzo: perché, leggendo i testi conciliari, molte delle estrosità che hanno trovato spazio nel post-Concilio, non si trovano. 

 Invece, nel discorso alla Curia, Benedetto attribuisce a Giovanni XXIII e Paolo VI, l'interpretazionedel Concilio come riforma nella continuità dell'unico soggetto Chiesa perché – come afferma monsignor Agostino Marchetto nella sua storia del Concilio -, affermarono nelle allocuzioni di apertura e di chiusura, che la Chiesa: «vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamento»; e che il rispetto fedele e l'approfondimento della dottrina «certa e immutabile» non deve ignorare le esigenze contemporanee, ma senza travisarne il senso e la portata. Questa operazione però, non è intellettualistica o guidata da pruriti innovatori, ma dalla comprensione della verità e dal rapporto con la fede vissuta. 

Nel discorso, papa Benedetto accenna pure all'altra questione: il rapporto tra la Chiesa e la sua fede,da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi - ovvero l'età moderna -, dall'altra, per il quale la discontinuità potrebbe sembrare convincente, se non fosse che l'età moderna ha cercato di eliminare Dio dall'orizzonte dell'uomo. Tuttavia, talune evoluzioni positive successive alla fase di contrapposizione tra Chiesa ed età moderna - come un tipo di Stato moderno, laico ma non neutro riguardo ai valori - avevano portato, in specie dopo la Seconda guerra mondiale, a reciproche aperture; per non parlare dell'apporto della dottrina sociale cattolica e dell'apertura delle scienze naturali a Dio. Pertanto, tre domande erano come dinanzi al Concilio e attendevano risposta: la relazione fra fede e scienze moderne, il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, in specie quanto al comportamento verso le religioni; il problema della tolleranza religiosa, che portava a ridefinire il rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo, e al suo interno quello tra Chiesa e fede di Israele. 

La discontinuità, comprensibile se applicata a situazioni mutevoli, non poteva assurgere a pretesaduratura, al punto da interrompere la continuità del soggetto Chiesa: «Così, ad esempio», continua Benedetto, «se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall'uomo solo mediante il processo del convincimento». 

È un esempio di quanto non è stato o non si è voluto recepire della Dichiarazione conciliare sullalibertà religiosa, mentre la Chiesa – sostiene Benedetto XVI - «in questa apparente discontinuità ha mantenuto e approfondito la sua intima natura e la sua vera identità». Questa, del resto, non può essere messa in contrasto con la missione di annunciare a tutti i popoli il vangelo, perché andrebbe contro la libertà della fede. Il dono della verità di Gesù Cristo è per tutti, senza distruggere identità e culture. Dunque: «La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi».

Benedetto non nasconde che “l'apertura verso il mondo” non ha trasformato tutto in pura armonia –per taluni, mettendo fine anche al sacro – sottovalutando le tensioni e le contraddizioni, come pure la fragilità dell'umana natura che costituisce la minaccia permanente per il cammino dell'uomo. Non c'è ancora tanta parte di mondo che si sottrae al Vangelo e che, invece, ha bisogno di essere raggiunto da esso? Ai nostri giorni, poi, i pericoli sono aumentati, in specie a motivo del potere della tecnica, divenuta quasi un nuovo idolo. E allora, la Chiesa si dovrebbe dissolvere nelle religioni del mondo, vecchie e nuove? Non si dovrebbe più predicare la conversione e il perdono dei peccati? Si è giunti a postulare per gli ebrei – trascurando che la gran parte di loro non è credente – una via parallela di salvezza, quasi che Cristo non sia più l'unico Salvatore. 

Si dimentica che, anche nel nostro tempo, la Chiesa resta “un segno di contraddizione” – ricordaBenedetto XVI, riandando al titolo degli esercizi spirituali predicati dal cardinale Wojtyla in Vaticano nel '76 – per tutti gli uomini indistintamente: «Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo». In conclusione, papa Benedetto è convinto che «il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme».

Joseph Ratzinger ha operato, da teologo e da Papa, in modo analogo al modo in cui Tommasod'Aquino seppe mettere «la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo». Non a caso nella famosa lezione di Regensburg (Ratisbona), imposterà il confronto con l'islam in rapporto alla ragione, cosa che interpella anche gli ortodossi e i protestanti.  Il rinnovamento della Chiesa - semper reformanda – deve essere guidato da questa giusta interpretazione, vincendo due debolezze: l'astuzia intellettuale, che impedisce il discernimento, e la viltà del cuore, che impedisce di scegliere amici e nemici; altrimenti la Chiesa si condanna all'insignificanza, che è più grave della falsità, perché quest'ultima, provoca il pensiero, costringe a prendere posizione, mentre la prima distrugge la Chiesa nella disaffezione.

Senonché da taluni cattolici, si sostiene questa tesi: finché i valori naturali sono stati patrimonio delsentire comune della maggioranza,  l'insistenza della Chiesa su di essi poteva avere una sua ragionevolezza, ma nel momento in cui questo è venuto meno, la Chiesa corre il rischio di ritagliarsi il ruolo di colei che condanna le tendenze contro natura; pertanto, bisognerebbe cambiare paradigma: saper leggere la vita degli uomini di oggi (con le contraddizioni e le cose buone) e proporre l'unica cosa interessante: il Vangelo.  Ma la Chiesa cosa ha fatto finora? E in che modo? San Luigi Maria Grignion de Montfort ricorda che essa ha unito la carità più compassionevole e l’intransigenza dottrinale più ferma, nell’ardore di un medesimo amore, che è lo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. La Chiesa sa di non poter fare il bene senza combattere il male, di non poter evangelizzare senza lottare contro l’eresia. 

Misericordia e dottrina – per dottrina s'intende la Rivelazione -  non possono sussistere che unendosi: separate l’una dall’altra muoiono e non lasciano più che due cadaveri: il liberalismo umanitario con la sua falsa serenità e il fanatismo con il suo falso zelo. È stato detto che la Chiesa è intransigente per principio, perché crede; è tollerante nella pratica, perché ama. Invece, i nemici della Chiesa sono tolleranti per principio, perché non credono, e intransigenti nella pratica, perché non amano.

   





Caterina63
00domenica 31 luglio 2016 23:44
 Il periodo postconciliare : « autodemolizione della Chiesa ? »



Testi tratti dall'articolo :
«Il rumore confuso dei clamori ininterrotti». 
Il Concilio, il post-Concilio e il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira 
di Massimo Introvigne- www.cesnur.org

Che il periodo 1966-1978 sia stato un periodo di crisi per la Chiesa cattolica è confermato da valutazioni autorevoli che non si pongono da un punto di vista sociologico.

Nel 1981 Giovanni Paolo II traccia un bilancio severamente critico degli anni precedenti:
«Bisogna ammettere realisticamente e con profonda e sofferta sensibilità che i cristiani oggi in gran parte si sentono smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi, si sono sparse a piene mani idee contrastanti con la Verità rivelata e da sempre insegnata; si sono propalate vere e proprie eresie, in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni, ribellioni, si è manomessa anche la Liturgia» (Giovanni Paolo II 1981). 

Nella storica intervista Rapporto sulla fede rilasciata nel 1985 al giornalista italiano Vittorio Messori il cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e oggi Papa Benedetto XVI, dichiara:
«È incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti […] Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza. […] Vie sbagliate […] hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative» (Messori 1985, 27-28).

Papa Benedetto XVI, nel 2005, ribadisce:
«Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio [330-379], fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea [del 325]: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l’altro:
“Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …
 (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524)» (Benedetto XVI 2005).

Del resto, già Papa Paolo VI si era espresso nel 1972 in termini drammatici: 
«Da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio [...]. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di buio, di ricerca, di incertezza» (Paolo VI 1972).

Un espressione forte e giustamente famosa, quella relativa al «fumo di Satana», spesso accostata a quella non meno dura di «autodemolizione» della Chiesa – «come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio» – utilizzata dallo stesso Paolo VI nel fatidico 1968, dopo l’esplosione del dissenso sullaHumanae vitae (Paolo VI 1968).

Vi è dunque un consenso che va dai sociologi alle massime autorità della Chiesa. Gli anni postconciliari sono stati «decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica». 
Descrivere, tuttavia, non significa ancora spiegare. Per riprendere il titolo del volume di Ralph McInerny:

Che cosa è andato storto con il Vaticano II?.

a) Risposte in base alla teoria della secolarizzazione

Se vi è ampio consenso tra i sociologi (e non solo) sul fatto che la Chiesa cattolica nel periodo postconciliare abbia attraversato una grave crisi, non vi è invece nessun consenso sulle sue cause.

Il cosiddetto «nuovo paradigma» nella sociologia delle religioni, come si è accennato, studia la religione utilizzando la metafora del mercato e distingue fra domanda di beni religiosi e offerta da parte delle Chiese e comunità. Secondo questa teoria la domanda tende a rimanere costante nel tempo, e le variazioni nel successo o nell’insuccesso delle «aziende» che competono sul «mercato religioso» vanno dunque spiegate ponendosi supply-side, «dal lato dell’offerta». La teoria classica della secolarizzazione – il «vecchio paradigma» che il «nuovo» intende contestare – si pone invece dal lato della domanda. Se le religioni hanno meno successo, secondo la teoria della secolarizzazione, è perché il mondo moderno è sempre più secolarizzato, e il numero di persone interessate alla religione diminuisce fatalmente, a prescindere da quanto le Chiese offrono. Semmai, le Chiese potrebbero inseguire la modernità, cercando di adattare le loro proposte alle domande dell’uomo moderno secolarizzato. Era questa la prospettiva di un classico della teologia degli anni 1960, La città secolaredel teologo battista Harvey Cox (Cox 1965), la cui pubblicazione nel 1965 rappresenta, secondo il teologo e filosofo statunitense George Weigel, uno dei sei «momenti» che definiscono gli anni 1960 (Weigel 2008, 37), sul piano culturale un avvenimento di non minore importanza dell’assassinio del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy (1917-1963). Lo stesso Harvey Cox avrebbe riconosciuto trent’anni dopo (Cox 1995) che il suo classico del 1965 si basava su premesse sociologiche e fattuali sbagliate; tuttavia – mentre La città secolare rimane molto influente sulla teologia anche in Italia – il libro del 1995 è ampiamente ignorato dai teologi e in italiano non è stato neppure tradotto.

