LA CATASTROFE CHE FU IL LUTERANESIMO

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Caterina63
00venerdì 28 novembre 2008 00:19
CAPITOLO VI.

LA RIVOLUZIONE PROTESTANTE.

www.paginecattoliche.it/Cristiani06.htm

UNA CATASTROFE



Vi sono due date particolarmente dolorose nella lunga storia della Chiesa. La prima è quella clic segue lo scoppio dello Scisma fra la Chiesa greca e la Chiesa latina, 16 luglio 1054, con la scomunica lanciata a Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli. La seconda è quella che segna l'inizio della Rivoluzione protestante, con le Tesi sulle Indulgenze pubblicate dal monaco Martin Lutero il 31 ottobre 1517.

Lo scisma greco non è un'eresia vera e propria. Perciò non abbiamo creduto necessario trattarla in questo breve compendio delle eresie. Esso aveva avuto due antecedenti: lo scisma di Acacio, che abbiamo segnalato, e lo scisma di Fozio nel IX secolo. Per due volte fu ristabilita l'unione - nel concilio di Lione del 1274 e nel concilio di Firenze del 1438-1439. Ma entrambe le volte la riconciliazione fu soltanto passeggera.
Pochi punti controversi inquinano in definitiva la dottrina della Chiesa greca, die si definisce e che noi stessi chiamiamo "Chiesa" ortodossa. Nell'insieme la sua fede è autentica. Per questo, quando preghiamo, con tanto ardore, per la riunione delle Chiese, lo facciamo innanzitutto per la riconciliazione delle due Chiese sorelle: la Chiesa romana, madre e centro delle Chiese, e la Chiesa ortodossa.

La Riforma protestante fu purtroppo qualcosa di molto più grave, e perciò, nel parlarne, usiamo qui il sottotitolo: una catastrofe. Della triplice unità voluta da Cristo nella sua Chiesa - unità di fede, unità di comunione, unità di governo - nello scisma si intaccava solo quest'ultima. Invece nella Riforma protestante sono state colpite tutte e tre; l'unità è stata irrimediabilmente spezzata e, secondo il detto consacrato dall'uso, "è stata veramente lacerata la tunica inconsutile del Cristo!"

LE CAUSE DEL PROTESTANTESIMO


Quando si studiano le cause del protestantesimo, si usa fare un quadro a forti tinte degli abusi da cui era contaminata la Chiesa: secolarizzazione del papato e di gran parte del clero in tutti i gradi della gerarchia; invasione del paganesimo dietro il pretesto di un ritorno all'antichità classica greco-latina nell'umanesimo; sviluppo del nazionalismo e inizio di una politica cosiddetta realistica, cioè sdegnosa di ogni regola morale per tenere conto solo dei risultati; politica di cui Machiavelli doveva essere lo storiografo e il teorico entusiasta. Tutto questo è giusto. Ma non è l'essenziale. Potevano esservi dei turbamenti, dei disordini, in seno alla Chiesa. Poteva nascere l'eresia, ma non era certo inevitabile che prendesse la forma di Chiese separate e degenerasse in scismi numerosi e incurabili. La cosa più grave in questa dolorosa rivoluzione fu precisamente il fatto che essa pretese di compiere un rifacimento dei dogmi, ritornare alla purezza del cristianesimo, in una parola accaparrarsi l'altisonante nome di Riforma che circolava da secoli in seno alla cristianità.

Riformare la Chiesa! Grandioso e seducente programma!
Ma era necessario evitare un triplice errore:

1. Quello di credere che la Chiesa, per quanto fosse potuta venir meno al suo ideale primitivo, avesse potuto, in quanto Chiesa, errare nella fede;

2. quello di pensare che la fede pura, perdutasi nella Chiesa, potesse essere ritrovata, come si ritrovava l'antichità classica nei manoscritti greci e latini;

3. quello di ritenere che, una volta ritrovata, per merito di uno o più riformatori, la dottrina cristiana potesse essere per sempre preservata da qualunque nuova alterazione.


Vi era un errore riguardo al passato, poiché la Chiesa, anche corrosa dagli abusi, aveva ricevuto dal suo fondatore la promessa di essere assistita dallo Spirito Santo, di modo che non potesse tradire il deposito della vera fede. Vi era un errore riguardo al presente, poiché non spettava ad alcun potere umano il ritrovare la fede, con il semplice espediente del ricorso alla Scrittura, cioè in definitiva con l'esegesi e la filologia. E vi era un errore riguardo all'avvenire, in quanto questo ricorso alla Scrittura, eretto a principio assoluto di restaurazione, doveva rivelarsi invece come un principio di dispersione e di nuove divisioni senza fine, per quelli stessi che avevano riposto in esso tutta la loro fiducia.
Detto ciò, ricordiamo sommariamente i fatti essenziali.

LUTERO E LA ROTTURA DELL'UNITÀ


Lutero era nato il 10 novembre 1483 a Eisleben, in Sassonia. Il padre era minatore e non gli lasciò altro in eredità se non un temperamento di " rozzo sassone" secondo le parole dello stesso Lutero. La madre. Margherita Ziegler era una casalinga molto credente ma anche molto superstiziosa, che aveva un gusto spiccato per le storie di magie e di stregonerie. La vita di scolaro del giovane Lutero fu intessuta di sofferenze e di privazioni. Compì tuttavia dei buoni studi alla maniera del tempo, cioè secondo le norme di una scolastica decadente e inaridita. Ricevette il grado di dottore in lettere e filosofia nel 1505, all'Università di Erfurt. Il padre, orgoglioso dei suoi successi, pensava di farne un giurista, poiché questa era la carriera più adatta a far fortuna. Fu quindi molto scontento allorché venne a sapere che quel figlio di così spiccato talento era entrato, senza il suo permesso, nel convento degli agostiniani di Erfurt, il 17 luglio di quello stesso anno.

Che cosa era accaduto? Il giovane Lutero, di ritorno dalla sua cittadina natale, il 2 luglio 1505, era stato colto, alle porte di Erfurt, da uno spaventoso uragano. Si era trovato di fronte alla morte. Sperduto, aveva fatto precipitosamente il voto di farsi monaco se fosse sfuggito al fulmine. Quindici giorni dopo manteneva la parola. Questa vocazione troppo poco maturata avrebbe pesato su tutta la sua esistenza. Agli inizi, comunque, tutto andava bene. Lutero fece il noviziato, e quindi emise i voti religiosi. Il 2 maggio 1507 veniva ordinato prete. L'anno seguente passava da Erfurt a Wittemberg, come professore alla nuova Università eretta in questa città. Il viaggio compiuto a Roma nel 1510-1511 per gli affari del suo convento non scosse minimamente la sua fede nel papato, qualunque cosa sia stata detta più tardi. Al suo ritorno, tuttavia, si dichiarò contrario alla stretta osservanza nell'Ordine, preferendo stare sotto l'obbedienza dei superiori " nella fede e nella umiltà ". Si manifesta già in lui una sfiducia verso quella che egli chiamerà più tardi la " giustizia mediante le opere", la "giustizia personale".

Frattanto continuava gli studi, e riceveva nel 1512, il berretto di Dottore in teologia. Disgustato, come molti della sua generazione, della scolastica (la quale era in realtà in piena decadenza, e Lutero subì inconsciamente il nefasto influsso del nominalismo.), si volgeva di preferenza agli studi biblici, non senza convincersi che ritornava in un terreno pressoché abbandonato. Probabilmente egli ignorava, perlomeno agli inizi, che in quel movimento verso la Bibbia non era solo: uomini come John Colet a Oxford, Lefèvre d'Etaples a Parigi ed Erasmo di Rotterdam lo stavano percorrendo con lui.

Iniziò così un commento ai Salmi nel 1514. Dai Salmi passò nel 1515 alla Epistola ai Romani, e qui appunto fece, o credette di fare, scoperte fondamentali per la riforma del dogma cristiano. Noi che abbiamo il modo di guardare panoramicamente la storia, abbiamo la certezza che egli leggesse san Paolo solo attraverso le intime e inconscie esigenze del suo temperamento esuberante ed eccessivo, divorato dagli scrupoli e da tormenti interiori irriducibili.

Noi oggi diciamo che ciò equivale a fare della esegesi soggettiva, cioè piegare i resti all'esperienza intima. Ora, questa esperienza gli rivelava che il peccato, in noi, non può essere vinto, che è inerente alla nostra natura, che la salvezza sarebbe impossibile se consistesse nella purificazione da ogni peccato. Era arrivato infatti a confondere sentire e consentire, a non poter più distinguere tra la concupiscenza e il peccato, a considerare l'uomo e tutte le creature come sottomesse a un ineluttabile fatalismo. Credette di trovare in san Paolo la descrizione precisa del suo stato interiore, e insieme il rimedio sicuro a tutte le sue angosce. Orgoglioso della scoperta, intendeva propagarla in tutta la Chiesa e farne un principio di liberazione, di riforma, di salvezza universale.

Non sembra, tuttavia, che mirasse a una rottura con la Chiesa. Questa rottura sopravvenne senza che se ne rendesse conto. Ma, una volta in possesso della sua dottrina, e a dispetto di molte fluttuazioni e modifiche più o meno volontarie e coscienti, non volle più lasciare la presa. L'occasione - soltanto occasione - della rottura fu la Questione delle indulgenze. Si faceva allora intorno alle concessioni di indulgenze, un traffico che ai nostri giorni giudichiamo giustamente deplorevole, ma che si era insinuato, a poco a poco e per motivi talvolta quasi lodevoli, nella pratica della Chiesa. Si trattava questa volta di raccogliere fondi per la costruzione della basilica di San Pietro a Roma.

Mormorii di scontento circolarono in Germania, e perfino nelle bettole si criticò l'avidità romana. Lutero aveva già attaccato la dottrina delle indulgenze. Redasse alla svelta 95 Tesi che affisse alle porte della chiesa collegiale di Wittemberg. Vi si leggeva tra l'altro: " I tesori delle indulgenze sono le reti con le quali si pescano ora le ricchezze degli uomini. Se il papa conoscesse le esazioni dei predicatori di indulgenze, preferirebbe che la basilica di san Pietro fosse ridotta in cenere, piuttosto che costruirla con la pelle, la carne e le ossa delle sue pecorelle".

L'impressione prodotta fu enorme. Nessuno si presentò per discutere le Tesi di Lutero, ma tra lui e teologi romani si ingaggiò una disputa scritta. Con la sua rudezza di sassone, Martin Lutero dapprima bistrattò i teologi, poi affrontò il legato del papa, il cardinale Gaetano, ad Asburgo. Non potendo cedere alle sue istanze e non sapendo resistere ai suoi argomenti, lanciò un appello al papa meglio informato (22 ottobre 1518) e in seguito un appello del papa al Concilio generale (28 novembre 1518).
Le indulgenze erano del resto passate subito in secondo piano. Si trattava ora del dogma, essenziale per Lutero, della certezza della salvezza mediante la sola fede, senza le opere. Cosa strana, dopo aver accusato la dottrina e ]a pratica delle indulgenze di generare la sicurezza, egli faceva della sicurezza mediante la fede il dogma centrale del suo insegnamento.

La Disputa di Lipsia (27 giugno - 16 luglio 1519) invece di porre rimedio alle cose le aggravò infinitamente. Il teologo cattolico Giovanni Eck, ricordò le definizioni dei concili, e in particolare di quello di Costanza contro Giovanni Huss. Lutero, piuttosto che cedere, negò l'autorità dei concili, rimettendosi alla sola Scrittura. Da quel momento la condanna da parte di Roma non poteva essere evitata.

A questo punto capitale della sua evoluzione, egli ricevette da una parte gli incoraggiamenti degli umanisti rivoluzionari, come Ulrico di Hutten e Crotus Rubeanus; dall'altra, quelli dei nobili tedeschi molto ostili a Roma. Così appoggiato, si decise alla rottura. Nel suo animo questa ebbe luogo il 10 luglio 1520, poiché in tale data scriveva: " Il dado è gettato? Disprezzo il furore e il favore di Roma: non voglio più riconciliazione né comunione con essa per l'eternità!" E il 17, in una seconda lettera, spiegava: " Silvestro di chaumberg e Francesco di Sickingen (due nobili rivoluzionari tedeschi) mi hanno ormai liberato da qualunque timore umano".

In realtà egli avrebbe trovato un aiuto molto più efficace nel suo sovrano, l'Elettore di Sassonia, di cui ignorava ancora le intime disposizioni.


FORMAZIONE DELLA CHIESA PROTESTANTE


A partire dal 1520 i fatti precipitano. Il 1 agosto, Lutero pubblica il suo Manifesto: Alla Nobiltà cristiana di Germania per la Riforma dello Stato cristiano. Vi affermava che tutti i cristiani sono uguali (sacerdozio universale); che tutti hanno ugualmente il diritto di ricorrere alla Bibbia, la quale non è affatto riservata all'interpretazione della Chiesa (biblicismo integrale); che l'imperatore e i principi hanno più diritto del papa a convocare il Concilio generale (cesaropapismo).

Nell'ottobre seguente, pubblicava il suo secondo grande scritto riformatore: Il Preludio sulla Cattività babilonese della difesa, in cui attaccava la dottrina dei sacramenti, da lui ridotti a due, battesimo e eucaristia, o tuttalpiù a tre, con l'aggiunta della penitenza. Infine, nel novembre, pubblicava il suo opuscolo sulla Libertà del cristiano, che è una delle migliori esposizioni della sua dottrina.

Dottrina che possiamo riassumere nei seguenti punti:

1. Per il peccato originale, l'uomo è completamente decaduto, e tutto ciò che fa è peccato mortale.
La salvezza mediante le opere è impossibile.
2. Dio senza dubbio ci impone la sua Legge nell'Antico Testamento, ma essa è impraticabile. Non ha altro scopo che quello di scoraggiarci, farci disperare, spingerci nelle braccia della misericordia.
3. Quando la legge ci ha portati alla disperazione, la fede fa d'improvviso risplendere ai nostri occhi la certezza della salvezza per i meriti di Gesù Cristo morto per noi sulla croce.
4. Da tutta l'eternità Dio ha predestinalo gli uni all'inferno (quelli ai quali nega la fede), e gli altri al paradiso (quelli ai quali la concede).
5. Il sacramento del Battesimo e quello dell'Eucarestia non hanno altra efficacia se non quella della fede che essi eccitano nei nostri cuori.


Frattanto Roma aveva parlato. La Bolla Exurge Domine del 15 giugno 1520 condannava 41 proposizioni tratte dalle opere di Lutero. Per tutta risposta, egli bruciò pubblicamente la Bolla a Wittemberg, il 10 dicembre, alla presenza degli studenti dell'Università. Il 3 gennaio 1521 veniva scomunicato. L'imperatore lo fece comparire alla Dieta di Worms, per indurlo a ritrattare i suoi errori. Era imperatore a quel tempo il giovane Carlo di Asburgo, noto con il nome di Carlo V. Il 18 aprile 1521, alla sua, seconda comparizione, Lutero fece alla Dieta la seguente dichiarazione che è rimasta famosa: "A meno di essere convinto con prove scritturali e con ragioni evidenti - poiché non credo nè al papa, né ai soli concili, i quali, questo è certo, si sono spesso ingannati e contraddetti - sono legato dai testi che ho recati e la mia coscienza è prigioniera delle parole di Dio. Non posso né voglio ritrattare alcunché, poiché non è né sicuro né conveniente andare contro la propria coscienza. Che Dio mi aiuti. Amen! "

Lo scisma era consumato.

Subito dopo il suo rifiuto di ritrattare l'eresia, Lutero fu messo al bando dall'Impero, ma, protetto da un salvacondotto, prese la via del ritorno e, lungo la strada, per ordine segreto del suo principe, l'Elettore di Sassonia, fu rapito da alcuni uomini a cavallo e portato al castello di Wartburg, sopra Eisenach. Qui sarebbe rimasto dieci mesi, sotto le vesti di cavaliere. In sua assenza, gli amici di Wittemberg continuarono il movimento, e molto presto oltrepassarono le sue previsioni e i suoi piani.

Il canonico Carlostadio e il monaco Zwingli, con gran stupore di Melantone, meno intraprendente, si mettono a capo della rivoluzione, e predicano il matrimonio dei preti, la soppressione dei voti monastici, l'apertura dei conventi e l'abolizione della messa. Da lontano, Lutero freme di impazienza, approva un po' a malincuore, ed è spiaciuto di questa effervescenza eccessiva.

Un bel giorno, vengono a Wittemberg dei profeti che si dicono ispirati dallo Spirito Santo e prescrivono di ribattezzare gli adulti, poiché, secondo loro, il battesimo dei bambini è del tutto senza valore.
Lutero non regge più. Con grave rischio, violando il bando imperiale da cui era stato colpito e contando sulla protezione del suo principe, lascia il proprio rifugio, torna a Wittemberg e vi predica per otto giorni di seguito, per ristabilire l'ordine, ma soprattutto per riprendere l'autorità. Condanna decisamente gli estremisti, che chiama " fanatici " e mette in rotta Carlostadio, il suo rivale e Munzer, il capo dei ribattezzanti o anabattisti. Ma invece di far ritorno alla Chiesa romana, dove, secondo lui, regnava l'anticristo (il papa), organizza una Chiesa regionale, che finisce per porre sotto l'alta autorità del principe. Dopo aver sognato una Chiesa di libertà egli arriva cosi, per una singolare contraddizione, alla Chiesa di Stato (Dopo aver criticato Roma in nome del Vangelo, Lutero fondava così una ortodossia garantita dallo Stato!).

