Il Papato in numeri, aneddoti e aforismi....

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Caterina63
00lunedì 2 febbraio 2009 10:29
testata magazine

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I DIECI PONTIFICATI PIÙ LUNGHI

• San Pietro (dal 30 al 64/67): 34 o 37 anni
• Papa Pio IX (dal 1846 al 1878): 31 anni e 7 mesi.
• Papa Giovanni Paolo II (dal 1978 al 2005): 26 anni e 173 giorni (9.673 giorni).
• Papa Leone XIII (dal 1878 al 1903): 25 anni, 4 mesi e 29 giorni (9.281 giorni).
• Papa Pio VI (dal 1775 al 1799): 24 anni e 6 mesi (8.962 giorni).
• Papa Adriano I (dal 772 al 795): 23 anni e 10 mesi.
• Papa Pio VII (dal 1800 al 1823): 23 anni e 5 mesi.
• Papa Alessandro III (dal 1159 al 1181): 21 anni, 11 mesi, e 23 giorni.
• Papa Silvestro I (dal 314 al 335): 21 anni e 11 mesi.
• Papa Leone I (dal 440 al 461): 21 anni e 1 mese.

La posizione di San Pietro è oggetto di disputa. La durata del pontificato di San Pietro viene data da fonti tradizionali, ma la loro accuratezza è incerta (in particolare, vengono proposte due differenti date di morte). Secondo la tradizione San Pietro spese 25 anni a Roma, ma il suo mandato viene calcolato dal momento in cui, secondo i Cattolici, Gesù lo incaricò di questo ufficio. Alcuni non-Cattolici contestano il fatto che San Pietro debba appartenere a questa lista (e alla lista dei papi in generale), sulla base del fatto che il papato come lo conosciamo oggi non esistette se non alcuni secoli dopo la morte di Cristo. Essi considerano quindi solo gli occupanti delle posizioni dalla 2 alla 11. I Cattolici, d'altra parte, considerano San Pietro necessariamente il primo Papa, in virtù del fatto che venne incaricato da Gesù e soprattutto perché fu il primo Vescovo di Roma, indipendentemente dal fatto che venne generalmente conosciuto come tale, o che abbia mai rivendicato tale titolo. Secondo i Cattolici, tutti i Papi seguenti regnano in virtù della loro successione nell'ufficio di San Pietro.

I DIECI PONTIFICATI PIÙ BREVI

• Papa Urbano VII (15 settembre - 27 settembre 1590): 13 giorni
• Papa Bonifacio VI (aprile 896): 16 giorni
• Papa Celestino IV (25 ottobre - 10 novembre 1241): 17 giorni
• Papa Sisinnio (15 gennaio - 4 febbraio 708): 21 giorni
• Papa Teodoro II (dicembre 897): 21 giorni
• Papa Marcello II (10 aprile - 1 maggio 1555): 22 giorni
• Papa Damaso II (17 luglio - 9 agosto 1048): 24 giorni
• Papa Pio III (22 settembre - 18 ottobre 1503): 27 giorni
• Papa Leone XI (1 aprile - 27 aprile 1605): 27 giorni
• Papa Benedetto V (22 maggio - 23 giugno 964): 33 giorni

• Posizione 11: Papa Giovanni Paolo I (26 agosto - 28 settembre 1978)
Morì il 33o giorno dopo la sua elezione, avendo regnato per 34 giorni.

• Posizione 0: Papa Stefano II (23 marzo - 26 marzo 752)
Morì di apoplessia tre giorni dopo la sua elezione, e prima della sua consacrazione. Venne escluso dalla lista dei Papi per secoli, ma ora è stato reinstaurato, provocando un'incongruenza nella numerazione dei Papi di nome Stefano che lo hanno seguito.

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PERCHè IL PAPA VESTE DI BIANCO?

E’ ricordato principalmente come il papa della vittoria di Lepanto, non perché fosse un uomo bellicoso, ma perchè con la sua autorità e col suo prestigio personale riuscì ad imporre una tregua nelle risse casalinghe degli Stati europei e a spingerli in "santa alleanza" per arginare la minacciosa avanzata dei Turchi. Il 7 ottobre del 1571 la flotta cristiana inflisse nelle acque di Lepanto una sconfitta definitiva a quella turca.

Quel giorno stesso Pio V, che non disponeva dei rapidi mezzi di comunicazione attuali, ordinò di suonare le campane di Roma invitando i fedeli a ringraziare Dio per la vittoria ottenuta che seppe in modo prodigioso: mentre pregava per la risoluzione della battaglia, a mezzogiorno ebbe in visione la vittoria dei cristiani a Lepanto e sopra al cielo cori di Angeli attorno al trono della Beata Vergine che teneva in braccio il Bambin Gesù il quale aveve ain mano la corona del Rosario
.

Il Papa chiamò quelli che gli erano vicino e con entusiasmo disse loro di far suonare a festa tutte le campane dell'Urbe perchè i cristiani avevano vinto. Due giorni dopo arrivò il messaggero che confermava la vittoria. Nasce da quel giorno l'Angelus di Mezzogiorno che ricordo l'Incarnazione del Verbo e la difesa del Cristo nelle lotte cristiane quotidiane.


