Il sacerdote: chi e' e cosa fa?

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Cattolico_Romano
00venerdì 22 maggio 2009 17:41

Il sacerdote: chi e' e cosa fa?


Chi è il sacerdote?

E' colui che ha ricevuto il Sacramento dell'Ordine, dalle mani di un Vescovo, validamente consacrato.


Che cos'è il Sacramento dell'Ordine?

E' uno dei sette sacramenti istituiti da Cristo, grazie al quale viene donata, a chi lo riceve, "una speciale consacrazione (Ordinazione), che, per un particolare dono dello Spirito Santo, permette di esercitare una sacra potestà a nome e con l'autorità di Cristo a servizio del Popolo di Dio" (Compendio del CCC, 323).


Quali sono gli effetti del Sacramento dell'Ordine?

"Questo Sacramento dona una speciale effusione dello Spirito Santo, che configura l'ordinato a Cristo nella sua triplice funzione di Sacerdote, Profeta e Re, secondo i rispettivi gradi del Sacramento. L'ordinazione conferisce un carattere spirituale indelebile: perciò non può essere ripetuta né conferita per un tempo limitato.


Con quale autorità viene esercitato il sacerdozio ministeriale?

I sacerdoti ordinati, nell'esercizio del ministero sacro, parlano e agiscono non per autorità propria e neppure per mandato o per delega della comunità, ma in Persona di Cristo Capo e a nome della Chiesa. Pertanto il sacerdozio ministeriale si differenzia essenzialmente, e non solo per grado, dal sacerdozio comune dei fedeli, a servizio del quale Cristo l'ha istituito" (Compendio del CCC, 335-336).


Perché è necessario il sacerdote?

Perché così ha voluto Gesù Cristo, istituendo la Sua Chiesa. La volontà di Cristo è pertanto il motivo fondamentale e determinante. E' lo stesso Cristo che ha voluto che senza il sacerdote non ci possa essere la celebrazione di due essenziali Sacramenti: l'Eucaristia e la Penitenza.
"Il carattere sacramentale che distingue i sacerdoti, in virtù dell'Ordine ricevuto, fa sì che la loro presenza e il loro ministero siano unici, necessari e insostituibili"(Giovanni Paolo ii, Lettera ai sacerdoti, giovedì santo 2000).


Qual è la missione del sacerdote?

  • La sua missione è peculiare:
    • egli agisce nel nome e nella persona di Cristo Capo (in persona Christi capitis), per il bene delle anime. "Solo Cristo è il vero sacerdote, gli altri sono i suoi ministri" (San Tommaso D'Aquino, Commentarium in epistolam ad Hebraeos, c. 7, lect. 4);
    • è collaboratore del Vescovo, in una Chiesa particolare: egli riceve "dal Vescovo la responsabilità di una comunità parrocchiale o di una determinata funzione ecclesiale" (CCC 1595);
    • forma con gli altri presbiteri un 'unico presbiterio diocesano', in comunione e sotto l'autorità del Vescovo, a cui deve obbedienza (cfr. concilio vaticano ii, Presbyterorum ordinis, 8)
    • è "consacrato per:
      • predicare il Vangelo,
      • celebrare il culto divino, soprattutto l'Eucaristia da cui trae forza il suo ministero,
      • e essere il Pastore dei fedeli" (Compendio del CCC, 328).
  • In virtù del sacramento dell'Ordine i sacerdoti partecipano alla dimensione universale della missione affidata da Cristo agli Apostoli. Il dono spirituale che hanno ricevuto nell'Ordinazione non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza, " fino agli ultimi confini della terra " (At 1,8), pronti nel loro animo a predicare dovunque il Vangelo" (CCC, 1565).



Quali caratteristiche ha la missione del sacerdote?

La sua missione è:
  • "ecclesiale perché nessuno annuncia o porta se stesso, ma dentro ed attraverso la propria umanità ogni sacerdote deve essere ben consapevole di portare un Altro, Dio stesso, al mondo. Dio è la sola ricchezza che, in definitiva, gli uomini desiderano trovare in un sacerdote;
  • comunionale, perché si svolge in un'unità e comunione che solo secondariamente ha anche aspetti rilevanti di visibilità sociale. Questi, d'altra parte, derivano essenzialmente da quell'intimità divina della quale il sacerdote è chiamato ad essere esperto, per poter condurre, con umiltà e fiducia, le anime a lui affidate al medesimo incontro con il Signore;
  • gerarchica e dottrinale: (tali aspetti) suggeriscono di ribadire l'importanza della disciplina (il termine si collega con discepolo) ecclesiastica e della formazione dottrinale, e non solo teologica, iniziale e permanente" (Benedetto Xvi, Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero, 16-3-09).



Che cosa comporta lo speciale legame del sacerdote con Cristo?

Il sacerdote è intimamente unito a Cristo a tal punto da essere e da agire "nel nome di Cristo", Sommo ed eterno Sacerdote, in forza dell'unzione dello Spirito Santo.
  • Questo significa e comporta:
    • il suo essere sacerdote non è merito suo, né viene da una elezione di una comunità o di un gruppo, ma è frutto della chiamata gratuita di Dio: "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Gv 15, 16). Tale chiamata viene riconosciuta e accolta nella libertà da parte del singolo, ed è confermata e autenticata dal Vescovo ordinante;
    • il sacerdote è segnato da uno speciale carattere spirituale indelebile, che lo configura a Cristo sacerdote, profeta e re. Partecipa in tal modo "dell'autorità con cui Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio corpo" (concilio vaticano ii, Presbyterorum ordinis, 2);
    • il suo agire è un vero servizio. "Esso è interamente riferito a Cristo e agli uomini. Dipende interamente da Cristo e dal suo unico sacerdozio ed è stato istituito in favore degli uomini e della comunità della Chiesa. Il sacramento dell'Ordine comunica " una potestà sacra ", che è precisamente quella di Cristo. L'esercizio di tale autorità deve dunque misurarsi sul modello di Cristo, che per amore si è fatto l'ultimo e il servo di tutti" (CCC, 1551);
    • la missione ricevuta va dal sacerdote esercitata non a suo piacimento, ma nel nome di Cristo, di cui egli è ministro, segno, trasparenza soprattutto con la testimonianza della sua vita conforme sempre più a quella di Cristo. "Ricevi il Vangelo di Cristo, di cui ora diventi araldo. Credi ciò che leggi, insegna ciò che credi, vivi ciò che insegni” (Rito dell’Ordinazione);
    • “Comporta che (noi sacerdoti) non vogliamo imporre la nostra strada e la nostra volontà; che non desideriamo diventare questo o quest’altro, ma ci abbandoniamo a Lui, ovunque e in qualunque modo Egli voglia servirsi di noi” (Benedetto Xvi, Omelia, giovedì santo 2009);
    • “ E’ Cristo stesso che agisce in coloro che Egli sceglie come suoi ministri; li sostiene perché la loro risposta si sviluppi in una dimensione di fiducia e di gratitudine che dirada ogni paura, anche quando si fa più forte l'esperienza della propria debolezza (cfr. Rm 8, 26-30), o si fa più aspro il contesto di incomprensione o addirittura di persecuzione” (Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 20-1-09).
  • Lo stesso indossare il paramento liturgico, in particolare celebrando l’Eucarestia, indica visivamente che il sacerdote è e agisce “nel nome di Cristo”. In questo segno esterno, l’abito liturgico, si rende “evidente l’evento interiore e il compito che da esso ci viene: rivestire Cristo; donarsi a Lui come Egli si è donato a noi.(…) Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo lì in persona di un Altro" ( Benedetto xvi, Omelia, giovedì santo 2007).



