Oggi, Festa dei Santi Pietro e Paolo, ricorre il sessantesimo anniversario dell'ordinazione sacerdotale di Joseph Ratzinger. Quel ragazzo dai lineamenti affilati e lo sguardo sveglio che vediamo nelle fotografie in bianco e nero della sua ordinazione, è diventato successore di Pietro e Vicario di Cristo, conservando però in tanti anni una dirittura morale ed una commovente timidezza che invece spesso gli anni si incaricano di modificare.
Di tutti i Papi che il vostro cronista ha conosciuto (ossia tutti quelli posteriori al famoso Concilio), Benedetto è senza esitazione il preferito; anche se, certo, il sorriso e la simpatia di Giovanni Paolo I sono rimasti indelebili e cari ricordi nella mente di un (allora) bambino.
Joseph Ratzinger è in primo luogo un teologo che, cosa pressoché unica negli ultimi decenni, ha il pregio di esprimere concetti complicati sapendosi far comprendere. In realtà, la cosa di per sé non sarebbe eccezionale: rem tene, verba sequentur; se si hanno le idee chiare, è naturale saperle esprimere con chiarezza. Ma il problema, appunto, è che le idee chiare non le ha quasi più nessuno, conseguenza più che naturale del modernismo imperante e vittorioso, giacché una delle caratteristiche salienti dei modernisti, come aveva ben visto San Pio X con l'enciclica Pascendi, è precisamente che
"negli scritti e nei discorsi sembrano essi non rare volte sostenere ora una dottrina ora un'altra, talché si è facilmente indotti a giudicarli vaghi ed incerti. Ma tutto ciò è fatto avvisatamente; per l'opinione cioè che sostengono della mutua separazione della fede e della scienza. Quindi avviene che nei loro libri si incontrano cose che ben direbbe un cattolico; ma, al voltar della pagina, si trovano altre che si stimerebbero dettate da un razionalista".
Joseph Ratzinger, invece, ha mantenuto lucidità di visione, libertà di espressione e precisione di linguaggio. Parecchi, dopo il Concilio, sono stati critici delle derive della Chiesa; pochi però, di quelli che nella Chiesa hanno avuto ruoli di alta responsabilità, hanno trovato il coraggio di scrivere pagine taglienti e icastiche come quelle che troverete a questo link, o di porsi pubblicamente contro il pontefice allora regnante in occasione dello scandalo di Assisi (cosa che, per inciso, ci induce ad un moderato ottimismo quanto alle modalità con cui sarà tenuto Assisi3: perché, a meno che il vero Ratzinger non sia tenuto prigioniero nelle caves du Vatican, non potrà rinnegare a tal punto se stesso).
Ma soprattutto, Benedetto XVI si è rivelato - lui così palesemente titubante negli atti di governo e in evidente disagio nello scegliere validi collaboratori, e ancor più nel disfarsi di quelli cattivi - un Papa di transizione nel senso più felice del termine: ossia un Papa che chiude un'epoca e ne apre una nuova. Anche il beato Giovanni XXIII, in fondo, lo fu: iniziò a traghettare la Chiesa dalla rotta sicura che aveva sempre seguito verso un mare aperto procelloso e funesto. Ora, invece, il compito di Benedetto è quello inverso, ossia riportare la barca di Pietro nel porto della retta dottrina, della santa liturgia e, prima ancora e semplicemente, del buon senso.
Alcuni diranno che Benedetto XVI, pur con tutte le migliori intenzioni, non ha ancora fatto abbastanza per invertire la rotta, nonostante i gesti coraggiosi che tutti gli riconosciamo. Altri osserveranno che non è del tutto intenzione di Joseph Ratzinger chiudere la parentesi conciliare, dato che del Concilio fu protagonista (e dalla parte... sbagliata) e che quel Concilio egli intende senza dubbio salvare, seppure addomesticato e ricondotto all'alveo della Tradizione.
Queste affermazioni hanno forse una parte di verità, anche se non considerano due elementi essenziali. Il primo è che l'opposizione interna che deve affrontare Benedetto XVI, nella sua propria Curia e ancor più negli episcopati mondiali, è qualcosa di terrificante; solo la punta dell'iceberg traspare all'esterno. L'omelia di mons. Fellay che descrive lo stato della Curia romana ce ne ha dato un'idea.
Il secondo elemento è che non è seriamente pensabile, da alcuna persona sana di mente, che si possa mai giungere ad un ripudio papale di un concilio ecumenico: sarebbe un gesto dissennato e porrebbe la Chiesa in aperta contraddizione con se stessa. Per questo l'unica via d'uscita per liberarci dal fall out vaticansecondista sarà, riteniamo, una "ermeneutica della dimenticanza". Che in fondo non è che la tappa logica consequenziale alla "ermeneutica della continuità", come in effetti lamentano i fautori dell'interpretazione di "rottura": se il Vaticano II non ha detto nulla di veramente nuovo (o al più si è limitato a qualche "riforma - pastorale - nella continuità"), la sua importanza è davvero relativa e non vale nemmeno la pena fermarvi troppo la mente. Così in effetti è, e dev'essere: la crisi della Fede che sperimentiamo in questi decenni sarà guarita quando il nostro Vaticano II finirà per avere il valore del III Concilio Lateranense o di quello di Costanza...
E Benedetto XVI, pur non avendone magari la piena intenzione, ha finalmente posto le basi per questa auspicata evoluzione: di fatto, col discorso sulle due ermeneutiche, ha demolito teoreticamente tutto quel che è effettivamente avvenuto dal Concilio in poi, pur con l'accortezza di non estendere la critica al Concilio in sé considerato. Se ci consentite un paragone ardito, che non vuole avere nulla di men che rispettoso, in fondo anche Gorbaciov intendeva solo riformare, e al tempo stesso salvare, il comunismo[1]. Sostituite "concilio" a "comunismo", e pensate a come quest'ultimo è finita.
Enrico
[1] Per forzare ulteriormente l'analogia, potremmo dire che anche Gorbaciov, come Benedetto, veniva dopo due decenni (alludiamo a quelli di Breznev) in cui il sistema era sembrato solido e vincente sulla scena mondiale, mentre nella realtà esso all'interno perdeva gradualmente colpi.