vale la pena allora di approfondire l'argomento...
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"Venite, figli, ascoltatemi; vi insegnerò il timore del Signore"(Sal. 34,12) Mentre l'amore ci fa accelerate il passo, il timore ci induce a guardare dove posiamo il passo per non cadere. Il timore servile induce a fuggire il peccato per evitare le pene eterne dell'inferno: è un timore buono, che per molti uomini lontani da Dio rappresenta il primo passo verso la conversione e l'inizio dell'amore, è una grande difesa contro le tentazioni e le attrattive del male. Il cristiano è mosso dall'amore divino ed è chiamato ad amare: quando l'amore elimina ogni timore, questo si trasforma tutto in amore. Il cristiano dunque deve coltivare il santo timore di Dio, per avere una percezione forte del senso del peccato, per non avere paura " di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima" ma avere santo timore di "Colui che può far perire e l'anima e il corpo...". Il dono del timore è per eccellenza il dono della lotta contro il peccato.
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Mi farò aiutare dal sito Zammerumaskil dal quale prendo la seguente riflessione divisa in più parti...
Buona riflessione
Catechismo
Come già si è potuto leggere nella prefazione ai sette doni dello Spirito Santo, il dono del timore di Dio è strettamente correlato a quello della pietà. È ovvio, poi, che tutti i doni dello Spirito Santo sono tra loro fortemente connessi; lo Spirito Santo, infatti, dona all'uomo tutte quelle qualità che lo aiutano a compiere il bene ed a fare una diretta esperienza di Dio (cf. Compendio CCC n. 389 ed anche CCC nn.1830-1831, 1845); senza lo Spirito Santo non sarebbe possibile sentire ed esperienziare Dio nella nostra vita.
Naturalmente, ciascun uomo, secondo la libera volontà dello Spirito Santo, manifesta alcuni doni e non altri, ma questo non deve portare a confondere la completa assenza di un dono con il fatto che esso sia in realtà presente, ma recondito.
A ciascuno di noi, infatti, lo Spirito Santo dona tutte le qualità che consentono di gustare e di assaporare il Signore in tutta la sua grandezza, lasciandone emergere alcune e nascoste altre, ma mai facendocene mancare qualcuna. Ricordiamo che lo Spirito Santo, a partire dal generoso sacrificio del Signore Gesù Cristo, tutto dona all'uomo, ma nulla toglie.
Il timore di Dio è proprio quel dono iniziale, necessario a poter provare e vivere, nella prospettiva deutero-testamentaria, il rispetto, l'amore e l'ubbidienza nei confronti dei comandamenti di Dio, mentre in quella neo-testamentaria, la sequela di Cristo, il riconoscere che Egli ci viene incontro con amore ed è Lui la nostra salvezza per mezzo della Chiesa e dei canali che lo Spirito Santo utilizza per rivelarci il volto di Dio in Cristo.
Aggiungiamo, inoltre, che all'effusione donata nel Battesimo dallo Spirito Santo questo dono (come tutti gli altri) vengono ampiamente donati. Attendere e cercare una "effusione" ulteriore, attraverso gli stimoli che la Chiesa offre (sacramenti, meditazione della Parola di Dio, vita comunitaria, Direzione Spirituale, supplica del cuore, ecc), significa "risvegliare" la profonda ed ontologica effusione ricevuta il giorno del Battesimo.
Pertanto tutto il lavoro costante per la maturazione costante della vita del credente consiste nel rendere viva, attuale, potente e gioiosa la presenza dello Spirito Santo nel proprio "cuore".
In maniera impropria si parla di effusione dello Spirito attraverso la preghiera di imposizione delle mani in via sacramentaria con la preghiera carismatica. Infatti questa "seconda effusione" è più propriamente un "aiuto" che si da allo Spirito Santo, già presente nel nostro cuore per via battesimale, di esplodere in tutta la sua ricchezza e con tutti i suoi santi doni.