Da quel momento, egli sostiene due posizioni diverse; vuole una Chiesa ordinata, regolare, controllata, in cui tutti, pastori e fedeli, obbediscano alla lettera; ma questa Chiesa rimane ostile a Roma. Egli è quindi ostile a ogni rivoluzione diversa dalla sua. Diventa profondamente conservatore, ma della propria costruzione, e rifugge da ogni compromesso. Quando i contadini, nel 1525, si sollevano in nome del suo Vangelo, egli si erge contro di essi e ne approva la sanguinosa repressione dei nobili: "Nobili diletti - scrive - liberateci, aiutateci, abbiate pietà della povera gente che siamo: infilzate, colpite, sgozzate finché potete... Un anarchico non è degno che gli si portino delle ragioni, poiché non le accetta. E' con il pugno che si deve rispondere a questa gente! "

E siccome i suoi amici protestano contro tanta durezza, egli replica ancor più duramente: "L'asino vuol ricevere percosse e il popolo vuole essere governato con la forza. Dio lo sapeva bene, dal momento che non ha dato ai governanti una coda di volpe, bensì una spada! "

Quasi nello stesso tempo Lutero, infrangendo i voti monastici, sposa una ex-religiosa, Caterina de Bora (13 giugno 1525), dalla quale avrà in seguito cinque figli, tre maschi e due femmine.
Dietro l'esempio della Sassonia, altri Principati abbracciano intanto la sedicente Riforma luterana. Interi paesi disertano la Chiesa cattolica: l'Assia, molte città dell'Impero, la Svezia, la Danimarca, la Norvegia, come pare, mediante la secolarizzazione, alcune signorie ecclesiastiche e il ducato di Prussia in Polonia.

Si potè costatare la forza crescente dello scisma luterano allorché, nella Dieta di Spira del 1529, cinque principi e 14 città dell'Impero protestarono contro le decisioni della maggioranza cattolica. Da quel momento, i dissidenti ricevettero il nome di protestanti.

Quando Lutero mori, il 18 febbraio 1546, la sua "Chiesa " era solidamente stabilita e aveva preso posto nello scacchiere politico dell'Europa.

Ma, avendo rotto l'unità cristiana, i protestanti non poterono conservarla loro. Si formarono altre Chiese, spesso altrettanto ostili le une verso le altre quanto lo erano nei riguardi della grande Chiesa, Prima di lasciare Lutero, segnaliamo le sue opere principali posteriori alla rottura: nel 1525 il De Servo Arbitrio (Il Servo arbitrio), scritto per confutare Erasmo die aveva difeso l'esistenza del libero arbitrio senza il quale non è concepibile alcuna morale e di conseguenza alcuna genuina religione. Nel 1529 il Piccolo e quindi il Grande Catechismo. Nel 1537 gli Articoli di Smalkalda, esposizione completa della dottrina luterana; e infine, nel 1545, uno scritto veemente determinato dalla convocazione del Concilio di Trento: Contro il Papato fondato a Roma dal Diavolo.

Lutero fu un'anima passionale; un cuore ardente e impetuoso; una mente fertile ma avvolta di bruma, favorita da una prodigiosa sicurezza, da una eloquenza spesso triviale, ma popolare e affascinante; un temperamento violento, incapace di controllo, di ponderazione, di lealtà verso l'avversario, e tuttavia amante dell'ordine materiale, della disciplina civile e religiosa; infine, una immaginazione accesa, ripiena di visioni strane e di ossessioni irresistibili. Gli è stato anclie dato il soprannome di Doctor hyperbolicus - Il Dottore eccessivo)

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Caterina63
00venerdì 28 novembre 2008 00:27
IN LIBRERIA:
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Padre Coggi O.P.

Ripensando Lutero


Nel saggio "Lutero e la salvezza dell’anima", dopo aver ribadito che "Il vero motivo dell’abbandono della Chiesa cattolica da parte di Lutero non sta […] nella grave crisi morale e anche, se vogliamo, dottrinale, che travagliava il cattolicesimo dell’epoca del Rinascimento, e neppure nella scarsa conoscenza che Lutero avrebbe avuto della genuina dottrina cattolica" (p. 65), l’autore sottolinea come molto spesso non sia stato tenuto nella dovuta considerazione l’aspetto del temperamento e della costituzione psichica dell’eretico di Eisleben. Così, molto opportunamente, riporta questo giudizio del teologo luterano Gerhard Ebeling: "Lutero appare una personalità prevalentemente ciclotimica, di costituzione picnica e di una scala alternante nell’umore fra gli stadi iper e ipotimici, combinata in pari tempo con una costituzione stenica degli impulsi" (p. 66). Commenta padre Coggi: "Questo referto medico, per chi sa leggerlo, è notevolmente preoccupante" (p. 66).

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Un altro aspetto da tenere a mente di Lutero era la sua PRESUNZIONE..... nello stesso libro qui citato, a pag.73 c'è la questione che il Cardinale Gaetano, dopo l'invito a Lutero di partecipare al Concilio di Trento per esaminare le questioni......gli chiedeva un gesto di umiltà....la parola "rèvoco".....il Cardinale non gli chiedeva altro per intraprendere una strada che sicuramente avrebbe cambiato il corso della storia....ma Luterò non solo non la pronunciò, ma già nel 1522 scriveva:

" Non ammetto che la mia dottrina possa venire giudicata da alcuno, neanche dagli angeli. Chi non riceve la mia dottrina non può giungere alla salvezza!"

[SM=g27993]
Comprendiamo bene amici che la posizione irremovibile di Lutero, quando al contrario la Chiesa stessa aprì un Concilio PER CONSULTARSI e decidere cosa fosse meglio per la Chiesa.....non solo è inaccettabile, ma è una chiara conferma che quella dottrina era difatti DI LUTERO..ERA SUA, PERSONALE......non era certo la Dottrina degli apostoli.....

Senza nulla togliere alle responsabilità di alcuni membri della Chiesa che di sicuro con la storia delle indulgenze avevano esagerato come è umanamente possibile, questo non giustifica l'atteggiamento di Lutero che userà come sappiamo le Indulgenze per scatenare una violenta riforma che porterà appunto ad una divisione, spaccatura dolorosa alla Chiesa.....

Padre Coggi nel libro si chiede se Lutero fosse consapevole del "potenziale esplosivo" della nuova interpretazione che egli dava alle Scritture...Padre Coggi dimostra con una seria documentazione che è assai certo che Lutero non se ne rese conto.....egli infatti nei primi tempi della sua protesta non riteneva la sua interpretazione INCOMPATIBILE con la Dottrina Cattolica, Lutero stesso più volte fa capire dai suoi scritti che non era sua intenzione fondare una nuova Chiesa.....una nuova comunità cristiana, tuttavia Lutero stesso visse molte contraddizioni soprattutto con se stesso e di una cosa infatti era sicuro: NON AVREBBE MAI RINUNCIATO ALLA SUA IDEA DI RIFORMA PER NULLA AL MONDO, E CHE L'AVREBBE DIFESA ANCHE A COSTO DI SCATENARE UNA GUERRA... [SM=g27992] ....

Lutero comincia a divulgare la sua dottrina dal 1515 al 1518 partendo ovviamente dalle indulgenze....La genialità di Lutero, consapevole o meno, è stata proprio quella di toccare un tasto che aveva a che fare con le tasche della gente e di conseguenza (come in fondo oggi è la stessa cosa, basta vedere la nostra politica! ) non gli fu difficile fare breccia nel cuore della popolazione alla quale andava a predicare liberamente raccontando loro di come il Papato rubasse a loro, povera gente, e che la salvezza la offriva LUI a portata di mano, senza bisogno di far dire Messe prepagate.......Ovviamente questo genere di predicazione FALSA (che colpiva ed offuscava la verità sull'uso delle indilgenze) verso l'ingenuità della gente (l'alfabetismo era abbastanza diffuso) iniziò a preoccupare la Santa Sede...non dimentichiamo che all'epoca non esisteva internet tanto meno il cellulare e prima di far giungere una notizia ci volevano mesi o settimane....

Non dimentichiamo che Lutero stesso in quel lontano 1518 aveva comunque a cuore che il Papa lo ascoltasse, si appella fin anche ad un Conclio generale il 28 novembre del 1518 e dove, nella disputa a Lipsia gli si farà notare da parte di tutti i vescovi che lui stava sbagliando.....e che si stava mettendo non soltanto contro l'autorità del Papa ma anche dei vescovi riuniti in Concilio...qui allora Lutero serrerà i ranghi chiudendosi in un rifiuto inaccessibile e dove dirà, con una proclamazione solenne, che anche "i Concili ecumenici sbagliano, e che anzi sempre avevano sbagliato e che da questo momento in poi l'unica verità sarà per lui la SOLA SCRIPTURA: se una certa dottrina non è letterale, sarà da rigettare....

Come vedete amici, il Sola Scriptura NON nasce dalla Scrittura stessa, ma bensì da UN RIFIUTO DI LUTERO verso la convocazione non soltanto delle parole del Papa, ma bensì DEI VESCOVI RIUNITI IN CONCILIO....ossia contro la Chiesa stessa....
Caterina63
00venerdì 28 novembre 2008 00:31
Prima di continuare su Lutero vorrei offrirvi uno specchietto elaborato dal CESNUR di Massimo Introvigne (dati rapportati alla fine degli anni Novanta) SUI FRUTTI DELLA DISOBBEDIENZA ALLA CHIESA:


Cronologia dei danni apportati dall'uso della Bibbia "fai da te".........

Valdesi (XII secolo)

Aderiscono nel 1532 alla Riforma protestante. Ottengono la parità dei diritti e la libertà religiosa nel 1848. Da allora si diffondono in tutta Italia. Seguono la confessione di fede riformata del 1655 ed hanno un'organizzazione sinodale-rappresentativa. Dal 1975 sono integrati con la Chiesa evangelica metodista d'Italia. Membri del Consiglio ecumenico (CEC), della Conferenza delle chiese europee (KEK) e della FCEI, sono oggi anche rappresentati nelle Chiese Evangeliche (ADI). Sono circa 30.000.

Luterani (XVIII secolo)
Presenti a Venezia sin dal tempo della Riforma, e in altre città dal XVIII secolo, si sono organizzati nel 1948 come Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI); in maggioranza sono comunità di lingua tedesca; nel Golfo di Napoli esistono tre comunità italiane. Sono membri della Federazione luterana mondiale, della KEK e della FCEI. Sono circa 7.000.



Chiese cristiane dei fratelli (1833)

Detti anche "Fratelli di Plymouth" sorgono in Inghilterra come movimento di ritorno alla purezza dell'evangelo, in polemica con le chiese ufficiali, e quasi contemporaneamente in Toscana nei circoli risorgimentali (Guicciardini e Rossetti). Diffusi in tutta Italia, hanno la Bibbia come unica regola di fede e di vita. Non hanno un'organizzazione centralizzata. Rifiutano ogni rapporto con lo stato e non partecipano a forme organizzate di ecumenismo. Non hanno statistiche: sono valutati a circa 20.000.

Metodisti (1859)

Dal 1975 i metodisti italiani formano un'unica chiesa con i valdesi. Nascono per un vasto movimento di risveglio religioso in Inghilterra e in America nel secolo XVIII. In Italia si inseriscono nel risveglio culturale e religioso del Risorgimento. Nel 1904 nel metodismo è confluita la "Chiesa cristiana libera in Italia". Si riconoscono nella confessione di fede del 1655 ed hanno lo stesso ordinamento sinodale-rappresentativo dei valdesi. Sono diffusi in tutta Italia. Membri del CEC, della KEK e della FCEI. Sono 5.000.

Battisti (1863)

Eredi degli anabattisti, ma con un impianto teologico calvinista, nascono nell'Inghilterra del '600. I battisti italiani sorgono da missioni americane e inglesi. Si richiamano alle dottrine fondamentali del protestantesimo, ma battezzano soltanto i credenti (e quindi non i bambini). La loro ecclesiologia è di tipo congregazionalista (autonomia della comunità locale). La maggior parte delle chiese battiste è in comunione con l'Unione cristiana evangelica battista d'Italia (UCEBI). Sono membri del CEC, della KEK e della FCEI. Sono circa 10.000.

Esercito della Salvezza (1887)

Più che una chiesa è un movimento organizzato di cristiani militanti, impegnati nell'evangelizzazione e in attività sociali. Ha struttura gerarchica con quartiere generale a Londra. In Italia sono presenti in circa 40 località. Stimati in circa 2.000 persone.

Pentecostali (1908)

Nascono negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento come movimento popolare di risveglio fondato sui segni della presenza dello Spirito Santo: parlare in lingue e doni di guarigione. Sviluppatisi rapidamente, soprattutto nell'Italia meridionale, nel corso degli anni '20 e '50, tanto da preoccupare le autorità politiche, subirono durissime repressioni e furono praticamente fuori legge fino al 1959. Una parte rilevante dei pentecostali è organizzata nelle "Assemblee di Dio" (ADI), (circa 120.000) e che preferiscono chiamarsi "Cristiani Evangelici". Difficile stimare i pentecostali indipendenti; tutti insieme potrebbero essere circa 300.000. Alcune chiese pentecostali (Missione Cristiana; Chiesa "Fiumi di vita"; Unione chiese pentecostali libere) fanno parte della FCEI, ma ognuno vive la propria indipendenza dottrinale. Vivono in una forma gerarchica strettamente legata al proprio territorio, ogni Nazione ha il suo Presidente e sinodi autonomi si riuniscono per prendere decisioni in materia dottrinale nei quali non è permessa la presenza dei semplici fedeli i quali devono far riferimento ai pastori delle singole comunità ai quali è dovuta l'obbedienza assoluta.

Apostolici (1927)

Nascono al principio del secolo nel Galles come movimento indipendente di ispirazione pentecostale per ristabilire la purezza della chiesa del tempo degli apostoli. Hanno una base di fede strettamente biblica e i ministeri che formano una severa gerarchia di apostolo, pastore, profeta e anziano. Con centro a Grosseto, la "Chiesa apostolica" ha circa 3.500 membri. Alcune comunità apostoliche, con sede a Prato, formano invece la Chiesa apostolica italiana, membro della FCEI. Non si sentono in sintonia con i Movimenti Pentecostali.

Chiese di Cristo (1949)

Esistono negli Stati Uniti fin dal primo Ottocento, si sviluppano in Italia nel secondo dopoguerra. Strettamente bibliche, hanno una grandissima indipendenza organizzativa, senza organi comuni a nessun altro Gruppo Evangelico ed hanno una forma gerarchica. Circa 3.000 fedeli.

Chiese e movimenti evangelici liberi

Un gruppo di comunità evangeliche libere, di tipo battista, presenti soprattutto in Campania, costituiscono la Comunione di chiese libere, membro della FCEI. Esistono inoltre numerose altre comunità evangeliche indipendenti, gruppi di chiese, singole missioni, emittenti radiofoniche, scuole bibliche, che hanno in comune caratteri come: l'interpretazione letterale della Bibbia (fondamentalismo)delle singole comunità, l'indipendenza formale delle singole chiese, il battesimo dei credenti. Complessivamente possono essere stimati a 20.000. A questi si aggiungono frangie Pentecostali (Cristiani Evangelici) e gruppi di Valdesi. Per "libere" s'intende tutte quelle comunità di cristiani che vogliono sentirsi indipendenti da tutti e che non amano avere pastori a cui ubbidire o sinodi che li possano rappresentare. Ed hanno come unico riferimento in qualità di "Capo" soltanto la Bibbia che interpretano con il sostegno dello Spirito Santo.

Chiese estere in Italia

Dal tempo della Riforma sono esistite chiese estere, spesso all'ombra delle ambasciate. Attualmente vi sono chiese riformate svizzere, chiese in cui convivono riformati e luterani (la Chiesa protestante di Milano; Comunità ecumenica di Ispra-Varese, che è membro della FCEI), anglicane, riformate scozzesi, ecc. per complessive circa 10.000 persone. Un caso particolare è quello della Comunità elvetica di Trieste, membro della FCEI, formata in gran parte da cittadini italiani. Numerosi (oltre 100.000, secondo stime Caritas) gli evangelici provenienti dal Terzo Mondo, che stanno iniziando a formare proprie comunità, indipendentemente dalle altre formazioni.

