Il valore del Digiuno nelle religioni, in particolare nella Chiesa Cattolica

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Caterina63
00giovedì 5 marzo 2009 20:04
A colloquio con padre Theodoro Mascarenhas, officiale del Pontificio Consiglio della Cultura

Il digiuno e le religioni


di Nicola Gori

Strumento di autocontrollo, precetto dottrinale, metodo di ascesi, richiamo alla sobrietà, veicolo di elevazione al trascendente:  nel corso dei secoli tutte le grandi religioni del mondo hanno dedicato particolare attenzione al rapporto dell'uomo con il suo corpo, in particolare alla pratica del digiuno. L'astensione dal cibo assume di volta in volta significati diversi. Con padre Theodoro Mascarenhas, officiale del Pontificio Consiglio della Cultura e docente di teologia biblica all'Angelicum, abbiamo parlato della tradizione del digiuno nell'islam e in alcune religioni orientali.

La pratica del digiuno nell'islam sembra sostenere tutta l'impalcatura religiosa. Ma qual è il fine ultimo del digiuno per gli islamici?

Per i musulmani il motivo del digiuno è l'autocontrollo. Secondo questa religione monoteista, quando una persona è vinta dai desideri e dalle brame materiali, diventa negligente riguardo al proprio essere spirituale e indifferente agli obblighi imposti dal Creatore. Perciò, per aiutare l'uomo a combattere queste bramosie materiali, l'Onnipotente ha imposto il digiuno come obbligo. Il digiuno durante il mese del ramadan non è per un'espiazione o un pentimento. Non è neppure una specie di castigo; è, invece, un rito religioso caratterizzato da un proposito positivo. Questo è spiegato bene nel Corano:  "O voi che credete, vi è prescritto il digiuno come era stato prescritto a coloro che vi hanno preceduto. Forse diverrete timorati" (Surat ul-Baqarah, 2: 183). Il digiuno, dunque, ha un significato spirituale e sociale. I musulmani credono che, attraverso il digiuno, l'anima dell'uomo viene liberata dalle catene delle sue voglie e vola verso l'Altissimo. Il digiuno chiude le porte alle tentazioni. Come il diavolo attacca l'uomo, più spesso sulla debolezza della lingua e del corpo, così l'astensione dal cibo e dal sesso blocca queste aggressioni. Il digiuno fa diventare la persona timorata di Dio. Per questo motivo, ogni adulto deve praticarlo, insieme all'obbligo di leggere una parte del Corano ogni giorno del periodo di digiuno e di partecipare al culto comunitario. Inoltre, c'è la dimensione sociale. Con il digiuno la persona può avere una conoscenza migliore dei doni di Dio ricevuti e, così, aprirsi con più compassione e carità verso i disagiati e gli emarginati. Il digiuno include l'astensione, dall'alba al tramonto, da tutti i piaceri carnali come, ad esempio, il cibo e il sesso.

Tra le religioni orientali forse quella buddista è la più conosciuta nel mondo occidentale. Ci può spiegare qual è la filosofia che sottende all'idea del digiuno in questa religione?

È vero che le religioni orientali dedicano una attenzione particolare al rapporto con il corpo. Il digiuno è un modo per esercitare il controllo sul proprio corpo. Nel buddismo, il digiuno è un mezzo per ottenere un livello più alto di spiritualità, cioè "svegliarsi", una fase iniziale di autodisciplina. Per Buddha, il Nirvana è uno stato di pace perfetta della mente, libera dal desiderio, dalla rabbia e da altre condizioni che la imprigionano. Il desiderio, secondo Buddha, era la causa e la radice del male. Il cibo è il desiderio più basilare dell'uomo. Quindi è necessario rinunciare al desiderio per ottenere la libertà dai grovigli mondani. Il digiuno è uno dei dhutanga che i monaci praticano per "scuotersi" o per "rinvigorirsi". Buddha stesso aveva digiunato prima di essere "illuminato". L'illuminazione spirituale di Buddha è strettamente legata al digiuno, ma egli vi è arrivato non durante il digiuno ma subito dopo, cioè dopo averlo interrotto. Così si arriva alla conclusione che non è il cibo, né l'astensione da esso che porta  alla  "liberazione",  ma  la moderazione. Allora, il digiuno è un esercizio  pratico per andare verso il Nirvana.