L'attuale lavoro di ricerca sui doni dello Spirito Santo vuole proprio aiutare questa coscienza e ri-vivificazione dello Spirito chiamata talvolta, impropriamente, seconda effusione e siamo ben coscienti che senza una robusta vita di preghiera personale e comunitaria essa non sarà altro che una forma di intellettualizzazione vana e non il risveglio della potenza dello Spirito nel nostro cuore che ci auguriamo sia sempre più reale e feconda sia per chi scrive che per chi legge.
Teologia biblica
I riscontri teologici sul timor di Dio, inutile dirlo, sono davvero innumerevoli e proprio per questo si preferisce fare una cernita dei brani biblici su cui soffermarsi a meditare, cercando anche di cogliere le diverse categorie di senso attraverso le quali esso si manifesta.
Anzitutto occorre precisare che una categoria di senso che introduce al timor di Dio è l'ascolto.
Questo aspetto emerge in maniera costante in tutta la Bibbia, anche perché se non vi fosse ascolto non vi potrebbe essere timor di Dio ed i comandamenti verrebbero intesi soltanto come una mera imposizione, da osservare, per paura di una punizione divina, oppure per paura di trasgredire, poiché intesi come vincoli alla libertà ed al libero arbitrio dell'essere umano.
Teologia Vetero-testamentaria
Questo ascolto si trova in modalità estremamente chiara nell'episodio di Mosè di fronte al roveto ardente (cf. Es 3, 1-6). Mosè è chiamato dal Signore ed egli prontamente gli risponde "eccomi!"; Mosè non è preso ad esaminare il roveto, bensì riconosce subito la chiamata di Dio e subito risponde, quasi che si aspettasse di venir chiamato, che fosse consapevole di una chiamata che potesse cambiare la sua vita. Di fatto ciò accade, Mosè nel suo ascolto e nella sua risposta mostra il timor di Dio che si manifesta come rispetto reverenziale e fiducioso. Infatti, l'uomo caduco e peccatore non potrebbe sopportare l'incontro con Dio santo ed eterno, Dio si vela nella sua misericordia, libera dalle colpe e dona forza. Il timore di Dio, in qualche modo, aiuta l'uomo a conservare il rapporto con Dio, spezzato dalla mancanza di fiducia dell'uomo e a causa del peccato originale, ma ristabilito da Dio nella sua eterna pietà. Ecco anche il senso dell'affermazione di Gesù nell'incontro con l'uomo ricco, quando gli dice: "Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo." (Mc 10, 18).
In questo senso vanno intesi anche i passi in cui gli uomini vengono esortati nel nome di Dio a non temere. Questo tipo di formula di consolazione si può trovare ad esempio nel primo capitolo del libro di Giosuè (cf. vv. 6-9), in cui dopo la sollecitazione rivolta dal Signore al figlio di Num e servo di Mosè, Giosuè, di essere forte e non deviare mai dalla legge, il Signore stesso termina il suo dialogo con le parole: "Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada" (v. 9).
Da quanto appena detto, si può notare una doppia implicazione che collega la categoria di senso della fiducia nella legge alla categoria di senso della devozione, legata al timor di Dio.
Riassumendo il concetto nel contesto veterotestamentario, si può affermare dunque che vi è timor di Dio se e solo se il fedele si pone alla sequela della legge. Ma, per quando sopra accennato, non vi è corretta comprensione della legge senza una costante tensione all'ascolto. Abbiamo quindi tre categorie di senso strettamente connesse tra loro ed a mutua implicazione: il timor di Dio, la fiducia nella legge e l'ascolto.
E quale miglior prova di quanto affermato se non quella offerta dai profeti?
Il profeta è per definizione colui che ascolta il Signore, colui che è costantemente teso alla ricerca del Signore, riuscendo a scorgere anche nel luoghi e nei fenomeni della natura la presenza del Signore, presenza sempre assai discreta, che soltanto un costante ascolto può riuscire a cogliere, come accade per esempio ad Elia, quando dopo i fenomeni di un vento impetuoso, di un terremoto e di un fuoco, il Signore si manifesta nel "[...] mormorio di un vento leggero" (1Re 19, 12) - ovvero nel silenzio.