Per chi si pone da questo punto di vista qualcosa «è andato storto» nella società moderna, non nella Chiesa, che semmai è stata troppo timida nell’adattarsi alla nuova domanda. Nel discorso con cui assume la presidenza della Association for the Sociology of Religion nel 1990 la sociologa statunitense (ed ex suora cattolica) Helen Rose Ebaugh nota che dopo il Vaticano II c’è stata «una fuga straordinaria da una fede di Chiesa basata su chiare dottrine e regole, sostenute da una forte istituzione gerarchica, verso una fede altamente soggettiva», un «cattolicesimo selettivo» dove ogni fedele può scegliersi le dottrine più gradite. Ma questa fuga dalle regole definite da istituzioni a scelte soggettiviste e libere, specie in campo morale, si è già verificata all’esterno, nella società, e la Chiesa non può che seguire. Anzi, secondo la Ebaugh lo ha fatto semmai troppo timidamente, come dimostrerebbe l’errore compiuto con l’enciclica Humanae vitae, che però avrebbe segnato «il collasso della struttura gerarchica di controllo nella Chiesa»: un fatto – il «collasso», non l’enciclica – che la sociologa considera «altamente positivo» (Ebaugh 1991, 3-7).

Tralasciando l’ipotesi che la Ebaugh stia esprimendo un giudizio di valore teologico, se non autobiografico (che di per sé avrebbe poco a fare con la sociologia), tradotta nel linguaggio del «nuovo paradigma» la tesi qui è che nel periodo del postconcilio è cambiata la domanda, e la Chiesa cattolica non ha potuto fare altro che seguirla. Nel citato The Churching of America, Finke e Stark ribattono che questo genere di analisi è certamente sbagliato perché, se davvero fosse venuta meno la domanda, tutte le Chiese e comunità religiose avrebbero ugualmente perso colpi. Ma non è andata così. Certamente gli anglicani (chiamati negli Stati Uniti episcopaliani) e i luterani, come altri, hanno sperimentato gli stessi problemi della Chiesa cattolica. Ma nello stesso periodo in cui cattolici, anglicani e luterani perdono membri attivi gruppi come i pentecostali o i battisti conservatori li moltiplicano. Una volta depositatosi il polverone degli anni 1960 e 1970. quello che emerge è che né negli Stati Uniti né altrove (con la possibile eccezione di qualche Paese europeo) il numero di persone che frequentano i luoghi della religione istituzionale è diminuito. Dunque, non è diminuita la domanda. Si è semplicemente indirizzata verso altre offerte. Ci sono meno cattolici praticanti e più pentecostali o battisti conservatori, così negli Stati Uniti come in Brasile o in Messico e altrove (Finke e Stark 1992, 262-263).

Neppure è vero che la Chiesa cattolica abbia perso colpi per essere stata troppo timida nel suo abbracciare la modernità. Nel 1972 Dean M. Kelley (1927-1997), un sociologo e un dirigente del Consiglio Nazionale delle Chiese negli Stati Uniti, pubblica un’opera destinata ad avere una straordinaria influenza intitolata Why Conservative Churches Are Growing, «Perché le Chiese conservatrici stanno crescendo» (Kelley 1972). In quest’opera Kelley nota i tassi di crescita di denominazioni che chiama conservative(letteralmente «conservatrici», ma la parola non ha lo stesso senso rispetto all’italiano, dal momento che conservative nel gergo politico e religioso statunitense è chi svolge una vigorosa attività di diffusione delle proprie idee, con un atteggiamento quindi – da un certo punto di vista – tutt’altro che «conservatore») con riferimento in particolare alle esigenze morali e all’affermazione di un’identità forte: sia protestanti, come i battisti del Sud e varie denominazioni pentecostali, sia non protestanti come i mormoni e i Testimoni di Geova. Constata che queste organizzazioni religiose crescono rapidamente, mentre quelle «progressiste» declinano con la stessa o con maggiore rapidità. Sulla «tesi Kelley» si è sviluppato uno dei dibattiti più interessanti della sociologia della religione contemporanea (su cui cfr. Introvigne 2004), che ha sostanzialmente confermato il dato empirico della maggiore crescita delle Chieseconservative, nello stesso tempo offrendone una gamma di spiegazioni piuttosto diverse fra loro. In ogni caso, è precisamente quando inseguono la modernità, specie in campo morale, che le Chiese e comunità religiose perdono membri.

b) Risposte in base al «nuovo paradigma»

Per spiegare questo fenomeno, apparentemente contro-intuitivo, e per aprire la strada a spiegazioni della crisi cattolica postconciliare che si pongano «dal lato dell’offerta», occorre introdurre – sia pure brevemente – un altro elemento fondamentale del «nuovo paradigma»: la teoria delle nicchie. I consumatori di qualunque bene materiale o simbolico si ripartiscono in nicchie quanto a gusti e preferenze personali. Nel «mercato religioso» le nozioni che vengono in considerazione per definire le diverse nicchie sono quelle di «tensione» e di costi. Per tensione s’intende la contraddizione o dissonanza tra le pratiche di un gruppo religioso e quelle della maggioranza nella società in cui il gruppo si trova a vivere. Se, per esempio, in una società è ampiamente diffuso il consumo di alcolici, un’organizzazione religiosa che vieta l’uso delle bevande alcoliche si trova in una situazione di tensione con la maggioranza sociale. Il grado di tensione di una comunità religiosa è misurato dai teorici del «nuovo paradigma» cercando di valutare la strictness, cioè quanto le norme di un gruppo religioso siano «strette» rispetto a quelle prevalenti nella società circostante. Maggiore la strictness, maggiore la tensione. Ma elementi come la tensione e la strictness possono essere anche misurati in termini di costi. Rinunciare a bere alcolici o a fumare, o adottare un’etica sessuale rigorosa in una società permissiva, sono comportamenti che implicano un costo che, ovviamente, nella maggior parte dei casi non è principalmente di carattere economico, ma simbolico e sociale.  Consiste, particolarmente, nel sacrificiorichiesto per vivere una vita diversa da quella proposta dalla cultura dominante e nellostigma, cioè nella disapprovazione da parte dei parenti o degli amici (Iannaccone 1992, 1994).

Benché le nicchie in cui si distribuisce la domanda religiosa siano variamente distinte e denominate, un modello semplificato (cfr. Introvigne 2004) può distinguerne cinque, dalla maggiore alla minore tensione: ultra-strictstrict, «centrale» (chiamata taloraconservative, un termine che non è necessariamente ben tradotto dall’italiano «conservatrice», se si pensa per esempio che della domanda conservative sarebbe aspetto caratterizzante uno zelo missionario che di solito non ascriviamo immediatamente ai «conservatori»), progressista e ultra-progressista. Una delle conclusioni – o, se si vuole, delle scoperte – principali del «nuovo paradigma» è che per dimensioni le nicchie non sono tutte uguali. Quella percentuale della popolazione (più o meno maggioritaria o minoritaria a seconda dei paesi) che è disponibile a mantenere un contatto regolare con un’istituzione religiosa non si distribuisce nelle cinque nicchie citate in parti uguali.

Ampi studi empirici dimostrano che la nicchia ultra-progressista (i cui valori coincidono sostanzialmente con quelli della società moderna e post-moderna, entusiasticamente e dichiaratamente abbracciati) comprende una percentuale estremamente minoritaria dei consumatori religiosi. 
Pochi di più compongono, in circostanze normali, la nicchia ultra-strict (che rifiuta i valori dominanti nella società circostante in modo totale, separandosi il più possibile dal contesto sociale, con i più alti livelli possibili di tensione e di stigma). 
La nicchia progressista (che adotta i valori della società moderna e postmoderna perché ritiene inevitabile farlo, dunque con minore entusiasmo rispetto alla nicchia ultra-progressista) rimane tanto stabile quanto relativamente limitata nelle dimensioni.Le denominazioni e Chiese sia più numerose, sia che crescono più rapidamente si situano nelle nicchie strict (che dichiara di rifiutare i valori dominanti ma non si separa dalla società con cui cerca anzi, sia pure con ritrosia e difficoltà, di interagire dialetticamente), e «centrale» (dove si trova chi cerca una religione con livelli di tensione e di stigma medi rispetto ala società moderna e postmoderna, nei cui confronti assume un atteggiamento di confronto e di giudizio ma anche missionario)
Quest’ultima nicchia comprende con ogni probabilità la maggioranza assoluta dei consumatori religiosi
 (Finke e Stark 1992; Stark e Finke 2000a).

La conclusione intuitiva secondo cui la nicchia più ampia dovrebbe essere quella che raccoglie i consumatori che hanno valori più simili a quelli dominanti nella società è fallace per due principali motivi. La prima è che il «mercato religioso» non comprende il cento per cento della popolazione mondiale (come avviene invece, per esempio, per il mercato dell’acqua, di cui tutti gli esseri umani hanno bisogno). Un buon numero di persone nelle società moderne si situa al di fuori del «mercato religioso» in quanto non è interessata ad aderire a religioni istituzionali. Ed è precisamente fra questi non-consumatori di beni religiosi che si trovano più di frequente coloro che sono perfettamente d’accordo con i valori e la cultura dominante. In secondo luogo, come ha mostrato in numerosi studi il sociologo statunitense Laurence R. Iannaccone, il «consumatore religioso» – come ogni consumatore – non si preoccupa solo di minimizzare i costi ma valuta il rapporto fra costi e benefici. Quello che costa poco spesso offre anche pocoI costi altissimi della nicchia ultra-strict sono tollerabili per un numero relativamente piccolo di persone, ma dal canto loro le organizzazioni della nicchia ultra-progressista e, in misura minore, di quella progressista, proprio perché chiedono costi modesti, offrono anche esperienze e compagnie piuttosto scialbe e poco soddisfacenti. Le organizzazioni con bassi costi d’ingresso si riempiono facilmente di free rider, «viaggiatori che non pagano il biglietto», che intendono ricevere quanto si può e dare il meno possibile. E un’organizzazione piena di free rider di rado offre a chi la frequenta un’esperienza entusiasmante (Iannaccone 1992, 1994).

Un altro aspetto messo in luce dal «nuovo paradigma» è che le organizzazioni religiose non stanno ferme. Si muovono, non soltanto andando a cercare la domanda – il che le fa crescere – ma anche cercando di limitare lo stigma, di diventare «rispettabili» e di diminuire la tensione: e questo secondo movimento è più ambiguo quando lo si valuta rispetto ai risultati. Se passano da una tensione estrema o alta a una tensione media le comunità religiose possono in effetti crescere, in termini sia di numero di fedeli sia di forza organizzativa. Ma se continuano a muoversi nella stessa direzione rischiano di spostarsi verso le nicchie a bassa o bassissima tensione (attirate dal basso e bassissimo stigma), dove si ricevono applausi da parte della società circostante non religiosa ma dove c’è un numero più limitato di consumatori religiosi, il che determina non una crescita ma una crisi.