È tanto diversa la prassi del digiuno nell'induismo?

Qualcosa in comune ce l'hanno, anche se le differenze sono a volte sostanziali. Gli indù sono profondamente religiosi. L'obiettivo della vita è l'autorealizzazione o il raggiungimento della consapevolezza dell'assoluto. Il digiuno controlla la passione e argina le emozioni e i sensi. Come l'oro è purificato dal fuoco, così la mente viene lentamente purificata dal digiuno ripetuto. Secondo le scritture indù, il digiuno è un grande strumento di autodisciplina che stabilisce un rapporto armonioso tra il corpo e l'anima, portando l'uomo ad accordarsi con l'assoluto. La parola sanskrita upvas, digiuno, che significa letteralmente sedere vicino (a Dio), già indica questo movimento di unione con l'assoluto. Il digiuno, quindi, è una negazione delle necessità del corpo per un guadagno spirituale. Secondo la filosofia indù, il cibo significa gratificazione del corpo e, invece, affamare i sensi vuol dire elevarli alla contemplazione. Attraverso il controllo del corpo fisico, delle emozioni e della mente, si può arrivare all'obiettivo finale della conoscenza incondizionata, o liberazione dal ciclo della rinascita, in unione con il trascendente sia personale, sia impersonale. Inoltre, nell'induismo, una persona può digiunare per adempiere un voto religioso, vrata. In questo senso, il digiuno e l'astinenza portano al raggiungimento del merito religioso, il quale può poi essere usato per ottenere l'obiettivo per cui si era fatto il voto.

Si coglie qualcosa di comune, dunque, in questo percorso spirituale che attraversa il digiuno in queste tre religioni. Di cosa si tratta?

Certamente il percorso spirituale di queste tre religioni ha alcune cose in comune. Tutte le religioni parlano e incoraggiano a usare il digiuno come forma di disciplina e di purificazione della persona. In tutte tre esiste la motivazione dell'autocontrollo e dell'autodisciplina. Inoltre, si vede che un pensiero fondamentale di tutte le culture e di tutte le religioni del mondo è che "l'uomo non vive solo di pane" ma c'è qualcosa che trascende il mondo materiale. Il digiuno, cioè l'astensione dall'alimentare le forze del corpo, porta l'uomo alla conoscenza di un potere superiore, prima di tutto dentro se stesso, che, nel caso dell'islam e dell'induismo porta ad una conoscenza dell'Essere assoluto.

In cosa si differenzia la pratica del digiuno  di queste religioni da quella cristiana?

È difficile indicare una differenza generale. Si può fare una distinzione tra la pratica cristiana del digiuno rispetto alle altre religioni. Ad esempio:  se nel buddismo il digiuno è quasi fine a se stesso - ricordiamo che il buddismo è una religione di matrice ateistica - per i cristiani rappresenta un mezzo per vivere con Dio. Per citare le parole di Benedetto XVI nel suo messaggio per la quaresima, il digiuno serve per "aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova legge e compendio di tutto il Vangelo".
La differenza tra la pratica cristiana e quella induista del digiuno si distingue per il fatto che l'induismo è una religione politeista, dove ognuno fa il voto secondo i suoi bisogni e secondo il proprio modo di concepire la divinità. Infatti, nell'induismo il digiuno è individuale e volontario, mentre nel cristianesimo, come nell'islam, il digiuno è obbligatorio almeno nei giorni prescritti. Inoltre, nell'induismo lo sforzo mira a liberare la mente e a rompere il ciclo della rinascita; invece nella pratica cristiana - come afferma il Papa nel suo messaggio quaresimale - "la fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima,  aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore".
La pratica nell'islam sembra avvicinarsi di più alla pratica del digiuno cristiano. Infatti, in entrambe il digiuno aiuta a liberare la persona per amare Dio e il prossimo. Tuttavia, mentre i musulmani digiunano durante il mese di ramadan dall'alba al tramonto e poi possono mangiare quanto vogliono, nella pratica cristiana non c'è questa distinzione netta tra il periodo di digiuno dal periodo in cui non è prescritta tale pratica. Ancora, nell'islam c'è, talvolta, una attenzione ai tempi, alle forme e alle norme, mentre nel cristianesimo si pone l'accento più sulla disposizione interiore. Il digiuno, nella religione cristiana, fa parte normalmente del tempo di quaresima, che viene indicato come un tempo di penitenza. Lo spirito di penitenza pervade tutto il periodo quaresimale e il digiuno è solo una delle forme di penitenza. Per citare ancora Benedetto XVI nel suo messaggio:  "Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti".