Antonio Ghisleri, eletto papa nel 1566 col nome di Pio V, era nato a Bosco Marengo, in provincia di Alessandria, nel 1504. A 14 anni era entrato tra i domenicani. Dopo l'ordinazione sacerdotale, bruciò tutte le tappe di un'eccezionale carriera: professore, priore del convento, superiore provinciale, inquisitore a Corno e a Bergamo, vescovo di Sutri e Nepi, cardinale, grande inquisitore, vescovo di Mondovì, papa. Il titolo di inquisitore può renderlo antipatico agli occhi dell'uomo d'oggi, che dell'Inquisizione s'è fatto un concetto spesso deformato da racconti superficiali.

In verità, Pio V fu un papa scomodo, come sono scomodi tutti i riformatori dei costumi
. Ma è titolo di merito per lui di avere debellato la simonia della Curia romana e il nepotismo. Ai numerosi parenti accorsi a Roma con la speranza di qualche privilegio, Pio V disse che un parente del papa può considerarsi sufficientemente ricco se non conosce l'indigenza.

Tra le riforme in campo pastorale, da lui promosse sulla scia del concilio di Trento, ricordiamo l'obbligo di residenza per i vescovi, la clausura dei religiosi, il celibato e la santità di vita dei sacerdoti, le visite pastorali dei vescovi, l'incremento delle missioni, la correzione dei libri liturgici, la censura sulle pubblicazioni. La rigida disciplina che il santo pontefice impose alla Chiesa fu norma costante della sua stessa vita. Prima come vescovo e cardinale, poi come papa, attuava l'ideale ascetico del frate mendicante.

Accondiscendente con gli umili, paterno con la gente semplice, ma irriducibilmente severo con quanti compromettevano l'unità della Chiesa, non esitò a scomunicare e a decretare la destituzione della regina d'Inghilterra, Elisabetta I, ben sapendo quali conseguenze tragiche avrebbe avuto questo gesto per i cattolici inglesi.

A lui si deve l'abito bianco del Pontefice, infatti fino alla sua elezione il papa vestiva di rosso come i vescovi, ma lui, Domenicano nel cuore, non volle abbandonare il suo abito, e fu il primo Papa non solo a vestire di bianco, ma a mantenere l'abito del carisma originario alla sua vocazione.
Ben presto ci si accorse che il colore piaceva e dopo la sua morte nessuno osò cambiarne il colore, ma venne fatto uguale all'abito dei cardinali solo di colore bianco.


 Pio V morì il I maggio 1572, a sessantotto anni. Fu canonizzato nel 1712. Il nuovo calendario ha fissato la sua memoria il 30 aprile. Precedentemente veniva celebrata il 5 maggio.


Autore:
Piero Bargellini

 





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Caterina63
00martedì 10 febbraio 2009 19:10

LA LEZIONE DI S.BERNARDO
a Papa Eugenio
 




S. Bernardo, uno dei più eminenti personaggi del suo tempo, abate cistercense, fu consigliere di papi, re ed imperatori, scrisse la regola dei Templari, i famosi monaci che difesero la Terrasanta. predicò la II Crociata. Fu uomo pio, dedito alla preghiera ed allo studio. Quando il suo discepolo sali al soglio pontificio col nome di Eugenio III, alla richiesta di fornirgli alcuni consigli per l'adempimento di questo incarico inaspettato e per il quale non si sentiva preparato, S. Bernardo gli inviò una lunga lettera che per i] contenuto è sempre attuale tanto da ritenere una lettura che ogni Papa dovrebbe conoscere. Riportiamo qui di seguito alcuni stralci dai quali si evince il carattere forte e il senso di giustizia di Bernardo di Chiaravalle.


"Vorrei che stabilissi come regola generale di ritenere sospetto chiunque abbia paura di dire in pubblico ciò che sussurra all'orecchio; se poi rifiutasse di ripeterlo davanti i tutti, consideralo alla stregua di un calunniatore, non di un accusatore. Il flusso delle cose temporali corrode la coscienza. Molte devi ignorarle, parecchie trascurarle, alcune dimenticarle. Ve ne sono alcune che non vorrei fossero sconosciute. Tu non devi essere l'ultimo a conoscere i disordini che avvengono nella tua casa (la Chiesa). Alza la mano sul colpevole. L'impunità provoca temerarietà ed apre la via ad ogni eccesso. Con chi hai dimestichezza, o sono più onesti degli altri, o riempiono di chiacchiere la bocca di tutti. Non ti consiglio tuttavia di essere severo, ma grave. La severità è costante per chi è un po' debole, mentre la gravità mette a freno chi è sventato. La prima rende odiosi, ma se manca la seconda si diventa oggetto di scherno.

Comunque, è più importante in ogni caso il senso della misura. Io ti vorrei né troppo severo, né troppo debole. Nel palazzo comportati da Papa, tra i più intimi da padre di famiglia. Riepilogando, la Chiesa romana che governi per volontà di Dio, è madre delle altre chiese, non la loro padrona, di conseguenza tu non sei il padrone dei vescovi, ma uno di essi. Per il resto considera che devi essere modello esemplare di giustizia, lo specchio della santità, l'esempio della pietà, il testimone della verità, il difensore della fede, il maestro delle genti, la guida dei cristiani, l'ordinatore del clero, il pastore dei popoli, il maestro degli ignoranti, il rifugio dei perseguitati, il difensore dei poveri, l'occhio dei ciechi, la lingua dei muti, il sacerdote dell'Altissimo, il Vicario di Cristo, l'unto del Signore,e da ultimo, il re".