Di matrice Protestante sono da ricordare i Testimoni di Geova, non più riconosciuti, però, dalla FCEI; i Presbiteriani (Calvinisti);i Mormoni ( Chiesa dei Santi degli ultimi giorni); i Zoe Pentecostali;

Cattolici Anglicani ( sarebbero un pò come i Tradizionalisti da noi, sono comunque più vicini a noi degli Anglicani moderni);

Ordine di San Luca ( sempre di origine anglicana);



Categoria a parte :

La Chiesa Cristiana Avventista del 7° Giorno

sorta negli Stati Uniti verso la metà del secolo scorso e si situa nel solco aperto dal protestantesimo. Crede perciò in Cristo che, solo, può perdonare e salvare.
Promuove molteplici attività, tutte volte alla predicazione della Bibbia, ritenuta l'unica regola di fede da chiunque interpretabile, autofinanziamento attraverso le decime e le offerte "volontarie" dei suoi fedeli.
In Italia opera fin dal 1864 e nel 1986 ha stipulato con il nostro Governo un'Intesa trasformata poi nella legge 22.11.88 n. 516.
Sul territorio nazionale è presente con un centinaio di chiese, una Casa Editrice a Firenze, un Istituto di Cultura Biblica, una Casa di Riposo a Forlì, un Centro di Benessere , un Centro Giovanile a Poppi (Arezzo), una settantina di centri per l'assistenza ai poveri, radio, una grossa installazione radio a onde corte, 1 scuola.

********************
Caterina63
00venerdì 28 novembre 2008 00:39
Altra cosa strana fu che Lutero NON riprese più le 95 Tesi per confutare la Chiesa Cattolica dopo che venne scomunicato....del resto ciò che vi aveva scritto non era alla fin fine così diffamatorio (giusto qualche eresia buttata qua e la)......ma optò per un altra strategia....LA SOLA FEDE dopo la Sola Scriptura......con questa dottrina, attenzione NON varata da nessun Concilio se non dalla riunione fra protestanti dopo il 1600........e dalla quale venne esclusa fin anche la Chiesa Ortodossa..Lutero metterà per sempre in discussione l'autorità della Chiesa......cioè, bastava avere fede in Gesù per salvarsi e NESSUNO DOVEVA CONFERMARE NESSUNO...solo la Fede in Cristo confermava....in sostanza ti confermi da solo [SM=g27992]

..Questa dottrina apparentemente indolore sarà invece la base PER L'ELIMINAZIONE DEL SACERDOZIO, DEL SACRAMENTO DELLA CONFESSIONE, DELLA MESSA QUALE SACRIFICIO DI SALVEZZA, L'EUCARESTIA QUALE ALIMENTO DI SALVEZZA..

Tale insegnamento RIMANOVRATO dagli scritti di Lutero ribaltò fin anche il ruolo avuto dagli apostoli i quali, invece, avevano insegnato che per esercitare nella Chiesa occorreva non soltanto avere fede in Cristo, e non soltanto sentirsi dei chiamati....ma bensì occorre ESSERE CONFERMATI ALLA FEDE COMUNE DELLA CHIESA DA PIETRO..(cfr Lc.22,33)..... [SM=g27988]

Lutero all'inizio NON negherà la legittimazione della Chiesa Cattolica, Lutero parlerà SOLO DI RIFORMA NELLA E DELLA CHIESA non voleva crearsi una Chiesa tutta sua......e per farsi approvare...inventa una nuova dottrina....attenzione anche questa NON approvata da nessun Concilio, nè offerta quale discussione alla Chiesa Ortodossa......la dottrina della SOLA SCRIPTURA come abbiamo approfondito nel precedente messaggio...Per Lutero non sarà più necessario un Concilio o un Sinodo, perchè TUTTI I NEMICI DELLA CHIESA DI ALLORA E TUTTI I SOFFERENTI......E QUANTI AVEVANO UN CONTO IN SOSPESO CON LA CHIESA....accolgono con applauso questa dottrina che li "libera" dall'autorità della Chiesa.....

E si comincia a confondere la gente sul concetto di "Chiesa"....esistente solo come assemblea di fedeli priva di una autorità gerarchica...di fatto SIMBOLICA..Tuttavia priva solo in apparenza, perchè in verità l'autorità della Gerarchia dei vescovi passerà per Lutero semplicemente ai pastori (non consacrati) i quali diventeranno L'AUTORITA'.....autorità indiscussa per essere definiti cristiani Riformati.... [SM=g27992]

Ma ben presto lo stesso Lutero pagherà di persona questa disobbedienza...Iniziano da subito le spaccature fra i neo-protestanti..come abbiamo letto all'inizio...Lutero se ne accorge e prova a rimediare, ma troppo tardi......si sente rispondere: "Se tu puoi asserire che la Bibbia dice questo? Perchè io non dovrei avere ragione quando sostengo che neppure tu hai ragione su ciò che io interpreto?"

Lutero e Calvino di fatto NON FURONO MAI DEI BUONI AMICI.......anzi Lutero pubblicamente NON accolse alcune dottrine che Calvino andava insegnando come la NON presenza del Cristo nell'Eucarestia......

Per ora ci arrestiamo qui.....perchè era necessario approfondire il passaggio delle 95 Tesi....e la fine che fecero.....

Tanto per essere pignoli il termine Protestante nasce a Spira nel 1529......poichè un gran numero di persone aderì confusionalmente alla protesta...e per indicare coloro che scelsero la strada della Riforma Luterana, decisero di chiamarsi PROTESTANTI......come accennavamo i Valdesi aderirono alla Riforma nel 1600......e con tale termine venivano riconosciuti:
Luterani, Calvinisti, Valdesi, Battisti, Avventisti, Presbiteriani.....i frutti di Lutero, i frutti del Sola Scriptura.

C'è chi ci inserisce in questo elenco gli Evangelici e i Pentecostali, ma è sbagliato......questi due Gruppi NON esistevano ai tempi di Lutero...e come loro stessi ammettono sono nati come Pentecostali nel 1906....ed oggi Evangelici....ma il vero movimento Pentecostale vide la sua luce nel 1700 in Scozia......

Ma questa è un altra storia...anche se nasce ugualmente dalla diabolica dottrina del Sola Scriptura... [SM=g27987]
Caterina63
00giovedì 15 gennaio 2009 18:18
> Lutero cerco' fino alla fine con tutti i mezzi di evitare lo scisma, che
> non rientrava affatto nelle sue intenzioni? cosi', tanto x dirne una..


Cioe' lo scisma fu colpa della Chiesa Cattolica?
A parte che questa e' una cavolata bella e buona come la barzelletta
che dice "io non sono razzista e' lui che e' negro!".
Anzi e' ancora piu' assurda, perche' la reciprocita' della cosa non
sussiste. E ancora piu' calzante l'esempio se il problema e' chi sia Marco
Voli e ci fosse qualcuno che non essendo d'accordo con me (che SONO
Marco Voli) desse la colpa a me della nostra discordia.... ridicolo!

A parte questo. Ne' dal punto di vista della sostanza ne' dal punto di
vista della forma si puo' parlare di "scisma". E' scismatica la Chiesa
di Oriente che, pur riconoscendo l'identico credo e la sostanzialita' e
l'efficacia dei sacramenti, il valore dell'intermediazione dei santi,
l'immacolata concezione di Maria e la sua assunzione (in pratica tutto),
disconosce solo la forma attuale del primato petrino (ma non la sua
sostanza
). Come del resto ha fatto Lefevre.
Questi sono scismi.
Quella di Lutero fu una vera e propria apostasia che ribalto' metodo
e contenuti della fede, e permane tutt'oggi
.

> e scrivere questo significa automaticamente fare APOSTASIA??

non credo che costituisca materia di apostasia una frase errata
riguardo alla posizione di Lutero.
Certo e' che presentare la Chiesa colpevole della apostasia di
un eresiarca, addirittura camuffando un'eresia vera e propria
con uno scisma, e' scandaloso
(cioe' induce in errore).

>
> >E oggi la si prende con Ratzinger ed il Papa colpevoli
> >di aver promulgato la Dominus Jesus.

Il chiarimento della Dominus Jesus
era piu' che necessario, da quanto
Paolo VI denunciava a Guitton che un pensiero non cattolico si era
insinuato nella Chiesa
, che "il fumo di Satana e' entrato per porte che
dovevano rimanere chiuse", ce n'era piu' che bisogno.
La cura per l'unita' dei cristiani non e' l'annacquamento del valore
del cattolicesimo, anche perche' l'unita' non e' nelle capacita'
degli uomini ma e' opera solo di Dio
. Il
Papa e Ratzinger possono solo
dire come san Paolo "*guai* a me se non parlassi": non parlano
e non insegnano per semplici tiramenti "politici".
Scherziamo!
E, anche se lo facessero, il loro atto ha comunque valore in quanto
cio' che legano in terra e' legato nei cieli.
Se ci sono frutti "invernali" in casa protestante, mi spiace per loro,
significa che nostro Signore non permette ancora la riunificazione
fintanto che l'eresia rimarra' tale. Se prima non si procede ad un rispetto reciproco dalla base, non si può pretendere il resto. E' già opera di Dio che i vescovi cattolici e i rappresentati delle altre chiese, a livelli alti, stanno lavorando molto ed anche bene, il male però serpeggia ancora fra le centinaia di pastori che seminano livori contro la Chiesa e non aggiornano i propri fedeli sulle evoluzioni ecumeniche. Non diciamo quindi cavolate, e si abbia il coraggio di buttare giù la maschera!

--
Marco Voli

----
"Se fossimo trattati come meritiamo,
chi si salverebbe dalle frustate?"


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Il Presepio lo inventò s.Francesco d'Assisi......l'addobbo dell'albero di natale....LUTERO.......[SM=g7574]

POLEMICA

Ma quale dio Mitra, macché tradizioni celtiche: ecco le vere radici del 25 dicembre. L'uso di ornare l'albero si deve a Lutero


Via i pagani dal Natale


Di Cecilia Gatto Trocchi


Il santo Natale si avvicina. I dodici giorni che vanno dalla Vigilia all'Epifania hanno ruotato per secoli e secoli intorno all'evento grandioso della nascita del Salvatore. Questi giorni dalle lunghe notti sono come un'unica, grandiosa festa che conclude l'anno vecchio e apre il nuovo ciclo generativo della natura e degli uomini. Il fascino della festa squisitamente cristiana è talvolta distorto da luoghi comuni sulle «feste pagane», sul solstizio d'inverno, sul dio Mitra, sui Celti col ramo di vischio, sull'abete cosmico, sulle vergini capaci di partenogenesi, estratte a casaccio dalle religioni di mezzo mondo.


Si dimentica che il cristianesimo non nacque in un deserto ma in un mondo ricco di una grande cultura religiosa, in cui fiorivano rituali maestosi. I Padri della Chiesa scelsero il 25 dicembre, giorno del dio Sole, per festeggiare la nascita del redentore «Sole del mondo». Il dio indo-persiano Mitra non c'entra nulla: la sua religione, vietata alle donne, non oltrepassò mai gli ambienti militari e solo l'imperatore Commodo (il crudele tiranno del film Il gladiatore) ne era iniziato. Da Aureliano in poi, gli imperatori tentarono piuttosto di imporre un culto solare universale, che ebbe scarso successo tra le genti. I Padri della Chiesa scelsero proprio la festa imperiale del Sol Invictus per celebrare la Natività e conservarono l'immagine del Cristo come Sole di verità, di resurrezione e di salvezza.

Furono gli intellettuali e i pubblicisti tardo-ottocenteschi a inquinare le tradizioni in Europa e in America, animati da uno zelo positivista e desacralizzante e spinti dall'incipiente e già florida industria del Natale. Oggi si percepisce ancora questa operazione pseudo-culturale: sono sempre più rari i biglietti con le sacre figure di Giuseppe, Maria e il Bambinello, i pastori e le pecorelle.[SM=g7574]


 Invadono il campo vischio e agrifoglio, abeti, candele, papere, angeli New Age e l'obeso Babbo Natale, una specie di guitto dell'aldilà, che impugna la Coca Cola o spinge antenne paraboliche. Pochi sanno che il grasso gnomo con le renne è una deformazione ormai incomprensibile di San Nicola (in inglese Santa Claus, da Saint Nicolaus) che fu vescovo di Mira e protettore di Bari e Venezia. Santa Claus ha mantenuto di San Nicola solo il rosso dell'abito vescovile, mentre dal Mediterraneo ove visse e predicò nel IV secolo si è spostato in zone gelide, ad indicare virtualmente l'egemonia economica del grande settentrione, americano e nord-europeo.

Oggi ogni bottegaio può reclamizzare la sua merce vestendosi banalmente di rosso e di bianco con barba finta e berrettone.
 

Ma quali sono le «radici pagane» delle feste natalizie?

Durante le feste romane di dicembre, i Saturnali, la gente si scambiava i regali e la parola «strenna» deriva dalla dea Strenia che soprintendeva allo scambio. I l dono affonda le sue radici nelle più elementari regole sociali ma non è né pagano né cristiano, è la modalità culturale per allacciare e mantenere relazioni costanti. Nel grande gioco sociale non venivano dimenticati i defunti che dall'aldilà portavano regali ai bambini e ancora oggi in Sicilia sono i morti che portano i doni ai bimbi.

L'uso di ornare l'abete con candele e nastri d'argento non risale all'albero cosmico o agli usi più remoti degli onnipresenti Celti, ma al cristianissimo Martin Lutero (era pur sempre un agostiniano) che andando a Wittenberg in una gelida e silenziosa notte di Vigilia vide gli abeti ghiacciati scintillare alla luce della luna e delle stelle e volle ricreare quell'incanto adornando di candeline un abete.

L'usanza si radicò nei Paesi germanici e scandinavi luterani tra il Cinque e il Settecento, per poi passare in Inghilterra con la dinastia d egli Hannover.

Più tardi si inventò la favola secondo cui l'abete sarebbe stato emblema dei culti arborei delle tribù nord-europee: sacralizzare un oggetto «naturale», un albero, ben si sposa con le manie paganeggianti. Peccato che nessuno preparasse, prima del Cinquecento, l'albero di Natale. Furono le scene della Natività il più antico modo di celebrare le feste cristiane. Santa Maria Maggiore all'Esquilino era chiamata Sancta Maria ad Praesepe, in quanto in essa si conservavano le assicelle della mangiatoia che fu la prima culla di Gesù.

Nell'arco trionfale dell'altare vediamo Gesù Bambino in trono sormontato dalla stella e adorato dai Magi. Il simbolo del presepe fu recepito da san Francesco che ambientò il primo presepe plastico nella grotta di Greccio nel 1223. Fu una sacra rappresentazione, un evento «teatrale» in senso moderno che ottenne un successo senza pari. Da allora il presepe fu ripetuto ovunque nell'Europa cristiana.

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Protestantesimo:

Denominazione assunta dai movimenti religiosi europei del XVI secolo contro la Chiesa di Roma .

In origine essi furono promossi soprattutto da Martin Lutero , che proponeva un incontro più personalizzato con la Bibbia attraverso il suo libero esame da parte di tutti i fedeli, l’abolizione della pratica delle indulgenze, la riduzione dei sacramenti e l’abolizione del celibato ecclesiastico. Il nome deriva dalla protesta che i principi e le città luterane della Germania elevarono alla dieta di Spira (1529) contro la decisione dell’imperatore Carlo V di dare esecuzione alla condanna di Lutero da parte del papa. Le prime forme di P. furono il luteranesimo, lo zwinglismo, il calvinismo (che è l'erede del zwinglismo) e l’anglicanesimo.


In seguito, con l'uso arbitrale della Bibbia, si svilupparono altre correnti, più radicali (anabattisti, spiritualisti, mormoni,  ecc. fino alla fine del 1800 e inizi del 1900 quando non bastando più la dottrina Protestante, nacquero i Gruppi Carismatici che si rifanno alle origini della Chiesa nel giorno della Pentecoste. Taluni gruppi più fondamentalisti, mantengono una rigorosa autonomia dal Protestantesimo ufficiale accusando quest'ultimo di aver tradito i Principi della Riforma. Il risultato odierno è uno spaccato di 27.000 denominazioni di ramo Protestante.).


Al di là delle diversità, le varie Chiese protestanti rivendicano comunque in modo abbastanza omogeneo, la sovranità della grazia di Dio che sola salva l’uomo. Vengono individuati tre momenti unificanti della dottrina, molto differenziata, delle Chiese protestanti:


Il primo si configura come ritorno alla Bibbia, in quanto sorgente di fede per ogni cristiano, ispiratrice del suo operato nel mondo.


Il secondo momento unificante è il giudizio che riguarda gli ordinamenti e le istituzioni della Chiesa, ritenuti validi in funzione del servizio che debbono svolgere a favore della testimonianza della fede, ma assolutamente non fondamentali e privi di valore intrinseco.


Il terzo anello di congiunzione tra i numerosi movimenti protestanti è il rilievo dato all’attuazione delle idee da parte dei singoli cristiani, chiamati a testimoniarla nel mondo attraverso la propria condotta di vita.


 Attualmente il quadro delle confessioni e delle comunità che si rifanno al P. è molto variegato. La più numerosa comunità confessionale protestante è costituita dalle Chiese luterane ed evangeliche ( in quest'ultime configurano centinaia di piccole e medie denominazioni tutte autonome ed indipendenti fra loro, la più conosciuta è una parte della Chiesa Valdese. Le riunioni alle quali partecipano, non sono comunque vincolanti per nessuna identità che si faccia chiamare evangelica, dal momento che chiunque può attribuirsi questa identificazione).