Il profeta è colui che ha timor di Dio, ma che contestualmente, per quanto possa apparire paradossale, non teme mai, poiché può confidare in Dio che è forza e sorgente di salvezza, come ben si evince nel libro del profeta Isaia - ProtoIsaia - quando, dopo che l'uomo ha esperienziato l'opera liberatrice del Signore, può affermare: "Ecco, Dio è la mia salvezza, io confiderò, non temerò mai, perché mia forza e mio canto è il Signore; Egli è stato la mia salvezza" (Is 12, 2).
Certamente, l'uomo, dopo un'esperienza di salvezza, è aiutato a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d'onda del Signore, a sperimentare e percepire dentro di sé il dono del timore di Dio. Naturalmente, la grazia del Signore è talmente vasta e mutevole che, come anche si può notare in alcuni episodi narrati nel Nuovo Testamento, guarda al di là di ciascun essere umano, giungendo a toccare gli ultimi ed i dispersi, poiché di fronte al Signore, ogni uomo può essere salvato (cf. ad esempio 2Re 5,1-14; Lc 19, 1-10).
Teologia Neo-testamentaria
Nel NT si trovano aspetti del timor di Dio analoghi a quelli dell'AT, sebbene il significato culturale dell'espressione viene frequentemente sostituito dal concetto più generale di fede.
La fede, ovviamente, implica il timore di Dio e anche l'abbandonarsi a Lui nei momenti di difficoltà. Questo aspetto è manifestamente visibile nell'episodio della tempesta sedata (cf. Mt 8,23-27; Mc 4, 35-41; Lc 8, 22-25), in cui Gesù interviene per calmare le acque e ridare sostegno, speranza e vita ai suoi discepoli, che, nonostante avessero assistito ai tanti miracoli del Maestro, vengono travolti dalla paura, poiché ancora non avevano capito la figura di Gesù a causa del loro "[...] cuore indurito" (6, 52), come bene evidenzia Marco nella sezione dei pani (cf. Mc 6, 30 - 8, 26). Inoltre, l'evangelista Marco nella tempesta sedata raffronta la paura, provata dai discepoli mentre la barca quasi affondava, con il timore scaturito dopo l'intervento di Gesù che fa chetare acqua e vento, mentre sia Matteo che Luca utilizzano il verbo stupirsi, meravigliarsi.
Vi è dunque una chiara differenza tra la paura ed il timore. La paura, infatti, ha ripercussioni spesso anche a livello fisico, aumento della pressione sanguigna, difficoltà di respirazione, sudorazione eccessiva. La paura, provata dai discepoli sulla barca in balia del vento, ha poi generato quella terribile ansia che conduce subito al pensiero della morte; come racconta ancora l'evangelista Marco, prontamente i discepoli si rivolgono al Maestro con le parole: "[...] non ti importa che moriamo?" (4,38). Ma più che una morte fisica, qui traspare una morte della fede, una incapacità a capire chi è Gesù, ma soprattutto ad avere fiducia in Lui ed a riconoscerlo come padrone della vita. Non basta chiamare Gesù "Maestro", è più importante riconoscere in Lui il "primato su tutte le cose" (cf. Col 1,18).
Questo primato si manifesta immediatamente dopo la richiesta dei discepoli, infatti, Egli ad un comando fa tacere la tempesta e salva i discepoli, ma non li risparmia da un rimprovero: "Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?" (Mc 4,40). A questo punto, passata la paura e consapevolizzato l'accaduto, i discepoli sono colti da timore, visto come rispetto e soggezione, ma ancora si domandano chi potesse essere Gesù, capace di dominare acqua e vento. Comincia a manifestarsi in essi un barlume di fede; con Cristo che salva, non può esistere una morte della fede, non può sopravvivere il dubbio e comincia a nascere il timore di Dio, che associato alla figura di Gesù, spazza via ogni incertezza e da increduli si diventa credenti. Si potrebbe dire che l'ontologia del timore di Dio è la fede e che quest'ultima è ontologicamente rivelata in Cristo.