Che cosa possono imparare i cristiani dal modo di concepire il digiuno dei fedeli di queste religioni?

La pratica del digiuno nelle tre religioni sulle quali ci siamo soffermati possono arricchire il nostro modo di concepire e di osservare il digiuno. Dal buddismo, in particolare dalla sua concezione della liberazione della mente attraverso il digiuno, possiamo imparare a rafforzare la nostra antica nozione del digiuno, come spiegato da Benedetto XVI nel suo messaggio, cioè che il digiuno sia "di grande aiuto per evitare il peccato e tutto ciò che ad esso induce".
Dalla pratica nell'induismo impariamo che il digiuno può diventare una forma di preghiera, come afferma il Papa:  il digiuno può "aprire nel cuore del credente la strada a Dio". Nella Chiesa cattolica il digiuno è una pratica regolata da norme minime e lasciata quasi interamente alla coscienza del credente. L'islam, invece, ha regole e leggi molto prescrittive e richiede la pratica rigorosa del digiuno da parte dei credenti. Forse un po' di questo rigore, senza esagerazioni, farebbe bene alla pratica cristiana. Questo potrebbe aiutare a recuperare l'indifferenza che, talvolta, si mostra verso la pratica del digiuno. Per i musulmani leggere il Corano e partecipare al culto, durante il periodo di digiuno, è obbligatorio. In questo senso, noi cristiani accogliamo l'appello del Pontefice "ad un maggior impegno nella preghiera, nella lectio divina, nel ricorso al sacramento della riconciliazione e nell'attiva partecipazione all'Eucaristia, soprattutto alla messa domenicale".



(©L'Osservatore Romano - 6 marzo 2009)
Caterina63
00venerdì 6 marzo 2009 18:24
Cristianesimo ed ebraismo di fronte al digiuno

Alle radici della fede dei padri


Il digiuno - come il nutrimento - ha una grande importanza nella Bibbia e nelle tradizioni ebraica, cristiana e musulmana, in quanto esprime in modo straordinario la relazione fra corporeità e spiritualità, il rapporto di fede tra la creatura e la bontà e la misericordia di Dio. Il Creatore onnipotente, che dà il cibo a ogni vivente, chiede all'uomo e alla donna una risposta consapevole, in quanto creati a sua immagine; perciò anche l'assunzione del cibo - come l'astinenza da esso - non sono privi di un profondo senso simbolico e spirituale.

"Ciò è particolarmente evidente in alcuni momenti fondanti dell'esperienza d'Israele, come è per il digiuno dei quaranta giorni che Mosè compie sul Sinai, prima di ricevere la santa Torah, e con essa l'alleanza di salvezza per il popolo ebraico" ci spiega monsignor Pier Francesco Fumagalli, dottore della Biblioteca Ambrosiana e profondo conoscitore dell'ebraismo (dal 1986 al 1993 è stato segretario della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l'ebraismo, di cui oggi è consultore). "Anche la regina Ester, nel momento del massimo pericolo per il popolo minacciato di sterminio - aggiunge - digiuna e prega prima di presentarsi a intercedere presso il re Assuero suo sposo. Nel libro di Giona gli abitanti di Ninive e persino gli animali indicono un digiuno e si coprono di sacco e cenere, per implorare il perdono e allontanare i castighi divini minacciati dal profeta".

Questo costante collegamento tra misericordia, peccato e salvezza, si è mantenuto e approfondito lungo i millenni nella tradizione ebraica, il cui calendario tuttora comprende il digiuno di Ester (13 di Adar), quello dei primogeniti prima di Pasqua (14 di Nisan) e il solenne digiuno dell'Espiazione o Kippùr (10 di Tishri).