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Caterina63
00sabato 19 novembre 2011 23:21
Duecentocinquanta anni fa, il 20 novembre 1761, nasceva Francesco Saverio Castiglioni, divenuto Pontefice con il nome di Pio VIII

Il Papa di Chateaubriand


 

Papa Pio VIII, al secolo Francesco Saverio Castiglioni, nacque a Cingoli nelle Marche duecentocinquant'anni fa, il 20 novembre 1761, e morì a Roma il 30 novembre 1830 dopo soli venti mesi di pontificato, il più breve del XIX secolo. Era infatti stato eletto il 31 marzo 1829. Un lasso di tempo ridotto, ma contrassegnato da tre eventi rilevanti per la storia dell'Europa cattolica: la definitiva caduta dei Borboni in Francia, la nascita del Belgio e l'abolizione della condanna del prestito a interesse - a tassi legali - distinguendolo in ciò dall'usura vera e propria. Ben presto indirizzato alla carriera ecclesiastica si era trasferito a Roma dove avrebbe risentito dell'influenza dei circoli antigiansenisti intransigenti della Curia. Nominato vescovo di Montalto Marche da Pio VII, Castiglioni manifestò forte opposizione a Napoleone al quale rifiutò di prestare giuramento dopo l'invasione degli stati pontifici. Fatto cardinale nel 1816 fu vescovo a Cesena e poi chiamato in Curia nel 1821. Nominato penitenziere maggiore, fu vescovo di Frascati e quindi prefetto della Congregazione dell'Indice. Pio VIII salì al Soglio di Pietro a sessantasette anni, ma era di salute malferma e di gracile complessione. La sua prima enciclica Traditi humilitati nostrae si inserì nella linea ecclesiologica tradizionale già definita da Leone XII. Favorevole sul piano politico all'equilibrio dinastico tipico della Restaurazione, sul piano morale e spirituale fu ostile al giansenismo mentre promosse la causa e l'opera di sant'Alfonso de' Liguori. Già considerato "papabile" nel conclave del 1823 che avrebbe visto l'elezione di Leone XII, il cardinale Castiglioni godeva dei favori austriaci e francesi nelle persone del principe di Metternich e, soprattutto, dell'ambasciatore di Francia François-René de Chateaubriand che accolse con gioia l'elezione del 31 marzo 1829, come rivelano una pagina dei suoi Mémoires d'outretombe e un articolo, uscito nella "Strenna dei Romanisti" del 1961, firmato dallo storico del diritto romano Pietro De Francisci (1883-1971), che pubblichiamo.

di PIETRO DE FRANCISCI

Il visconte di Chateaubriand giungeva a Roma il 9 ottobre 1828 quale ambasciatore di Francia presso la Santa Sede: ma era di umore nero. Non tanto per le fatiche del viaggio, per le cattive condizioni di salute di lui e della moglie, quanto per due ragioni molto più profonde.
La prima era l'amaro corruccio del suo sogno di poter ridiventare ministro per gli Affari Esteri, dopo la caduta, alla fine del 1827, del ministero Villèle, da lui sempre combattuto, e per aver dovuto piegarsi, ad evitare di essere messo completamente da parte, ad accettare l'ambasciata, in quel momento di scarsa importanza, assegnatagli per tenerlo lontano dal gioco politico in una specie di esilio.

La seconda era la lontananza dalla Récamier, che il sessantenne scrittore, legato da lei da una costante amicizia amorosa, aveva elevato al rango di sicura confidente e di preziosa collaboratrice. Lo dimostra il centinaio di lettere a lei dirette dal Chateaubriand durante gli otto mesi di quell'ultimo soggiorno romano, nelle quali, sfogando gioie e dolori, la fa partecipe dei propri successi e delle proprie insoddisfazioni, con una vivacità e immediatezza, che si attenuano o si perdono nelle pagine levigate dei suoi Mémoires d'Outre-Tombe, che egli rielaborò più volte, sapendoli destinati alla posterità.

Chi legge questa sua corrispondenza avverte però come, già pochi giorni dopo il suo arrivo, quella Roma, apparsagli, questa volta, fredda e ostile, lo avesse riconquistato. Soprattutto lo avevano riconciliato con la sua missione le cortesi accoglienze ricevute, presentando le sue credenziali, dal cardinale Bernetti, segretario di Stato, e l'affabile conversazione del Papa Leone XII "il più bel principe e il più venerabile sacerdote del mondo", che lo aveva sedotto con la sua nobiltà e la sua dolcezza ed anche con la chiara visione dei problemi politici.