Al filone calvinista si rifanno le Chiese riformate e presbiteriane . La Chiesa anglicana è radicata in Gran Bretagna e negli U.S.A.. Dal ceppo anglicano si è sviluppato nel XVIII secolo la Chiesa metodista , con cui in Italia s’è integrata la Chiesa valdese. Dalle correnti più radicali del P. sono infine derivati i quaccheri , la Chiesa battista  e le correnti del pentecostalismo, naturalmente non consideriamo una chiesa la denominazione dei T.di G.. Complessivamente nel mondo i movimenti protestanti possono contare, se fossero uniti,  su ca. 450 milioni di fedeli.


Protestantesimo liberale
:

Corrente protestante basata sull’interpretazione del cristianesimo come puro fatto storico, da analizzare perciò con gli strumenti della ricerca e della critica storica, prescindendo da un lato da ogni fattore soprannaturale, e dall’altro da ogni adesione fideistica. I primi rappresentanti del P. furono, nel XIX secolo, D.F. Strauss, F.Ch. Baur e B. Bauer, e nella seconda metà del secolo fino al primo novecento E. Troeltsch, A. Ritsch ed A. Harnack.

Caterina63
00lunedì 6 aprile 2009 15:41
Luigi NEGRI
Lutero e il cristianesimo moderno. «Sola Fide et sola Scriptura»
tratto da: Luigi NEGRI, False accuse alla Chiesa. Quando la verità smaschera i pregiudizi, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 128-144.

1. La formazione di Lutero

Il termine «riforma» usato per la Riforma protestante è sostanzialmente inesatto: la riforma, infatti, è una dimensione costante dell'esperienza cristiana, perché la fede implica una necessità di rigenerazione e ritorno continui all'avvenimento di Cristo che costituisce la Chiesa, un ritrovamento dell'origine e una rinnovata disponibilità dell'intelligenza e del cuore a vivere questo avvenimento. In questo senso, la riforma costituisce una dimensione dell'esperienza cristiana. I Padri della Chiesa (che furono riletti e approfonditi dalla grande tradizione culturale del Medioevo), avevano usato una formula significativa da questo punto di vista: Ecclesia semper reformanda. Infatti, i movimenti di ripresa dell'avvenimento ecclesiale lungo tutto il Medioevo, sono stati legati a veri e propri movimenti di riforma. La Riforma protestante, invece, non ha questa natura, e lo vediamo delinearsi con chiarezza dal 1514, ossia dal momento della esperienza di fede della novità di Lutero.

Il modo in cui Lutero intuisce la novità, di conseguenza la sua responsabilità e il suo compito, si consuma in sette anni, dal 1514 al 1521, anno della bolla di scomunica definitiva di Lutero. In questi sette anni, la Riforma prende sostanzialmente corpo nel cuore e nella mente di Lutero, e incomincia la sua straordinaria avventura nella società; la Riforma protestante è stata infatti un'avventura velocissima e straordinaria, accompagnata da un successo imprevedibile, dovuto al suo raccogliere alcune tensioni caratteristiche dell'epoca. La Riforma protestante è un ripensamento radicale della fede, è una rottura. Non è una riforma del dato o della tradizione, che pure Lutero aveva ricevuto; è un ripensamento totale. Questo è essenziale non solo per comprendere il passato, ma anche per comprendere la condizione e la situazione in cui viviamo.
Lutero è espressione della cultura ecclesiastica del suo tempo: ha studiato teologia scolastica ed è entrato nell'ordine degli Agostiniani. E inutile discutere sulla verità o meno della sua vocazione, che pare legata a un voto pronunciato in un momento di grandissimo spavento, perché è inutile giudicare le vicende di un uomo a partire da queste circostanze. Lutero ha studiato una teologia scolastica nella quale certamente è prevalso l'aspetto nominalistico, della pura discussione, della pura critica, della pura dialettica. La fede, nella teologia nominalistica, è più lo spunto per una serie di problematizzazioni infinite sui campi fondamentali dei dogmi e della morale, che non il tentativo amoroso di incrementare la conoscenza dell'avvenimento di Cristo. Accanto a questa formazione nominalistica, egli ha vissuto un'adesione alla Chiesa, e in particolare al suo ordine, di tipo evidentemente moralistico e volontaristico. Si tratta dunque di una concezione e di una prassi ecclesiale tese fra la visione problematica della fede e il tentativo di appropriarsi della fede stessa, e di attuarla in termini di volontarietà e di adulazione. Per la tradizione cattolica che lo precede, invece, la religiosità è l'esperienza dell'incontro con l'avvenimento di Cristo, da cui l'uomo - tutto l'uomo - viene sostanzialmente cambiato nella sua intelligenza e volontà, redento, chiamato a partecipare della vita nuova di Cristo.

Lutero è diventato maestro di teologia, ed è anche, per breve tempo, chiamato ad assumere responsabilità di primissimo piano nel suo Ordine, ma è profondamente insoddisfatto della sua esperienza di fede, della sua formazione.

La religiosità, con Lutero, tende a diventare un momento dell'esperienza affettiva, un vissuto sentimentale. L'uomo comincia a essere come separato: da una parte la ragione, che non può conoscere la fede (la fede non si conosce, la fede si sente, si prova), dall'altra una fede che ha alla sua base una domanda che non è quella totalizzante («Qual è il senso della vita? qual è il significato ultimo dell'esistenza? come Cristo è il significato della vita?»). La domanda che muove Lutero è invece una domanda di liberazione dall'angoscia; i sentimenti che Lutero prova per sé sono l'angoscia irresistibile per il proprio peccato e, insieme, la paura dell'ira di Dio. «Non ho mai pensato a Cristo come a un Dio misericordioso», confidava in uno dei suoi ultimi discorsi a tavola (i punti in cui si coglie di più il sentimento vero di Lutero sono quell'insieme di volumi che sono stati pubblicati come ‘Discorsi a tavola', cioè i discorsi che faceva con i suoi più stretti collaboratori e amici durante i pranzi e le cene).

Legando l'esperienza religiosa al sentimento, Lutero ha compiuto una restrizione della religione dalla totalità dell'uomo all'aspetto affettivo e sentimentale, restrizione di cui noi portiamo ancora le conseguenze, tanto è vero che diciamo «non lo sento più, quindi non è vero». La religiosità, per Lutero, è la liberazione dall'angoscia: un'angoscia che è caratterizzata dalla paura della morte, dalla coscienza del peccato, collegato all'inesorabile ira di Dio. A un tale uomo, appare giustamente inadeguato qualsiasi tentativo di trovare la salvezza con le proprie mani, con le proprie opere, facendo qualche cosa che possa avere valore davanti a Dio, perché (e in questo Lutero è veramente cattolico) di fronte a Dio non c'è niente che possa valere, che possa meritare. La religiosità è per lui un'esperienza in un senso soggettivistico, individualistico: è un vissuto personale, essenzialmente incomunicabile.

Nel 1514, in un momento ben determinato della sua vita religiosa, egli fa la sua esperienza determinante (quello che, nella sua biografia e quindi nella storia della Riforma, va sotto il nome di «esperienza della torre», perché è avvenuta mentre egli studiava la Sacra Scrittura in una torre del convento): la percezione immediata ed istintiva che Dio aveva avuto misericordia di lui, che Dio lo aveva salvato. Egli formulerà allora il concetto di iustitia Dei passiva: io sono oggetto passivo di un atto, di un'azione che ha assolutamente travolto, cambiato, trasformato i termini obiettivi della mia esperienza. Solo Cristo, solo la fede in Lui: è solo la fede che salva, non le opere.

Questa intuizione di Lutero è assolutamente cattolica, ma il modo con cui si determinerà è quanto di più lontano dal cattolicesimo si possa pensare: questo è il dramma di Lutero. Cristo è una grazia assoluta: di fronte a Lui non c'è niente da fare se non abbandonarsi totalmente, incondizionatamente alla certezza che solo la sua presenza salva l'uomo, perché solo nella sua presenza si rivela il volto misericordioso di Dio. Dio non è più il giudice che punisce i peccati che violano i comandamenti, Dio non è più il giudice che rivela la sproporzione fra la legge di cui Egli è il supremo legislatore e l'esperienza dell'uomo; Cristo è il Dio che ha misericordia. In senso sostanziale, quest'esperienza della torre porta Lutero alle radici del cattolicesimo, ma siccome l'uomo che ha questa intuizione è ormai strutturato in modo non cattolico (anzitutto perché è diviso fra sentimento e ragione, per cui la fede è soltanto un dato di tipo affettivo, in secondo luogo perché pensa al cristiano anzitutto come individuo singolo, non come persona che vive dentro un popolo), tutto lo sviluppo di questa intuizione cattolica si formulerà in termini sostanzialmente non cattolici.

Lutero, nel folto di un momento di gravissima crisi del mondo cattolico, ha percepito l'assoluta novità del fatto cristiano, ma è stato quasi costretto, forse al di là delle sue immediate intenzioni, a formulare la sua percezione in modo tale che successivamente il suo discorso e la sua prassi hanno rappresentato il più grande attacco alla realtà del cattolicesimo del mondo moderno. Lutero ha giudicato la fede a partire da qualche cosa che ormai non era più possibile mettere in discussione: la separazione fra sentimento e ragione, l'assoluta negatività dell'esperienza dell'uomo, e infine l'individualismo, per cui l'uomo è immediatamente al centro del mondo e della storia (Cfr. J. MARITAIN, I tre riformatori, Morcelliana, Brescia 1976), e si appropria di tutto.


2. Lo sviluppo delle intuizioni di Lutero ed il contesto storico

La riforma è un'intuizione cattolica che si flette in modo non cattolico: anzi, più radicalmente, in modo totalmente ostile e alternativo al cattolicesimo. Per questo non è una riforma: se fosse stata l'intuizione della radicalità della grazia e il richiamo, per gli uomini di Chiesa del suo tempo, alla priorità della grazia, avrebbe potuto determinarsi un movimento di riforma come quelli che di secolo in secolo hanno percorso, animato e rigenerato la vita della Chiesa. Invece, quest'intuizione cattolica si è formata e determinata in senso decisamente avverso al cattolicesimo.

Sui papi che hanno avuto a che fare con Lutero (Leone X, Adriano VI e poi Clemente VII), possiamo dire tutto quello che, giustamente, la storiografia ha detto sul modo - certo non straordinariamente coerente - con cui vivevano la loro fede cristiana a livello di vita morale, ma non possiamo dire che non hanno avuto un'intuizione chiarissima di ciò che era in questione: era in questione l'esistenza stessa del cattolicesimo! Quando, nei primi mesi del 1515, fu mandato in Germania un nunzio, un funzionario altissimo della Curia, per occuparsi di queste questioni, gli fu detto «Vai a sistemare questo beghinaggio di frati», ma in pochi mesi apparve ben chiaro all'autorità suprema della Chiesa che quello che era in questione era invece qualcosa di essenziale.

Il corso della vicenda di Lutero è tale che questa originalità, questa profonda originalità cattolica, viene non solo corrotta, ma si rivolta: questo avviene all'interno delle circostanze storiche concrete in cui la Riforma viene a galla e si formula nei suoi termini essenziali. È il cosiddetto problema delle indulgenze.
Lutero certamente non affisse le tesi (come invece sostiene una certa apologetica protestante), ma intervenne pesantemente sulla teoria e sulla prassi delle indulgenze. Cos'è l'indulgenza? È la possibilità di partecipare a tutto il tesoro di santità della Chiesa, della Chiesa Trionfante - la Chiesa dei Santi - e quindi la possibilità di far diventare positiva la propria vita, attraverso una serie di pratiche di pietà e di elemosine. Periodicamente, venivano lanciate queste indulgenze che, non c'è nessuna vergogna a riconoscerlo, di solito si legavano a obiettive necessità di carattere economico, per esempio al bandire una crociata o alla ristrutturazione di luoghi santi. Una delle più grosse indulgenze, quella che fece nascere l'idea dell'anno santo, era legata al desiderio di Paolo V di ristrutturare completamente la basilica di S. Pietro, per darle la forma che possiede tuttora.

In Germania, in quel momento (1515-16), la circostanza è assolutamente insolita: Alberto, che è già arcivescovo di Magdeburgo e di Albestratten, due grosse e importanti città della Germania, viene chiamato dal capitolo della città di Magonza (il capitolo eleggeva il vescovo) a diventare arcivescovo di Magonza. L'arcivescovo di Magonza era uno dei tre elettori ecclesiastici dell'Imperatore; l'Imperatore del Sacro Romano Impero infatti era eletto da tre elettori ecclesiastici (gli arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri) e da quattro elettori laici (il conte del Palatino, il duca di Sassonia, il marchese di Brandeburgo e il re di Boemia). Tuttavia, era vietato cumulare le cariche arcivescovili: non si poteva essere, nonostante il lassismo che imperava in quel tempo, arcivescovo di tre diocesi così importanti. Occorreva una deroga alla disciplina, deroga che la Chiesa di Roma concesse: Alberto avrebbe potuto diventare arcivescovo di Magonza pagando alla Curia romana 24.000 scellini d'oro. Per questa esazione, era autorizzato a prendere la metà di quello che sarebbe stato raccolto dalla predicazione delle indulgenze nel territorio tedesco.

Ciò era già avvenuto decine di volte prima, e sarebbe avvenuto anche dopo, ma Lutero reagisce immediatamente, attaccando le indulgenze perché non ritiene assolutamente legittima, dal punto di vista teologico, la continuità Cristo-Chiesa. Quello che non può accettare è la concezione sacramentale della Chiesa, il fatto che il mistero di Cristo che mi salva (che secondo Lutero mi arriva attraverso una illuminazione di carattere psicologico e affettivo: «mi sento salvato»), avviene in un luogo oggettivo. Per la dottrina cattolica, Cristo mi raggiunge attraverso la comunità visibile guidata autorevolmente, attraverso l'organismo dei sacramenti, dentro un concreto contesto. A partire dal concetto di Chiesa come sacramento, la dottrina delle indulgenze sta in piedi; se invece si assume un concetto di Chiesa di tipo prevalentemente giuridico, se ne vedono soltanto gli aspetti per cui si tratta di un modo di far denaro.

L'intervento contro le indulgenze (uno scritto del 1516), mette in evidenza che Lutero non crede già più alla Chiesa. La Chiesa di Lutero non è dalla parte di Cristo, ma da quella degli uomini: essa vive tutta e solo là dove è proclamata la Parola e dove ci sono uomini che fanno l'esperienza di essere salvati. È dunque una Chiesa totalmente invisibile e spirituale. La Chiesa visibile è certamente qualcosa che non si giustifica dal punto di vista di Cristo o dei Vangeli.

Incomincia in questo periodo, da parte di Lutero, una discussione radicale sulla realtà della Chiesa, sulla sua necessità, sui poteri e sulle responsabilità effettive del Papa, sul valore dei Sacramenti. Questi ultimi vengono, nel giro di qualche tempo, totalmente azzerati: rimane soltanto il Battesimo, perché la stessa Eucarestia viene ridotta a cena, a un semplice ricordo. Comincia ad affermarsi un senso del tutto soggettivo degli avvenimenti di Cristo: non è necessaria la continuazione di Cristo, perché l'esperienza di Cristo, oggi, è legata all'illuminazione che il suo Spirito fa al mio sentimento. Non è necessario nient'altro, anzi, al di fuori di questo si sono realizzate tutte le condizioni per le quali questa esperienza originale purissima fosse adulterata. Il Papa, fin da questi tempi, viene da Lutero identificato con l'Anticristo; la Chiesa di Roma con la sinagoga di Belzebù, la struttura ecclesiastica con quello che Lutero nominerà infinite volte, i preti di Baal. Non è necessaria la Chiesa perché Cristo sta tutto ed esclusivamente nell'illuminazione particolare, individualistica, ultimamente incomunicabile, che fa di sé a un uomo.
È qui che il cattolicesimo viene sostanzialmente rifiutato: la forza del cattolicesimo è di affermare la possibilità di un continuo incontro fra l'oggetto, l'avvenimento di Cristo, e il soggetto, la persona del fedele. La fede è questo incontro obiettivo e continuo, è una sintesi vitale e esistenziale. L'avvenimento sta nella sua oggettività dentro il mistero della Chiesa, sta nella parola così come è proclamata, sta nel sacramento così come è obiettivamente celebrato, sta nella vita concreta della comunità e nella sua vita di carità così come è obiettivamente guidata. Questo avvenimento oggettivo deve essere soggettivato, ovvero assunto personalmente: la Chiesa sta come maestra, comunica l'oggetto ed educa il soggetto a prendere sul serio l'oggetto.

Per Lutero questo non è vero: invece, tutto è determinato dal soggetto che, stando in sé e per sé, deve realizzare il suo rapporto con Dio e con Cristo in modo assolutamente soggettivo. Per realizzare quest'azione, totalmente soggettiva, basta la Scrittura: la Scrittura è lo strumento che Dio ha fissato per sempre come occasione obiettiva ed unica. La Scrittura interessa Lutero non in quanto termine di una esegesi di tipo scientifico, ma come spunto per una emozione, per una commozione.