Nella tradizione cristiana il digiuno recepisce sostanzialmente questi medesimi valori dell'ebraismo, anche se lungo i due millenni del cristianesimo - ammette Fumagalli - "dolorose polemiche hanno spesso offuscato la coscienza di questo debito spirituale". "Gesù stesso - ricorda in proposito - prima dell'inizio della sua vita pubblica segue un digiuno di quaranta giorni nel deserto, e i cristiani ne seguono l'esempio, secondo la dottrina della imitatio Christi, orientandosi a ricevere il dono della salvezza nella Pasqua di risurrezione, dopo un periodo di quaranta giorni o quaresima".

La principale differenza - al di là delle varianti normative specifiche - consiste "nel riferimento cristocentrico tipico della fede cristiana, che però paradossalmente diventa anche la radice di ciò che i cristiani possono imparare dalla tradizione religiosa del popolo ebraico di ieri e di oggi". In questo rapporto unico che in Cristo lega l'innesto cristiano sulla "santa radice" di Israele "sta tutta la forza e la necessità di riferirsi costantemente all'eredità dei padri e delle madri della fede, da Abramo e Sara fino all'epoca contemporanea". Ci sarebbe da chiedersi cosa possono i cristiani imparare dagli ebrei nella pratica del digiuno. "Innanzitutto - secondo Fumagalli - la fortissima tensione di speranza escatologica e di purificazione dal peccato in vista del dono divino di piena redenzione sostengono la comunità ebraica unita nel digiuno e nella preghiera, come si vede in modo particolarmente solenne e pubblico nel Kippùr".

Per il cristiano, perciò, "che rischia talora di limitare il proprio orizzonte escatologico a una speranza già totalmente realizzata nella Pasqua di Cristo, con il conseguente impoverimento dell'attesa messianica e dell'impegno verso il futuro salvifico divino, forse il dono maggiore che l'ebreo può offrire in questo campo è l'esempio di un'ardente, inestinguibile sete di perdono e di comunione fraterna". (mario ponzi)



(©L'Osservatore Romano - 7 marzo 2009)
Caterina63
00venerdì 6 marzo 2009 18:25
La pratica quaresimale nelle Chiese cristiane orientali

Una veglia in attesa della risurrezione



di Nicola Gori

Una veglia prolungata nell'attesa della risurrezione:  è l'immagine che le comunità cristiane d'Oriente usano per spiegare il significato del digiuno. Come nella tradizione orientale i monaci vegliavano per tre giorni la salma di un loro confratello defunto, allo stesso modo i fedeli devono praticare il digiuno come attesa della risurrezione della carne. Ne abbiamo parlato in questa intervista con il gesuita Robert Taft, professore emerito di liturgia orientale al Pontificio Istituto Orientale.

Vi sono caratteristiche comuni tra la tradizione del digiuno nelle diverse Chiese orientali cattoliche e ortodosse?

La tradizione del digiuno è la stessa sia nelle Chiese orientali cattoliche sia in quelle ortodosse. La tradizione ortodossa prescrive che in modo progressivo, cominciando due settimane prima dell'inizio della quaresima, ci si prepari al digiuno. La prima settimana è chiamata la settimana del digiuno dalla carne:  alla fine di essa non si mangia più carne per tutta la quaresima. La seconda settimana che precede la quaresima è detta dei latticini, perché alla fine della settimana ci si deve astenere dai latticini. Durante i primi sette giorni della quaresima - detti del grande digiuno - si dovrebbe osservare un'astinenza molto severa. Bisogna però distinguere un po' l'usanza monastica da quella dei laici. Nei monasteri si mangia solo un pasto al giorno, nel pomeriggio, osservando l'astinenza da tutti i cibi proibiti. Per i laici il digiuno è più vicino a quella che in Occidente si chiama astinenza.

Ci sono indicazioni particolari riguardo alla quantità di cibo consentita?

Non c'è una prescrizione specifica per la quantità di quello che si mangia. Non si possono bere alcolici o mangiare carne o latticini, ma si possono mangiare i cibi permessi in quantità necessaria per nutrirsi. Questa antica pratica adesso è osservata soprattutto nei monasteri. È importante ricordare che la liturgia celebrata nei mercoledì e nei venerdì di quaresima è una liturgia pomeridiana, perché nell'antichità anche ricevere la Comunione significava rompere il digiuno. Digiunare voleva dire non mangiare nulla. Era un'astinenza totale fino a sera, quando era permesso un pasto.