Così, con lo spirito sollevato, lo vediamo, già alla fine del 1828, partecipare a feste e cerimonie; porgere omaggi a dame francesi e a belle signore romane; dedicare molti pomeriggi a lunghe escursioni nella campagna romana. Tuttavia, non appena gli giungeva notizia da Parigi di qualche crisi ministeriale, come quella nata in seguito alla salute precaria del ministro degli Esteri La Ferronnays, Chateaubriand sentiva rinascere le sue ambiziose speranze politiche: e, per tener desta la memoria di sé, si affrettava a inviare al Ministero relazioni accuratissime non solo su problemi italiani, ma anche su questioni internazionali preoccupanti, come quella in Oriente.
Ma, contrariamente alle sue aspettative, proprio per la situazione confusa conseguente alla crisi, le sue memorie non trovavano nessuna eco al Ministero e andavano a finire negli archivi.

Se ne addolorava e, per dimenticare il suo cruccio, si volgeva verso altri orizzonti. Cercava la compagnia di artisti francesi e italiani, fra cui il Tenerani, per il quale, anni prima, aveva posato la Récamier (...) ed ancora, lusingato dalle previsioni di Filippo Aurelio Visconti, commissario per i musei e le antichità di Roma, si assumeva le spese di uno scavo, presso la cosiddetta "tomba di Nerone", in un terreno dove affioravano molti ruderi. Ma anche questi diletti archeologici del diplomatico vennero bruscamente interrotti, il 10 febbraio 1829, dalla morte di Leone XII, che aveva ripetutamente dimostrato la sua benevolenza verso l'ambasciatore di Francia. Era stato un Papa moderato, e perciò inviso agli intransigenti, al quale peraltro molti riconoscevano il merito di aver abbellito la città, incoraggiato le lettere e, soprattutto, di aver sempre serbato misura ed equilibrio.

Fra questi era il Chateaubriand: il quale, superato il primo dolore, si rese conto che quell'avvenimento, cui sarebbe seguita l'elezione del nuovo Pontefice, veniva a porre l'ambasciatore a Roma in una posizione di primo piano: e che l'esito del conclave avrebbe potuto riaprirgli - era un chiodo fisso - le porte della politica, e cioè del ministero degli Esteri. Egli pensava che all'avvenire della Francia, dove le forze reazionarie minacciavano sempre di prevalere, molto importava che il futuro papa fosse un continuatore della politica di Leone XII, che non ripudiava le carte costituzionali e consentiva un moderato liberalismo, puttosto che uno "zelante" ostile ai regimi rappresentativi, come i cardinali della cosiddetta "fazione di Sardegna", o, addirittura, un cliente dell'Austria, che esercitava un notevole influsso sul Sacro Collegio.


Perciò il Chateaubriand si diede, corpo e anima, a un intenso lavorìo diplomatico che, con forme e tattiche diverse, svolgeva, da un lato, sui cardinali francesi, qui vont - scriveva alla Récamier - me tomber sur la tête, alcuni dei quali diffidavano di lui per le sue tendenze liberaleggianti.
Usava, allora, che, dopo la morte di un Pontefice e prima del conclave, ogni rappresentante diplomatico rivolgesse al Sacro Collegio due allocuzioni: una prima, di cortesia, che si risolveva in un elogio del Papa defunto, una seconda, ufficiale, in cui era lecito manifestare i propri voti e le proprie speranze sulla futura elezione.
In questo discorso Chateaubriand, pur protestando la sua devozione di cattolico verso il Sacro Collegio, non aveva fatto mistero dei suoi sentimenti e dei desideri della Francia, che aveva reso seducenti con la sua garbata e suadente eloquenza.

Quanto ai cardinali francesi, non esitò, perché la sua opera di persuasione fosse agevole e continua, a offrire a tutti, al loro arrivo, l'ospitalità dell'ambasciata. Ciò gli permise di metterli in guardi contro le manovre degli "zelanti" appoggiati dall'Austria e dai Gesuiti e quindi di convertirli lentamente alle sue tesi. Egli cominciò allora a nutrire buone speranze, e gli parve di felice augurio che la risposta alla sua seconda allocuzione fosse pronunciata dal cardinale Castiglioni (quale decano dell'ordine dei vescovi) quel prelato, del quale aveva patrocinato la nomina a Pontefice, quando Chateaubriand era ministro degli Esteri nel 1823.

Ma la sicurezza e l'efficacia dell'attività svolta cominciò a vacillare dopo il 14 marzo, quando i cardinali si chiusero in conclave. Il Chateaubriand, tormentato dal dubbio, ogni mattina (narrava all'amica) si alzava con la speranza di un Papa del quale egli auspicava e ogni sera la speranza cadeva.

Cercava di far tacere le sue inquietudini: ora passeggiando, malgrado il maltempo, sulla strada di Tivoli per pensare a Orazio; ora salendo a Sant'Onofrio per meditare sull'infelicità del Tasso; ora portandosi ai suoi scavi che gli rendevano soltanto qualche sarcofago vuoto o qualche rozza tomba (...) altra volta, arrampicandosi fino alla palla di San Pietro.

Questa descrizione si legge in una lettera del 31 marzo 1829. Ma, la stessa sera, ecco la fumata bianca e l'annuncio dell'elezione del cardinale Castiglioni, il Papa amico della Francia da lui auspicato, che assumeva il nome di Pio VIII.