In che senso il sacerdote agisce “a nome di tutta la Chiesa”?

  • “Il sacerdozio ministeriale non ha solamente il compito di rappresentare Cristo – Capo della Chiesa – di fronte all'assemblea dei fedeli; esso agisce anche a nome di tutta la Chiesa allorché presenta a Dio la preghiera della Chiesa e soprattutto quando offre il sacrificio eucaristico.
  • « A nome di tutta la Chiesa ». Ciò non significa che i sacerdoti siano i delegati della comunità. La preghiera e l'offerta della Chiesa sono inseparabili dalla preghiera e dall'offerta di Cristo, suo Capo. È sempre il culto di Cristo nella sua Chiesa e per mezzo di essa. È tutta la Chiesa, corpo di Cristo, che prega e si offre, « per ipsum et cum ipso et in ipso » – per lui, con lui e in lui – nell'unità dello Spirito Santo, a Dio Padre. Tutto il corpo, « Caput et membra » – Capo e membra – prega e si offre; per questo coloro che, nel corpo, sono suoi ministri in senso proprio, vengono chiamati ministri non solo di Cristo, ma anche della Chiesa. Proprio perché rappresenta Cristo, il sacerdozio ministeriale può rappresentare la Chiesa” (CCC, 1552-1553).



Che cosa s’aspetta la gente dal sacerdote?

“Dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano degli specialisti nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio. Al sacerdote non si chiede di essere esperto in economia, in edilizia o in politica. Da lui ci si attende che sia esperto nella vita spirituale. (…) Ciò che i fedeli si attendono da lui è che sia testimone dell’eterna Sapienza, contenuta nella Parola rivelata” (benedetto xvi, Discorso al clero, Cattedrale di Varsavia, 25 maggio 2006).
Per questo è quanto mai importante assicurare l’idoneità dei candidati al sacerdozio e garantire un’adeguata e integrale formazione sacerdotale a quanti stanno studiando per il sacro ministero.


Chi può essere sacerdote?

  • Può esserlo soltanto il battezzato di sesso maschile. “La Chiesa si riconosce vincolata da questa scelta fatta dal Signore stesso. Per questo motivo, l’ordinazione delle donne non è possibile” (giovanni paolo ii, Lett. Ap. Mulieris dignitatem, 26-27).
  • “Nessuno ha un diritto a ricevere il sacramento dell'Ordine. Infatti nessuno può attribuire a se stesso questo ufficio. Ad esso si è chiamati da Dio. Chi crede di riconoscere i segni della chiamata di Dio al ministero ordinato, deve sottomettere umilmente il proprio desiderio all'autorità della Chiesa, alla quale spetta la responsabilità e il diritto di chiamare qualcuno a ricevere gli Ordini. Come ogni grazia, questo sacramento non può essere ricevuto che come dono immeritato” (CCC, 1578).
  • Ai sacerdoti nella Chiesa latina è richiesto il celibato (cfr. scheda: Celibato dei preti: perché esiste nella Chiesa latina?).
  • "Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!" (Mt 9, 38). “Nostro primo dovere è pertanto di mantenere viva, con preghiera incessante, questa invocazione dell'iniziativa divina nelle famiglie e nelle parrocchie, nei movimenti e nelle associazioni impegnati nell'apostolato, nelle comunità religiose e in tutte le articolazioni della vita diocesana” (benedetto xvi, Messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 20-1-09).


Il Primicerio
della Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma
Monsignor Raffaello Martinelli

NB: Per approfondire l’argomento, si leggano:
  • Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), nn. 1562-1592;
  • Il Compendio del CCC, nn. 328-336.

www.sancarlo.pcn.net

Caterina63
00sabato 23 maggio 2009 18:33
Non dimentichiamo che lo stesso Giovanni Paolo II quanto Benedetto XVI oggi raccomandano, per i giovani e i sacerdoti anche seminaristi...di far proprie le virtù e gli insegnamenti del Santo Curato d'Ars, ossia sna Giovanni Maria Vianney il quale sarà dichiarato ufficialmente dal Papa, in questo Anno sacerdotale, PATRONO DEI SACERDOTI...

come mai?[SM=g1740733]  forse non tutti sanno che anche san Pio X nella sua Esortazione:

Haerent animo - Esortazione Apostolica - 4 agosto 1908 (sul Sacerdozio e la santità)

nella quale, con voce PATERNA indica la strada per avere santi sacerdoti, dedica un capitoletto anche al Santo Curato d'Ars:

leggiamo:

12. L’unica scienza che vale – L’esempio del Santo Curato d’Ars


Quando manchi al sacerdote questa, che solo costituisce la sovraeminente scienza di Gesù Cristo, gli manca ogni cosa. Poiché senza questa scienza la stessa vastità di una raffinata cultura (che pure noi medesimi con ogni cura ci studiamo di promuovere per il Clero) e la stessa destrezza e solerzia negli affari, quand’anche potessero essere di qualche frutto alla Chiesa o ai singoli fedeli, non raramente tuttavia sono a loro causa deplorevole di detrimento.

Ma quanto possa nel popolo di Dio intraprendere e condurre a termine chi sia ornato di santità, anche nell’infimo grado della gerarchia, ce lo dicono numerosi esempi tratti da ogni età della storia; basti ricordare tra i recenti il Curato d’Ars, Giovanni Battista Vianney, al quale siamo lieti di avere noi medesimi decretato gli onori dei Beati. La santità sola ci rende quali ci richiede la nostra vocazione divina, uomini cioè crocifissi al mondo, e ai quali il mondo è crocifisso; uomini che camminano "vivendo nuova vita" (Rm 4,4), i quali, secondo l’avviso di san Paolo (2Cor 6,5-7) nelle fatiche, "nelle vigilie, nei digiuni, con la castità, con la scienza, con la mansuetudine, con la soavità, con lo Spirito Santo, con la carità non simulata; con le parole di verità", si manifestino veri ministri di Dio: che unicamente tendano alle cose celesti e si studino con ogni zelo di rivolgere al cielo le anime degli altri.



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Caterina63
00lunedì 8 giugno 2009 13:00
L'attualità di don Bosco secondo il cardinale Bertone

Chiesa e società chiamate a investire sui giovani


Investire sui giovani è quanto di meglio possano fare Chiesa e società. Parola di don Bosco, "uomo d'azione" che comprese come non ci possa essere futuro senza attenzione alle nuove generazioni e su questo realizzò un metodo educativo preventivo sempre attuale. I tempi cambiano ma non passa la verità di questo progetto educativo:  lo ha riaffermato il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, nella messa celebrata, nel pomeriggio di giovedì 4 maggio, alle catacombe romane di san Callisto, in occasione del pellegrinaggio dell'urna con una reliquia di don Bosco che, in sei anni, toccherà i centrotrenta Paesi dove è presente la famiglia salesiana.

Il carisma di don Bosco scaturisce direttamente dal Vangelo, ha ricordato il cardinale:  è Gesù stesso a indicare ai suoi discepoli che il primo obiettivo è "diventare bambini nello spirito". Questa rivelazione "ha aperto uno scenario inedito per l'umanità. I cristiani hanno compreso il senso dell'accoglienza degli ultimi della società, che nell'immagine del bambino indifeso e bisognoso di tutto, hanno assunto il volto dei poveri, degli emarginati, degli offesi, dei perseguitati".

