Il Papa ai Vescovi ripropone il Libro di Giobbe per la formazione delle coscienze

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Caterina63
00domenica 15 novembre 2009 22:41

La formazione autenticamente cristiana della coscienza è decisiva per l'equilibrio di una comunità umana. Lo ha detto il Papa ricevendo sabato mattina, 14 novembre, i presuli della Conferenza episcopale regionale "Sul 1" del Brasile in visita ad limina Apostolorum.




Signor Cardinale,
Amati Arcivescovi
e Vescovi del Brasile,
Nel corso della visita che state compiendo ad limina Apostolorum, vi siete riuniti oggi nella Casa del Successore di Pietro, che vi accoglie tutti a braccia aperte, amati Pastori del Regionale Sul 1, nello Stato di São Paulo. Lì si trova quell'importante centro di accoglienza e di evangelizzazione che è il Santuario di Nossa Senhora Aparecida, dove ho avuto la gioia di recarmi nel maggio 2007 per l'inaugurazione della v Conferenza dell'Episcopato dell'America Latina e dei Caraibi. Formulo voti affinché il seme allora gettato possa recare validi frutti per il bene spirituale e anche sociale delle popolazioni di questo promettente Continente, dell'amata Nazione brasiliana e del vostro Stato Federale. Esse "hanno diritto a una vita piena, propria dei figli di Dio, con alcune condizioni più umane:  liberi dalle minacce della fame e da ogni forma di violenza" (Discorso inaugurale, 13 maggio 2007, n. 4). Ancora una volta, desidero ringraziare per tutto ciò che è stato realizzato con così grande generosità e desidero rinnovare il mio cordiale saluto a voi e alle vostre diocesi, ricordando in modo particolare i sacerdoti, i consacrati, le consacrate e i fedeli laici che vi aiutano nell'opera di evangelizzazione e di animazione cristiana della società.

Il vostro popolo serba nel suo cuore un grande sentimento religioso e nobili tradizioni, radicate nel cristianesimo, che si esprimono in sentite e genuine manifestazioni religiose e civili. Si tratta di un patrimonio ricco di valori, che voi - come mostrano i vostri resoconti, e come monsignor Nelson Westrupp ha riferito nel cordiale saluto che mi ha appena rivolto a nome vostro - cercate di mantenere, difendere, diffondere, approfondire e vivificare. Nel rallegrarmi vivamente per tutto ciò, vi esorto a proseguire in questa opera di costante e metodica evangelizzazione, consapevoli che la formazione autenticamente cristiana della coscienza è decisiva per una profonda vita di fede e anche per la maturazione sociale e il vero ed equilibrato benessere della comunità umana.

In effetti, per meritare il titolo di comunità, un gruppo umano deve corrispondere, nella sua organizzazione e nei suoi obiettivi, alle aspirazioni fondamentali dell'essere umano. Per questo non è esagerato affermare che una vita sociale autentica ha inizio nella coscienza di ognuno. Poiché la coscienza ben formata porta a realizzare il vero bene dell'uomo, la Chiesa, specificando qual è questo bene, illumina l'uomo e, attraverso tutta la vita cristiana, cerca di educare la sua coscienza.

L'insegnamento della Chiesa, per la sua origine - Dio -, il suo contenuto - la verità - e il suo punto di appoggio - la coscienza -, trova un'eco profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona, credente e persino non credente. In concreto, "la questione della vita e della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa appartiene a ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell'umanità.... Il "popolo della vita" gioisce di poter condividere con tanti altri il suo impegno, così che sempre più numeroso sia il "popolo per la vita" e la nuova cultura dell'amore e della solidarietà possa crescere per il vero bene della città degli uomini" (Enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995, n. 101).

Venerati Fratelli, parlate al cuore del vostro popolo, risvegliate le coscienze, riunite le volontà in un'azione comune contro la crescente ondata di violenza e il disprezzo dell'essere umano. Quest'ultimo, da dono di Dio accolto nell'intimità amorosa del matrimonio fra un uomo e una donna, è passato a essere visto come un mero prodotto umano. "Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale:  se l'uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta fra le due razionalità:  quella della ragione aperta alla trascendenza e quella della ragione chiusa all'immanenza" (Enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 74).

Giobbe, in modo provocatorio, invita gli esseri irrazionali a rendere la propria testimonianza:  "Interroga pure le bestie e ti insegneranno, gli uccelli del cielo e ti informeranno; i rettili della terra e ti istruiranno, i pesci del mare e ti racconteranno. Chi non sa, fra tutti costoro, che la mano del Signore ha fatto questo? Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio di ogni essere umano" (Gb 12, 7-10).