C'è una conseguenza impressionante di questa riduzione in senso soggettivistico e individualistico della fede. Chi stabilisce che uno è chiamato e uno non è chiamato? Chi stabilisce la differenza abissale tra l'uomo che fa l'esperienza della salvezza nell'intuizione soggettiva di essere salvato dalla Chiesa e l'uomo che non la fa, e che, dunque, non è chiamato? Lutero (e ancor più, dopo di lui, Calvino), è costretto a introdurre nell'immagine stessa di Dio un aspetto assolutamente ripugnante alla coscienza cattolica: è Dio che sceglie totalmente. È questo il tema della predestinazione. Dio, in una massa che è tutta votata alla dannazione, sceglie alcuni, in un modo assolutamente arbitrario. E l'arbitrarietà divina, il protestantesimo radicale giungerà addirittura ad affermare «Dio sceglie chi vuole senza nessuna continuità fra questa sua scelta e l'esperienza dell'uomo». Dio può scegliere i peggiori, gli immorali, quelli che non hanno nessuna predisposizione alla vita della fede. Per il cattolicesimo, invece, c'è una chiamata di tutti alla salvezza nell'avvenimento di Cristo proclamato, la differenza nasce dalla libertà, che risponde o meno. Nel protestantesimo, la differenza è stabilita in modo assolutamente irragionevole da Dio, e infatti è un Dio che è oltre ogni ragione.


3. Le conseguenze

«In definitiva - come scriverà Maritain in un brano straordinariamente lucido, soprattutto se si pensa che è stato scritto agli inizi degli anni '20 - tocca all'uomo operare la propria redenzione, sforzandosi a una sconfinata fiducia in Cristo. La natura umana non avrà che da rigettare, come un vano accessorio teologico, il mantello della grazia che non è nulla per lei, e riportare sopra se stessa la sua fede e fiducia, per divenire quella bella belva affrancata che il nostro secolo ha conosciuto». Maritain indica così nel protestantesimo una delle radici delle grandi ideologie totalitarie del mondo, perché si tratta di un'esperienza assolutamente individuale in cui il soggetto umano prende spunto da Cristo per una emozione di tipo affettivo, sentimentale, psicologico. La salvezza è questa, la Chiesa è qui: il resto disturba e corrompe. In questo senso, è un'ideologia totalitaria.

Questa svolta ha alcune conseguenze rilevanti, sul piano storico. Innanzitutto il disprezzo obiettivo della Chiesa nei suoi termini liturgici, sacramentali, canonici, giuridici di vita ecclesiastica e, in secondo luogo, il radicalismo luterano (che era oltre le stesse intenzioni di Lutero): questi fattori congiunti distrussero immediatamente la vita religiosa, per cui ci fu, così, l'abolizione dei conventi, l'irrisione pubblica di coloro che avevano fatto i voti, l'equiparazione del laicato al clero, la distinzione dalla vita ecclesiale con delle conseguenze di carattere morale per la vita delle comunità sociali e civili di allora impressionanti. La fede, questa esperienza assolutamente individuale e personale, nessuno la vede, nessuno la può giudicare. Ma poiché essa tende a diventare avvenimento sociale, quella realtà che si era buttata fuori dalla porta in modo esplicito (la realtà giuridica e temporale della Chiesa), si riforma, ma non su base sacramentale, bensì su base politica, tanto che ne diventano subito responsabili i capi dei nuovi Stati territoriali: i prìncipi.

Tutto questo succede perché la Riforma protestante incontra una esigenza storica assolutamente evidente: la trasformazione in atto nella vita sociale e politica della Germania. L'Impero, in Germania, è in crisi, e a questa crisi sta seguendo il crearsi di Stati territoriali, centrati intorno al principe che esercita il suo dominio su un determinato territorio. Per incrementare questa nascente forma politica (che nel resto dell'Europa darà luogo agli Stati nazionali), occorreva un collante religioso: i prìncipi capiscono che Lutero dava loro in mano uno strumento formidabile di dominio delle coscienze. Prima del 1520 - cioè prima della scomunica - Lutero scrisse una lettera ai principi della nazione tedesca, con la quale affidava loro la custodia della Chiesa. Evidentemente, sarebbe stato in contraddizione con se stesso se avesse affidato ai principi la custodia della Chiesa spirituale, perché la Chiesa spirituale non è custodibile da nessuno; essa fiorisce nel mio cuore nel contatto della mia fede con il mistero di Cristo. Invece, consegnava ai principi della nazione tedesca la struttura giuridica, canonica, educativa e morale. Deriva da ciò un altro particolare che qualifica questa Riforma: è una riforma tedesca, ovvero una riforma in cui lo spirito, la mentalità, le circostanze di un certo popolo, o meglio di una serie di popoli, trovano la loro accoglienza e la loro valorizzazione. La Messa è tedesca, non soltanto perché è detta in tedesco, ma perché è riformulata secondo un'immagine e una fisionomia tipiche della mentalità tedesca.

La Chiesa continua come struttura giuridica e come struttura pedagogica, ed è affidata all'autorità politica. La religione, da problema di coscienza, diventa struttura del regno. Il protestantesimo è responsabile di questa trasformazione della dimensione religiosa (e, quindi, dell'appartenenza al mistero di Cristo), da fatto eminentemente personale a fatto giuridico-sociale. La dottrina cuius regio, eius et religio comincia con Lutero ancora vivente, e la Ginevra calvinista diventa una cittadella in cui i riformatori religiosi sono allo stesso tempo i capi della vita politica.

Dunque, la prima conseguenza è che la Chiesa, distrutta sul piano sacramentale, continua sul piano giuridico, pedagogico e amministrativo, affidato al potere politico.

La seconda è già dentro questa prima: il protestantesimo accetta, senza porre nessuna condizione, l'assolutismo politico dell'età moderna. Che la dimensione politica sia la dimensione totalizzante e che chi detiene il potere dello Stato sia quindi in qualche modo il punto di riferimento definitivo per la vita concreta e storica, non è in discussione, perché la fede non c'entra con la vita concreta e storica, non ha niente da dire sulla struttura politica dello Stato territoriale del principe elettore. Federico il Saggio - che è il grande sponsor di Lutero - non ha niente da dire neanche sulla struttura dello Stato. La fede, come giudizio di carattere logico, potrà protestare eticamente, ma non si traggono dall'appartenenza ad essa criteri e categorie per giudicare il presente, per giudicare la storia. Per questo Karl Barth ha stupito, ma solo coloro che non avevano capito niente di protestantesimo, quando trent'anni fa scrisse ad un pastore della Chiesa protestante dell'Europa orientale: «Non preoccuparti: Stalin e Hitler per noi non esistono, non sono niente, non abbiamo niente da dire». Il protestantesimo è puramente escatologico: quindi, il mondo e la storia devono essere vissuti e giudicati con le categorie del mondo e della ragione. La ragione per sua natura non ha alcun rapporto con la fede, ma solo con l'uomo e con la società che esiste fra gli uomini. Il protestante è impegnato con tutti gli altri uomini utilizza categorie umane e sociali come se non avesse la fede. Il protestantesimo non solo ha assistito, ma ha addiritura favorito la nascita dello Stato moderno come Stato assoluto, mettendosi al servizio di questo Stato non come avvenimento di fede ma come struttura ecclesiastica. Non ha servito l'assolutismo in quanto esperienza di fede (perché essa è assolutamente personale e quindi unica e incomunicabile), ma in quanto struttura liturgica, pedagogica, culturale, in quanto vita associata, congregazione. La congregazione dei fedeli vive dentro il mondo assolutistico moderno, non lo disturba e non ne è disturbata.

L'ultima conseguenza riguarda il rapporto fra il protestantesimo e il capitalismo. L'Europa su cui la Riforma attecchisce è un'Europa che sta facendo un sostanziale passo verso una trasformazione di carattere economico. La classe dei signori territoriali ha dietro di sè un'altra classe emergente: la classe borghese, la classe mercantile che sta avviando il passaggio dall'Europa agricola all'Europa industriale. La logica del profitto, la logica del capitale, era stata per secoli imbrigliata dalle regole e dalle preoccupazioni di carattere etico-religioso del cattolicesimo. Il protestantesimo tace su questo punto: se l'economia ha una sua logica, bisogna viverla secondo questa logica: se il profitto ha una sua giustificazione di carattere razionale e scientifico, è impossibile mutuare dall'esperienza della fede ragioni contro questa. Senza l'avvallo esplicito del protestantesimo, il capitalismo non si sarebbe mai affermato in Europa: questo non lo dice la storiografia cattolica, ma quella protestante. Il Troeltsch e il Tawney hanno studiato in maniera molto acuta le connivenze teoriche e pratiche del protestantesimo col capitalismo.


4. Conclusione

Uno schema riassuntivo può dare un'immagine sufficientemente chiara di tutto quanto fin qui evidenziato.
Nel cattolicesimo, c'è Cristo in rapporto con l'uomo: in partenza non c'è il problema, ma l'avvenimento. Il singolo si trova di fronte a quest'avvenimento che gli è proclamato, e deve prendere posizione. Questo è lo schema, la struttura di fondo dell'uomo cattolico, e ha due esplicitazioni fondamentali: una che riguarda Dio, e una che riguarda l'uomo. Cristo mette l'uomo in condizione di conoscere Dio - questo è tutto il campo della teologia come conoscenza di Dio - ma lo mette anche in grado di conoscere veramente se stesso - l'antropologia, il discorso sull'uomo, secondo quello che Giovanni Paolo II tante volte in questi anni ha detto: «Cristo rivela all'uomo tutta la verità su di lui» -.

La rivelazione dell'uomo a se stesso è il potenziamento della sua ragione e della sua volontà: la fede illumina la ragione e la lancia nell'impresa della conoscenza, illumina e potenzia la volontà e la lancia nell'impresa della costruttività morale e sociale. L'università medioevale è l'esempio più sintetico di tutto ciò: università significa che c'è un verso solo, un solo senso della realtà, e questo senso unitario, posseduto, diventa la chiave di lettura di tutto lo scibile. L'uomo cattolico vive dentro un avvenimento, ne prende coscienza e quest'avvenimento lo cambia, potenziando la sua capacità di conoscere e di amare, rendendolo protagonista del sapere e dell'amore.

Questo schema finisce con Lutero. Al centro c'è l'uomo, l'individuo, non in quanto capacità di rapporto, ma in quanto sente il problema della sua vita col sentimento. Con il sentimento va verso Dio, un Dio non conoscibile, non categorizzabile, un Dio che al massimo - esperienza della torre - gli fa sentire in modo invincibile che egli è salvo. È un dato puramente sentimentale, dal quale la ragione è esclusa, perché essa ha sempre corrotto la Chiesa, discutendo e problematizzando senza però mai irrobustire la fede. L'uomo è realmente separato in sé: da una parte, il sentimento, con cui sente l'angoscia della vita e cerca un Dio che possa liberarlo dal male; dall'altra, la ragione, impotente a cercare Dio, ma potentissima per risolvere i problemi della vita. È una ragione scientifica, è una ragione matematica, è una ragione economica, artistica, politica, organizzativa. L'uomo organizza quindi la conoscenza e la società in termini assolutamente razionali: la società è assolutista e capitalista perché la ragione del suo tempo gli dice che l'assolutismo è una società più razionale di quella precedente e che il capitalismo è un'economia più razionale di quella precedente. Successivamente, diventerà liberale, perché il liberalismo è un'economia più intelligente, e così via. La ragione, che è impotente per la conoscenza del Mistero, è però potentissima sulla realtà. Scientia ab potentia, diceva Bacone, in questo antesignano della modernità: la scienza serve per aver potere nel mondo.
Questo dunque è lo schema moderno (i programmi delle scuole sono ancora strutturati così!): il protestantesimo è la religione che fa riferimento a Cristo, per quelli che hanno il problema dell'angoscia della vita. Se nascesse della gente - Rousseau, Cartesio - con una concezione ottimista, che invece di dire che noi siamo per natura peccatori e meritevoli d'ira, dicesse che siamo per natura buoni, il protestantesimo avrebbe meno spazio. Se l'incremento della ragione dimostrerà poi che questi problemi sono di origine psicologica o addirittura neurologica, si faranno dei manicomi di Stato per liberare gli uomini dalla religione.

Da questo nasce ora una grande domanda: venendo meno il mondo moderno, come di fatto è venuto meno, il protestantesimo ha ancora una ragione d'essere? L'avvenimento di Cristo non si lega a nessun tempo e a nessuna storia: il cattolicesimo giudica l'uomo, lo rivela a se stesso. L'uomo non può giudicare il cattolicesimo. Per Lutero, invece, ciò che è indiscutibile è questo tipo di uomo, la divisione di questo uomo tra sentimento e ragione, e infine l'incomunicabilità dell'esperienza religiosa, per sua natura individuale. Quando questo tipo d'uomo venisse meno, finirebbe in qualche modo l'esperienza della fede protestante.
Il passaggio che avviene con Lutero è davvero epocale: quando si dice Sola Fide, si dice ancora una cosa cattolica; quando si dice Sola Scriptura, è già avvenuto il rovesciamento. Distruggendo il corpo di Cristo, che è la Chiesa e tutto quanto vi è connesso, si distrugge l'esperienza stessa del cattolicesimo, che sopravvive depotenziato, come Chiesa di Stato, una Chiesa che non discute l'assolutismo e il capitalismo, e che quindi in qualche modo diventa la giustificazione religiosa della modernità. Mentre la Chiesa cattolica ha continuato la sua battaglia contro la modernità, dimostrando in tutti i suoi interventi che la modernità non salva l'uomo, il protestantesimo ha accettato di essere l'avvallo ecclesiastico di un uomo, che, però, se è moderno fino in fondo, non può, presto o tardi, non diventare ateo. Contro l'ateismo, il protestantesimo non ha ragioni, perché la fede non ha ragioni, e dunque non ha la possibilità di giudicare nulla, non è capace di creare nessuna alternativa alla situazione attuale, che viene sempre giustificata. Dice benissimo Lutero in un passaggio del suo libretto liturgico ‘La Messa della nazione tedesca': «Noi non siamo coloro che hanno già piantato i piedi nella Gerusalemme celeste, siamo coloro a cui si deve ricordare cosa è accaduto a Isaia, a Davide, a Gesù Cristo, ai Santi».

Il protestantesimo non è un evento in cui l'uomo entra e viene cambiato, ma solo uno spunto per una mozione individualistica, che lascia però assolutamente incapaci di giudizio e ultimamente impotenti di fronte al mondo.



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Caterina63
00domenica 28 giugno 2009 10:16
l'influenza PROTESTANTE subentrata nella dottrina Cattolica...

il grande dom Prosper Guéranger  ha scritto:

L'eresia antiliturgica e la riforma protestante del XVI secolo considerata nei suoi rapporti con la liturgia
 
in Institutions liturgiques, I², Paris, 1878, pp. 388-407. Traduzione italiana di Fabio Marino, pubblicata in "Civitas Christiana", Verona n. 7-9, 1997, 13-23.

leggiamo:

10° Odio verso Roma e le sue leggi

Come era necessaria al protestantesimo una regola per discernere tra le istituzioni papiste quelle che potevano essere più ostili al suo principio, esso ha dovuto scavare nelle fondamenta dell'edificio cattolico, e trovare la pietra fondamentale che lo sostiene tutto. Il suo istinto gli ha fatto scoprire innanzi tutto il dogma inconciliabile con ogni innovazione: la potestà papale.

Quando Lutero scrisse sulla sua bandiera: odio verso Roma e le sue leggi, non faceva che proclamare ancora una volta il grande principio di tutte le branche della setta antiliturgica.

Quindi ha dovuto abrogare in massa il culto e le cerimonie, come l'idolatria di Roma; la lingua latina, l'ufficio divino, il calendario, il breviario, tutte abominazioni della grande meretrice di Babilonia. Il romano pontefice pesa sulla ragione con i suoi dogmi, pesa sui sensi con le sue pratiche rituali: bisogna dunque proclamare che i suoi dogmi non sono che bestemmia ed errore, e le sue osservanze liturgiche soltanto un mezzo per fondare più fortemente un dominio usurpato e tirannico.

È per questo motivo che, nelle sue litanie emancipate, la chiesa luterana continua a cantare ingenuamente: "Dal furore omicida, dalla calunnia, dalla rabbia e dalla ferocia del turco e del papa, liberaci o Signore" [17].  Scioccato  Occhi al cielo

È questo il luogo per richiamare le ammirabili considerazioni di Joseph de Maistre, nel suo libro Du Pape, ove mostra con tanta sagacia e profondità, che nonostante le dissonanze che dovrebbero separare le une dalle altre le diverse sette separate, vi è una qualità nella quale si uniscono tutte, che è la "non romanità". Immaginate una qualunque innovazione, sia in materia di dogma sia in materia di disciplina, e vedete se è possibile realizzarla senza incorrere, volenti o nolenti, nella nota di "non romano", o se volete in quella di "meno romano", se si manca di audacia. Resta da sapere quale pace potrà trovare un cattolico nella prima, o anche nella seconda di queste situazioni.