Nel XIX secolo don Bosco ha dato una "interpretazione autentica, concreta e originale" del mandato di Gesù, aprendo "in maniera travolgente le porte per accogliere i giovani "più abbandonati e pericolanti"", suscitando "compagni, sempre più numerosi, per la realizzazione del suo "sogno"" e mettendo "in atto un "metodo di vita cristiano" che si è rivelato fruttuosissimo nel tempo:  il sistema preventivo". 


don Bosco L'uomo di domani, ha affermato il cardinale Bertone, "si costruisce sopra un humus creato giorno per giorno, e più di un aneddoto della vita di don Bosco rivela lo stile di approccio con i giovani, facente leva sulle potenzialità positive di ognuno. Attento alle richieste dei ragazzi, don Bosco ama parlare di gioia, di allegria, di sani momenti di svago, perché la felicità è iscritta nella giovinezza".

Don Bosco, dunque, ha realizzato l'insegnamento di Gesù, aggiornandolo e approfondendolo sulla base dei problemi  della società contemporanea:  resta ferma la priorità di "essere come bambini" che riconoscono la propria grandezza "nel porre attenzione ai più poveri, abbandonati, disoccupati, senza tetto, senza famiglia, senza lavoro".

"L'opera di don Bosco - ha detto il cardinale - ha realizzato migliaia di istituti, scuole, centri professionali e centri di carattere educativo. Lo spirito di don Bosco si è incarnato in decine di migliaia di suoi figli e figlie che hanno deciso di continuare a occuparsi dei più piccoli, attraverso i diversi rami della famiglia salesiana e attraverso la folla immensa degli ex-allievi. Anche se il mutare dei tempi incide sulle modalità di applicazione, nei diversi istituti salesiani, nelle diverse opere presenti in tutti i continenti, la natura profonda del carisma di don Bosco rimane sempre la stessa. Lo esprime l'interesse di aggiornamento da parte di tutta la famiglia salesiana e insieme il desiderio di capire sempre meglio il "dammi le anime, prendi tutto il resto", che caratterizza la motivazione profonda e originale dell'impegno di don Bosco".

Il pellegrinaggio dell'urna di don Bosco, ha spiegato il cardinale, è un'opportunità "per rinnovare in tutti, giovani e anziani, l'entusiasmo giovanile, per spronarci all'impegno instancabile per l'educazione dei giovani, per spingerci sempre più a occuparci dei problemi della società di oggi. Siamo noi, ora, sulla scena di questo mondo a dover incarnare l'insegnamento di Gesù, e a dover prendere la responsabilità dei più piccoli e deboli, per portare avanti ciò che Gesù proponeva ai suoi discepoli". Il segretario di Stato ha rilevato come il mondo oggi abbia "bisogno di don Bosco come non mai. Tocca a noi rivivere don Bosco, tramite la nostra dedizione e fedeltà al carisma".

Una parola l'ha poi riservata al radicamento dei salesiani nel complesso di San Callisto. "Don Bosco veniva spesso in questo luogo - ha detto il cardinale - e negli ultimi anni le catacombe accolgono il pellegrinaggio dei ministranti che vengono a trovare il loro patrono san Tarcisio". Grazie ai salesiani, i visitatori a San Callisto non trovano solo l'aspetto archeologico-storico "ma anche il profondo significato pastorale delle catacombe".



(©L'Osservatore Romano - 7 giugno 2009)

Caterina63
00sabato 7 novembre 2009 19:22
A Grugliasco il cardinale Bertone ricorda don Cocco, missionario salesiano

Testimone del Vangelo tra gli indios del Venezuela


La partecipazione alla riunione della Conferenza italiana dei superiori maggiori a Torino ha offerto al cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, l'occasione di presiedere la celebrazione in ricordo di don Luigi Cocco, missionario salesiano, organizzata nel primo centenario della nascita, nella parrocchia di San Cassiano, a Grugliasco, nella provincia del capoluogo piemontese, sabato 7 novembre.

Nell'omelia il cardinale, dopo aver trasmesso il saluto e la benedizione di Benedetto XVI, si è soffermato sull'episodio evangelico proposto dalle letture del giorno, in particolare sul passo del Vangelo di Marco in cui si narra di una donna umile, vedova, che infila due monetine di poco valore nella cassa delle offerte per il Tempio. "L'obolo - ha notato - è insignificante, ma il dono è totale, ed è tanto più grande quanto meno è ostentato". La donna, più che dare avrebbe il diritto di ricevere, ma lei vuole comunque dare e, timidamente, offre gli unici spiccioli che possiede. Gesù ne esalta la generosità e giudica il suo dono come un atto eroico, una lezione per i superbi, i vanitosi, gli ambiziosi; una lezione che vuole scuotere le coscienze degli ascoltatori nel riproporre il valore di un gesto gratuito.

""Senza la gratuità - il cardinale ha citato il Papa - non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia", ricorda Benedetto XVI nell'enciclica Caritas in veritate". In questa luce "balza allora evidente un nome - ha detto ancora il segretario di Stato - don Luigi Cocco. Oggi vogliamo ricordare l'epopea di un grande uomo; di un sacerdote salesiano missionario, di un grugliaschese che ha onorato la Chiesa e la sua terra d'origine con le sue nobili gesta, compiute nella gratuità e nella semplicità del cuore autenticamente evangeliche".

Il porporato quindi ha ripercorso la vita di don Cocco, la cui vocazione salesiana si esprisse dapprima con la dedizione ai giovani presso l'oratorio di Valdocco, "dove proprio in quel periodo - ha ricordato - io l'ho conosciuto personalmente, mentre accompagnava un gran numero di ragazzi, raccolti per strada, a sfamarsi alla già povera mensa di noi studenti". Poi, come cappellano nelle fabbriche, dove ha istituito la "Pasqua degli operai", fino a quando, nel 1951, salpò da Genova per il Venezuela. Presso la tribù degli Yanomani, nel cuore della foresta svolse un'opera impressionante di civilizzazione e di evangelizzazione.

Vent'anni di duro lavoro, attraversati da malattie e da ben sette interventi chirurgici, sono stati necessari per portare l'istruzione basilare, per insegnare a lavorare. Insieme ai confratelli salesiani e alle Figlie di Maria Ausiliatrice, guidate da suor Maddalena Mosso, ha dato vita a tante iniziative di promozione umana. "Ricordo - ha detto il cardinale soffermandosi su questo particolare momento della vita del missionario - che io stesso, nel 1972, ho propiziato l'incontro di don Cocco con Paolo VI, che intendeva presentargli due capitribù, i quali volevano offrire al Papa i caratteristici pappagalli della loro foresta".

Fra le opere nate per iniziativa di don Luigi Cocco, il porporato ha citato in particolare lo studio sugli indios yanomani. Nel suo libro intitolato Parima. Dove la terra non accoglie i morti, ne ha descritto minuziosamente la vita, apprezzandone la cultura e le tradizioni. Con ricerche che sono state elogiate anche da Claude Lévi-Strauss.