La convinzione della retta ragione e la certezza della fede per la quale la vita dell'essere umano, dal concepimento fino alla morte naturale, appartiene a Dio e non all'uomo, gli conferisce quel carattere sacro e quella dignità personale che suscita l'unico atteggiamento legale e morale corretto, ossia, quello di profondo rispetto. Poiché il Signore della vita ha detto:  "Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello.... perché a immagine di Dio è stato fatto l'uomo" (Gn 9, 5-6).

Miei amati e venerati Fratelli, non possiamo mai scoraggiarci nel nostro appello alla coscienza. Non saremmo seguaci fedeli del nostro Divino Maestro se non sapessimo in tutte le situazioni, anche quelle più difficili, restare saldi "nella speranza contro ogni speranza" (Rm 4, 18). Continuate a lavorare per il trionfo della causa di Dio, non con l'animo triste di chi avverte solo carenze e pericoli, ma con la ferma fiducia di chi sa di poter contare sulla vittoria di Cristo. Unita al Signore in modo ineffabile è Maria, pienamente conforme a suo Figlio, vincitore del peccato e della morte. Per intercessione di Nossa Senhora Aparecida, imploro da Dio luce, conforto, forza, intensità di propositi e realizzazioni per voi e per i vostri più diretti collaboratori, e allo stesso tempo vi imparto di cuore una particolare Benedizione apostolica, che estendo a tutti i fedeli di ogni comunità diocesana.



(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2009)

Caterina63
00giovedì 20 maggio 2010 19:06
Il mistero della sofferenza secondo Pavel Florenskij

E Giobbe continua a piangere



Il 20 e il 21 maggio si svolge a Roma, nell'istituto Camillianum, il convegno "L'ateologia naturale. La sofferenza interpella la ragione e la fede". Uno dei relatori ha anticipato per il nostro giornale i temi del suo intervento.

di Lubomir Zák

Pavel Florenskij, conoscendo di persona situazioni di precarietà e di ingiustizia, non poté non porsi pressanti interrogativi circa l'esistenza del male e il suo nesso con la fede in Dio. Un importante tentativo di offrire una prima risposta è nella celebre opera La colonna e il fondamento della Verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere (1914).

Nel formularla, Florenskij è debitore di una metafisica e di un'ontologia dell'uni-totalità presenti già in Origene e in Massimo il Confessore (la teoria dei lògoi), e riproposte con nuovo entusiasmo da Solov'ev. Al centro di tali metafisica e ontologia sta l'idea dell'unità sostanziale di tutto ciò che esiste:  ciascun particolare del reale è connesso, ontologicamente, con il tutto, in quanto ogni cosa ha in sé lo stesso identico ritmo di "vita". Tutto ciò che è fa parte, sul piano dell'essere, di un'unica rete i cui innumerevoli e sottilissimi fili conducono verso il misterioso abisso della vita:  la casa eterna della Luce senza tramonto. La stessa che deposita i suoi potenti raggi, le sue divine "energie", in tutto ciò che è in essere.
 
La soluzione che Florenskij propone per affrontare la questione del male è intimamente connessa a una simile visione del reale. Per elaborarla, egli percorre la via della gnoseologia orientata a risolvere il problema dell'esistenza di una Verità assoluta e della sua conoscenza, Verità compresa come una sorta di fondamento dell'essere su cui "poggia" l'unità nella molteplicità di quanto esiste.

Florenskij dimostra che tale Verità è non solo pensabile, ma che la sua descrizione teologica coincide con il dogma trinitario che egli interpreta in chiave relazionale. Per lui, il mistero dell'essere-uno e dell'essere-tre di Dio coincide col reciproco e totale rinnegamento di sé di ogni Persona divina di fronte alle altre due - quale gesto di un amore che ama gli altri più di se stesso - e al contempo con la reciproca elevazione, glorificazione, dell'una da parte delle altre due (quale gesto di un amore trionfante). In sintesi, è una Verità che Florenskij vede come atto-sostanza-relazione, ossia unità dinamica dei Tre totalmente diversi che sono unico Dio.

Ed è quest'unità trinitaria a rappresentare il fondamento ideale dell'ordine eterno dell'essere. Infatti, esiste veramente solo ciò che appartiene a esso:  da un lato, a tale ordine partecipa, misteriosamente, tutto il creato in quanto posto in essere dalla volontà creatrice di Dio-Trinità; appartiene a esso l'uomo, fatto a immagine e somiglianza di Colui che l'ha creato. Ne fa parte, inoltre, anche tutto ciò che l'uomo crea, in primis la sua personalità e poi tutte le concretizzazioni vitali e culturali delle sue idee. Questo, però, solo se tali creazioni umane rispecchiano la dinamica dell'ordine eterno dell'essere:  l'amore per un altro da sé.