Il tema principale del citato classico del «nuovo paradigma» The Churching of America(Finke e Stark 1992) è appunto questo. Le nuove organizzazioni religiose nascono alla periferia del mercato, e iniziano a rivolgersi alla nicchia ultra-strict. Con l’emergere di seconde e terze generazioni il naturale desiderio di ridurre la tensione e lo stigma porta a spostarsi dalla nicchia ultra-strict a quella strict. Fin qui tutto bene: l’organizzazione cresce e si consolida, perché trova più consumatori religiosi nella nicchia strict rispetto a quella ultra-strict. Il passaggio alla nicchia «centrale» è un’operazione molto più delicata, che rischia di provocare reazioni da parte di fedeli reperiti nelle nicchie più strict e richiede spesso non anni ma secoli. Molte comunità religiose non compiono mai questo passaggio, e rimangono nella nicchia strict (o scompaiono). Per chi riesce a compierlo in modo graduale e ordinato, anche il passaggio alla nicchia «centrale» è vantaggioso, perché qui si trovano consumatori religiosi dotati sia di spirito missionario nei confronti della società circostante sia di risorse e numeri per gestire questa missione. Vi è tuttavia un rischio. Presa, per così dire, la rincorsa il movimento può continuare in modo lineare, continuando a diminuire la tensione e spostandosi così ancora, dalla nicchia «centrale» verso quelle progressista e ultra-progressista. Poiché, come abbiamo visto, in queste nicchie ci sono meno consumatori religiosi sopraggiunge la crisi.

The Churching of America legge anche la crisi postconciliare della Chiesa cattolica secondo questo modello. La Chiesa cattolica – la maggiore organizzazione religiosa mondiale (l’islam ha un numero di fedeli paragonabile, ma non un’organizzazione unitaria che risponda a un’unica gerarchia) –, pur avendo una sua unità ben visibile nel Papa di Roma, ha al suo interno componenti diversissime, non solo nei diversi Paesi del mondo ma anche all’interno degli stessi Paesi. Al momento del Concilio la Chiesa si trovava in numerosi Paesi e situazioni nella nicchia strict, e in movimento verso la nicchia «centrale». Il grado di tensione è medio-alto, con una richiesta piuttosto alta di sacrifici che tuttavia riesce a determinare per molte persone uno «scambio favorevole» quanto al rapporto fra costi e benefici, dal momento che le comunità della Chiesa cattolica sono in grado di trasmettere «una vivida concezione di forze soprannaturali attive e potenti, capaci di motivare a importanti sacrifici per la fede» (Finke e Stark 1992, 271). Lo sforzo conciliare, secondo Finke e Stark, mira a far spostare in modo uniforme verso la nicchia «centrale» le componenti della Chiesa cattolica che si trovano nella nicchia strictL’operazione dovrebbe produrre il vantaggio di una maggiore capacità di missione nei confronti della società moderna, oltre che la maggiore legittimazione tipica del passaggio da una tensione alta a una media.

Tuttavia, secondo i due sociologi americani, governare un processo di questo genere è molto difficile. Come era avvenuto «per i congregazionalisti, presbiteriani, episcopaliani e metodisti» (Finke e Stark 1992, 271), una volta iniziato il movimento verso una minore tensione, questo non si è fermato nella nicchia «centrale» ma è proseguito in direzione delle nicchie progressista e ultra-progressista, il che comporta per i motivi indicati un immediato rischio di diminuzione del numero di membri attivi e di crisi organizzativa. La crisi, secondo Finke e Stark, non avrebbe potuto essere arrestata se non «ritornando a una tensione più alta con l’ambiente circostante»(Finke e Stark 1992, 271, il che all’epoca (1992) sembrava ai due sociologi piuttosto improbabile. In scritti successivi, tuttavia, gli stessi autori hanno notato come, con il pontificato di Giovanni Paolo II, si sia sviluppata all’interno della Chiesa cattolica una vigorosa concorrenza intrabrand e come vi siano in effetti movimenti, gruppi e perfino diocesi capaci di ritornare da un livello di tensione basso a uno medio, e di recuperare una maggiore coerenza dottrinale, venendo immediatamente premiati con un aumento del numero dei fedeli, della pratica e delle vocazioni sacerdotali e religiose (Stark e Finke 2000b).

Quando qualcosa ha cominciato ad «andare storto»?

Se si considera valida nelle grandi linee – ed è questa la mia opinione personale – la spiegazione di Stark e Finke della crisi postconciliare, rimane tuttavia una domanda:chi, quando e perché ha preso nella Chiesa cattolica le decisioni che hanno determinato la crisi? In particolare, queste decisioni sono state prese durante odopo il Concilio? La questione non è irrilevante, ma talora riceve scarsa attenzione negli studi sociologici. Gli stessi Stark e Finke (1992, 258) ritengono decisivi, particolarmente negli Stati Uniti, come elementi di diminuzione della tensione, ma anche come fattori di un rischio di «assimilazione» e perdita dei caratteri distintivi del cattolicesimo rispetto alle altre Chiese e comunità cristiane, il passaggio dal latino alla lingua volgare nella liturgia (nessuna comunità protestante prega pubblicamente in latino) e – forse soprattutto – il venire meno dell’obbligo dell’astinenza dalle carni al venerdì. La rilevanza attribuita a quest’ultimo aspetto può stupire il lettore italiano, ma nei Paesi dove la Chiesa cattolica non è maggioritaria si trattava di un segno distintivo che permetteva immediatamente di distinguere i cattolici dai protestanti. Molti in America ricordano i venerdì sera «preconciliari» nei McDonald’s, dove il personale si preparava alla mezzanotte sapendo che in quel momento sarebbero scattate le ordinazioni degli hamburger da parte dei cattolici. Un dettaglio, certo, ma che dava un’immediata percezione visiva di come in quel paese o in quel quartiere ci fossero dei cattolici praticanti.

Secondo Neuhaus «questa cosa apparentemente piccola contò più di ogni altro cambiamento per distruggere l’identità cattolica» (Neuhaus 2007, 118). Lo storico del cristianesimo irlandese, professore a Cambridge, Eamon Duffy ipotizza addirittura un «suicidio rituale» della Chiesa cattolica (Duffy 2005, 9), e non sta parlando della liturgia ma della carne al venerdì. È probabile che questa riforma non abbia avuto lo stesso impatto nei Paesi a maggioranza cattolica, dove il problema di distinguersi dai protestanti era meno importante. In ogni caso – come per la riforma liturgica – non si tratta di una decisione del Concilio Vaticano II ma di una riforma postconciliare, cui apre la strada la Costituzione apostolica Paenitemini, del 17 febbraio 1966, di Paolo VI, il quale «chiuso il Concilio Ecumenico Vaticano II» offre alle conferenze episcopali la possibilità di sostituire l’obbligo dell’astinenza dalle carni del venerdì con altri segni penitenziali (Paolo VI 1966).

McInerny (1998) e Neuhaus (2007) evocano entrambi il motto post hoc non ergo propter hoc, chiedendosi se la crisi sia avvenuta solo post Concilium (dopo il Concilio) o invecepropter Concilium (a causa del Concilio). Entrambi rispondono che la questione è complessa, dovendosi distinguere fra almeno quattro elementi diversi: l’atteggiamento dei padri conciliari (che a sua volta ha influenzato la percezione mediatica del Concilio); i documenti del Vaticano II; le riforme postconciliari; e il clima creato nelle diocesi, negli ordini religiosi e tra i teologi da chi si richiamava a un presunto «spirito del Concilio».

a) La tesi di Melissa Wilde

Quanto all’atteggiamento dei padri conciliari, è questo il campo dell’ambiziosa impresa sociologica di Melissa Wilde, che – sia pure ricavandone osservazioni non sempre condivisibili – ha certo raccolto un numero impressionante di dati sui padri per studiarli come una popolazione e cercare di estrarne dati statisticamente significativi da analizzare in base al «nuovo paradigma». La Wilde (2007) divide i vescovi in quattro gruppi a seconda del tipo di mercato religioso da cui provengono: monopolistico, non-monopolistico, latino-americano e missionario. Il primo gruppo comprende i padri di Paesi dove la Chiesa cattolica si trova in una posizione di semi-monopolio, con minoranze religiose (all’epoca) statisticamente quasi irrilevanti: italiani (il maggiore contingente di padri conciliari: 367), spagnoli, irlandesi e portoghesi. Il secondo i rappresentanti di Paesi dove la Chiesa cattolica deve coesistere o con maggioranze protestanti (Stati Uniti: il secondo contingente per importanza numerica con 216 padri, Germania, Gran Bretagna, Olanda) o con maggioranze laiciste non religiose (Francia). Il terzo i padri latino-americani (anzitutto i brasiliani, il terzo gruppo per numero di membri: 167) i quali si trovano in una situazione di «falso monopolio»: l’ampia prevalenza di cattolici battezzati non corrisponde a una maggioranza di praticanti, e i padri percepiscono confusamente sia la crescita (che sottovalutano) dei protestanti pentecostali sia quella (che sopravvalutano) del marxismo. Il quarto gruppo, infine, è costituito dai vescovi missionari dell’Africa e dell’Asia, i quali si considerano in concorrenza più con le religioni non cristiane che con i protestanti.

La Wilde considera decisivi per misurare l’atteggiamento dei padri conciliari due voti: quello dello schema preparatorio del decreto sulle fonti della rivelazione (che è considerato da alcuni anti-protestante per la sua insistenza sulla tradizione, ed è rifiutato), e quello su un documento conciliare separato sulla Madonna (anch’esso ultimamente respinto perché considerato un potenziale segnale anti-ecumenico inviato ai protestanti). I numeri di queste votazioni sono usati dalla sociologa per dimostrare che, anche se all’interno di ogni gruppo geografico ci sono maggioranze e minoranze, la singola variabile più importante per predire il voto è precisamente quella geografica. Per esempio, l’88% dei vescovi del primo gruppo (provenienti da Paesi dove la Chiesa cattolica ha una posizione «semi-monopolistica») vota a favore di un documento specifico sulla Madonna, mentre il 78% dei vescovi del secondo gruppo (cioè di Paesi dove la Chiesa ha una posizione «non monopolistica») vota contro. La Wilde si pone all’interno del «nuovo paradigma» ma prende in considerazione oltre al monopolio e alla concorrenza anche la teoria del sociologo californiano Neil Fligstein, che applica il concetto di «campo stabile» ai mercati di beni simbolici. Secondo gli economisti, quando il mercato si muove in un campo stabile e nessun concorrente ritiene probabile che ci saranno importanti variazioni della sua quota, le aziende che non sono in posizione dominante non danno priorità al marketing ma alla legittimazione: più che di acquistare nuovi clienti, cercano di entrare nei «salotti buoni» e di farsi percepire come rispettabili dalle aziende dominanti.