Don Cocco è stato capace di vedere, di interpretare intelligentemente i gesti quotidiani della gente alla quale aveva deciso di dedicare la propria vita, cogliendone l'intrinseco valore. "Si potrebbe individuare in ciò - ha infine notato il segretario di Stato - un certo parallelo con il racconto evangelico poc'anzi commentato. Se Gesù non avesse fatto notare ai presenti il semplice gesto della povera donna vedova, questo sarebbe senz'altro sfuggito a tutti, e invece quell'umile offerta è stata consegnata alla memoria dell'umanità per sempre. Lo sguardo che parte dal cuore, vede e apprezza, comprende e valorizza, aiuta a sviluppare tutte le potenzialità umane e dona la dignità dovuta ad ogni essere umano. Questo è stato lo sguardo penetrante e amorevole di don Luigi Cocco".


(©L'Osservatore Romano - 8 novembre 2009)

Caterina63
00lunedì 23 novembre 2009 20:12
Don Giuseppe Quadrio
prete all'altare e laico tra gli uomini



di Enrico dal Covolo

Chi legge le lettere del servo di Dio don Giuseppe Quadrio avverte con facilità che un tema scorre in filigrana lungo tutto l'epistolario, fino a ricorrere con particolare insistenza nel periodo della sua malattia (1960-1963): è il discorso sull'identità e missione del sacerdote.

Il risultato più interessante è che - senza averne l'intenzione, e senza neanche accorgersene - don Quadrio dipinge uno splendido autoritratto sacerdotale. Infatti, secondo la testimonianza concorde di chi l'ha conosciuto, "le cose che diceva e scriveva" sul sacerdozio "erano "sue": quello che diceva era la sua vita!"; ed egli era "sempre, dovunque, con tutti prete", proprio come raccomandava con insistenza ai sacerdoti suoi amici.
Ripercorrendo alcuni passi delle lettere di don Quadrio è possibile illustrarne l'alta concezione del ministero presbiterale: nello stesso tempo affiorerà quell'autoritratto - non voluto e non previsto - che don Quadrio stesso ha lasciato scrivendo del sacerdozio.

Anzitutto, don Quadrio è consapevole che il prete - come attestato nella Lettera agli Ebrei - è "uno preso fra gli uomini". L'umanità è per lui una componente essenziale del sacerdozio. Purtroppo - così egli si rammarica con gli ex-allievi del 1960 nel terzo anniversario della loro ordinazione - "ci può essere un sacerdozio disincarnato, in cui il divino non è riuscito ad assumere una vera e completa umanità. Abbiamo allora dei preti che non sono uomini autentici, ma larve di umanità; dei "marziani" piovuti dal cielo, disumani ed estranei, incapaci di capire e di farsi capire dagli uomini del proprio tempo e del proprio ambiente. Dimenticano che Cristo, per salvare gli uomini, "discese, si incarnò, si fece uomo", "volle diventare in tutto simile a loro, fuorché nel peccato". Se siamo il ponte fra gli uomini e Dio, bisogna che la testata del ponte sia solidamente poggiata sulla sponda dell'umanità, accessibile per tutti quelli per cui fu costruito".

Agli stessi sacerdoti don Quadrio aveva scritto un anno prima: "Il Verbo si è fatto vero e perfetto uomo, per essere Salvatore. Anche il vostro sacerdozio non salverà alcuno, se non attraverso questa genuina incarnazione. Gli uomini, che vi avvicinano o che vi fuggono, sono tutti indistintamente affamati di bontà, di comprensione, di solidarietà, di amore: muoiono del bisogno di Cristo, senza saperlo. A ciascuno di voi essi rivolgono una preghiera disperata: "Vogliamo vedere Gesù!" (Giovanni, 12, 21). Non deludete l'attesa della povera gente. Sappiate capire, sentire, cercare, compatire, scusare, amare. Non temete: tutti aspettano soltanto questo! Prima che con i dotti discorsi, predicate il Vangelo con la bontà semplice, accogliente, con l'amicizia serena, con l'interessamento cordiale, con l'aiuto disinteressato, adottando il metodo dell'evangelizzazione "feriale", capillare, dell'un per uno, a tu per tu. Entrate attraverso la finestra dell'uomo, per uscire attraverso la porta di Dio. Gettate a ognuno il ponte dell'amicizia, per farci passare sopra la luce e la grazia di Cristo".

Al nipote Valerio, che s'incamminava per la via del sacerdozio, confida: "Sei presente ogni giorno nella mia messa e nelle mie preghiere, perché sono troppo interessato alla tua formazione sacerdotale. Non sai infatti quanto mi stia a cuore la maturazione definitiva del tuo carattere in quelle virtù umane e naturali che ti renderanno un uomo autentico, completo, conquistatore. Queste virtù umane sono generalmente molto modeste e dimesse, ma basilari: la sincerità, la lealtà, l'amabilità, l'accondiscendenza, la generosità, la padronanza assoluta di sé, l'alacrità nell'azione, la calma imperturbabile nei contrattempi, la fiducia incrollabile, la costanza nei propositi, la forza di volontà che sa volere con chiarezza e pacata irremovibilità".

Qualche anno più tardi scriverà ancora allo stesso Valerio: "Penso che noi sacerdoti dovremmo saper gettare verso tutti il ponte di un'amabile, cortese, calda e serena personalità, generosa e semplice, ricca di umanità e di comprensione, accogliente e servizievole. Solo su queste arcate potrà correre il Vangelo e la grazia!".
Insomma, il ricco corredo di doti umane, che si svela pagina dopo pagina nell'epistolario, fa di don Quadrio il testimone vivente di ciò che egli stesso va consigliando ai suoi sacerdoti.

A questa luce si possono considerare alcuni tratti caratteristici delle lettere, come l'attenzione fedele ad alcune ricorrenze - onomastici, anniversari, auguri, condoglianze - la capacità di esprimere riconoscenza - per esempio a don Magni e a don Castano - la sapiente alternanza tra l'uso del "lei" e l'uso del "tu", la fantasia nell'attenzione alle persone - si veda una letterina scherzosa scritta a Gesù Bambino nel Natale 1961: cercando d'imitare la grafia larga e incerta d'un bambino, e costellando la pagina di tipici errori infantili, don Quadrio formula una simpaticissima preghiera per suor Maria Ignazia, una suora dell'ospedale "tanto brava, che corre sempre e mi fa la pappa tuti i ciorni".

Nella persona del sacerdote si attua un misterioso incontro di salvezza tra l'umano e il divino. A questo riguardo don Quadrio ammonisce i suoi amici a guardarsi da "un sacerdozio mondanizzato, in cui l'umano ha diluito o soffocato il divino". E aggiunge: "Abbiamo allora lo spettacolo lacrimevole di preti che saranno forse buoni professori e organizzatori, ma non sono più gli "uomini di Dio", né viventi epifanie di Cristo. Sono come certe chiese trasformate in musei profani. C'è un termometro infallibile per misurare la consistenza del proprio sacerdozio: la preghiera. È la prima ed essenziale occupazione di un prete, anche se è direttore, consigliere, prefetto o incaricato dell'oratorio. Tutto il resto sarà importante, ma viene dopo. Diversamente siamo un ponte a cui è crollata l'ultima arcata: quella che tocca Dio".

Proprio qui si radica la sollecitudine costante di don Quadrio per la "dimensione contemplativa" del sacerdote. È significativo che dei famosi "cinque consigli" a un prete novello, i primi tre riguardino - nell'ordine rispettivo - la messa ("celebra ogni giorno la tua messa come se fosse la prima, l'ultima, l'unica della tua vita. Un Sacerdote che ogni giorno celebra santamente la sua messa, non commetterà mai delle sciocchezze"), il breviario ("ordinariamente è il primo a essere massacrato dal prete tiepido. Sii certo che col tuo breviario puoi cambiare il mondo, più che con le dotte tue conferenze o lezioni") e la confessione ("ricordati che, nei pericoli immancabili della tua vita sacerdotale, la tua salvezza sarà l'avere un uomo che sappia tutto di te, che con mano ferma possa guidarti, e sostenerti con cuore paterno").