Florenskij interpreta la rivelazione di Dio in Gesù Cristo come parola ultima e definitiva su questa Verità e, insieme, come giudizio su ciò che, nel mondo, è destinato a perire, perché privo del legame con l'ordine eterno dell'essere.
 Questo è il destino del male. Quella realtà che non sopporta i criteri di tale ordine, che con esso non ha nessuna parentela. La terminologia religiosa la chiama "peccato", sottolineando così il legame tra il male e la libertà dell'uomo.

Gli effetti devastanti del male, del peccato non sono fittizi. Eppure quanto all'ordine dell'essere, la consistenza ontologica di essi è effimera, nulla. E gli altri "mali"? Quali, a esempio, le catastrofi naturali o le malattie? Cosa rispondere al pianto di Giobbe che riecheggia senza fine da tutti gli angoli del mondo? Florenskij invita a rispettare il mistero di tali situazioni e a considerare l'esperienza del dolore parte essenziale della vita umana.

Certo, bisogna fare tutto il possibile per prevenire le catastrofi naturali, occorre lottare contro le malattie ed è necessario che si evitino sfortune di ogni tipo. Tuttavia, se tali eventi si verificano, essi vanno accolti come esperienze del tutto particolari della complessità del reale, che costringono l'uomo a guardare la vita come luogo dei numerosi paradossi, sì, i quali, però, non possono essere scomposti nei frammenti privi di un senso unitario. Nemmeno se si tratta del paradosso i cui due poli sono il vivere e il morire. In merito Florenskij cita Dostoevskij:  "In tutto c'è il mistero di Dio", anche nella sofferenza più atroce e nella morte.

Una simile impostazione del problema del male non dispensa comunque dall'interrogarsi sul Dio Creatore. Egli può essere pensato ancora come Onnipotente? Dov'è Lui quando il creato viene devastato, quando l'uomo soffre e, soprattutto, quando l'innocente, pugnalato dal sanguinario aguzzino, lancia l'ultimo grido di dolore? Forse ha abbandonato l'opera delle Sue mani?

La riposta di Florenskij è affine a quella di quanti in Russia - da Dostoevskij fino a Bulgakov e Karsavin - hanno parlato di un Dio "umile", misteriosamente rispettoso di fronte alla volontà e all'attività "creativa" degli uomini, amministratori degli spazi di vita da Lui progettati proprio per loro. Dio si comporta come chi dopo aver depositato nel terreno dell'essere la "moneta" della Sua stessa immagine, lascia che siano gli uomini a cercarla e moltiplicarla, o a ignorarla e seppellirla ancora di più. Da parte sua Florenskij predica la fedeltà a questa "terra", a questo mondo. Per lui la storia della salvezza, che culmina con la rivelazione di Dio-Trinità in Cristo, è un invito a credere nella bontà intrinseca della vita in sé e di tutto il creato.

Invito a riscoprire Dio presente nel mondo e ad aprirgli la porta come a un umile pellegrino che pazientemente attende dietro la soglia. Quel Dio che con la potenza del Creatore è pronto a donare all'uomo la sapienza originaria che Egli depositò nelle radici dell'essere:  l'ingegnosa sapienza dell'amore trinitario.

Allo stesso tempo, Florenskij insegna che, nelle situazioni di male e di ogni tipo di sofferenza, la via aurea dell'avvicinamento dell'uomo a Dio e all'ordine eterno dell'essere è la povertà di sé, da comprendere nel senso più profondo della parola biblica anawîm. Essa consiste in un totale spogliamento di sé, nello strappare da sé il proprio "io sono", "io voglio", "io penso", vissuto non tanto come gesto di autoumiliazione ascetica, quanto piuttosto come scelta di essere un dono di amore per un altro. In altri termini, si tratta di uscire da sé, per offrire lo spazio del proprio essere a un altro da sé. Il che, però, coincide con l'entrare soavemente nello spazio di vita di un altro e con la misteriosa ricreazione di una rinnovata coscienza di sé. Con la Sua morte e risurrezione, Gesù Cristo ha reso possibile proprio quest'esperienza di verità della vita. Come dice Massimo il Confessore:  "Colui che ha conosciuto il mistero della croce e del sepolcro conosce anche le ragioni essenziali di tutte le cose".