Fligstein (1996) applica questi principi – che distinguono fra campi «stabili», «emergenti» (che per definizione non sono stabili) e «in crisi» – alla politica, e Melissa Wilde alla religione. Le Chiese monopolistiche europee e le Chiese non monopolistiche dell’Europa del Nord e del Nord America operano all’epoca del Concilio in campi stabili; quelle latino-americane in un campo in crisi, segnato da notevole turbolenza e rapide variazioni; e quelle missionarie in campi emergenti. Un’applicazione alla popolazione costituita dai padri conciliari della teoria del monopolio da sola spiegherebbe perché il primo gruppo di padri, espressione di Chiese semi-monopolistiche, non abbia particolarmente insistito (nella sua maggioranza) in atteggiamenti tali da far percepire all’esterno cambiamenti particolarmente rilevanti, mentre gli altri tre gruppi si siano comportati in modo contrario. Il monopolista è di per sé poco incline al cambiamento. Ma, insiste la sociologa americana, solo l’applicazione della teoria dei campi stabili permette di rendere ragione del differente comportamento di due gruppi non monopolisti (i padri conciliari del Nord dell’Europa e dell’America, e quelli delle Chiese missionarie) e di un gruppo pseudo-monopolista (quello latino-americano). In situazione simile quanto al monopolio, questi tre gruppi differiscono quanto al tipo di campo in cui operano: un campo in crisi in America Latina, un campo emergente per le terre di missione, un campo stabile per l’Europa e l’America del Nord.

Un atteggiamento che intende manifestare all’esterno che è in corso un cambiamento, comune a tutti i non monopolisti, assume così caratteri diversi. Per i padri del Nord Europa e dell’America Settentrionale l’atteggiamento mira ad acquistare benefici in termini di legittimità. La priorità dunque non è la ricerca di nuovi fedeli ma il farsi accettare come «uguali» dall’establishment protestante (o laicista) maggioritario, assumendo un atteggiamento fortemente ecumenico. Per i padri delle comunità missionarie, che operano in un campo emergente, l’orientamento dominante consiste nel presentarsi come gruppo dinamico capace di attirare nuovi fedeli ma nello stesso tempo ecumenico, perché il competitor di riferimento non è identificato nelle comunità protestanti (con cui possono esserci, al contrario, interessi comuni nel campo della rivendicazione della libertà religiosa) ma nelle religioni non cristiane. Per i padri latino-americani, che operano in un campo in crisi, la priorità è presentarsi come in grado di attirare nuovi fedeli senza prestare troppa attenzione all’ecumenismo perché ilcompetitor religioso immediato è costituito dai protestanti pentecostali, acquisire la cui stima non comporterebbe benefici significativi dal punto di vista della legittimità in quanto i pentecostali non sono considerati particolarmente «rispettabili» dai «salotti buoni» giornalistici, culturali e accademici in grado di conferire patenti di legittimità. I padri latino-americani considerano, secondo Melissa Wilde, molto più rispettabile (in questo riflettendo il giudizio dei «salotti buoni») il competitor marxista, tanto che nei suoi confronti sviluppano un «isomorfismo mimetico» (Wilde 2007b, 23). Ritenendo che i marxisti abbiano sia un particolare successo presso il «popolo», sia una speciale rispettabilità in circoli culturali capaci di conferire legittimità, i padri latino-americani cercano, come insegna la teoria economica, di «mimare le strategie [ritenute] di successo utilizzate da aziende concorrenti» (ibidem: più tardi, in una certa, minore misura, i padri dell’America Latina cercheranno anche di mimare quella che ritenevano – erroneamente – essere la chiave del successo pentecostale, cioè la creazione di piccole comunità guidate da laici). Ma la teoria economica insegna pure che l’isomorfismo mimetico di rado ha successo.

b) Obiezioni alla tesi della Wilde

L’analisi di Melissa Wilde ha ricevuto obiezioni tecniche, che in parte condivido, da parte di sociologi (cfr. per esempio Berzano 2007), e obiezioni più radicali da non sociologi come lo storico Alberto Melloni, secondo il quale la studiosa americana dà troppa importanza all’ecumenismo, che per molti padri non è la preoccupazione principale, e si concentra solo sulla geografia mentre gruppi uniti da fattori diversi da quello geografico hanno al Concilio non minore importanza (per esempio gli ex alunni dell’Almo Collegio Capranica di Roma sono un gruppo «con una coerenza maggiore di parecchi episcopati nazionali»: Melloni 2007). Obiezioni tutte interessanti, ma che nascono da una fondamentale incomprensione della prospettiva sociologica del «nuovo paradigma», all’interno della quale si dà per scontata una sorta di «magia del mercato» (religioso) per cui gli atteggiamenti degli attori sociali non sono necessariamente consapevoli e meditati.

Melloni ha ragione quando mette in guardia contro il rischio di sopravvalutare la portata delle conclusioni della sociologa americana. Qualche volta, leggendo il suo testo, sembra che la Wilde scivoli, più o meno inconsapevolmente, da una presentazione dell’atteggiamento e dei modi di comunicare con i media dei padri conciliari a un giudizio che vorrebbe coinvolgere anche i documenti del Concilio, su cui invece la sua analisi a rigore non può dire nulla, dal momento che non prende in esame i testi ma i comportamenti durante l’assise romana di un determinato gruppo di persone (appunto i padri conciliari). Ma questi comportamenti sono tutt’altro che poco importanti. Per la prima volta nella storia dei Concili il Vaticano II è stato un grande evento mediatico, e come i padri che parlavano con i media lo hanno presentato durante e dopo l’evento conciliare ha in gran parte determinato come i fedeli di tutto il mondo (per non parlare dei non cattolici) lo hanno percepito. Si situano qui anche dei comportamenti di tipo omissivo che, uniti alla loro presentazione mediatica, hanno avuto un ruolo non secondario nella percezione ad extra del Concilio: così la decisione di non votare un documento specifico sulla Vergine Maria (oggetto secondo la Wilde della «più dura battaglia del Concilio»: Wilde 2007a, 102) e quella di non pronunciare una condanna solenne del comunismo, che da più parti era richiesta ai padri del Vaticano II. In entrambi i casi, accanto a ragioni diverse, gioca certo un ruolo l’ecumenismo: il documento sulla Madonna avrebbe irritato i protestanti, quello sul comunismo i governanti dei Paesi dell’Est europeo che esercitavano un controllo quasi totale sulle locali Chiese ortodosse.

Si potrebbe naturalmente dire che sia della Madonna sia (molto meno) del comunismo si parla esplicitamente o implicitamente altrove nei testi del Concilio. Anzi, l’ottavo capitolo della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium costituisce il più importante ed esteso trattato sulla Madonna prodotto dal magistero cattolico fino a quella data, e la scelta di trattare della Vergine Maria nell’ambito – come recita il titolo di quel capitolo – del «mistero della Chiesa» si radica in una lunga e autorevole tradizione teologica. Ma qui non si stanno discutendo i documenti; sono l’atteggiamentodei padri (o di molti di loro) e i loro rapporti con i media che vengono in considerazione. Nonostante l’ottavo capitolo della Lumen Gentium, la scelta di rinunciare a un documento mariano a sé stante (che pure è sostenuta da fondate ragioni di carattere teologico, che vanno molto al di là del semplice bon ton ecumenico) è comunque presentata prima alla stampa e poi dalla stampa dominante come l’ennesima «vittoria» dei «progressisti» sui «conservatori». L’analisi sociologica di Melissa Wilde permette così di raffinare la consueta domanda se siano stati i documenti del Concilio o la loro interpretazione postconciliare a provocare la crisi. A parte il ruolo di riforme post-conciliari (che non si risolvono nella sola riforma liturgica: si è accennato al’importanza che diversi sociologi danno alle innovazioni in materia di astensione dalle carni al venerdì), emerge qui un terzo elemento: il modo in cui – attraverso un plesso di comportamenti che include dichiarazioni alla stampa, modi di comportarsi e anche omissioni – il Concilio è stato presentato ai media e quindi percepito dai fedeli (che, vale sempre la pena di ricordare, né sono teologi né corrono immediatamente a leggere i documenti) già durante il suo svolgimento. Oltre ai due elementi rappresentati dai documenti e dalla loro ermeneutica ce n’è un terzo: il Concilio come evento, come fatto sociale globale che in uno «studio del caso» sociologico non è separabile dalla sua percezione filtrata dai media (ancorché non si riduca a questa), e che è propriamente l’oggetto dello studio di Melissa Wilde.

c) Documenti, ermeneutica dopo il Concilio e comunicazione durante il Concilio

Alla domanda se la crisi derivi dai documenti del Vaticano II o dalla loro interpretazione da parte di chi ha opposto all’accostamento letterale ai testi l’appello a un presunto spirito – o meglio, «anti-spirito» – del Concilio la risposta che il cardinale Joseph Ratzinger ha dato nel libro-intervista Rapporto sulla fede del 1985, e che è diventata magistero sia di Giovanni Paolo II sia di Benedetto XVI, è del tutto priva di equivoci. Non sono i testi ad avere creato i problemi, è una loro interpretazione arbitraria secondo una «ermeneutica della discontinuità e della rottura» che ha letto il Vaticano II non alla luce del, ma contro il magistero precedente (Benedetto XVI 2005). Il lavoro di Melissa Wilde, a ben vedere, non risponde in modo alternativo a questa domanda, ma aiuta a formularne un’altra diversa, inserendo tra i fattori che hanno determinato la ricezione del Vaticano II non solo l’ermeneuticasuccessiva al Concilio ma anche l’atteggiamento durante l’assise ecumenica di molti padri conciliari che hanno preparato il terreno a una successiva ricezione del Concilio secondo l’«ermeneutica della discontinuità e della rottura» (il termine, qui, evidentemente è di Benedetto XVI e non della Wilde). Un filosofo come McInerny (1998) mostra scarsa pazienza rispetto ai sociologi e anche rispetto agli storici che hanno analizzato in modo minuto (ma talora, a suo avviso, schematico) lo scontro fra padri conciliari «progressisti» e «conservatori», compreso padre Ralph Wiltgen, SVD (1921-2007) che considera peraltro un autore particolarmente affidabile (Wiltgen 1967). I testi del magistero, ci assicura McInerny, sono anzitutto questo, testi: la loro analisi dimostra che l’ermeneutica della rottura è infondata e fa loro violenza, e lo studio di come sono stati elaborati rischia di distrarre l’attenzione dall’essenziale. Si tratta di una posizione condivisibile, ma che non dispensa dallo studio dei modi di comunicazione tra padri, media e mondo non cattolico durante il primo Concilio della storia che è stato anche un grande avvenimento mediatico.

Beninteso, questi atteggiamenti comunicativi che si sono manifestati durante il Concilio hanno influenzato sia le successive tendenze ermeneutiche sia la spinta verso riforme postconciliari (che peraltro non è stata affatto recepita passivamente dalla Santa Sede, dal momento che la riforma che stava più a cuore a molti padri che mettevano in primo piano esigenze di legittimazione, quella in materia di controllo delle nascite, fu bloccata nel 1968 con l’Humanae vitae). A costo di apparire ripetitivi, vogliamo insistere che si tratta qui non dei testi, ma del modo in cui – già prima di passare alla fase ermeneutica postconciliare – il Concilio è stato presentato ai media e ai fedeli durante il suo stesso svolgimento, anche attraverso alcune «spettacolari» omissioni (e le omissioni, evidentemente, non sono documenti).