Si tratta in sostanza dei medesimi consigli che due anni prima don Quadrio aveva dato a don Tironi: "Prepari accuratamente - gli scriveva - viva intensamente e prolunghi nella giornata la sua messa (...) Tutta la sua giornata diventi una messa. Viva, ami e gusti il suo breviario. Non dimentichi che con esso lei impersona tutta la Chiesa e prolunga Cristo orante. Sia fedele alla confessione settimanale e all'esame quotidiano".
Ai "carissimi amici" del iv corso di teologia, che saranno ordinati sacerdoti l'11 febbraio 1961, scrive: "Non temete: la preghiera può tutto! Un prete che prega bene non farà mai delle sciocchezze". A don Bin raccomanda: "Si offra e si abbandoni a Cristo senza riserve. Non tema: è Lui che fa. Si innamori della sua messa: là è il segreto di tutto!".

Al nipote Valerio: "Preghiamo insieme: meditando, amando e gustando gli inesauribili tesori del nostro breviario. Amare e godere questo nostro divino ufficio, che ci colloca ogni giorno nel cuore della Chiesa, sul vertice del mondo, a tu per tu con la miseria umana e con la Maestà divina, come mediatori tra Dio e il mondo".
Allo stesso Valerio, qualche settimana dopo, chiede: "A proposito di Vangelo, non ti sembra sacrilega la nostra ignoranza e trascuratezza verso di esso? Un prete dovrebbe far voto di leggerne almeno una pagina ogni giorno. Insieme all'Eucaristia, non c'è nulla di più santificante e nutriente che il Verbo di Dio incarnato nel suo Vangelo". E a don Melesi: "Suo primo dovere è pregare. Il resto viene dopo".

Secondo don Quadrio, infine, le due componenti del sacerdozio - quella umana e quella divina, che abbiamo fin qui delineate - non possono rimanere semplicemente giustapposte, ma devono trovare nel prete una sintesi profonda e armonica.
In una lettera del 3 gennaio 1963 scrive: "Ci può essere anche la deformazione di un sacerdozio lacerato, in cui il divino e l'umano coesistono senza armonizzarsi. Preti all'altare, ma laici sulla cattedra, in cortile, tra gli uomini. Sono un ponte dalle due testate estreme intatte: manca l'arcata centrale che dovrebbe congiungerle. Vero e autentico prete è colui in cui l'uomo è tutto e sempre e solo sacerdote, pur rimanendo uomo perfetto, senza esclusione di campi e di settori. L'uomo e il prete devono coestendersi e coincidersi perfettamente in una sintesi armonica (...) Anche le occasioni più profane devono essere animate da una coscienza sacerdotale acuta e senza eclissi".

In altri termini, il sacerdote è chiamato a essere l'incarnazione di Cristo - vero uomo e vero Dio - in mezzo alla gente a cui è mandato. Agli stessi destinatari, i preti ordinati nel 1960, don Quadrio aveva scritto un anno prima: "Siate sempre, dovunque e con tutti un'incarnazione vivente e sensibile della bontà misericordiosa di Gesù (...) Siate realmente e praticamente il Christus hodie del vostro ambiente; un Cristo autentico, in cui il divino e l'umano sono integri e armoniosamente uniti. Il divino e l'eterno, che è nel vostro sacerdozio, si incarni (senza diluirsi) in una umanità ricca e completa come quella di Gesù, la quale abbia lo stile, il volto e la sensibilità del vostro ambiente e del vostro tempo".

A don Crespi confida: "Penso spesso a lei, cioè al "Cristo di Cuorgné". Deve essere per i suoi confratelli e bimbi il sacramento vivo e visibile della bontà di Gesù". A don Palumbieri raccomanda: "Sia davvero il "Cristo" dei suoi ragazzi!". La stessa cosa aveva scritto a don Melesi: "Caro Luigi, non ti spaventi il pensiero che devi essere il Cristo di Arese, il Cristo buono, paziente, crocifisso, agonizzante, morto e risorto dei tuoi ragazzi". A don Martinelli ripete: "Non la atterrisca il pensiero che lei deve essere il Cristo di Torre Annunziata: il Gesù buono, amabile, paziente, coraggioso, crocifisso, agonizzante, abbandonato, morto e risorto dei suoi ragazzi".

Negli ultimi anni di vita, segnati dalla malattia e dalla sofferenza, don Quadrio afferra esistenzialmente che l'umano e il divino del sacerdote giungono a fondersi in pienezza solo nel sacrificio della croce, suprema epifania del Figlio dell'uomo e del Figlio di Dio.
Allora, nella prima domenica di Passione del 1962, scrive al nipote: "Dovrei finalmente convincermi sul serio che un prete deve santificare la propria sofferenza e quella degli altri. Non è soffrire che importa, ma soffrire come Lui. Anche il tuo sacerdozio, Valerio, è un mistero di croce e di sangue (...) La Croce è veramente la spes unica del nostro sacerdozio: non faremo nulla, se non mediante la Croce. Auguro a te e a me, Valerio, di saper comprendere e vivere il mistero della Croce, e di saper fare del nostro sacerdozio una croce vivente, a cui appendere la nostra vita per la salvezza delle anime". Solo così il prete - uomo preso fra gli uomini, e per loro consacrato nelle cose di Dio - può diventare "sacramento evidente della passione e morte" di Gesù. È questo il ritratto più vivo e veritiero di don Quadrio, quello che egli stesso non sapeva di dipingere mentre parlava ai suoi amici del sacro mistero dell'ordine presbiterale. Davvero "le cose che diceva e scriveva" sul sacerdozio "erano "sue": quello che diceva era la sua vita!".

Nella sua vita egli è stato un "sacramento tangibile della bontà" del Signore, e nel tragico epilogo degli ultimi anni il "sacramento evidente" della passione e della morte di Cristo per la salvezza del mondo.



(©L'Osservatore Romano - 23-24 novembre 2009)


Caterina63
00sabato 19 dicembre 2009 16:40
Il prete nella letteratura del Novecento

Dare la pace senza sapere di averla


Pubblichiamo un estratto di uno degli articoli presentati nel numero in uscita della rivista dei gesuiti italiani "La Civiltà Cattolica".

di Ferdinando Castelli

Nel settore letterario la figura del prete, dopo periodi di eclissi, torna alla ribalta. Perché - ci si chiede - quest'uomo non in carriera, non potente, non sposato, non umanamente importante, occupato in questioni da molti ritenute desuete, attira l'attenzione, incuriosisce, è interpellato? La risposta è semplice.

Perché nel crepuscolo delle illusioni e nel clima del relativismo si avverte il bisogno di certezze; perché nella stanchezza di una cultura materialistica il bisogno di fare posto all'anima è maggiormente avvertito. E il prete si presenta come assertore di certezze e testimone di realtà spirituali. Questi due elementi determinano la differente angolatura nella quale la letteratura contemporanea presenta il prete, a differenza del passato.