Chateaubriand considerava tale esito come un suo trionfo personale.




(©L'Osservatore Romano 20 novembre 2011)


Caterina63
00domenica 15 novembre 2015 08:58
  FOCUS di padre Riccardo Barile O.P.

«Carneade! Chi era costui?». L’inizio del burrascosissimo cap. VIII de I promessi sposi ha riportato alla ribalta un nome destinato all’oblio. Ciò che invece non è ancora avvenuto per papa Sabiniano, a fronte del quale quasi tutti sono nella situazione del povero don Abbondio: «Chi era costui?», senza poter capire come mai qui se ne parla. Beh, è il sottoscritto che è andato a ripescarlo per trovare un esempio storico che permetta di riflettere su due problemi attuali della vita ecclesiale: un certo pendolarismo nella successione dei Papi e il disagio di alcuni verso il Papa regnante. 

È infatti noto che, come nella lirica ad un certo punto si creò la categoria de “i vedovi della Callas”, così, dopo pontificati dai contorni precisi e con una successione dai contorni altrettanto precisi, ma non uguali, si crea più o meno la stessa categoria: con Giovanni XXIII “i vedovi di Pio XII” e oggi “i vedovi di Ratzinger”. E come con “i vedovi della Callas” una cantante - sembra - si lasciò sfuggire: «Ma adesso ci sono io!», la stessa risposta, volente o nolente, deve darla il Papa regnante. Con un’aggiunta però: «Adesso ci sono io, ma passerò anch’io, perché l’unico che rimane è Gesù Cristo, “lo stesso ieri e oggi e per sempre” (Eb 13,8), al quale dovrò rendere conto delle azioni compiute mentre ero nel corpo (cf 2Cor 5,10)».

Sabiniano fu il successore di un grandissimo Papa: san Gregorio Magno († 604). E nei due anni di pontificato (604-606) il pendolarismo fu quasi perfetto, studiandosi di privilegiare orientamenti spesso opposti al predecessore.
Eppure Sabiniano fu apprezzato da Gregorio Magno, che lo destinò come suo uomo di fiducia a Bisanzio, dove però questi conseguì degli insuccessi dovuti a una certa ingenuità verso i bizantini, per cui fu richiamato e inviato in Gallia con più modesti incarichi. Nonostante premesse del genere, Sabiniano fu eletto a succedere a Gregorio Magno. E qui apparve che la sua ingenuità era invece furbizia: era meno filobarbaro di Gregorio e più filobizantino di lui, per cui i buoni rapporti con i bizantini di Bisanzio e con gli ecclesiastici filobizantini di Roma lo collocarono sulla cattedra di Pietro e dunque «la sua elezione va interpretata come il segno di una reazione concreta all’indirizzo che Gregorio aveva impresso al suo pontificato» (Treccani, Enciclopedia dei Papi I, p. 575). Ci pare impossibile, abituati come siamo a celebrare la grandezza di Gregorio Magno, eppure...

Oltre alla politica filobizantina, Sabiniano attuò altre correzioni di rotta. Negli incarichi curiali favorì il clero secolare, in controtendenza a Gregorio che aveva privilegiato il clero regolare. Soprattutto cambiò metodo nella erogazione del grano pontificio ai poveri in occasione di carestie: Gregorio l’aveva distribuito gratuitamente, Sabiniano lo fece pagare. Anche se va presa in considerazione l’ipotesi che con il ricavato si mettessero in piedi altre iniziative di carità, nella vicenda tanto Gregorio rimase simpatico, quanto Sabiniano ne uscì antipatico.
Paolo Diacono († 799) molti anni più tardi nel cap. 29 della Vita di san Gregorio Magno diede corpo letterario alla leggenda nera: a fronte delle lamentele del popolo che lo invitava a comportarsi come Gregorio, Sabiniano avrebbe risposto: «Se Gregorio accolse tutti per favorire la fama della sua lode, noi non possiamo pascolare tutti».
Al che Gregorio gli sarebbe apparso tre volte invitandolo a cambiare comportamento e, di fronte al rifiuto, in una quarta apparizione «dopo averlo minacciato, lo percosse sulla testa. (Sabiniano) ne provò un gran dolore e morì poco dopo» (PL 75,58). È inverosimile che un papa ammodo come Gregorio Magno e per di più in gloria, si fosse così comportato! Ma è vera l’antipatia verso Sabiniano, tanto che si dovette modificare il tragitto della sepoltura per evitare oltraggi al cadavere.

Si potrebbero portare altri esempi: il successore di san Pio V, il bolognese Ugo Boncompagni poi Gregorio XIII (1572-1585), era persona seria ma con un figlio “fatto” a Bologna con una persona di servizio per sistemare questioni ereditarie e durante la fase bolognese del concilio di Trento, di cui era consultore giuridico; Gregorio XIII poi favorì il figlio con incarichi civili e la ricerca di una ricca ereditiera per moglie e di certo in questo era pendolare e alternativo all’austero san Pio V! E anche Pio IX all’inizio godeva fama di “liberale” ed era alternativo al predecessore Gregorio XVI ecc.