[17] Lutherisches Gesangbuch, Leipzig, 667.

*******************************

mi chiedo come mai nessun "ecumenico" abbia richiesto la rimozione di tale idiozia in forma di preghiera.....e se l'hanno tolta come mai non se ne parla in ambienti "ecumenici"?
Rammentiamo tutti gli attacchi che la Chiesa ha subito e subisce per le sue preghiere (MAI OFFENSIVE) verso gli altri (inutile nominarli).... fa davvero pensare il silenzio su queste realtà....

e sempre dal testo sopra citato:

11° Distruzione del sacerdozio

L'eresia antiliturgica, per stabilire per sempre il suo regno, aveva bisogno di distruggere in fatto e in diritto il sacerdozio nel cristianesimo, perché sentiva che dove vi è un pontefice vi è un altare, e dove vi è un altare vi è un sacrificio, e quindi un cerimoniale mistico. Dunque dopo aver abolito la qualità di sommo pontefice, bisognava annientare il carattere del vescovo dal quale emana la mistica imposizione delle mani che perpetua la sacra gerarchia.

Di qui un lato presbiterianesimo, che non è che la conseguenza immediata della soppressione del sommo pontificato. Da allora non vi sono più sacerdoti propriamente detti: come farà la semplice elezione, senza consacrazione, a rendere un uomo consacrato? La riforma di Lutero e di Calvino non conosce dunque che ministri di Dio, o degli uomini, come si vedrà. Ma è impossibile fermarsi qui. Scelto, istallato da laici, portando nel tempio la toga di una magistratura bastarda, il ministro non è che un laico investito di funzioni accidentali. Dunque nel protestantesimo non vi sono più altro che laici. E doveva essere così, perché non vi è più liturgia, come non vi è più liturgia perché non vi sono più altro che laici.
 
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 in questo thread:

L'eresia antiliturgica e la riforma protestante del XVI secolo considerata nei suoi rapporti con la liturgia

il capitolo integrale della questione...





Caterina63
00giovedì 27 agosto 2009 18:01

BOLLA «EXSURGE DOMINE» DI LEONE X
CON LA QUALE VIENE MINACCIATO DI SCOMUNICA MARTIN LUTERO
Roma, 1520 giugno 15



    Volume cartaceo, mm. 288x217, ff. 4 (rubricelle) + 330, rilegato in pelle color rosso sbiadito; sul dorso in alto: LEON. X. BULLAR. A.V. AD IX. L. CLXX
    ASV, Reg. Vat., 1160, f. 251r

   Gli anni fra il 1519 e il 1521 furono per il Lutero carismatico «anni d’oro» (Oberman), ricchissimi di pubblicazioni e di discorsi; il frate agostiniano di Erfurt sembra aver raggiunto una «sicurezza ipnotica», conscio e fiero della sua missione di proclamare ad alta voce la verità del Vangelo di Cristo contro l’Anticristo (il papato di Roma), per la genuina e urgente riforma della Chiesa: «Ecclesiam et ecclesiasticos ‑ scriveva nelle Operationes in Psalmos composte in questi anni ‑ oportet reformari». Nel 1520 Lutero pubblica An den christlichen Adel deutscher Nation von des christlichen Standes Besserung (Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca: del miglioramento dello Stato cristiano), in cui nuovamente stigmatizza i mali di Roma e confessa di aver voluto «assalire violentissimamente il papa, come l’Anticristo».

   E in quello stesso anno riprendeva a Roma il processo contro Lutero (iniziato nel 1518 ma sospeso per differenti ragioni inerenti alla politica papale nel 1519). Ormai era decisa la condanna dell’agostiniano, auspicata del resto anche dalle Università di Lovanio e di Colonia. Si formarono tre commissioni per esaminare gli scritti di Lutero, si tennero tre concistori (uno dei quali durò otto ore), e si giunse alla decisione della condanna. La bolla relativa fu letta nel concistoro del 1 giugno 1520 e venne deciso di pubblicarla.

   Il lungo testo della bolla, al quale lavorarono, oltre a Leone X, Giovanni Eck e i cardinali Benedetto Accolti e Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII), si trova, in copia, nel registro di papa Medici relativo soprattutto all’ottavo e nono anno di pontificato (Reg. Vat., 1160, ff. 251r‑259v). Gli originali spediti ebbero cattiva sorte e quasi tutti andarono distrutti; la bolla ricevuta da Lutero, com’è noto, fu da questi bruciata il 10 dicembre 1520 a Wittenberg, insieme ai libri di diritto canonico, segno di una ormai palese ribellione a Roma.

   Con la bolla Exsurge Domine, in cui più volte ricorre il nome di Lutero, Leone X condanna 41 proposizioni o errori, tratti dalle opere del frate sassone, come «vel hereticos, vel falsos, vel scandalosos, vel piarum aurium offensivos, vel simplicium mentium seductivos»; le proposizioni condannate riguardavano la «fides fiduciosa», la giustificazione, la grazia, la gerarchia ecclesiastica, l’efficacia dei sacramenti, il purgatorio, la penitenza, le indulgenze, il peccato originale. Il papa ingiungeva a tutti i fedeli cristiani di non possedere, leggere, difendere o stampare libri di Martin Lutero in cui fossero contenuti tali errori ed esortava piuttosto a bruciarli pubblicamente. Quanto al novatore di Eisleben, per il quale dichiarava il pontefice di essersi molto affaticato (Quod vero ad ipsum Martinum attinet bone Deus! quid praetermisimus, quid non fecimus, quid paterne caritatis omisimus ut eum an huiusmodi erroribus revocaremus?), si annunziava che sarebbe stato scomunicato se entro 60 giorni dalla promulgazione della bolla in suolo tedesco non avesse fatto atto di sottomissione.

   Il documento pontificio presenta una lunga arenga o preambolo (una pagina e mezza del registro), studiata ad effetto per far risaltare l’enorme danno che l’opera di Lutero recava alla Chiesa (dalla riga 1: Leo etc. Ad futuram rei memoriam. Exurge Domine et iudica causam tuam, memor esto improperiorum tuorum, eorum que ab insipientibus fiunt tota die, inclina aurem tuam ad preces nostras, quoniam surrexerunt vulpes quaerentes demolire vineam, cuius tu torcular calcasti solus [... ]). È qui evidente il richiamo ai testi «classici» delle bolle di scomunica, da Innocenzo III in poi, che tuttavia ebbero nell’animo di Lutero l’effetto contrario a quello sperato. Egli infatti, ritorcendo l’accusa, lesse in queste parole, intrise di riferimenti biblici che non potevano sfuggirgli, il grido della Chiesa al suo Signore perché voglia liberarla dall’Anticristo, cioè dal papa di Roma.




e


BOLLA «DECET ROMANUM PONTIFICEM»
LEONE X SCOMUNICA MARTIN LUTERO
Roma, 1521 gennaio 3

    Volume cartaceo, mm. 288x217, ff. 4 (rubricelle) + 330, rilegato in pelle color rosso sbiadito; sul dorso in alto: LEON. X. BULLAR. A.V. AD IX. L. CLXX
   ASV, Reg. Vat., 1160, f. 305r

   Il termine di 60 giorni fissato dalla bolla Exsurge Domine, nei quali Martin Lutero avrebbe dovuto dare segno di sottomissione al papa, scadeva il 27 novembre 1520, dopo che erano state affisse copie della bolla papale alle porte delle cattedrali di Meissen, Merseburg e Brandenburg, e dopo che era giunto nelle mani del frate tedesco l’originale a lui diretto, spregiativamente bruciato. Al pontefice, considerata la decisione del novatore di proseguire sulla strada intrapresa (in suo pravo et damnato proposito obstinatum), non restava che dare effetto alla minaccia chiaramente annunziata nel documento del 15 giugno 1520.

   Il 3 gennaio 1521 veniva pubblicata la bolla Decet Romanum pontificem con cui Lutero era dichiarato formalmente eretico, così come i suoi seguaci e chiunque in futuro avesse accolto o aiutato lo stesso Lutero o i suoi discepoli. Il pontefice riservava a se stesso l’eventuale assoluzione del monaco e comandava a tutti gli arcivescovi, metropoliti, vescovi, Capitoli di cattedrali, canonici nonché ai superiori degli Ordini regolari di combattere l’eresia di Lutero e dei suoi adepti in difesa della fede cattolica. Lo stesso giorno in cui si pubblicava la bolla di scomunica venivano inviati brevi apostolici all’arcivescovo di Magonza Alberto (nominato Inquisitore generale per tutta la Germania) e ai nunzi Caracciolo ed Eck per esortarli, concedendo loro gli opportuni poteri, a combattere e giudicare tutti i luterani ostinati.

   Al contrario della precedente, questa bolla ha un’arenga di tenore squisitamente giuridico, in cui poco spazio è lasciato ai testi biblici (dalla prima riga: Leo episcopus servus servorum Dei. Ad futuram rei memoriam. Decet Romanum pontificem, ex tradita sibi divinitus potestate, poenarum spiritualium et temporalium, pro meritorum diversitate, dispensatorem constitutum, ad reprimendum nefarios conatus perversorum quos noxiae voluntatis adeo depravata captivat intentio, ut, Dei timore postposito, canonicis sanctionibus mandatisque apostolicis neglectis atque contemptis, nova et falsa dogmata excogitare, ac in Ecclesia Dei nefarium scisma inducere [...] contra tales eorumque sequaces acrius insurgere...).

                            1521 condanna a lutero


fonte: ARCHIVIO VATICANO


Caterina63
00martedì 22 settembre 2009 21:00
Il protestantesimo e la vertigine della modernità

Un dedalo dove anche la storia
rischia di smarrirsi



di Roberto Morozzo della Rocca

I cristiani si sono misurati con la modernità, sulla base della loro fede e delle sensibilità delle loro diverse confessioni. Hanno talora subito il mito della modernità, ma lo hanno anche contrastato. Volta a volta si sono adattati alla modernità, l'hanno promossa, rifiutata, dominata, oppure relativizzata delimitandone spazio e significato. Spesso queste differenti attitudini sono state compresenti. Gli approcci sono stati diversi. I protestanti hanno stretto alleanza con la modernità. I cattolici e gli ortodossi vi si sono confrontati con la viva preoccupazione di perdere o di diluire la loro identità.
Dire che il mondo protestante ha teso ad adattarsi alla modernità, è dir poco.

Così Volker Leppin: "Da una religione scaturita dalla protesta contro la Chiesa medievale (...) è nata infine una religione che, secondo la propria intrinseca disposizione, si pone in perfetta sintonia con la moderna società civile incentrata sull'individuo".

I protestanti sono orgogliosi del loro rapporto con la modernità. Sostengono anzi di essere, storicamente, un veicolo della modernità, sin dal XVI secolo. Quasi la modernità nascesse nel 1517 a Wittenberg con le 95 tesi di Lutero. Oppure a Worms nel 1521 (Hier stehe ich, ich kann nicht anders): l'opposizione all'imperatore segnerebbe il passaggio di Lutero da uomo del Medioevo a uomo dell'età moderna.

I contributi del protestantesimo alla modernità andrebbero dall'accento posto sull'individuo, e dunque sul soggettivismo, alla libertà di coscienza e alla separazione tra Stato e Chiesa; dal rigore etico, funzionale allo sviluppo economico, al razionalismo critico e scientifico; dalla tolleranza al liberalismo; dal pluralismo alla democrazia; per giungere infine all'emancipazione femminile, al family planning, alla sensibilità ecologica, alla bioetica d'avanguardia. Max Weber ha sostenuto che il protestantesimo avrebbe "disincantato il mondo", ossia l'avrebbe liberato dal sacro e dal magico che tarpavano il lavoro creativo dell'uomo e lo sviluppo della scienza. Sin dagli inizi, il protestantesimo avrebbe accantonato la Tradizione, espressione del passato, decidendo per un principio permanente di trasformazione in maniera da associarsi ad ogni sviluppo della società civile.

Il risultato di questa attitudine estremamente simpatetica verso il nuovo e il moderno consiste tuttavia in una perdita di identità e rilevanza del protestantesimo stesso. Per citare Jean-Pierre Bastian: "Qui sta il problema del protestantesimo contemporaneo: esso si confonde troppo con il profilo della modernità stessa (...) essendo sin troppo in armonia con la modernità, finisce con l'esserne anche per così dire assorbito".

La specificità religiosa del protestantesimo si perde nella modernità. Se è vero che quest'ultima deve non poco ai valori del protestantesimo, a cominciare dall'accento sulla soggettività e libertà dell'individuo, è pur vero che quegli stessi valori si ritorcono contro le comunità di fede protestanti, erose dalla secolarizzazione, dall'individualismo, dalla frammentazione.

Se in passato il protestantesimo ha promosso e influenzato la modernità, oggi avviene il contrario. È la modernità che s'impone al protestantesimo. La pratica religiosa - credenza in Dio, partecipazione al culto, preghiera personale - è bassa nei Paesi protestanti e nelle Chiese storiche della Riforma.

Democrazia, pari opportunità di genere, diritti dell'alterità etnica e sessuale, sono stati recepiti nelle strutture ecclesiastiche, si direbbe come aspetti precipui e costitutivi della stessa identità religiosa.
Psicologia e sociologia hanno affiancato o riformulato la teologia e la pastorale. I manuali luterani per l'insegnamento della religione nelle scuole tedesche trattano della "famiglia patchwork" e non della famiglia nucleare tradizionale, considerata superata dai tempi. La dimensione comunitaria ha perso pregnanza a vantaggio dell'individualismo consono alla modernità.

Ernesto Galli della Loggia ha scritto: "Il protestantesimo risulta oggi in una grave sofferenza. In pratica, le Chiese protestanti hanno cessato virtualmente di esistere in quasi tutte le loro antiche sedi nazionali, non sono più attrici storiche di qualche efficacia, così come a livello mondiale il protestantesimo ha in pratica cessato di far udire o di far valere una qualunque propria riconoscibile voce (...) È difficile non collegare la progressiva perdita di rilevanza politica, culturale e infine religiosa del protestantesimo nel mondo contemporaneo alla sua sostanziale adesione - che è finita per diventare identificazione pressoché assoluta - con i valori propri di tale mondo".

D'altra parte il mondo protestante, che giustifica la propria crescente frammentazione come un portato del suo storico pluralismo strutturale, è molto variegato ed è segnato da sensibilità talora opposte. Alle spinte marcatamente liberal nei Paesi europei fanno da contrappunto, in altri contesti e continenti, vigorosi movimenti neoprotestanti che si contrappongono in termini radicali, emozionali e comunitari, alla modernità rappresentata da secolarizzazione, razionalismo, scientismo e storicismo.

Si pensi ai movimenti evangelicali, pentecostali, fondamentalisti, che in numerosi Paesi, tra cui gli Stati Uniti, sopravanzano per numero di fedeli e influenza pubblica le Chiese storiche della Riforma e anche quelle nate dai primi "Risvegli". Questi movimenti raccolgono infatti oltre 400 milioni di fedeli in tutto il mondo e continuano a espandersi, quando un secolo fa neppure esistevano. È poi singolare che questi movimenti, nati come reazione alla perdita di identità e rilevanza del protestantesimo "modernista", e dunque nemici della modernità, utilizzino appieno gli strumenti della modernità stessa. Non esitano infatti a immettere le più innovatrici tecnologie della comunicazione nel recinto del sacro e del liturgico, al contrario del protestantesimo liberale più restio alla modernità tecnica e più tradizionale nell'espressione religiosa e liturgica.

Si profila così un protestantesimo su doppio registro, quello storico liberale e quello evangelicale fondamentalista di cui Sébastien Fath ha parlato, forse prematuramente stante la volatilità aggregativa, come del "quarto" cristianesimo vista la sua consistenza numerica. Nel protestantesimo odierno convivono pertanto le tendenze più profane e le più puritane, le più lassiste e le più austere.

Si avrebbero dunque un protestantesimo tradizionale conquistato dalla secolarizzazione - e felice di esserlo - e un neoprotestantesimo invece religiosamente esuberante?

Se si guarda all'ultimo secolo vengono però alla mente tante figure illustri, nel senso della testimonianza cristiana, declinata sovente secondo due tipiche note del protestantesimo, la conoscenza della Bibbia e il rigore etico. Sono figure provenienti non dal neoprotestantesimo ma dal protestantesimo storico: Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Albert Schweitzer, Paul Schneider, Martin Niemöller, Dag Hammarskjöld, Martin Luther King, Roger Schutz, fino ai neomartiri anglicani per la pace della Melanesian Brotherhood. È comunque singolare che la memoria di tali figure sia spesso legata a momenti di crisi o di travagliata trasformazione della modernità stessa.



(©L'Osservatore Romano - 23 settembre 2009)
Caterina63
00giovedì 29 ottobre 2009 12:03
Dopo la bella notizia che abbiamo seguito qui:
I TRADIZIONALISTI ANGLICANI FANNO PACE CON ROMA? SEMBRA DI SI

e che conitnueremo a seguire....non poteva mancare UN ALLUCINANTE AGGRAVAMENTO DELLA POSIZIONE LUTERANA....il che va a confermare quanto è raccolto in questo thread....