Fino ai primi decenni del Novecento, sotto l'influsso del positivismo, il prete è visto prevalentemente sotto l'aspetto sociale o filantropico. Un Balzac, un Flaubert collocano il "parroco del villaggio" al suo posto esatto sulla scala sociale, accanto al medico, al notaio e all'esattore. Fa parte della "commedia umana". In lui la presenza del mistero e del soprannaturale si è talmente rarefatta da scomparire.

Col Novecento avviene un mutamento di sfondi. Alcuni scrittori - soprattutto Georges Bernanos, Graham Greene, François Mauriac, Carlo Coccioli - con un'audacia degna del loro genio osservano il prete con occhi nuovi, per scrutarne il mistero. Sono convinti che è detentore di un mistero, soprannaturale per giunta. Si opera in tal modo un cambio di prospettiva:  il prete non interessa più come uomo, ben "sistemato" in una classe sociale; interessa ciò che lo distingue da tutti, cioè il suo carattere sacro, il mistero nascosto nel fondo del suo essere.

Occorre fare delle riserve su Il potere e la gloria di Graham Greene, ma non si può negare la forte impressione che suscita l'incontro con un prete, alcolizzato e alla deriva, nel quale abitano il Potere e la Gloria di Dio. È naturale che la sua presenza inquieti, disturbi, incuriosisca perché rivela profonde verità nascoste. Analizziamone alcune.

Nell'ultimo capitolo di Il Figlio dell'Uomo di Mauriac si legge:  "Questa pietra di scandalo per tanti spiriti ribelli, il prete (...) costituisce in mezzo a noi il segno sensibile della presenza del Cristo vivo (...) Uomini ordinari, simili a tutti gli altri, chiamati a diventare il Cristo quando levano la mano sulla fronte di un peccatore che confessa i suoi falli e domanda perdono, o quando prendono il pane fra le mani "sante e venerabili", o quando alzano il calice della nuova alleanza e ripetono l'azione insondabile del Signore stesso (...) Sì, degli uomini simili ad ogni altro, ma chiamati più d'ogni altro alla santità (...) Quale mistero in questo sacerdozio ininterrotto attraverso i secoli!".

Il testo di Mauriac enuncia il paradosso del prete:  sintesi di contrari. In lui confluiscono gli elementi più contrastanti:  umanità e divinità, tempo ed eternità, forza e debolezza, grandezza e miseria. Bernanos mette in risalto soprattutto questo aspetto. In Sotto il sole di Satana (1926) - romanzo percorso da un vento di tempesta, spirato dall'inferno e dal cielo - l'abbé Donissan è privo delle qualità necessarie per essere un buon parroco; è rozzo, inesperto, senza vera dignità, privo di gioia e di misura, tormentato e disperato. Eppure riesce a "dare a piene mani la pace di cui è sprovvisto", a stanare e sfidare il Maligno, a indicare con chiarezza gli elementi fondamentali per raggiungere la santità. In questo prete abita la potenza della Grazia e la luce dello Spirito Santo, tanto che l'aristocratico e colto abbé Menou-Ségrais gli confessa:  "È lei a formare me", "lei mi ha rovesciato come un guanto".

La sintesi di contrari risulta più approfondita nel protagonista del Diario di un curato di campagna, l'abbé di Ambricourt. Anche lui sprovvisto di prestigio, malato di cancro, povero e deriso. Nel suo fisico malandato però abita un'anima profondamente sacerdotale, impegnato a ridestare le anime sopite nel peccato e a restituirle alla Grazia. Radicato in questo convincimento, non esita - lui, povero prete, figlio di alcolizzati - a recarsi dalla contessa e a prospettarle lo squallore della sua anima, murata nell'odio contro Dio e contro gli uomini, dunque nell'inferno poiché "l'inferno è non amare più".

In un drammatico colloquio i due si fronteggiano come in duello; lei chiusa nell'orgoglio e nell'astio, che la isolano da Dio e dalla famiglia, lui consapevole di non essere buono a nulla, come afferma il marito della contessa, ma forte nella consapevolezza di rappresentare Cristo. Alla fine la contessa si arrende alla Grazia. Nel diario del curato si legge:  "Che cosa importano a Dio il prestigio, la dignità, la scienza, se tutto ciò non è che un sudario di seta su un cadavere putrefatto?". A Dio importa la volontà del prete di donarsi al suo ministero accettando quanto ciò comporta.

Accanto all'abbé Donissan di Bernanos possiamo collocare don Michele Ingabbietta, protagonista del romanzo Perfetta letizia di Pietro Mignosi (1895-1937), tra i più importanti del primo Novecento. In esso l'autore ha inteso mettere in risalto l'essenza sacerdotale:  l'assimilazione a Cristo, la luce interiore e la forza che da essa si sprigiona, e ciò nonostante la miseria del fisico. Don Michele è un prete umile, dimesso, di nessun prestigio sociale:  "si guardò le sue povere dita nodose e brulle, e le palme opache e callose, e le unghie piatte e dure, e si meravigliò che Dio, nella sua infinita misericordia e condiscendenza, potesse servirsi di quelle  luride  mani   per   rinnovare il  miracolo  e mistero dell'Incarnazione".

Sì, è un prete apparentemente meschino e di poco conto, ma con la pazienza nel sopportare soprusi e ostruzionismi, con la sua bontà e mitezza riesce ad attirare le persone e condurle a Dio. Il suo sacerdozio si diffonde e si afferma in "perfetta letizia" per quanti lo accostano.


(©L'Osservatore Romano - 19 dicembre 2009)
Caterina63
00mercoledì 13 gennaio 2010 22:42
 Sorriso Vi propongo una riflessione interessante che riprendo da Agenzia Fides:

La Nuova Evangelizzazione secondo il Cardinale Ratzinger

Compito dei sacerdoti è anche quello di istruire i catechisti affinché insegnino la dottrina cattolica in modo esauriente.
Fu in occasione del Grande Giubileo del 2000 che l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, dettò le linee di questo insegnamento.

Fu un intervento che rimase come pietra miliare per la missione dei catechisti e quindi per la missione sacerdotale. Ratzinger, infatti, parlò di nuova evangelizzazione. Spiegò il Cardinale Ratzinger che «la vita umana non si realizza da sé». «La nostra vita è una questione aperta, un progetto incompleto ancora da completare e da realizzare. La domanda fondamentale di ogni uomo è: come si realizza questo - diventare uomo? Come si impara l'arte di vivere? Quale è la strada alla felicità?».

Ecco, dalla risposta a queste domande, cosa significhi evangelizzare: «Evangelizzare vuol dire: mostrare questa strada - insegnare l’arte di vivere. Gesù dice nell’inizio della sua vita pubblica: Sono venuto per evangelizzare i poveri (Lc 4, 18); questo vuol dire: Io ho la risposta alla vostra domanda fondamentale; io vi mostro la strada della vita, la strada alla felicità - anzi: io sono questa strada. La povertà più profonda è l'incapacità di gioia, il tedio della vita considerata assurda e contraddittoria. Questa povertà è oggi molto diffusa, in forme ben diverse sia nelle società materialmente ricche sia anche nei paesi poveri. L'incapacità di gioia suppone e produce l'incapacità di amare, produce l'invidia, l'avarizia - tutti i vizi che devastano la vita dei singoli e il mondo. Perciò abbiamo bisogno di una nuova evangelizzazione - se l'arte di vivere rimane sconosciuta, tutto il resto non funziona più. Ma questa arte non è oggetto della scienza - questa arte la può comunicare solo chi ha la vita - colui che è il Vangelo in persona».