Notiamo, dunque, nella precedente affermazione una differenza lieve, ma anche sostanziale, con le categorie di senso veterotestamentarie, le quali nell'attuale contesto divengono: il timore di Dio, la fede in Cristo e naturalmente l'ascolto, quest'ultima categoria infatti è fondamentale perché si attualizzino le due precedenti; l'ascolto, se così si può dire, è il catalizzatore della fede e quindi anche del timor di Dio. A queste tre se ne aggiungerà tra breve una quarta.
Come si può notare, la sequela di Cristo induce un cambiamento spirituale, concretizzato attraverso la generosità del Signore nel dono del timore di Dio, ovvero nella fede. Questo cambiamento deve essere conforme a colui che elargisce la nuova vita, come sottolinea chiaramente Paolo (cf. Rm 13,3-7; 2Cor 5, 11; 7, 11; 1Tm 5, 20) il quale, partendo dal concetto ebraico del timore di Dio, arriva a forgiare la propria vita cristiana nell'amore di Cristo.
Con Cristo entra in gioco un'altra categoria di senso, quella che è bene espressa nel comandamento più grande (cf. Mc 12, 29-31), ovvero la categoria di senso dell'amore. Il timore di Dio è l'amore che si prova per Lui, inoltre poiché Cristo è Signore, vero Dio e vero uomo, il dono del timore di Dio include in sé anche l'amore per il prossimo. Nella visione neotestamentaria quindi, rielencando le categorie di senso, si ha: il timor di Dio, la fede in Cristo, l'ascolto e l'amore, quest'ultima categoria non è più astratta delle altre, al contrario, come le altre, è molto concreta, tanto concreta da essere personificata in Cristo, ben raffigurata dall'identità tradizionalmente giovannea: "Dio è amore" (cf. 1Gv 4, 8.16).
Si potrebbe arrivare a dire che la categoria di senso dell'amore include le altre categorie di senso: infatti, l'amore include il timore e perfino lo cancella (cf. 1Gv 4, 18), nel senso che Dio diventa Abbà (Papà) ed il timore equivale al rispetto, non si temono più reazioni punitive; l'amore include la fede in Cristo, poiché soltanto Lui è amore (cf. 1Gv 4, 16); infine, l'amore contiene in sé anche l'ascolto, poiché chi non ascolta non ama (cf. 1Gv 4, 5-6).
A corollario possiamo inoltre dire che il dono del Timore di Dio trova la sua completa attuazione nella e per la Chiesa.
Di fatto sostenere il Timore a Dio in Cristo senza passare per la Chiesa che Cristo stesso ha voluto è una scorciatoia alienante che nell'apparenza della fede è invece un mero soggettivismo. Proprio per questo la traditio della Chiesa ha legato sempre il dono del Timore di Dio alla virtù evangelica (o consiglio evangelico) dell'Obbedienza. Obbedire evangelicamente significa infatti ascoltare (ob-audire=ascoltare) Dio nei canali con cui Egli comunica con noi che non sono solo la coscienza, la Parola, la storia ma anche i legittimi superiori nella fede, in quanto pastori che Cristo ha voluto (Vescovo, parroco, superiore religioso, genitori, ecc) proprio riguardanti le questioni inerenti alla retta fede.
Con il ricco bagaglio delle lettere di Pietro e Paolo e della tradizione sub-apostolica e successivamente dei Padri nel deserto la Chiesa ha maturato la coscienza nello Spirito Santo che obbedire solo alla propria coscienza può essere rischioso se non talvolta addirittura demoniaco.
Il credente, il fedele è colui che vive di ascolto e obbedienza che nell'ottica dell'Amore, come già detto, comprende e rimette ogni cosa con fiducia a Dio.
S. Agostino ricordava che "non sempre ciò che dice il superiore può essere la volontà di Dio, ma sempre è volontà di Dio che gli si obbedisca". Di fatto l'obbedienza nella fede è la cartina rivelatrice del nostro cammino spirituale e della maturità psico-affetiva che abbiamo acquisito nello Spirito Santo. L'obbedienza trova il suo compimento nel dono della pietà di cui parleremo più avanti e si attualizza anche nel ministero della Direzione spirituale sia per il diretto che per il direttore.
....continua......