Possiamo così trarre un bilancio dalla discussione sociologica all’interno del «nuovo paradigma» sulla crisi nella Chiesa cattolica successiva al Concilio Vaticano II. Questa crisi – per quanto possa dirne la sociologia, che si occupa solo del «lato umano della religione» – è evidente qualunque sia l’accostamento ai dati, quantitativo o qualitativo. Solo un’ostinazione ideologica estrema può negare che, per dirla con il cardinale Ratzinger del 1985, gli anni 1966-1985 «sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica» (Messori 1985, 27).

La crisi non deriva da una presunta timidezza della Chiesa cattolica nell’abbracciare i valori dominanti della società moderna e postmoderna (come vorrebbero alcuni teorici del «vecchio paradigma», che postulano una variazione della domanda), ma al contrario – come dimostrano Finke e Stark – da uno slittamento dell’offerta cattolica verso una nicchia del mercato, quella progressista, dove ci sono meno consumatori di beni religiosi (mentre possono esserci molti consumatori di altri beni simbolici, non religiosi).

Questo slittamento dell’offerta, che ha determinato la crisi, non deriva dai documenti del Concilio Vaticano II ma piuttosto :
(a) dal modo con cui il Concilio è stato presentato ai media e ai fedeli già durante il suo svolgimento, anche attraverso significative omissioni, da un certo gruppo di padri conciliari, i quali erano spinti – consapevolmente o inconsapevolmente – dalle dinamiche dei rispettivi mercati religiosi a cercare la legittimazione dei «poteri forti» protestanti, laicisti o marxisti, di cui talora – ancora, non necessariamente in modo consapevole – cercavano pure d’imitare le strategie per fenomeni d’isomorfismo mimetico; 
(b) dall’impatto di alcune riforme postconciliari (non solo quella liturgica), che sono state presentate e percepite – in logica continuità con le strategie comunicative di cui al punto precedente – in alcuni Paesi e presso alcuni gruppi di fedeli precisamente come un mutamento dell’offerta inteso a diluire la specificità del cattolicesimo rispetto sia ad altre offerte religiose sia alla cultura dominante; (c) dalla interpretazione del Concilio («ermeneutica della discontinuità e della rottura») prevalente in significativi ambienti teologici e culturali cattolici almeno fino alla fine del pontificato di Papa Paolo VI, e anche oltre.


Caterina63
00sabato 6 agosto 2016 22:09

Don Divo Barsotti di fronte al Concilio del XX secolo



(di Cristina Siccardi su Messa in Latino del 05-04-2012) Nel fervido e provvidenziale dibattito in corso sul Concilio Vaticano II giunge a proposito la bella e chiara biografia scritta da padre Serafino Tognetti, Divo Barsotti. Il sacerdote, il mistico, il padre (San Paolo, pp. 405, € 29.00), utile strumento per comprendere da vicino la figura di un monaco che ha vissuto intensamente le aspettative e le cocenti delusioni di un evento che ha rivoluzionato l’operatività della Chiesa in maniera così profonda da alterare la trasmissione della Fede.


Quando venne annunciata l’apertura del Concilio Vaticano II (25 gennaio 1959), furono in molti a riporre grandi speranze nell’evento e fra questi il monaco don Divo Barsotti (1914-2006). Prima del Concilio stesso don Divo ebbe più volte modo di manifestare una certa insofferenza nei confronti di alcuni metodi della Chiesa, che considerava chiusi e rigidi.


Scrive padre Tognetti: «Il momento dell’apertura del Concilio ci rivela un duplice atteggiamento da parte di don Barsotti. Da una parte egli presentava l’evento conciliare ormai imminente come “un’occasione, forse la più grande che Dio abbia concesso all’umanità di oggi, per essere salvata”; dall’altra parte il Concilio potrebbe però rivelarsi “un’occasione per cui questa umanità, invece di essere salvata, potrebbe precipitare nel buio, nella tenebra, non dico in un’apostasia dichiarata, ma in uno scetticismo, in una tensione, in una disperazione che non potrebbe essere più lenita da una speranza che le venga da Cristo, che le venga dalla Chiesa, che è del Cristo la continuatrice, anzi la stessa presenza”. Questo timore di don Divo era motivato dalla percezione di un pericolo che egli scorse nascosto sotto i facili entusiasmi di molti: “Il pericolo di un Concilio che lascia le cose come le trova, anzi le peggiora. Perché ogni grazia di Dio è per sé ambigua: se l’anima non la riceve e non la fa fruttificare, quella grazia si trasforma per te in un motivo maggiore di condanna, di rovina e di morte”» (1).


Barsotti seguì con attenzione, apprensione e soprattutto con la preghiera lo svolgimento dei lavori conciliari. Condusse la Comunità dei Figli di Dio, da lui fondata nel 1947, a meditare i diversi documenti prodotti durante l’Assise. Una delle tematiche che maggiormente lo interessò e lo preoccupò fu quella relativa alla riforma liturgica:


«Il primo errore che dobbiamo evitare è pensare che la riforma liturgica abbia un carattere essenzialmente e primariamente pastorale. Oltre tutto, questo non potrebbe mai essere nella Liturgia. Ha anche un carattere pastorale, indubbiamente, ma prima ancora è preghiera. La prima cosa che si impone per me, se io voglio essere ministro della preghiera liturgica, è che io preghi e faccia pregare gli altri. […]. La preghiera liturgica dunque ci forma alla preghiera e forma il popolo alla preghiera soltanto in quanto fa pregare; se non facesse pregare, non formerebbe né alla Liturgia né alla preghiera. Ed ecco una cosa importante allora che dobbiamo evitare, che cioè queste riforme siano fatte come una “prima di teatro”, come uno spettacolo» (2).


Non passò molto tempo che gli auspici di una benefica rivitalità della Chiesa, promessa dal Concilio, si trasformò, invece, in un’acuta e dolorosa amarezza.Il monaco nato a Palaia (Pisa), ordinato sacerdote nel duomo di San Miniato il 18 luglio 1937, sentì in tutte le sue fibre la drammaticità della crisi della Chiesa sorta negli anni postconciliari. Percepì da vicino e con sgomento il clima di banalizzazione in cui era stato inserito l’annuncio cristiano, un clima che perdeva sempre più la dimensione soprannaturale per acquisire una comune prassi ecclesiale dai lineamenti sempre più umani e sociali. Il mondo era entrato nella Chiesa con le sue idee fuorvianti ed era quello il tempo della rivoluzione culturale del Sessantotto con le sue stravaganze e bizzarrie “di moda”, che voleva «mandare al macero le tradizioni» (3).


La presa di coscienza di ciò che era accaduto e stava accadendo, l’osservare le ferite che venivano inferte con prepotenza alla Chiesa, il verificare la secolarizzazione che, a valanga, investiva gli ambienti cattolici, il prendere atto che lo storicismo e l’antropocentrismo s’impossessavano della figura divina di Cristo e delle Sacre Scritture, travagliarono inesorabilmente i giorni di don Divo Barsotti, che si interrogò sul ruolo che lui doveva assumere… Continuò a favorire, all’interno della sua Comunità, una formazione solida e robusta per non cadere nella trappola del vago senso religioso, infatti: «Bisogna che agisca in tutta la Chiesa senza muovermi dal mio centro. Non debbono essere parole. È necessario che concretamente io partecipi a tutta la vita del mondo senza rifiutarmi, senza escludermi da alcuna attività: che io viva tutta la vita, culturale e religiosa, riformatrice e missionaria – eppure rimanga fisso in Dio» (4).


L’atteggiamento di don Divo di fronte al Concilio Vaticano II si sviluppa in tre fasi: le aspettative (prima), l’ascolto di ciò che veniva prodotto (durante), la valutazione dei frutti (dopo).  Risulta di grande importanza, dunque, conoscere il dipanarsi delle sue riflessioni maturate nel corso del tempo e che sono ben evidenziate ed esaminate nei suoi Diari e che padre Tognetti ha studiato in profondità.


Don Divo non è un “sospettabile” che odora di tradizionalismo, è un sacerdote che non può essere accusato di “pregiudizi” e preconcetti; egli è un monaco che elaborò e ruminò ipotesi, idee, applicazioni del Concilio Vaticano II, giungendo alle conclusioni che oggi in molti, ormai, vanno ragionando. Ed ecco che i teologi furono da lui considerati i grandi responsabili di ciò che era avvenuto nella Chiesa, nei Seminari, nelle facoltà universitarie:
«[…] le parole non generano più che nuove parole […]. Il Concilio di Trento ha nutrito la teologia per quattro secoli; del Vaticano II i teologi sembrano già stanchi dopo pochi anni dalla fine» (5).

Padre Tognetti, che ha vissuto a fianco di don Divo fin dalla giovinezza,potendo oggi testimoniare con vivezza un’esistenza imbevuta alla fonte del silenzio immerso nel trascendente, analizza come l’atteggiamento del fondatore della Comunità dei Figli di Dio si sia andato depurando sempre più da ogni semplicistico ottimismo  e, di contro, si sia fatto sempre più critico nei confronti dei cambiamenti introdotti nella Chiesa dal Concilio del XX secolo. Il suo fu un vero e proprio travaglio, sia intellettuale che spirituale. E proprio perché immenso fu il suo amore per la Chiesa più accesa e più detonante fu la sua angoscia.

Nelle pagine del Diario del 1967, quando erano trascorsi appena due anni dalla chiusura dell’Assise, egli esternò la sua critica sui documenti conciliari, che gli «sembrano attestare una sicurezza tutta umana più che una fermezza di fede» (6) e reagì con forza «contro la facile ubriacatura dei teologi acclamati al Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, un’orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico» (7).

Molti teologi, infatti, si sentirono capicannonieri e l’eco della loro esultanza fu raccolta dall’editoria come dalla pubblicistica in genere, dalle facoltà teologiche come dai simposi. Don Divo, invece, come altri messi a tacere o isolati in un angolo, perché non portassero “scandalo” e non disturbassero la rivoluzione in corso, andava allarmandosi sempre più, non riconoscendo nella nuova impronta ecclesiale gli insegnamenti della Chiesa di sempre.

Si dimostrò infastidito dalla continua esaltazione del Concilio, una manifestazione che gli pareva essere frutto di «cattiva coscienza» (8) da parte di chi lo difendeva ad oltranza, ma: «Se è opera di Dio, non ha bisogno di essere difeso» (9). Era una volontà prepotente di chi rinfacciava alla Curia romana la propria vittoria e intanto per Barsotti – che guidò, su richiesta esplicita di Paolo VI,  gli esercizi spirituali alla stessa Curia, nella settimana dopo il mercoledì delle Ceneri del 1970 – l’Assise «forse perché ha voluto dir troppo, non ha detto molto»  (10).