Prima di parlare dei contenuti fondamentali della nuova evangelizzazione il Cardinale Ratzinger volle dire una parola sulla sua struttura e sul metodo adeguato della evangelizzazione. «La Chiesa – disse -
evangelizza sempre e non ha mai interrotto il cammino dell'evangelizzazione. Celebra ogni giorno il mistero eucaristico, amministra i sacramenti, annuncia la parola della vita - la parola di Dio, s'impegna per la giustizia e la carità. E questa evangelizzazione porta frutto: dà luce e gioia, dà il cammino della vita a tante persone; molti altri vivono, spesso senza saperlo, della luce e del calore risplendente da questa evangelizzazione permanente.
Tuttavia osserviamo un processo progressivo di scristianizzazione e di perdita dei valori umani essenziali che è preoccupante. Gran parte dell'umanità di oggi non trova nell'evangelizzazione permanente della Chiesa il Vangelo, cioè la risposta convincente alla domanda: Come vivere? Perciò cerchiamo, oltre l'evangelizzazione permanente, mai interrotta, mai da interrompere, una nuova evangelizzazione, capace di farsi sentire da quel mondo, che non trova accesso all'evangelizzazione “classica”.
Tutti hanno bisogno del Vangelo; il Vangelo è destinato a tutti e non solo a un cerchio determinato e perciò siamo obbligati a cercare nuove vie per portare il Vangelo a tutti.

Però qui si nasconde anche una tentazione - la tentazione dell'impazienza, la tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio e così per l'evangelizzazione, strumento e veicolo del regno di Dio, vale sempre la parabola del grano di senape (cf Mc 4, 31 - 32).
Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno.

Nuova evangelizzazione non può voler dire: Attirare subito con nuovi metodi più raffinati le grandi masse allontanatesi dalla Chiesa. No - non è questa la promessa della nuova evangelizzazione.

Nuova evangelizzazione vuol dire: Non accontentarsi del fatto, che dal grano di senape è cresciuto il grande albero della Chiesa universale, non pensare che basti il fatto che nei suoi rami diversissimi uccelli possono trovare posto - ma osare di nuovo con l'umiltà del piccolo granello lasciando a Dio, quando e come crescerà (Mc 4, 26 - 29). Le grandi cose cominciano sempre dal granello piccolo ed i movimenti di massa sono sempre effimeri. Nella sua visione del processo dell'evoluzione Teilhard de Chardin parla del “bianco delle origini” (le blanc des origines): L’inizio delle nuove specie è invisibile ed introvabile per la ricerca scientifica. Le fonti sono nascoste - troppo piccole. Con altre parole: Le realtà grandi cominciano in umiltà. Lasciamo da parte, se e fino a che punto Teilhard ha ragione con le sue teorie evoluzioniste; la legge delle origini invisibili dice una verità - una verità presente proprio nell'agire di Dio nella storia: “Non perché sei grande ti ho eletto, al contrario - sei il più piccolo dei popoli; ti ho eletto, perché ti amo..." dice Dio al popolo di Israele nell'Antico Testamento ed esprime così il paradosso fondamentale della storia della salvezza: Certo, Dio non conta con i grandi numeri; il potere esteriore non è il segno della sua presenza. Gran parte delle parabole di Gesù indicano questa struttura dell'agire divino e rispondono così alle preoccupazioni dei discepoli, i quali si aspettavano ben altri successi e segni dal Messia - successi del tipo offerto da Satana al Signore: Tutto questo - tutti i regni del mondo - ti do... (Mt 4, 9).

Certo, Paolo alla fine della sua vita ha avuto l'impressione di aver portato il Vangelo ai confini della terra, ma i cristiani erano piccole comunità disperse nel mondo, insignificanti secondo i criteri secolari. In realtà furono il germe che penetra dall'interno la pasta e portarono in sé il futuro del mondo (cf Mt 13, 33). Un vecchio proverbio dice: "Successo non è un nome di Dio". La nuova evangelizzazione deve sottomettersi al mistero del grano di senape e non pretendere di produrre subito il grande albero. Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell'impazienza di avere un albero più grande, più vitale - dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano. Nella storia della salvezza è sempre contemporaneamente Venerdì Santo e Domenica di Pasqua...».

Dopo aver enucleato la struttura della nuova evangelizzazione, ecco il metodo. Il metodo giusto, infatti, discende proprio da questa struttura. Disse il Cardinale Ratzinger: «Dobbiamo usare in modo ragionevole i metodi moderni di farci ascoltare - o meglio: di rendere accessibile e comprensibile la voce del Signore... Non cerchiamo ascolto per noi - non vogliamo aumentare il potere e l'estensione delle nostre istituzioni, ma vogliamo servire al bene delle persone e dell'umanità dando spazio a Colui, che è la Vita. Questa espropriazione del proprio io offrendolo a Cristo per la salvezza degli uomini, è la condizione fondamentale del vero impegno per il Vangelo. "Io sono venuto nel nome del Padre mio, e non mi ricevete; se un altro venisse nel proprio nome, lo ricevereste" dice il Signore (Gv 5, 43).
Il contrassegno dell'Anticristo è il suo parlare nel proprio nome. Il segno del Figlio è la sua comunione col Padre.
Il Figlio ci introduce nella comunione trinitaria, nel circolo dell'eterno amore, le cui persone sono "relazioni pure", l'atto puro del donarsi e dell'accogliersi. Il disegno trinitario - visibile nel Figlio, che non parla nel nome suo - mostra la forma di vita del vero evangelizzatore - anzi, evangelizzare non è semplicemente una forma di parlare, ma una forma di vivere: vivere nell'ascolto e farsi voce del Padre. "Non parlerà da se, ma dirà tutto ciò che avrà udito" dice il Signore sullo Spirito Santo (Gv 16, 13).

Questa forma cristologica e pneumatologica dell'evangelizzazione è nello stesso tempo una forma ecclesiologica: Il Signore e lo Spirito costruiscono la Chiesa, si comunicano nella Chiesa. L'annuncio di Cristo, l'annuncio del Regno di Dio suppone l'ascolto della sua voce nella voce della Chiesa. "Non parlare nel nome proprio" significa: parlare nella missione della Chiesa... Da questa legge dell'espropriazione seguono conseguenze molto pratiche. Tutti i metodi ragionevoli e moralmente accettabili sono da studiare - è un dovere far uso di queste possibilità di comunicazione. Ma le parole e tutta l'arte della comunicazione non possono guadagnare la persona umana in quella profondità, alla quale deve arrivare il Vangelo.

Pochi anni fa leggevo la biografia di un ottimo sacerdote del nostro secolo, Don Didimo, parroco di Bassano del Grappa. Nelle sue note si trovano parole d'oro, frutto di una vita di preghiera e di meditazione. Al nostro proposito dice Don Didimo, per esempio: "Gesù predicava nel giorno, di notte pregava." Con questa breve notizia voleva dire: Gesù doveva acquistare da Dio i discepoli. Lo stesso vale sempre. Non possiamo guadagnare noi gli uomini. Dobbiamo ottenerli da Dio per Dio. Tutti i metodi sono vuoti senza il fondamento della preghiera. La parola dell'annuncio deve sempre bagnare in una intensa vita di preghiera.