Uscendo dalla storia ed entrando nell’attualità, non è forse la nostra situazione? Per cui la conclusione è di accettare di buon grado anche oggi una certa dose di pendolarismo, dando per scontato che stili di vita, insistenze su tematiche, criteri per la nomina dei vescovi ecc. sono diversi. È normale ed è un modo con il quale la divina provvidenza equilibra la storia, in primis la storia della Chiesa. Il fatto che un papa sia stato grande o santo, non impedisce che a lui succeda una figura alternativa e discontinua.
C’è però una seconda constatazione e conclusione: Sabiniano era filobizantino già sotto papa Gregorio; Roncalli, regnante papa Pacelli, spesso reagiva già da “Giovanni XXIII”; Ratzinger già intorno al 1970 elaborò le considerazioni teologiche che sono a fondamento del Motu proprio Summorum Pontificum - venuto 37 anni dopo! - sulla “liberalizzazione” della liturgia anteriore all’attuale riforma e qui fermiamoci perché un giusto rispetto istituzionale consiglia di non aprire il file Bergoglio.

La conclusione che se ne trae è che tutti costoro avevano un proprio dono: una «grazia secondo la misura del dono di Cristo ... una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (Ef 4,8; 1Cor 12,7). Certo rispettando il governo della Chiesa, restarono fedeli a questo dono e ad un certo punto, divenuti papi, lo posero con particolare intensità «a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio» (1Pt 4,10).
Se vi avessero rinunciato semplicemente per “imitare” il Papa regnante, qualche ricchezza sarebbe andata persa e non si sarebbe più potuto concludere con il versetto successivo 1Pt 4,11: «perché in tutto sia glorificato Dio».
A un livello più modesto, la considerazione vale per quanti perseguono oggi attenzioni che sembrano “sorpassate” come la valutazione della dottrina e della legge e della disciplina, un certo modo di rapportarsi con Dio e con il mondo, un certo modo di celebrare e accostarsi ai misteri sino - perché no? - alla comunione in ginocchio. Chi ha ricevuto questo dono, deve continuare a coltivarlo non come “appendice di un pontificato”, ma appunto come la misura “personale” del dono di Cristo.

Naturalmente questa fedeltà, pur aperta al confronto, deve restare, evitando di far tornare attuale il ritornello di quella (vecchia) canzone di Orietta Berti che a un certo punto faceva: «Tu cambi bandiera!».
Qualche volta - troppe volte - oggi ritorna alla mente...
Questa fedeltà esige di accettare cordialmente di vivere una certa marginalità, che, paradossalmente, è più reale di tanta “periferia virtuale”.
La Chiesa, infatti, è come un negozio o come un magazzino con vetrine bellissime dove però non sempre tutto può trovarsi in esposizione; oppure è una scena sulla quale non sempre possono trovare spazio tutti gli attori.
Ciò che conta è che le ricchezze ci siano e siano custodite da chi ne ha il dono. Se il criterio per tralasciarle fosse il non essere posti in vetrina o al governo, oggi, con l’esaltazione dei “preti di strada”, i certosini dovrebbero chiudere bottega... Se qualcosa di buono si persegue e con una fedeltà che si propone ma che non vuole a tutti i costi imporsi, il bene sarà un giorno accolto e valorizzato. Ma con tempi lunghi, magari anche dopo la morte di quanti lo hanno custodito. 

Giovanni Paolo II, al n. 8 della Lettera apostolica Orientale Lumen (2.5.1995), osservava che la tradizione conserva tutto ciò che lo Spirito ha disseminato nella storia «dando quindi speranza a coloro che, pur non avendo veduto i loro sforzi di bene coronati da successo, sanno che qualcun altro li porterà a compimento; allora l’uomo si sentirà meno solo, meno rinchiuso nell’angolo angusto del proprio operato individuale».

È una considerazione che dà molta speranza e che, con le debite proporzioni si può adattare al nostro discorso. Certo la problematica non è tutta qui perché ci sono altre inquietudini di tipo diverso che vanno affrontate con discorsi diversi, comunque papa Sabiniano - ormai non più un «Chi era costui?»- fin qui ci ha già insegnato e consolato abbastanza.








Caterina63
00domenica 11 febbraio 2018 09:07

Chi era Simone detto Pietro?

Fra Germano Scaglioni, docente di Nuovo Testamento e vice preside del Seraphicum, racconta la storia e il ruolo che San Pietro ebbe nella fondazione della Chiesa cristiana


Pietro Alla Sinistra Di Cristo

Chi era il pescatore Simone detto Pietro?  Che ruolo ebbe nella fondazione della Chiesa cristiana ? Perché è ricordato come principe degli apostoli? Che cosa ci faceva a Roma? È stato lui il primo Papa? Queste ed altre domande ZENIT le ha rivolte a fra Germano Scaglioni, docente di Nuovo Testamento e vice preside della Pontificia Facoltà teologica “San Bonaventura” Seraphicum.

***

Chi era Simone detto Pietro ?