Denunciò la precisa volontà dei Padri conciliari e dei Vescovi del postconcilio di non condannare l’errore, con la pretesa di rinnovare la Chiesa «quasi che il “loro” Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto» (11). Parole che fanno rabbrividire, ma che testimoniano inequivocabilmente che davvero successe qualcosa di grave fra il 1962 e il 1965: far finta di niente equivarrebbe a non voler risolvere l’evidente crisi della Chiesa e della Fede ad essa correlata.

Barsotti, del quale l’autore della biografia ripercorre con acume tutti i passi della sua ricca esistenza, non rimase in silenzio, osservava e parlava, giungendo ad affermare cose che la Tradizione continua a ribadire, ovvero che nel Vaticano II «non sono stati impediti gli equivoci, l’ambiguità e soprattutto non è stata impedita la presunzione, non l’ambizione e il risentimento, non la superficialità e la volontà di un rinnovamento che voleva essere uno scardinamento, sradicamento della tradizione dogmatica, una diminuzione della tradizione spirituale» (12).

Non acquisì posizioni di rottura nei confronti del Magistero, ma esplicita e manifesta era la sua criticità e la sua grande sofferenza che riusciva a sublimare nella contemplazione e nel ritiro di una vita monastica assorta in Dio, nella insistente ricerca delle virtù della perfezione cristiana. Ed ecco l’inseguimento della santità, amata e desiderata: senza la santità, per questo monaco tuffato nello Spirito, che meditava scrivendo e scrivendo meditava, la religiosità “moderna” era fatta soltanto di parole vuote e vane, come chiaramente espresse nella sua opera Battesimo di fuoco: «Sono perplesso nei riguardi del Concilio medesimo: la pletora di documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. […] Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi. Crederò loro quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo. […] Tutto il resto è retorica. Soltanto la santità salva la Chiesa. E i santi dove sono?» (13).
Cristina Siccardi
NOTE

(1) S. Tognetti, Divo Barsotti. Il sacerdote, il mistico, il padre, San Paolo, Milano 2012, pp. 221-222.
(2) Ivi, p. 223.
(3) Ivi, p. 224.
(4) Ibidem.
(5) Ivi, p. 225
(6) Ivi, p. 226
(7) Ibidem.
(8) Ivi, p. 228.
(9) Ibidem.
(10) Ivi, p. 226.
(11) Ivi, p. 227.
(12) Ibidem.
(13) Ivi, p. 228.





 

Una “giunta” all’inchiesta di Vinicio Catturelli sul cattocomunismo toscano, per ricordare la figura di Don Divo Barsotti, mistico testimone della Fede di sempre, lucido nei giudizi, irremovibile sulla Dottrina. Il pensiero di Don Barsotti sulla “preghiera in comune” con le false religioni.

di Osvaldo Ravoni

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z.barsottiVorrei fare una “giunta” all’inchiesta sul “cattolicesimo fiorentino” del collega e concittadino prof. Vinicio Catturelli (anch’io,  pur vivendo nella campagna casentinese, a un tiro di schioppo da Bibbiena, sono montecatinese puro). Sono in perfetta “simbiosi” con Vinicio: l’aver additato, nel pomeriggio del 12 luglio, quei personaggi come esempi cattolici che, per di più, avrebbero seguito l’insegnamento del nostro grande Cardinale Dalla Costa, è stata una cosa che, oltre a scandalizzarmi, mi ha profondamente addolorato anche perché, insieme ai vari Balducci, don Milani, p. David Turoldo, sono stati inseriti anche – come già è stato fatto notare durante l’inchiesta – alcuni personaggi che sono agli antipodi della banda “contestatrice” citata dal Cardinal Betori.

Di Bargellini ha già detto tutto Catturelli. E che dire di don Divo Barsotti, il mistico fondatore dei Figli di Dio che il sottoscritto ha ben conosciuto in vita e del quale serba anche del buon materiale cartaceo di cui pensa di servirsi per difendere il sacerdote “fedele” ?Sarà un caso ma, in contemporanea alla “sparata” di Betori, è uscito un libro – sembra per volere di un microcefalo, in qualche modo eletto successore di don Divo, un personaggio che vive di cattiverie, di gelosie, di invidie e, se è vero che lui sia l’ispiratore di questa pubblicazione, anche di menzogne…come il Diavolo! – a cura di due sconosciuti, naturalmente di “sinistra”, che rispondono ai nomi di Stefano Albertazzi e Agostino Ziino, e dal titolo sconvolgente ma furbesco : “Don Barsotti un uomo dentro il Concilio” (ed: San Paolo)…così da contentare tutti: quelli che, come il sottoscritto, hanno conosciuto don Divo (e sanno benissimo del suo giudizio sul Concilio) e quelli che non hanno conosciuto il mistico toscano o coloro che lo hanno conosciuto e, in malafede, cercano di turlupinare, falsando la sua figura e il suo insegnamento.

Don Divo Barsotti anche nei nostri incontri non faceva mistero delle sue idee e, tanto per fare un esempio, le esponeva anche pubblicamente su articoli di giornale o in interviste. C’è un libro illuminante in questo senso, ovvero “I cristiani vogliono essere cristiani” edito dalla San Paolo, a cura di Paolo Canal, con la presentazione di Antonio Socci, che comprende interventi del “Padre” dal 1950 fino al nuoco Secolo.

Centra bene il personaggio Antonio Socci allorché scrive:

“Don Divo Barsotti – come Maria , la sorella di Lazzaro – non ha fatto che scegliere la ‘parte migliore’ e non separarsene mai , non tradire mai quel Volto amato per i legnosi e menzogneri idoli dei tempi”.

Ecco, i legnosi e menzogneri idoli dei tempi erano proprio le idee a cui si rifacevano quei personaggi che l’arcivescovo di Firenze ha additato come “testimoni cattolici” (proprio così) del XX Secolo che hanno seguito il Magistero del cardinale Elia Dalla Costa.

Non mi resta che invitare i nostri lettori a leggere il libro “barsottiano”. E intanto, e lo faccio con grande umiltà, pensando di rendere un servigio alla mia Chiesa, vorrei far presente al nostro eminentissimo arcivescovo cosa pensasse don Barsotti della preghiera e, soprattutto, della preghiera fatta in comune con le false religioni :

z.lbrbars“I giovani…ne riscoprono in pieno il bisogno (della preghiera) . Molti si rivolgono a concezioni e tecniche che vengono dall’Oriente e che non sono conciliabili, malgrado certe apparenze, con l’autentica preghiera cristiana. Questa è sempre un dramma, perché è un rapporto di persone con Dio Trinitario, con il Dio di Persone. Il moderno pensiero occidentale  e molta religiosità orientale , invece propongono l’uomo come termine ultimo, come dio a se stesso. …l’Islamismo invece, accentuando fortemente e unilateralmente l’unicità di Dio, la sua trascendenza, la sua libertà assoluta senza contatto con l’uomo, impedisce a quest’ultimo di entrare in rapporto. Al fondo si scopre che il rapporto uomo – Dio, nella preghiera, è possibile solo se Dio è Trinità, se dunque è rapporto già in sé stesso“.

Ecco, se ne avessi l’autorità e l’autorevolezza, mi verrebbe voglia di chiedere al nostro arcivescovo – salto a piè pari il microcefalo per la mia idiosincrasia per tutto ciò che è viscido e strisciante – ma domenica scorsa, con tutto il musulmanune di Firenze, in Santa Maria del Fiore, chi avete pregato? Il nostro Dio, Uno e Trino, no di certo… siccome, date le condizioni, non avete pregato neanche Allah, il falso dio, allora posso pensare che abbiate pregato, come appunto predicava l’altro “testimone cattolico” del XX Secolo, p. Balducci, il “deus absconditus” ovvero il Grande Architetto dell’Universo…nella Loggia (pardon, nel duomo) di Firenze!

Quando Paolo VI chiese a don Divo Barsotti di cercare di mediare tra Vaticano e contestatori fiorentini (don Mazzi, p. Balducci, Turoldo e focolai simili) ne ebbe un netto rifiuto:

“Devono sentire la loro solitudine, devono accorgersi del peso di un cristianesimo che rifiuta la mediazione della Chiesa”.

Anche nei confronti dei democristiani, colpevoli di aver introdotto, con i loro tradimenti, la legge assassina sull’aborto fu inesorabile:

“Sono tra coloro che credono nel giudizio di Dio; pochi giorni dopo aver firmato , Leone se ne dovette scappare in modo disonorante dal Quirinale; subito dopo anche Andreotti dovette dimettersi. Dissero che se non avessero avallato quella legge il governo sarebbe caduto? Già, ma che importa a noi di tali governi?”.

E sul Concilio come la pensava Barsotti? Giulebbe per le mie orecchie…

“Newman, l’anglicano passato al cattolicesimo e divenuto cardinale, lo storico dei concili, ripeteva spesso che ogni Concilio è sempre un grave pericolo per la fede. E ‘ uno strumento da manovrare con grande prudenza e fermezza, da convocare dopo aversi pensato bene e solo per gravi questioni. Sin dalla prima sessione si vide dove le cose andavano a parare, con l’accantonamento sdegnoso di tutti gli schemi preparati. Inoltre i vescovi dissero subito che non intendevano condannare nessuno, il che significava però rinunziare al loro servizio di maestri della fede, di depositari della rivelazione…”

E il suo giudizio su Teilhard de Chardin? Eccolo, paro, paro: “ E’ il pensatore che sta dietro a molti errori che inquinano la teologia (e la mentalità moderna) . E’ stato il maestro di certi periti ed esperti conciliari. Stabilisce infatti una continuità tra progresso ideologico e progresso spirituale: è il concetto di evoluzione, insomma, applicato al cristianesimo. Con vari risultati inquietanti: il peccato diventa tutt’al più un incidente, una mancanza che sarà appianata dall’evoluzione; la libertà svanisce perché uomo e umanità sono coinvolti, lo vogliano o no, in un processo ascendente comunque verso l’alto; la verità e il dogma che cerca di esprimerla diventano relativi, destinati a essere sorpassati, ciò che conta è solo davanti, verso il punto finale dell’evoluzione. E, invece, il cristianesimo autentico impone di guardare contemporaneamente al futuro, al passato e al presente”

Siccome, però, ci vergogneremmo a fare come hanno fatto i due curatori del libro “Don Barsotti : un uomo dentro il Concilio”, ovvero a estrapolare, come hanno sempre fatto i falsari neomodernisti, alcune frasi per servirsi del “Padre” ad usum delphini, invitiamo a leggere la pubblicazione a cura di Paolo Canal, pubblicata dalla San Paolo “I cristiani vogliono essere cristiani”. Sono 350 pagine che documentano : “la lucidità eccezionale con cui don Barsotti a ogni svolta dei tempi, in ogni contingenza, ha illuminato il cammino confuso di tanti cristiani indicando sempre e solo Lui, la Verità fatta carne, il suo Santo Volto, la vita vera della Chiesa”.