Come praticavano il digiuno i Padri del deserto?

Nelle diverse tradizioni locali dell'ortodossia e delle Chiese cattoliche orientali ci sono usanze differenti. Lo stesso vale per i Padri del deserto. In genere, mangiavano soltanto una quantità minima di pane e di acqua. Era un digiuno quasi permanente. Siamo peccatori, per questo occorre digiunare per fare penitenza. Il Vangelo dice metanoèite, che normalmente viene tradotto in "fate penitenza":  non nel senso di fare qualcosa che ci costa sacrificio, perché metanoia vuole dire cambiare mentalità, convertirsi. Allora questa conversione è sempre in senso escatologico. Il digiuno, soprattutto in questo periodo, è un tipo di veglia prolungata nell'attesa della venuta del Signore, proprio come nell'antichità si vegliava la salma di un monaco o di una monaca, perché questa era un'espressione liturgica della fede nella risurrezione dei morti. Questo vuol dire veglia:  una vigilia in attesa, nella speranza della risurrezione dei morti.

Tra i fedeli delle comunità orientali la pratica del digiuno è sufficientemente seguita?

Normalmente, durante la prima settimana della quaresima e anche la grande settimana - quella che in occidente si chiama la settimana santa - il digiuno più severo è seguito da quasi tutti i fedeli, almeno nell'ortodossia. Nel cattolicesimo c'è stata una moderazione nella pratica del digiuno nel periodo del dopo Vaticano II. Nel rito latino la gente non ha sempre compreso a fondo che, nell'intenzione delle riforma post-conciliare, l'idea della moderazione era legata all'invito a fare altre cose importanti nella vita cristiana, cioè dare l'elemosina ai poveri, fare del bene al prossimo, chiedere perdono per le offese.



(©L'Osservatore Romano - 7 marzo 2009)
Caterina63
00sabato 20 febbraio 2010 14:39
Sul digiuno e l’astinenza che siamo chiamati a fare in Quaresima ecco cosa dice la CEI:






DECRETO DI PROMULGAZIONE

Prot. n. 662/94
CAMILLO card. RUINI
Vicario Generale di Sua Santità per la diocesi di Roma
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana


...

“1- La legge del digiuno «obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un pò di cibo al mattino e alla sera, attenendosi, per la quantità e la qualità, alle consuetudini locali approvate» (Paenitemini, III; EV 2/647).

2- La legge dell’astinenza proibisce l’uso delle carni, come pure dei cibi e delle bevande che, a un prudente giudizio, sono da considerarsi come particolarmente ricercati e costosi.

3- Il digiuno e l’astinenza, nel senso ora precisate, devono essere osservati il mercoledì delle ceneri (e il primo venerdì di quaresima per il rito ambrosiano) e il venerdì della passione e morte del Signore nostro Gesù Cristo; sono consigliati il sabato santo sino alla veglia pasquale.

4- L’astinenza deve essere osservata in tutti e singoli i venerdì di quaresima, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità (come il 19 e il 25 marzo).
In tutti gli altri venerdì dell’anno, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità, si deve osservare l’astinenza nel senso detto oppure si deve compiere qualche altra opera di penitenza, di preghiera, di carità.
5- Alla legge del digiuno sono tenuti tutti i maggiorenni sino al 60° anno iniziato; alla legge dell’astinenza coloro che hanno compiuto il 14° anno di età.

6- Dall’osservanza dell’obbligo della legge del digiuno e dell’astinenza può scusare una ragione giusta, come ad es. la salute. Inoltre, “il parroco, per una giusta causa e conforme alle disposizioni del vescovo diocesano, può concedere la dispensa dall’obbligo di osservare il giorno di penitenza, oppure commutare in altre opere pie; lo stesso può anche il superiore di un istituto religioso o di una società di vita apostolica, se sono clericali di diritto pontificio, relativamente ai propri sudditi e agli altri che vivono giorno e notte nella loro casa (can. 1245)”.

(fonte: CEI )

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