Secondo il Vangelo di Marco, egli è anzitutto l’umile pescatore di Galilea che Gesù “trasformò” in pescatore di uomini (Mc 1,16-17). Originario di Betsaida (Gv 1,44), villaggio sulla sponda settentrionale del lago di Galilea, abitava però a Cafarnao, dove possedeva una casa, in cui viveva insieme alla moglie e alla suocera (Mc 1,16-30). I suoi compaesani lo conoscevano come Shimon bar Iona, Simone figlio di Giona (Giovanni), nome con cui viene ricordato anche nel Nuovo Testamento, soprattutto quando si descrive la sua vocazione (Mc 1,16; Lc 5,8). Ma Gesù gli impose un nome nuovo: «“Tu sei Simone, il figlio di Giovanni: sarai chiamato Cefa” – che significa Pietro » (Gv 1,42). Kēpha (“roccia”) era il suo appellativo aramaico (Kēphas nella forma grecizzata), ma più spesso ricorre la sua traduzione greca, Petros, che significa “Pietro-Roccia”, con cui si evocava la sua speciale missione nella Chiesa. L’apostolo, dunque, è passato alla storia non solo (o non tanto) con il suo nome di origine, Simone, ma con “Pietro”, il soprannome datogli da Gesù che la comunità cristiana trasformò in nome proprio. Il suo percorso di vita e di fede si colloca tra la chiamata di Gesù, avvenuta mentre insieme al fratello Andrea gettava le reti nel “mare di Galilea” (Mc 1,16-18), e il martirio a Roma. Tra questi due poli, si svolse la sua esistenza al seguito del Maestro di Nazaret che annunziava il Regno di Dio, invitando alla conversione (Mc 1,14-15). È solo alla luce del riferimento a Cristo, infatti, che si può comprendere il mistero della persona e della missione di Pietro, a servizio del Vangelo e della Chiesa.

È vero che non sapeva né leggere né scrivere?

Nel Libro degli Atti degli Apostoli si riferisce di una comparizione di Pietro di fronte al Sinedrio, il supremo tribunale di Israele che aveva sede a Gerusalemme. Interrogato su come fosse avvenuta la guarigione di un infermo presso la porta Bella del tempio (At 3,1-10), l’apostolo tenne un discorso sulla morte e risurrezione di Gesù (4,1-22): pur non credendo alle sue parole, i sinedriti rimasero stupiti, perché ai loro occhi, Pietro appariva come un semplice popolano (idiōtēs), senza istruzione (agrammatos).

Per alcuni studiosi, però, questo giudizio rivelerebbe più il disprezzo delle autorità religiose nei confronti delle persone del popolo che non la realtà storica. Detto altrimenti, Pietro potrebbe essere stato un analfabeta (all’epoca non era inverosimile per un pescatore), ma non si può escludere che avesse un’istruzione, per quanto “popolare” o modesta. Con buona probabilità, ricevette la sua formazione professionale dal padre, mentre quella religiosa gli derivò dalla frequentazione della sinagoga.

Perché il Signore lo scelse come suo primo discepolo?

Difficile rispondere, poiché siamo di fronte al mistero insondabile della volontà di Gesù. Di certo, per gli autori dei Vangeli (e non solo), Pietro non era un discepolo qualsiasi. Il suo nome è sempre il primo nelle liste in cui si ricordano i nomi di coloro che seguirono Gesù più da vicino. Egli ha riconosciuto e rivelato l’identità di Gesù: «Tu sei il Cristo» (Mc8,29); è colui al quale Gesù si è rivolto, dicendo: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa. A te darò le chiavi del Regno dei Cieli» (Mt 16,18-19). I vangeli non passarono sotto silenzio la sua debolezza umana durante la passione di Gesù – il triplice rinnegamento e la sua assenza al Calvario –, ma ricordarono anche che egli fu tra i primi ad accorrere al sepolcro, trovandolo vuoto, e fra i testimoni privilegiati delle apparizioni del Risorto. Subito dopo l’ascensione di Gesù, una volta ricevuto lo Spirito Santo, Pietro prese la parola e con grande coraggio annunciò la risurrezione di Gesù, alla folla riunita a Gerusalemme in occasione della Pentecoste, esortando al pentimento e al battesimo. In seguito, lo si trovò spesso impegnato nella soluzione di questioni riguardanti la vita delle comunità cristiane, che gli riconobbero una particolare autorità. In più occasioni, Pietro diede prova di intelligenza pastorale; attento alle diverse sensibilità della compagine ecclesiale, fu sempre animato da grande spirito missionario.

Come e perché venne nominato a capo dei dodici apostoli?

«Primo, Simone, chiamato Pietro»: così Matteo apre la lista dei Dodici (Mt 10,2-4). L’elenco degli apostoli compare anche in Marco (3,16-19), in Luca (6,14-16) e nel Libro degli Atti (1,13-14): si notano differenze, ma vi è unanimità nell’attribuzione a Pietro del primo posto nella lista. Il fatto non può essere casuale: la scelta degli agiografi corrispondeva a un’indicazione di Gesù, recepita dalla tradizione ecclesiale e sottolineata più volte nel Nuovo Testamento. La questione è sintetizzata in modo efficace in un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede: «Pietro fu costituito espressamente da Cristo al primo posto fra i Dodici e chiamato a svolgere nella Chiesa una propria e specifica funzione. Egli è la roccia sulla quale Cristo edificherà la sua Chiesa; è colui che una volta convertito, non verrà meno nella fede e confermerà i fratelli; è infine il Pastore che guiderà l’intera comunità dei discepoli del Signore» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Il primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa. Considerazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede, LEV, Città del Vaticano 1998, n. 3). Un’ulteriore conferma del prestigio che circondava la sua figura nella Chiesa delle origini è significata dalle numerose menzioni del suo nome nei Vangeli e negli altri scritti neotestamentari. Non solo, nel Nuovo Testamento, due scritti portano esplicitamente il suo nome: la Prima e la Seconda Lettera di Pietro.