Insomma, scegliete. Tra i testimoni del XX Secolo, se mettete Don Divo Barsotti, Bargellini e, sì, anche Giorgio la Pira, che alla Chiesa fu sempre fedele, allora levate i vari p. Balducci, don Milani, Giampaolo Meucci, David Turoldo etc. e levate anche i microcefali, lo dico con tutto il rispetto , di oggi. Sì, perché anche nell’errore e nell’eresia si può esser grandi. Come c’è una grandezza anche nel male: don Rodrigo e l’Innominato. Gli emuli dei Milani, Balducci, Turoldo, Meucci, si chiamano oggi don Mazzinghi, don Jacopuzzi, don Mohamed Maurizio Tagliaferri, don Stinghi , don Santoro, don Giannoni, don Marco Zanobini…come i carciofi al mercato in offerta nella stagione buona: tre mazzi un euro.

Con la differenza che ai carciofi non è concesso l’insegnamento nel seminario fiorentino.


Caterina63
00venerdì 9 marzo 2018 20:57

DIARIO CONCILIARE DI MONS. PERICLE FELICI: COGLIENDO QUA E LA’… – di GIUSEPPE RUSCONI




E’ una miniera di notizie, di aneddoti, di riflessioni la cronaca ragionata del Segretario Generale del Vaticano II, che comprende anche la lunga fase preparatoria. Autore del volume che la raccoglie è mons. Vincenzo Carbone, mentre mons. Agostino Marchetto ne ha scritto la prefazione e curato la pubblicazione presso la Libreria editrice vaticana. In primo piano Giovanni XXIII, Paolo VI, il clima conciliare non sempre sereno. Ma c’è anche dell’altro.

Chi è Pericle Felici? Nato a Segni (non lontano da Roma) nel 1911, ordinato sacerdote nel 1933, vescovo nel 1960, riceve la porpora nel 1967; nominato prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, muore nel 1982. Soprattutto seguì da protagonista gli anni del Concilio (ivi compresa la lunga preparazione), dal 1959 al 1965: ne fu sempre “Segretario”, fin dalla costituzione nel maggio 1959 della ‘Commissione Antipreparatoria’. Pericle Felici, dalla sua posizione di attore e osservatore privilegiato che aveva rapporti diretti e regolari con Giovanni XXIII e con Paolo VI, ebbe la costanza di mettere nero su bianco ciò che di interessante (a suo parere, ma spesso anche nella realtà) accadde in quegli anni nella sede di Pietro, centro della Chiesa universale. Affidò i suoi appunti (conservati nel fondo di un inginocchiatoio e scritti a mano) al suo collaboratore ‘conciliare’ mons. Vincenzo Carbone, che era stato incaricato da Paolo VI di occuparsi dell’archivio del Vaticano II. Carbonetrascrisse a macchina (e li fuse) i testi sia dell’ Agenda che delle Cogitationes cordis mei di Pericle Felici e continuò ad appassionarsi al tema anche da pensionato, ciò che suscitò l’interesse del nunzio e storico Agostino Marchetto. I due si frequentarono e il diplomatico vicentino, considerato da papa Francesco – in una lettera del 7 ottobre 2013 (vedi in questa stessa rubrica)– “il miglior ermeneuta del Concilio”, venne in possesso delle preziose carte, passate al Capitolo dei canonici vaticani dopo la morte di Carbone nel 2014. Nelle quasi seicento pagine del volume pubblicato dalla Libreria editrice vaticana non si ritrovano esclusivamente notizie e riflessioni riguardanti il Concilio, ma anche – ad esempio – osservazioni papali su questo o quest’altro argomento d’attualità. Per invogliare alla lettura dell’intero testo abbiamo scelto una trentina di passi, che non raramente conservano sorprendentemente una loro piena attualità. Come il lettore potrà facilmente intuire.

 

GIOVANNI XXIII RICEVE IN UDIENZA PER LA PRIMA VOLTA MONS. PERICLE FELICI (10 febbraio 1960). (Giovanni XXIII) è affabilissimo: ricorda di avermi visto qualche volta in Seminario; e gli faceva impressione quella faccia non proprio alla Borgia (diciamo così). Ora è contento di servirsi dell’opera mia, soprattutto dopo quello che gli ha riferito di me il card. Tardini. E trova di buon auspicio che il primo incontro avvenga alla vigilia dell’Immacolata di Lourdes. Dovrò quindi essere il suo immediato collaboratore per la preparazione del Concilio; chiederò udienza, quando occorrerà, servendomi del tramite di mons. Capovilla, di cui mi descrive i pregi e i difetti. (…) Poi insieme ci rechiamo dal card. Tardini. Un’altra ora di colloquio a tre! Si commenta la morte del card. Aloizije Stepinac, avvenuta nel pomeriggio. Un eroe! dice il card. Tardini. Un eroe, conferma il Santo Padre.

RICORRENTE IL PENSIERO DELLA MORTE (12 aprile 1960). In realtà il pensiero della morte mi domina; particolarmente la sera, e mi domando cosa valga fare tante cose, mettere mano a tante imprese, angustiarsi tanto per le cose di quaggiù, promozioni, posti, carriera, soldi, quando fra breve (e il tempo è sempre brevissimo) bisogna lasciar tutto. E pure tante volte mi assalgono brutte tentazioni di orgoglio che tanto mi fanno soffrire. (…) Ma v’è un modo per sfruttare soprannaturalmente anche queste. Metterle nel Cuore dolcissimo di Gesù, mite ed umile, e pregare, pregare.

Il CONCILIO? DUE MESI DI DURATA (30 aprile 1960, in udienza da Giovanni XXIII). (Per il Papa) la celebrazione del Concilio dovrà durare non più di due mesi. E questo sarà possibile se la preparazione sarà accurata. Prometto che faremo del nostro meglio.

DESTRA E SINISTRA (28 maggio 1960, in udienza da Giovanni XXIII). Al Santo Padre non piace la fraseologia: destra e sinistra. “Ma certo a noi, che siamo venuti da povera gente e ne sentiamo le necessità, certe asserzioni della cosiddetta sinistra fanno più piacere, e talora corrispondono di più al Vangelo”.

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CURIA ROMANA 1 (8 giugno 1960). Al Santo Padre fanno dispiacere particolarmente due cose: l’arrivismo e l’ambizione, che spesso infetta la Curia Romana, e il disaccordo, non sempre celato, tra alti Prelati di Curia.

CURIA ROMANA 2 (29 luglio 1960). (Giovanni XXIII) è un uomo di Dio, che vive del suo spirito, senza ostentazione e formalismi. Ha la semplicità delle anime piene dello spirito di Dio; non ricorda le offese, interpreta tutto in bene; ma il male, la malevolenza, l’egoismo, l’invidia, l’arrivismo li vede, li sente e ne soffre molto. Vorrebbe che questo veleno fosse distrutto, soprattutto nella Curia Romana, ove molti sono intossicati, forse in buona fede, forse anche per la gloria di Dio, ma sono intossicati. A proposito di un Prelato, che nonostante le apparenze contrarie doveva brigare abbastanza per diventare cardinale, il Santo Padre mi disse un giorno: “Dovrò pure farlo cardinale, ma perbacco (e qui batté il pugno sul tavolo), quanto starebbe meglio un po’ più di umiltà!”

PADRE PIO (1 novembre 1960, in udienza da Giovanni XXIII). (Il Papa) accenna anche a padre Pio. Sento purtroppo cose che non mi sarei aspettato; il Papa vorrebbe da quel religioso più sottomissione e più umiltà. Questo è veramente grave. Come è vero che santità non è nelle stimmate, e il fanatismo può rovinare anche anime elette.

LA PREPARAZIONE DEL CONCILIO 1 (10 marzo 1961, in udienza da Giovanni XXIII). (Il Papa) sottolinea due concetti. Il Concilio dev’essere preparato nel silenzio, nell’umiltà, per dar modo a Dio di produrre grandi frutti; per questo lo metterà sotto la protezione di San Giuseppe. Nella preparazione del Concilio, che è opera di Dio, dobbiamo aspettarci grandi prove.

LA PREPARAZIONE DEL CONCILIO 2 (18 maggio 1961, in udienza da Giovanni XXIII). (Il Papa) è nel suo studio al III piano. Sta benissimo, eppure mi conferma di essersi sentito tanto male la sera precedente; fu necessario (ma egli non voleva) chiamare il medico. Ma tutto fu messo a posto con un po’ di magnesia. Forse disturbi digestivi, dovuti a stanchezza e ad infreddatura. Parliamo per circa un’ora sul Concilio, la possibilità di tenerlo alla fine del 1962, la preparazione alla prossima seduta della (commissione) centrale.

CONCILIO E GIORNALISTI 1 (16 giugno 1961). Al termine della seduta (della Commissione centrale) il Santo Padre, con molta benignità, mi invita a pensare alla costituzione di un ufficio stampa degno del Concilio. Lo assicuro che qualcosa è già stata fatta. Di più si farà. (…) Aprire troppo le porte ai giornalisti è molto pericoloso; e poi è inutile aprirle troppo ora, che di notizie se ne possono dare poche.

CONCILIO E GIORNALISTI (E LAICI) 2 (17 giugno 1961, in udienza da Giovanni XXIII). Nel discorso che (il Papa) farà, parlerà anche dell’atteggiamento che devono assumere i laici e la stampa di fronte al Concilio. Devono rendersi conto che non ci si trova di fronte ad un Parlamento, ma ad un atto di alto magistero della Chiesa cattolica. (…) Io mi permetto di insistere su questo punto. Mi sembrava essenziale per la buona riuscita del Concilio. I laici e la stampa al loro posto. (…) Importante sarebbe che alcuni vescovi e anche cardinali parlassero più prudentemente alla stampa. Ne ho già fatto parola al card. Tardini.

IL GANCIO E IL FACCHINO (4 novembre 1961). Il card. Montini, che ha celebrato il pontificale, incontrandomi dopo la funzione mi ha salutato, dicendo scherzosamente che io ero una specie di gancio, a cui erano sospese le sorti della Chiesa. Gli ho risposto che io ero solo un povero facchino.

LA PREPARAZIONE AL CONCILIO 3 (7 maggio 1962, in udienza da Giovanni XXIII). Esaminiamo insieme i promemoria da me preparati sia sui recenti avvenimenti della (commissione) centrale, sia sul piano di lavoro per la preparazione immediata del Concilio. Dico la mia perplessità per la costituzione della sottocommissione (per studiare i temi da portare al Concilio) richiesta dal card. Frings (arcivescovo di Colonia). Il Santo Padre è d’avviso che, se insistono molto, è più opportuno non contrariarli. (…) Prego il Signore che illumini il Papa e me, per fare quel che è meglio per il Concilio. Mi sembra però che stia facendo presa sull’animo del Papa la corrente straniera, anti-Curia. Sarà forse bene equilibrare.