Da notare il ridicolo titolo di "papessa" affibbiato dai media alla nonnetta messa a capo della setta luterana (corsivi e commenti miei).

Margot, la Papessa che dice
«Dio? Un’ottima amica»




Per la prima volta dalla riforma di Martin Lutero, i 25 milioni di protestanti tedeschi hanno scelto una Papessa (sic!). Il sinodo delle Chiese evangeliche tedesche (Ekd) ha infatti eletto ieri a Ulm, con una maggioranza impressionante di 132 voti su 142, la cinquantunenne Margot Käßmann (Kaessmann), che era già stata la seconda donna in Germania a essere stata nominata vescovo, nella più grande diocesi del Paese, quella di Hannover. La Papessa succede al vescovo di Berlino Wolfgang Huber, che si ritira per raggiunti limiti di età.

La storica decisione ha portato alla guida dei protestanti tedeschi una donna ostinata, battagliera, polemica, poco diplomatica, ma con un carisma tale da riempire invariabilmente le chiese dove predica e capace di far commuovere fino alle lacrime il suo uditorio. Margot Käßmann è sempre stata un personaggio molto scomodo, presa spesso di mira per le sue posizioni poco convenzionali dalla stampa conservatrice, che non ha esitato a definirla una donna che «può dare spesso sui nervi». Questo suo atteggiamento l’ha confermato anche al momento dell’elezione di Benedetto XVI, quando ha ricordato polemicamente a Bild che «i protestanti sono Papa da sempre», poiché tutte le decisioni vengono prese in modo democratico (anche quelle sbagliate?).

La “papessa” protestante, con un padre metalmeccanico e una madre infermiera, si è conquistata rapidamente le simpatie dell’opinione pubblica tedesca per le sue aperture in campo religioso, in favore soprattutto di un allargamento del sacerdozio delle donne, che formano ormai il 30% dei pastori, ma anche per battaglie sociali in favore del salario minimo. (in questo seguita da molti porporati nostrani, ma proprio niente a favore dei "migranti"?). Colpita da un cancro al seno nel 2006, Margot Käßmann ha combattuto vittoriosamente la sua battaglia della vita, ma ha perso quella per salvare il matrimonio con un pastore protestante come lei, da cui ha avuto quattro figlie, battezzate tutte con nomi biblici come Sarah, le due gemelle Hanna e Lea, e la più piccola Ester, che ha 18 anni e vive ancora con lei.

Quando ha appreso che suo marito Eckard aveva una relazione con un’altra donna, Margot Käßmann non ha esitato a divorziare nel 2007, nel momento più acuto della sua malattia, con il sostegno dell’intera gerarchia ecclesiastica, che l’ha confermata nella sua carica di vescovo. «Dopo 26 anni sono stata privata del dono del matrimonio e ho deciso di divorziare», aveva spiegato in quella circostanza, poiché «volevo vivere in maniera sincera, senza nascondermi dietro un matrimonio di facciata». Recentemente la signora Käßmann non ha escluso la possibilità di risposarsi, «poiché nella Chiesa evangelica questo è possibile, ma al momento non se ne parla, non ho voglia di rituffarmi in un altro rapporto dopo così poco tempo»(frase di una profondità degna di una sedicenne).

Quanto ai rapporti con le figlie, spiega di essere sempre stata vista da loro non come un vescovo, ma come una madre, «costretta a subire continue lamentele, perché secondo loro quando cucino gli spaghetti non faccio abbastanza bene il pesto genovese».

Uno dei suoi desideri più vivi è quello di diventare presto nonna, «eventualità da non escludere, quando si hanno quattro figlie!». Quello che invece non le va giù è la festa di Halloween, contro la cui diffusione in Germania ha protestato ripetutamente, definendola «un esercizio di puro consumismo, espressione della società del divertimento» (frau Käßmann sembra non avere altrettanto cattiva opinione di una bagatella come il divorzio però).

Dotata di un enorme carisma, di un’oratoria brillante e di una bella voce sonora, con cui canta in maniera affascinante i mottetti durante le sue funzioni religiose, Margot Käßmann avrebbe voluto fare la giornalista (la cosa stranamente non mi stupisce), se il destino non l’avesse orientata verso la carriera religiosa dopo una laurea in teologia, mentre si dice per nulla rattristata dal fatto che nessuna delle sue figlie abbia voluto seguire la sua strada. «Penso che avrei fatto volentieri la giornalista - ha spiegato - poiché mi piace molto scrivere e ho sempre voluto cambiare il mondo».

Anche su Dio ha qualche idea poco convenzionale, quando dice che potrebbe essere «un’ottima amica». Sul ruolo delle donne anche ai vertici della Chiesa non ha mai avuto dubbi: nel suo discorso ha definito «un passo verso la normalità», il fatto che «qualunque funzione» all’interno della Chiesa evangelica possa essere ricoperta dalle donne».

Il problema più grosso che il nuovo capo delle Chiese protestanti tedesche deve adesso affrontare è quello della forte emorragia di aderenti. Mentre nel 2007 i fedeli che avevano voltato le spalle alla loro comunità religiosa erano stati 130mila, il loro numero è salito lo scorso anno a 160mila. La ragione principale di queste uscite, favorite dall’aggravarsi delle crisi economica, è dovuta alla possibilità di evitare in questo modo il prelievo dalla busta paga dell’8 per mille.

In cauda venenum:


 Il fenomeno investe però anche la Chiesa cattolica, che nel 2008 ha perso 120mila aderenti, 30mila in più rispetto all’anno precedente.

Zollitsch, dove sei?

Eccolo qua:


Robert Zollitsch, presidente della Conferenza episcopale tedesca. ''Mi rallegro per la grande fiducia espressa dal sinodo con questa decisione'', ha dichiarato mons. Zollitsch, aggiungendo che ''il Consiglio puo' essere certo che con la Sua direzione, nei prossimi sei anni il servizio ecclesiastico verra' svolto in modo fedele, attento, intelligente e competente''. ''Continuiamo insieme a sviluppare i vincoli ecumenici'', ha proseguito, nel menzionare le ''molteplici sfide'' che ''ci attendono come cristiani in una societa' pluralistica''. Il presidente dei vescovi cattolici tedeschi ha invitato Kaesmann '' a continuare, come negli anni passati, a lavorare per il futuro dell'ecumenismo'', puntualizzando che ''e' importante guardare non solo a quanto non e' ancora stato raggiunto, ma specialmente anche ai punti in comune gia' conquistati''.

Mons. Zollitsch si e' detto convinto della prosecuzione del cammino ecumenico anche con la neoeletta, poiche' ''Il nostro cammino come cristiani e' un cammino dell'ecumenismo. E' un cammino che percorriamo insieme'' ed e' ''cio' che i cristiani in Germania si aspettano da noi''.

Lodi all'attività finora svolta da Kaessmann sono state rivolte (..) da Christian Weisner, dirigente del movimento riformista cattolico Wir Sind Kirche, secondo il quale "la elezione odierna (di Kaessmann) a presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica è un nuovo segnale di speranza che presto alle donne siano aperti tutti gli incarichi e le responsabilità nella Chiesa. Per noi cattolici riformisti la speranza è che ciò avvenga presto anche nella Chiesa cattolico-romana".

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FACCIAMO UN PAIO DI RIFLESSIONI:

 Occhi al cielo sottolinerei il costante errore della stampa nel  parlare di SACERDOTI DONNE....

nel protestantesimo luterano di Germania e in altre parti del globo, a differenza del luteranesimo in Svezia che è rimasto l'unico ancorato alla Tradizione nonostante i cambiamenti...questi NON HANNO IL SACERDOZIO i pastori NON sono sacerdoti, non hanno alcuna successione apostolica, non hanno nessuna ordinazione...ergo pastori e pastore sono semplicemente una sorta di "catechisti" superiori...pastori che guidano delle pecore senza alcun mandato...senza alcuna consacrazione, senza alcuna confermazione...

Mi compiaccio del fatto che il marito, pastore, la tradisse dopo averci fatto 4 figli....ci conferma che IL VERO PROBLEMA NON E' IL CELIBATO.... Ghigno

Riguardo al resto che dire? qui parlammo anche del predicatore pastore ATEO che dice che Dio non esiste....questa parla di un DIO AMICA....a breve avremo qualcuno che dirà Gesù era ermafrodito (perdonami Gesù!) ....continuiamo a spacciare IMMAGINI DI DIO pur di NON accettare Gesù VIVO e Vero nella Chiesa...
Ciò che fa piangere è che poi gli uomini si battono per essere liberi, ma in verità ecco che si lasciano schiavizzare da chi sa vendersi meglio....


che tristezza!!!!


a ragione ci ricordava Daniele di oriensforum:

S. Pio X, nel lontano 1907, disse con molta chiarezza che i princìpi del modernismo (oggi diremmo relativismo: non c'è grande differenza), se condotti alle loro logiche conseguenze, non posso avere per risultato che l'ateismo (enciclica Pascendi):

"Ma difatto l'immanenza dei modernisti vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall'uomo in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza inferiamo che Dio e l'uomo sono la stessa cosa; e perciò il panteismo. Finalmente pari è la conseguenza che si trae dalla loro decantata distinzione fra la scienza e la fede. L'oggetto della scienza lo pongono essi nella realtà del conoscibile; quello della fede nella realtà dell'inconoscibile. Orbene l'inconoscibile è tale per la totale mancanza di proporzione fra l'oggetto e la mente. Ma questa mancanza di proporzione, secondo gli stessi modernisti, non potrà mai esser tolta. Dunque l'inconoscibile resterà sempre inconoscibile tanto pel credente quanto pel filosofo. Dunque se si avrà una religione, questa sarà della realtà dell'inconoscibile. La quale realtà perché poi non possa essere l'anima universale del mondo, come l'ammettono taluni razionalisti, noi nol vediamo. Ma basti sin qui per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all'ateismo e alla distruzione di ogni religione. L'errore dei protestanti dié il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l'ateismo".



Caterina63
00mercoledì 10 agosto 2011 09:45

Intervista con lo scrittore Martin Mosebach

Guido Horst
Berlino

Martin Mosebach, di Francoforte, ha cominciato a scrivere dopo aver studiato giurisprudenza nella sua città natale. È da annoverarsi tra i maggiori autori contemporanei della Germania. Cattolico convinto, oltre a comporre sceneggiature e radiodrammi, è noto per i suoi romanzi, reportage e pezzi teatrali. Nel 2007 ha vinto il premio Georg Büchner, il massimo riconoscimento letterario per gli autori di lingua tedesca.

 

Dal medioevo fino alla secolarizzazione nel 1806 in Europa vigeva il “Sacro Romano Impero della Nazione Germanica”. “Sacro”, “romano”, “germanico”, tre epiteti compresenti nello stesso nome. Tutto lascerebbe supporre che i tedeschi non avessero alcun tipo di problema con la Roma dei papi …

 

L’impero romano-germanico, che di fatto era un’unione piuttosto blanda, caratterizzata fondamentalmente da una sorta di fictio iuris, aveva la velleità di essere il regno di tutti i cristiani. Il cattolicesimo si sposò con un’ideologia politica o assunse una veste politica in Germania proprio nel Sacro Impero che, a mo’ di chioccia premurosa che protegge i propri pulcini, cercava di tenere unita sotto la propria ala protettrice la famiglia delle nazioni cristiane. Quante volte questa idea è stata oggetto di scherno! E quanto tristemente si è dimostrata la sua impotenza nel corso della storia! In ogni caso nessuno può negare l’idea che sottese a tale impero. Le idee mostrano la propria vitalità e potenza di plasmare l’immaginazione non tanto con la loro concretizzazione, al contrario la realizzazione spesso infierisce alle idee il colpo mortale. Il fatto che una volta terminata la Seconda Guerra Mondiale tre Cattolici (per due dei quali sono i atto le procedure di beatificazione, ossia Robert Schuman e Alcide de Gasperi) dopo l’ineluttabile secolarizzazione ripresero in mano il sogno del Regno voluto da Carlo Magno e cercarono di riproporlo ad un’opinione pubblica prevalentemente laicista ammantandolo di motivazioni di ordine economico, fu anche quello fu un eco insopprimibile dell’idea del Regno, di un retaggio, tramontato inesorabilmente.

 

 

La vecchia idea del regno è tramontata o fallita. È questa la ragione che ha ingenerato l’avversione dei tedeschi per il cattolicesimo?

 

Per quanto questo ultramontanismo e ipernazionalismo cattolico sia tipico della Germania, altrettanto vero e innegabile è che tale atteggiamento, così diffuso tra i Tedeschi e unico nel suo genere tra le culture europee, presuppone uno stress e logorio che di fatto poi non si è in grado di sostenere. La “Discordia Germaniae” risale ai tempi di Tacito. Sin dal suo primo attimo di esistenza culturale la mia madrepatria, la Germania, fu divisa in sé, tra la colonia romana da un canto e la terra dei Barbari dall’altro. Nell’attimo in cui si prese atto dell’essenza tedesca, di quel popolo civile, anzi del popolo civile per antonomasia, e la si denominò debitamente, già insito in esso vi era il germe della discordia insanabile e dell’odio suicida. Nella storia questa predisposizione si rinnovò di secolo in secolo e venne rifiutata sempre più veementemente e spietatamente. “Vige un’avversione anticattolica” così esordisce un famoso saggio di Carl Schmitt; alla fedeltà a Roma, all’ultramontanismo dei cattolici tedeschi da sempre presso gli altri Tedeschi ha fatto riscontro un odio profondo nei confronti di Roma, un autocompiacimento nazionalista.

 

 

 

 

Come si è manifestato questo odio nei confronti di Roma o piuttosto che ripercussioni ha avuto?

 

La Riforma di Martin Lutero, che ha istituzionalizzato la guerra civile nel mio Paese, la Guerra dei Trent’Anni, la secolarizzazione, il Kulturkampf, il movimento “Los von Rom” (Sganciamoci da Roma), sono le varie tappe di un processo nato a suo tempo, a cui vanno ascritti attacchi sempre più aspri da parte del mondo della scienza e della filosofia alla Chiesa di Roma.

 

 

Ma oggi come oggi si parla di un sentimento antiromano o anticattolico non solo presente presso i Protestanti, bensì addirittura presso i cattolici tedeschi stessi. Come mai?

 

L’aspetto nuovo che caratterizza la situazione odierna è dato dal fatto che nella maggior parte delle Regioni non vi è più un fronte opposto ai partiti cristiani, ai cattolici filo-romani e ai protestati anticattolici, in quanto la stragrande maggioranza dei teologi cattolici e degli esponenti ufficiali, proprio anche tra i laici, sono diventati accaniti oppositori di Roma. Il Cattolicesimo post-conciliare fautore di valori ecumenici condivisi con i Protestanti frattanto si è posto alla testa degli avversatori di Roma; si potrebbe addirittura arrivare a dire che l’ostilità antiromana neocattolica finora è l’unico portato reale del movimento ecumenico post-conciliare. L’ultramontano, un tempo tipico della Germania, ormai è ridotto ad un’esigua minoranza che non ha possibilità di confronto e non gode di alcun sostegno nell’ambito della Chiesa cattolica tedesca e laddove trattasi di un teologo esperto non ha la minima prospettiva.

 

 

Veniamo ora alla visita di Benedetto XVI a settembre. Nella sua lettera ai Vescovi di tutto il mondo dopo il caso Williamson il Papa tedesco ha parlato di “ostilità pronta all’attacco” nei suoi confronti. Perché l’opinione pubblica tedesca è così “ostilmente pronta all’attacco” quando si tratta del proprio Papa?


Un tedesco quale Successore di Pietro è proprio quello che ha fatto scattare il potenziale di aggressione del processo di cui abbiamo parlato poc’anzi. Un Papa tedesco della celebre frazione ultramontana, ritenuta ormai superata, ha smosso le forze antiromane in seno al Cattolicesimo tedesco. La visita del Pontefice in programma per settembre a mio avviso ha un solo precedente (alternativa: parallelismo) storico: la visita di Papa Pio VI all’imperatore Giuseppe II a Vienna per convincere il monarca a non sopprimere tutti i conventi nei domini assurgici. Il tentativo, come noto, fallì, anche se l’imperatore che voleva assoggettare la Chiesa al controllo dell’autorità statale in quell’occasione dovette prendere atto del fatto che non poteva sopraffare il Cattolicesimo scardinandolo dal Papato. Ma la presenza del Papa già di per sé bastò a muovere i cuori del “popolo”, indistintamente della gente di campagna e di città che, con sommo disappunto dell’imperatore, accorse in folte schiere a invocare la benedizione del Vescovo di Roma. È così folle sperare che anche la Chiesa tedesca del XXI secolo, i cui esponenti tanto si adoperano a favore del “dialogo” ominoso per la fondazione di una chiesa Nazionale, rinnovi il ricordo dei suoi antichi sentimenti ultramontani e mostri semplicemente al suo Pastore di voler essere cattolica con il Papa e non contro di lui? O forse Papa Benedetto, che è un grande patriota, dovrà prendere atto del fatto che per un Papa tedesco non vi è terra più estranea e lontana della sua madrepatria?