Cosa ci faceva a Roma?

Protagonista nella vita della prima comunità cristiana, dopo un’intensa attività apostolica, Pietro raggiunse la capitale dell’Impero. Ormai da tempo, tra gli studiosi, il suo ministero a Roma è oggetto di dibattito, poiché il Nuovo Testamento non offre informazioni circa il suo arrivo e la sua permanenza nell’Urbe, a differenza di quanto si verifica per il “soggiorno” romano di san Paolo, alla cui descrizione il Libro degli Atti dedica invece buona parte del capitolo conclusivo (At 28,14-31). Un’eccezione potrebbe essere rappresentata da 1Pt 5,13 – «Vi saluta la comunità che vive in Babilonia» –, a patto, però, di accettare l’equivalenza di “Babilonia” con Roma, ma su questo vi sono riserve da parte degli studiosi.

Secondo la tradizione ecclesiale, Pietro si dedicò alla predicazione. Eusebio di Cesarea († 340) riporta la testimonianza di Clemente Alessandrino († 215), per il quale «Pietro predicò la dottrina pubblicamente a Roma ed avendo esposto il Vangelo con l’aiuto dello Spirito, i suoi uditori, che erano numerosi, esortarono Marco, poiché era stato suo compagno da molto tempo e ricordava le sue parole, a trascrivere ciò che egli aveva detto. Lo fece e trascrisse il Vangelo» (Hist. Eccl. VI,14,5-7). Secondo Clemente, dunque, Pietro fu a Roma e la sua predicazione nell’Urbe sarebbe stata raccolta e messa per iscritto da Marco, suo “figlio fedele” (1Pt 5,13) nonché suo “interprete-segretario”, dando così origine al Vangelo di Marco. Sempre a Roma, con l’ausilio di Silvano, “il fratello fedele”, l’apostolo avrebbe composto lo scritto che è considerato il suo “testamento pastorale”: la Prima Lettera di Pietro.

Come e dove morì?

Mario Pancera afferma che «Pietro conclude la sua vita in maniera oscura, così come l’ha cominciata» (San Pietro. La vita, le speranze, le lotte, le tragedie dei primi cristiani, Milano 1983, p. 187). Un giudizio condivisibile, se si considera che gli scritti del Nuovo Testamento non riportano alcuna indicazione esplicita sulle circostanze della morte di Pietro (ma ciò non deve sorprendere, perché neppure di san Paolo si ricorda il martirio). Ancora una volta, dunque, occorre attingere alla tradizione ecclesiale, secondo la quale fu a Roma che trovarono conferma le parole del Vangelo di Giovanni, in cui si preannunciava il martirio di Pietro: “Questo disse [Gesù] per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio” (Gv 21,19; cf. Gv 13,36-38).

Clemente, quarto vescovo di Roma (87-97 d.C.), in una lettera ai cristiani di Corinto (95 d.C.), ricordava il martirio di Pietro e Paolo, avvenuto nell’Urbe. Riguardo al primo, Clemente precisò: «Pietro, che a causa di ingiusta invidia, sopportò non una ma molte pene, dopo aver reso una tale testimonianza, giunse al meritato luogo della gloria» (1Clem. 5,1-4). Secondo una tradizione raccolta dallo storico Eusebio, Pietro sarebbe stato crocifisso a testa in giù, su sua richiesta (Hist. Eccl., III,1,2), all’epoca dell’imperatore Nerone, probabilmente verso l’anno 64 d.C. Come luogo del martirio, è generalmente indicato l’ager Vaticanus, sulla sponda occidentale del Tevere, un quartiere abitato dalla popolazione povera della città. Riguardo al luogo di sepoltura delle spoglie mortali, così si esprime il presbitero romano Gaio (II-III sec. d.C.), parlando di Pietro e di Paolo: «Posso mostrarti i trofei [= i monumenti funebri] degli apostoli. Se tu infatti cammini sul Vaticano o per la strada che porta a Ostia, troverai i trofei di coloro che hanno fondato questa chiesa» (Hist. Eccl., II,25,1-7).

Si conclude così l’itinerario terreno di Simone, detto Pietro, il pescatore di Galilea che la storia conosce anche come “il principe degli apostoli”, l’uomo su cui Gesù posò il suo sguardo, chiamandolo a condividere la passione per l’annuncio del Regno e la salvezza di tutti gli uomini. Su di lui, il Signore ha voluto edificare la “sua” Chiesa, a lui ha chiesto di “pascere le sue pecore”, affidandogli il compito di proclamare a tutti, in ogni tempo e in ogni luogo, che «Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).











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