LA PRIMA FASE DEL CONCILIO (7 dicembre 1962). Fare un bilancio di questa prima fase del Concilio non è facile; un giudizio severo lo darà il tempo; io penso che il lavoro compiuto di preparazione e di sedute conciliari sia prezioso; è una semina che darà a suo tempo frutto. Quando? Lo dirà il Signore, qui incrementum dat. Per me questi due mesi sono stati una croce continua: tensione senza soste, critiche ingiuste e malevole, lettere anonime, dalla fonte inquinata facilmente riconoscibile, difficoltà d’ogni genere, derivate in parte dalla organizzazione del Concilio, da me non voluta anzi contrastata, solo l’obbedienza, e purtroppo a me attribuita.

DIFFERIRE LA SECONDA FASE DEL CONCILIO? (28 aprile 1963, in udienza da Giovanni XXIII). Mons. Capovilla mi intrattiene prima per alcuni momenti: mi dice che la salute del Papa non è buona e, poiché momentaneamente si prevede il peggio, sarà forse opportuno convincerlo a differire la riapertura del Concilio. Anche io sono del parere che, con un Papa non in buone condizioni, non si possa lavorare tranquillamente.(…) Al principio dell’udienza mi sono permesso di raccomandare (al Papa) di diminuire il suo lavoro, le udienze, ecc… Mi risponde: “Ecco le solite prediche”.

LA MORTE DI GIOVANNI XXIII (3 giugno 1963). Alle 19.00 sul sagrato di san Pietro il card. Traglia (Cardinale Vicario di Roma) celebra una santa Messa pro Pontifice infirmo. Una folla numerosissima segue nel più assoluto silenzio e con commozione il sacro Rito. Il Papa sta morendo. Al termine della Messa, mentre si canta l’inno dell’amore e della carità, Ubi caritas et amor, alle ore 19.49 il santo Padre va in Paradiso. (…) Molti si inginocchiano. Una scena commoventissima!

I MODERATORI DEL CONCILIO 1 ( 29 agosto 1963). Quando vennero scelti i Moderatori nelle persone dei cardinali Agagianan, Lercaro, Döpfner e Suenens, io mi permisi di far presente al card. segretario di Stato (Amleto Cicognani) come alcuni di essi fossero dichiaratamente uomini di parte, e quindi poco adatti a moderari. Il Segretario di Stato mi rispose con un certo risentimento. Ma a conti fatti, dopo esperienze dolorose, fu lui il primo a riconoscere lo sbaglio fatto nella scelta delle persone.

I MODERATORI DEL CONCILIO 2/DON DOSSETTI (ottobre 1963). Purtroppo i Moderatori hanno seguito non una volta sola vie poco prudenti. Hanno incominciato a far da sé, mettendo da parte la Segreteria Generale e servendosi dell’opera di don Dossetti, che il card. Lercaro ha presentato come Segretario dei Moderatori. Ho lasciato fare, finché il nodo non è venuto al pettine. (…) Ho allora protestato con il card. Agagianan, affermando che il Segretario dei Moderatori, a norma del Regolamento, era il Segretario Generale ed io non ammettevo sostituti, se non per volontà del Papa, e ritenevo nullo quanto fino allora fatto da don Dossetti. Lo stesso dissi al card. Döpfner. Il Papa, da me informato della cosa, disse categoricamente che non voleva don Dossetti a quel posto; se ne tornasse anzi a Bologna

COLLEGIALITA’ 1 (ottobre 1963). Vale la pena di ricordare quanto io abbia dovuto lavorare perché nella formula di approvazione dei decreti, da parte del Papa, non entrassero quei concetti di falsa collegialità, che erano stati oggetto della votazione del 30 ottobre). Si voleva ridurre il Papa ad uno che consentiva a quanto deciso. Il Papa, cui riferii la cosa, osservò: “Ma sono loro che devono consentire con me, non io con loro!”. Optime dictum!

PAPA E VESCOVI (20 marzo 1964). Vedo con grande pena questo fenomeno tipico del Concilio: rispetto per il Papa, ma noncuranza delle sue ordinanze o disposizioni. Il ritornello è sempre quello: sono opera della Curia! Ma, oltre tutto, chi firma il Motu proprio non è il Papa?

COLLEGIALITA’ 2/ GIOCHI DI PAROLE (27 marzo 1964). Dopo la funzione incontro mons. Pietro Parente (assessore della Congregazione per la Dottrina della Fede, poi segretario della stessa, infine cardinale, propugnatore del principio di collegialità). Gli dico la mia perplessità per il testo preparato (collegialità) “Anche il Papa non è ancora del tutto tranquillo”, osserva lui, che aggiunge: “Abbiamo fatto il possibile, ma il testo come è può andare; l’iniziativa rimane sempre al Papa (si invitet). Quindi abbiamo messo il termine collegialità, ma l’abbiamo poi svuotato”. Gli faccio qualche difficoltà, ma lui assicura che si può stare tranquilli. Ma proprio quello che fa stare tranquillo mons. Parente, non fa stare tranquillo me; non si risolve una questione dogmatica ponendo un’espressione (tanto desiderata dagli altri), e poi svuotandola (o meglio credendo di averla svuotata)!

TRE OSSERVAZIONI DI PAPA MONTINI (9 aprile 1964, in udienza da Paolo VI). Tre cose mi fanno impressione di quanto mi dice il Santo Padre: che, incominciato il Concilio, è diminuito il numero delle conversioni; che il comunismo è alle porte; che la situazione dell’America latina, dal punto di vista religioso, è tragica: un fenomeno di crescenza, forse, commenta il Santo Padre.

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ORGANIZZAZIONE POST-CONCILIARE/COLLEGIALITA’ 3 (21 maggio 1964, in udienza da Paolo VI). Il Papa mi intrattiene poi su vari argomenti. Mi parla dell’azione che la Chiesa può fare per coloro che non credono in Dio o addirittura lo avversano, e mi consegna la materia per poter far preparare qualche documento. Mi parla ancora dell’organizzazione postconciliare: il governo della Chiesa deve corrispondere di più alle esigenze del mondo moderno; ma sia ben chiaro che l’autorità centrale deve essere e rimanere solo del Papa. I vescovi potranno contribuire; potranno costituire un organismo del tipo della Commissione centrale, con vescovi rappresentanti del mondo, che si succedano e si alternino ogni dato periodo; ma sempre e solo con voto consultivo.

LA CAMPAGNA CONTRO PIO XIII (21 maggio 1964, in udienza da Paolo VI). Faccio poi cadere il discorso sulla campagna denigratoria di Pio XII (Il Vicario, di Rolf Hochhuth) e ne domando al Papa il motivo (dato che Pio XIII è morto già da 5 anni). Mi risponde: “Purtroppo la campagna non è diretta contro la persona di Pio XII o la sua opera di salvezza, anche degli ebrei (di più allora non si poteva fare), quanto piuttosto contro la Chiesa e la linea di Pio XII riguardo al comunismo; sono infatti i comunisti che manovrano e portando avanti – ingiustamente – la linea giovannea, vogliono praticamente neutralizzare l’opera presente, che cerca di stringere un po’ i freni”.

LA DURATA DEL CONCILIO 1 (7 ottobre 1964, in udienza da Paolo VI). Alle 12.15 sono dal Santo Padre. Cerca di conoscere la mia mente sul termine del Concilio; mi accorgo che sarebbe contento di finire in questa sessione (la terza), ma, se è necessario, consente anche ad una quarta, breve sessione.

PASOLINI (7 ottobre 1964, in udienza da Paolo VI). Il Papa esprime il suo disappunto perché dei vescovi sono andati a vedere il film di Pasolini “Il Vangelo secondo san Matteo”.

LA DURATA DEL CONCILIO 2 (19 ottobre 1964). Quando alcuni si sono accorti che vi era la possibilità di chiudere il Concilio con questa sessione, hanno messo in opera ogni mezzo perché questo non avvenisse. Ad enumerare tutte le manovre dei Moderatori (tre: Lercaro, Döpfner e Suenens) per favorire le tendenze dilazionatrici di alcuni, non si finirebbe più. Quel che è buffo (per non dire altro) è che attribuiscono le manovre a me, che sarei il manutengolo della Curia Romana! (…) Questo Concilio ha suscitato un gran fermento: la pastorale, l’ecumenismo, la libertà; ha aperto la bocca a tanti sconsiderati, che finora avevano provvidenzialmente taciuto! Questo prolungare il Concilio sine fine, questo fare, disfare, rifare, ridisfare gli schermi è urtante.

LA DURATA DEL CONCILIO 3 (29 ottobre 1964, in udienza da Paolo VI). Durante l’udienza comunico (al Papa) tra l’altro l’infelice intervento della mattina fatto dal card. Suenens sulla limitazione delle nascite, e la mia impressione che molti, e in primis i tre Moderatori, vogliono portare il Concilio per le lunghe, sì che non basterà neppure la quarta sessione. Il Papa pensa di no; e, caso mai, prima della quarta sessione, si dirà in modo perentorio che quella sarà l’ultima. Ma ascolteranno il Papa?

PROTESTANTI E HANS KǗNG (18 marzo 1965, in udienza da Paolo VI). Alle 12.45 circa udienza del Santo Padre. Mi dice, certo con un sorriso di pena: “I protestanti stanno diventando i nostri maestri”. “Ma non deve essere così, Padre Santo”, rispondo. Mi parla ancora di Hans Küng. Non gli scriverà la lettera; si troverà un’altra via per fargli comprendere come sia nella via sbagliata.

CELIBATO (7 ottobre 1965, in udienza da Paolo VI). Udienza del Santo Padre alle 19.30 (…) Alcune questioni del Concilio: particolarmente quella del celibato. Il Santo Padre non vuole che se ne tratti in Concilio e mi incarica di prendere i passi in tempo per prevenire e, se è il caso, per controbattere: lo farò.

SI CONCLUDE IL CONCILIO (8 dicembre 1965). Bella giornata: i Padri sfilano , come il lontano 11 ottobre, festa della Maternità di Maria. La funzione è un po’ lunga, ma bella e toccante; al termine leggo il breve di chiusura; quindi torno dal Papa per ricevere la benedizione. Mi abbraccia e mi dice parole di compiacimento e di ringraziamento. Tutto a lode di Dio. Seguono le Acclamationes e la benedizione del Papa, con il congedo finale. Forse nessun Concilio ha avuto una fine così bella e promettente.

ARRIVA IL SINODO (20 luglio 1966). S. E. mons. Samoré mi consegna da parte del Santo Padre il progetto del Regolamento del Sinodo Episcopale: da vederlo, correggerlo come credo e poi riproporlo al Papa. Domando a S. E. mons. Samoré chi dovrà interessarsi del Sinodo: mi risponde che il Santo Padre ha designato la mia persona. Se si tratta di fare la volontà del Papa, va bene. Personalmente non sono entusiasta. Chi sa come funzionerà e cosa combinerà questo Sinodo. Deus nos adiuvet!

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