La fede di Florenskij in Dio Amore e la sua fedeltà alla "legge nuova" nelle condizioni disumane e terrificanti del gulag staliniano sono la migliore apologia della sua teodicea trinitaria. Una teodicea scritta e vissuta con la ferma convinzione che non vi è altra via verso il superamento definitivo del male che l'amore.


(©L'Osservatore Romano - 21 maggio 2010)

Caterina63
00mercoledì 26 maggio 2010 19:50
Giobbe e il senso della sofferenza

A ognuno un frammento della Croce



di Philippe Nemo


Per il suo duplice aspetto fisico e psichico, la malattia di Giobbe è esemplare. Non consiste solo in una certa sofferenza, in un certo dolore che concerne esclusivamente una parte del corpo e dell'essere e che potrebbe essere alleviato appoggiandosi sulle parti che rimangono sane. Essa è un male totale. Fa perdere al soggetto i punti di riferimento psicologici e ontologici che gli permetterebbero di avere gli atteggiamenti classici di fronte al male, considerati comportamenti equilibrati in diverse civiltà:  sopportarlo stoicamente, lottare contro di esso, o anche vivere la propria vita come un lutto, "gettare la spugna" e affrontare serenamente la morte
.

Mentre Giobbe aspira ardentemente a quest'ultima ("Ah! Vorrei essere strangolato! La morte piuttosto che i miei dolori", 7, 15), questa via d'uscita gli è preclusa. Poiché per darsi la morte, occorre avere l'equilibrio mentale minimo che permette di prendere una decisione e di realizzarla; bisogna, in questo senso, non essere malato! Quel che Giobbe prova, quindi, non è la morte, ma, al contrario, l'impossibilità di morire, l'"inferno", un'eternità di vita nella sofferenza. La malattia di Giobbe assume d'un tratto un significato iperbolico, confrontando Giobbe con un male non integrabile con il pensiero, né con alcuna delle mitologie o ideologie presenti nel suo contesto.

Un'ultima molla, tuttavia, non è spezzata. Giobbe non può, né vuole tacere, vuole parlare. "Non posso tacere. Parlerò nell'angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell'amarezza della mia anima". Ma a chi parlare, dal momento che non può parlare agli amici che sono stati assenti come l'acqua in una fonte asciutta (cfr. 6, 15), né alla società che non lo comprende e che, ormai, addirittura lo accusa e lo perseguita (cfr. 17, 2-6), né al "Dio" Giustiziere, che si mostra indifferente all'evidente ingiustizia di cui è vittima (cfr. 9, 2-4)? È degno di nota il fatto che Giobbe d'un tratto si erga al di sopra della propria condizione.

Rinunciando a porre la domanda egoista:  "Perché accade questo a me? Perché ora?",  pone la domanda generale del senso della vita per tutta l'umanità e per ogni epoca:  "Perché questa folle avventura dell'esistenza? Perché siamo nati? Perché un Dio ci ha creati?".

Si sviluppa allora una meditazione o una preghiera che si rivelerà straordinariamente feconda. Giobbe sente che, proprio perché il male che egli subisce non è la risposta meccanica a una colpa che ha commesso, ha un'altra origine. Esso viene da un essere che è libero in relazione alla Legge e situato al di là di questa. Dal male Giobbe è interpellato. Attraverso la prova, "Qualcuno" lo cerca. E Giobbe finisce per comprendere che questo "Qualcuno" è Dio, ma un Dio molto diverso dal Dio Giustiziere di cui gli parlano gli amici, il quale è in realtà una semplice metonimia del mondo, un idolo pagano come gli altri. Egli comprende che questo Dio è una Persona, cioè Qualcuno di eccessivo, di imprevedibile, di terrificante, ma che anche attraverso ciò possiede una dimensione "umana", cioè può anche amare e quindi salvare.

Giobbe comprende anche di non essere, da parte sua, semplicemente un essere di natura, ingranaggio anonimo di un mondo assurdo, ma un'anima moralmente responsabile, chiamata alla vita eterna. In definitiva, egli interpreta quindi la prova che subisce come una Parola destinata a suscitare in lui una conversione morale ed escatologica radicale. Comprende che c'è un limite fondamentale nella morale tradizionale della ricompensa e che occorre superare questa "giustizia" falsa e chiusa a beneficio di una giustizia nuova. Non siamo liberi dal male quando non abbiamo commesso il male. Dobbiamo prendere su di noi la sofferenza altrui, quand'anche fossimo "innocenti".

In definitiva, Giobbe pensa che Dio abbia voluto associare gli uomini alla sua lotta incondizionata contro il male. Egli vede attraverso un velo il Dio cristiano. Anticipa il fatto che Dio chieda a ciascuno di noi di portare un frammento della Croce.


(©L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010)
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