Dobbiamo aggiungere un passo ulteriore. Gesù predicava di giorno, di notte pregava - questo non è tutto. La sua intera vita fu - come lo mostra in modo molto bello il Vangelo di S. Luca - un cammino verso la croce, ascensione verso Gerusalemme. Gesù non ha redento il mondo tramite parole belle, ma con la sua sofferenza e la sua morte. Questa sua passione è la fonte inesauribile di vita per il mondo; la passione dà forza alla sua parola. Il Signore stesso - estendendo ed ampliando la parabola del grano di senape - ha formulato questa legge di fecondità nella parola del chicco di grano che muore, caduto in terra (Gv 12, 24). Anche questa legge è valida fino alla fine del mondo ed è - insieme col mistero del grano di senape - fondamentale per la nuova evangelizzazione. Tutta la storia lo dimostra. Sarebbe facile dimostrarlo nella storia del cristianesimo.

Vorrei ricordare qui soltanto l'inizio dell'evangelizzazione nella vita di S. Paolo. Il successo della sua missione non fu frutto di una grande arte retorica o di prudenza pastorale; la fecondità fu legata alla sofferenza, alla comunione nella passione con Cristo (cf 1 Cor 2, 1 - 5; 2 Cor 5, 7; 11, 10s; 11, 30; Gal 4, 12 - 14). "Nessun segno sarà dato, se non il segno di Giona profeta" ha detto il Signore. Il segno di Giona è il Cristo crocifisso - sono i testimoni, che completano "quello che manca ai patimenti di Cristo" (Col 1, 24). In tutti i periodi della storia si è sempre di nuovo verificata la parola di Tertulliano: E' un seme il sangue dei martiri. Sant'Agostino dice lo stesso in modo molto bello, interpretando Gv 21, dove la profezia del martirio di Pietro e il mandato di pascere, cioè l'istituzione del suo primato sono intimamente connessi. Sant'Agostino commenta il testo Gv 21, 16 nel modo seguente: "Pasci le mie pecorelle", cioè soffri per le mie pecorelle (Sermo Guelf. 32 PLS 2, 640). Una madre non può dar la vita a un bambino senza sofferenza. Ogni parto esige sofferenza, è sofferenza, ed il divenire cristiano è un parto. Diciamolo ancora una volta con parole del Signore: Il regno di Dio esige violenza (Mt 11, 12; Lc 16, 16), ma la violenza di Dio è la sofferenza, è la croce. Non possiamo dare vita ad altri, senza dare la nostra vita. Il processo di espropriazione sopra indicato è la forma concreta (espressa in tante forme diverse) di dare la propria vita. E pensiamo alla parola del Salvatore: "... chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà..." (Mc 8, 36)».


Dal Dossier di Agenzia Fides segue infine una piccola classifica, sempre tratta dalle parole dell'allora card. Ratzinger, che tre i nodi essenziali per questa evangelizzazione e che io condenserò all'essenziale:



1. Conversione: «Quanto ai contenuti della nuova evangelizzazione - disse il cardinale Ratzinger - è innanzitutto da tener presente l'inscindibilità dell'Antico e del Nuovo Testamento. Il contenuto fondamentale dell'Antico Testamento è riassunto nel messaggio di Giovanni Battista: metanoe‹te - Convertitevi! Non c'è accesso a Gesù senza il Battista; non c'è possibilità di arrivare a Gesù senza risposta all'appello del precursore, anzi: Gesù ha assunto il messaggio di Giovanni nella sintesi della sua propria predicazione.

2. Il Regno di Dio: «Nella chiamata alla conversione - disse il Cardinale Ratzinger - è implicito, come sua condizione fondamentale, l'annuncio del Dio vivente. Il teocentrismo è fondamentale nel messaggio di Gesù e dev'essere anche il cuore della nuova evangelizzazione. La parola-chiave dell'annuncio di Gesù è: Regno di Dio. Ma Regno di Dio non è una cosa, una struttura sociale o politica, un'utopia. Il Regno di Dio è Dio. Regno di Dio vuol dire: Dio c'è. Dio vive. Dio è presente e agisce nel mondo, nella nostra - nella mia vita. Dio non è una lontana "causa ultima", Dio non è il "grande architetto" del deismo, che ha montato la macchina del mondo e starebbe adesso fuori - al contrario: Dio è la realtà più presente e decisiva in ogni atto della mia vita, in ogni momento della storia. (...) Insegnare a pregare. La preghiera è fede in atto.
. Perciò la liturgia (i sacramenti) non è un tema accanto alla predicazione del Dio vivente, ma la concretizzazione della nostra relazione con Dio. In questo contesto mi sia permessa una osservazione generale sulla questione liturgica.
Il nostro modo di celebrare la liturgia è spesso troppo razionalista. La liturgia diventa insegnamento, il cui criterio è: farsi capire - la conseguenza è non di rado la banalizzazione del mistero, la prevalenza delle nostre parole, la ripetizione delle fraseologie che sembrano più accessibili e più gradevoli per la gente. Ma questo è un errore non soltanto teologico, ma anche psicologico e pastorale. L'onda dell'esoterismo, la diffusione di tecniche asiatiche di distensione e di auto-svuotamento mostrano che nelle nostre liturgie manca qualcosa. Proprio nel nostro mondo di oggi abbiamo bisogno del silenzio, del mistero sopra-individuale, della bellezza. La liturgia non è l'invenzione del sacerdote celebrante o di un gruppo di specialisti; la liturgia (il "rito") è cresciuta in un processo organico nei secoli, porta in sé il frutto dell'esperienza di fede di tutte le generazioni. Anche se i partecipanti non capiscono forse tutte le singole parole, percepiscono il significato profondo, la presenza del mistero, che trascende tutte le parole. Non il celebrante è il centro dell'azione liturgica; il celebrante non sta davanti al popolo nel nome proprio - non parla da se e per se, ma "in persona Cristi". Non contano le capacità personali del celebrante, ma solo la sua fede, nella quale si fa trasparente Cristo. "Egli deve crescere, e io invece diminuire" (Gv 3, 30).

3. Gesù Cristo: «Con questa riflessione il tema Dio si è già esteso e concretizzato nel tema Gesù Cristo: Solo in Cristo e tramite Cristo il tema Dio diventa realmente concreto: Cristo è Emanuele, il Dio-con-noi - la concretizzazione dell'"Io sono", la risposta al Deismo. Oggi la tentazione è grande di ridurre Gesù Cristo, il figlio di Dio solo a un Gesù storico, a un uomo puro. Non si nega necessariamente la divinità di Gesù, ma con certi metodi si distilla dalla Bibbia un Gesù a nostra misura, un Gesù possibile e comprensibile nei parametri della nostra storiografia. Ma questo "Gesù storico" è un artefatto, l'immagine dei suoi autori e non l'immagine del Dio vivente (cf 2 Cor 4, 4s; Col 1, 15). Non il Cristo della fede è un mito; il cosiddetto Gesù storico è una figura mitologica, auto-inventata dai diversi interpreti. I duecento anni di storia del "Gesù storico" riflettono fedelmente la storia delle filosofie e delle ideologie di questo periodo.

4. La vita eterna: «Un ultimo elemento centrale di ogni vera evangelizzazione è la vita eterna. Oggi dobbiamo con nuova forza nella vita quotidiana annunciare la nostra fede. (....)
Così ritorniamo al nostro punto di partenza: Dio. Se consideriamo bene il messaggio cristiano, non parliamo di un sacco di cose. Il messaggio cristiano è in realtà molto semplice. Parliamo di Dio e dell'uomo, e così diciamo tutto».


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