 

 

Caterina63
00lunedì 29 agosto 2011 00:22

Lutero sconosciuto (nascosto): l’anticipatore della “Soluzione Finale”

ago 9, 2011 by

    

LUTERO SCONOSCIUTO(NASCOSTO):

 

L’ANTICIPATORE DELLA “SOLUZIONE FINALE”

 

L’ANTISEMITA E NON SOLO: “LI BRUCEREI IO STESSO”

 

IL “SILENZIO” DEGLI ULTIMI LUTERANI… ALTRO CHE QUELLO DI PIO XII !

 

 

di Antonio Margheriti Mastino

 

 

QUELLA SUA VECCHIAIA UN PO’ SUINA

 

Ma come fai a non ridere? Stavo leggendo le cronache, diciamolo, un po’ suine degli ultimi anni di Lutero. Soprattutto mi fa ridere che gli scribacchini presenti, con quella loro pignoleria tutta teutonica, annotassero ogni sciocchezza. Oltre che le perle di saggezza che l’eresiarca sempre più raramente perdeva dalla bocca, fra un bicchiere e l’altro, anche, diciamo… le perdite d’aria: dalla bocca certo, e dai restanti orifizi. Ormai anzianotto, ebbe alle calcagna uno scribacchino in particolare, che “catalogava” come un entomologo tutto quanto dicesse (e facesse) l’ex monaco, come fosse un oracolo. E spulciando fra le righe vedi il crescendo degenerativo: andando sempre più avanti dovette prender nota, questo qui pure, più di rutti, peti, e bestemmie “per far dispetto al diavolo”, che non colate di sapienza cristiana. E fra poco ve lo faccio vedere.

Di buona forchetta (e direi, aumentando il suo peso e il suo spirito belluino, di buona “forca”) e di ottimo e abbondante bicchiere, divenne quasi subito obeso. Dice: pure san Tommaso era obeso: sì, è vero, ma dalla nascita quasi, e perchè aveva disfunzioni ghiandolari, pare. Un gruppo di sofisticati gastronomi ha studiato il suo caso e ha stabilito che l’ultima “Dieta” che dovette affrontare, fu quella di Worms, nel 1591, quando, fallito il tentativo di ricucitura con Roma, fu scomunicato e messo al bando dal papa e dell’imperatore. E infatti scrivono i buongustai di professione: “I protestanti sono passati alla storia perché contestavano la vita dispendiosa che si conduceva a Roma, ma Lutero quando si sedeva a tavola non era molto diverso dai suoi avversari. Forse perché aveva trascorso l’infanzia tra i digiuni impostigli dai teutonici genitori, e la giovinezza tra quelli previsti nel convento Agostiniano di Erfurt. Quando Lutero uscì dall’ordine Agostiniano poté dare libero sfogo alla sua ghiottoneria, che pagò con i calcoli renali, la colite e l’ulcera”. 

Dicevo dei “bicchieri”. Un altro dato di colore del Lutero sconosciuto, cioè ad arte “nascosto”. Dipinto dagli anti-papisti come campione di mitezza e ascetismo penitenziale, dimenticarono un solo insignificante particolare: era un maledetto beone. Dice: ma no, era solo sanguigno. Eh no, ragazzi: era ‘mbriaco!… e la penitenza semmai la voleva far fare agli altri. Anche a dar retta agli “scribacchini” del Maestro risulta che, negli ultimi anni, l’alcol sempre più spesso andò prendendo nelle sue giornate il posto dello Spirito.

Annotano gli studiosi di gastronomia di cui sopra: “Al cibo, ma soprattutto alla birra non sapeva resistere”. Si scolava parecchie pinte della bionda bevanda mentre tuonava contro il vizio nazionale dei tedeschi, e a chi gli faceva notare l’incoerenza rispondeva: “Se il buon Dio mi perdona per averlo tradito per vent’anni come monaco cattolico, può perdonarmi anche un bicchierozzo trangugiato”.

 

HITLER: “LUTERO È IL VERO TEDESCO”

 

Siccome la Chiesa è per tutti gli “illuminati” la titolare di ogni nefandezza, corruzione e soprattutto omicidio passato, presente e futuro, e lo è nero su bianco, stranamente solo da inizio ’700 (oralmente lo è dai tempi della Riforma sino a… Chi l’ha Visto?), vediamo un po’ da che fogna sale la predica .

E’ bastata una mediocre commedia teatrale (opera di fantasia fatta filtrare come “opera storica” da certi segreti ma non sconosciuti uffici speciali sovietici messi su per sputtanare 24 ore su 24 la Chiesa cattolica) di un certo Hocchurth, comunista tedesco, per inventare da capo a piedi la frescaccia del “Silenzio” del Vicario. Che per essere “silenzio” ha già fatto troppo casino, a vuoto; e interi libri son stati costruiti su questo vuoto, vuoto che alimenta altro vuoto. Non un solo documento, che non fosse coniato in casa dalla STASI seduta stante, che abbia mai provato quel che insinuavano. Consapevoli della dinamica calunniosa, alla quale le cellule comuniste erano addestrate contro i “nemici del popolo”, e anche ben coscienti della maggiore efficacia e fascino sinistro delle “voci” fatte circolare ad arte senza troppi fronzoli probatori, si sono tenuti a debita distanza di sicurezza dai documenti originali dell’epoca. Che sapevano benissimo avrebbero smontato i loro teoremi: se potettero marciarci sino a tal punto è perché, almeno nei pochi paesi dove non comandavano loro, ancora su moltissimi documenti relativi alla Seconda Guerra, vigeva il segreto di Stato.

Ma questo è un altro discorso.

Scendiamo direttamente nella fogna, fino alle falde. Vi troveremo lì Lutero. Apriamo il tombino e risalendo tiriamoci dietro, turandoci il naso, l’olezzo di questo “arcangelo”.

E tiriamo pure fuori dalla naftalina una domanda che da decenni inutilmente attende d’essere pronunciata.

Signori anti-papisti, seguaci dell’arcangelo Lutero, se ancora esistete, come spiegate la faccenda dell’intera chiesa luterana, con (quasi) tutti i suoi vertici pastorali, che anima e core si schierò con Adolf Hitler? Non v’è nella città dove iniziò l’avventura luterana, nel museo che celebra l’ex agostiniano, anche una foto di un Fuhrer circondato da tutto l’establishment luterano a braccio teso, mentre Hitler proclama Lutero “vero rappresentante dello spirito tedesco”?

Escluso che questa associazione… a delinquere sia stata un puro caso, proviamo a vedere invece da dove nasce. E sorpresa: nasce da Lutero stesso. Lasciamo la parola direttamente all’arcangelo della cosiddetta Riforma.

Ce n’è per gli Ebrei, le donne, il papa, i contadini, gli handicappati, per tutti. Un posseduto da Patzuzu sarebbe stato più prudente. Ma scherzi a parte non è difficile scorgere l’ombra di Lui, il Principe dell’Omicidio, nell’opera e nel furor teutonicus di questo come di altri eresiarchi. Guardacaso quasi sempre di area mitteleuropea.

 

LUTERO CONTRO I CONTADINI: “SCANNATELI TUTTI”

 

Ecco l’edificante campionario del Lutero-pensiero. Non è difficile immaginare perchè piacesse a Hitler.

1 “Io, Lutero, vi dico”: uccidete, straziate, sgozzate, dagli ebrei fino agli storpi, “se potessi lo farei io stesso”. Un incipit che non promette niente di buono.

2 Lutero esortò i prìncipi a uccidere i contadini ribelli: 

<<Ritengo che sia meglio uccidere dei contadini che i principi e i magistrati, poiché i contadini prendono la spada senza l’autorità divina. [...] Il momento è talmente eccezionale che un principe può, spargendo sangue, guadagnarsi il cielo. Perciò cari signori sterminate, scannate, strangolate, e chi ha potere lo usi. Che ognuno pugnali, picchi e strozzi chi può e se morirai, buon per te, perché non potrai trovare una morte più beata. Muori infatti nell’ubbidienza alla parola e all’ordine divino>>.

 

Il risultato dell’intervento dei principi aizzati dallo stesso Lutero contro i contadini ribelli, è da infarto: nella battaglia finale di Frankenhausen fu atrocemente annientato un esercito di 10.000 contadini e cittadini comuni. Ma è solo la punta dell’iceberg: nella lotta campale lasciarono la pelle la bellezza di 100.000 persone, civili soprattutto. “Lasciarono la pelle” è usare un eufemismo: furono arsi vivi, trafitti, torturati, massacrati, accecati.

 

3 Lutero esorta a perseguitare coloro che predicano una fede diversa:

<<Se volessero predicare subito il vangelo puro, anche se fossero angeli o Gabriele che scende dal cielo … Se vogliono predicare, che dimostrino la propria vocazione o il proprio mandante … Se non lo vogliono fare, le autorità consegnino questi uomini al giusto compare, al mastro Hans (il boia) …>>

 

LUTERO FURIOSO ANTISEMITA: CHIEDE LA SOLUZIONE FINALE!

 

4 Lutero calunnia la popolazione ebraica e ne richiede la distruzione:

<<Se potessi lo (il concittadino ebreo) schiaccierei e lo trapasserei con la spada nella mia rabbia… Incendiate le loro sinagoghe o le loro scuole e ciò che non brucia seppellitelo con la terra e ricopritelo di sassi, in modo che nessuno ne possa più vedere una sola pietra o una sola macchia. E lo dovremmo fare in onore di nostro Signore e della cristianità, affinché Dio veda che siamo cristiani… Che si abbattano e si distruggano anche le loro case… Questi fannulloni e saccheggiatori non meritano alcuna grazia e alcuna pietà… Vietate loro di lodare, ringraziare e pregare pubblicamente Dio quando sono vicini a noi e di insegnare, punendoli con la perdita del corpo e della vita …Questi ebrei sono una cosa talmente disperata, malvagia, avvelenata e impossessata dal diavolo che sono stati e sono da 1400 anni la nostra piaga, la nostra pestilenza e la nostra sciagura. Infine, con loro abbiamo veramente il demonio>> (Martin Lutero, Gli ebrei e le loro menzogne, Wittenberg 1543)

Lutero arrivò ad affermare che Mosè, se “fosse stato ancora in vita, avrebbe incendiato lui stesso le scuole e le case degli ebrei”. Questo accadeva mentre nella “Roma dove siede in trono Lucifero”, gli ebrei potevano vivere una vita normale e tranquilla, portando avanti i loro mestieri, dei quali per primo il pontefice ne usufruiva, retribuendoli lautamente. E fra l’altro, il Ghetto famoso non glielo impose nessuno, lo richiesero loro stessi al papa, per “sentirsi più sicuri”, e in più ne chiesero anche la “chiusura” al tramonto: non tanto per difendersi da qualche eventuale improbabile “antisemita” nottambulo, ma piuttosto, essendo gli ebrei spesso banchieri e gioiellieri, per paura di qualche sicuro ladro notturno. Si fossero trovati male e insicuri nella città del papa, se ne sarebbero andati, come erano liberi di fare. Invece rimasero fino alla fine. E anche dopo. Anzi, le loro fortune economiche le dovevano proprio alla clientela prelatizia e cattolica, non di rado al papa stesso, il quale aveva sempre medici personali ebrei. E questo dimostra quanta fiducia ci fosse fra le due parti. Lutero di sarebbe fidato di un medico ebreo? O meglio: quale medico ebreo avrebbe accettato di curare Lutero?

Lutero pretendeva inoltre che agli ebrei venissero sottratti tutti gli scritti religiosi, che essi venissero arrestati, che venisse sottratto loro tutto il denaro e ogni bene e infine inviati ai lavori forzati. Pari pari il programma politico di Hitler e Himmler: la Soluzione Finale! Come si dice: da niente non nasce niente, ma da cosa nasce cosa.

 

LUTERO CONTRO TUTTI (BAMBINI HANDICAPPATI COMPRESI)

 

5 Lutero chiama anche alla “guerra” ed esorta ad “assassinare” gli avversari turchi:

<<… Agitate con gioia i pugni e colpite senza rimorsi, uccidete, saccheggiate e danneggiate fin che volete …>>

6Lutero pretende la morte degli usurai:

<<… se vengono sottoposti al supplizio della ruota e decapitati i briganti e gli assassini, quanto più si dovrebbero arrotare e svenare tutti gli usurai e cacciare, maledire e decapitare tutti gli spilorci…>>

7 Lutero pretende la morte dei coniugi fedifraghi:

Perché non uccidere gli adulteri?”, e la tortura per le prostitute: “Se io fossi il giudice, farei arrotare e svenare una prostituta francese velenosa come quella”. E qui rischia davvero di fare il deserto.

8 Per Lutero le donne che avevano “facoltà magiche” dovevano essere torturate e uccise:

<<Non lasciare in vita le maghe … E’ una legge giusta che debbano essere uccise. … Se non si faranno convertire, le darete al carnefice che le tortura>>.

9 Circa i bambini handicappati Lutero è chiaro:

<<E quando si parla dei bambini che assomigliano al diavolo … sono del parere… che essi siano stati rovinati dal diavolo … o che siano veri diavoli>>

Qualcuno ha notato e scritto, ricordandosi di questo precedente storico, che nel 1940/41 molte persone handicappate che erano state affidate ad apposite istituzioni protestati (per esempio a Neuendettelsau in Baviera) furono da queste consegnate alle autorità statali; proprio perchè si rifacevano espressamente alla dottrina statale di Lutero (ubbidienza alle autorità). “I responsabili sapevano che le persone consegnate sarebbero state tutte uccise”.

10 Infine Lutero avrebbe ucciso, va da sé, anche il papa:

<<Il papa è il diavolo; se potessi uccidere il diavolo, perché non dovrei farlo?>>

Ancora nelle scuole, sui libri di testo, ci insegnano quanto bravo e buono è Lutero, e della sua “civiltà” poi non ne parliamo! E manco a dirlo, di quanto è cattivo, ladro, cruento e pure un po’ zozzone il papa, qualsiasi papa. A qualcuno dei marxisti che compilano testi scolastici fosse mai venuto in mente che tale personaggio è il primo gradino, l’antesignano, l’anticipatore della futura dottrina e pratica nazista? Ma sì, ci avranno pensato di certo: solo che dinanzi al cattolicesimo, per questi marxisti, persino il nazismo è un male minore. Tanto più che all’epoca non ci pensarono due volte a farci un patto e dividersi la Polonia, guardacaso la cattolicissima fra tutte le nazioni.

Conclude in bellezza il “vescovo” luterano della Bavaria, per sua e nostra pace deceduto nel 1999, Hermann von Loewenico: “Vogliamo conservare l’eredità storica e la tradizione luterana quale nostra patria culturale e spirituale”. Auguri e figli maschi! Purchè non handicappati…

 

Caterina63
00sabato 17 settembre 2011 21:22
In Germania buoni rapporti tra cattolici ed evangelici

Un forte segno ecumenico


 

di NIKOLAUS SCHNEIDER
Presidente del consiglio dell'Evangelische Kirche in Deutschland (Ekd)

La Chiesa evangelica in Germania (Evangelische Kirche in Deutschland, Ekd) è un'associazione di 22 diverse Chiese regionali scaturite dalla Riforma di Martin Lutero e di Giovanni Calvino. Oggi ne fanno parte circa 24 milioni di persone.

Una breve introduzione alla storia di queste Chiese deve cominciare con l'osservare che nei primi quattro secoli dopo la Riforma i sovrani protestanti guidavano le loro Chiese. Soltanto a partire dalla prima guerra mondiale sono esistite in Germania Chiese regionali evangeliche autonome, con vescovi evangelici che non erano re né principi. Nel 1918, dopo la sconfitta tedesca nella prima Guerra mondiale, le monarchie in Germania furono abolite. In tal modo ebbe fine il cosiddetto "Regno ecclesiale dei sovrani regionali" e le Chiese dovettero ridefinire il proprio rapporto con lo Stato in Germania.
Nel 1945, dopo la seconda guerra mondiale, fu fondata la Chiesa Evangelica in Germania (Ekd). E tre anni dopo, nel 1948, a Eisenach, in Turingia, ne fu elaborato l'ordinamento. Da allora esiste questo tipo di "Confederazione" per tutte le Chiese regionali evangeliche in Germania.

A partire dal 1945, la Germania venne divisa politicamente. In un primo momento, la Ekd cercò di rappresentare anche le Chiese della Germania orientale dominata dal comunismo, la Repubblica Democratica Tedesca (Ddr).
Questo però risultò sempre più difficile dopo la chiusura dei confini interni tedeschi in seguito all'erezione del Muro di Berlino nel 1961. Nel 1969 fu fondata l'"Unione delle Chiese evangeliche nella Ddr". Un anno dopo la riunificazione statale del 1990, che si deve, non da ultimo, all'impegno dei pastori, uomini e donne, tutte le Chiese tedesche si sono unite sotto il tetto dell'Ekd.
Per evitare qualsiasi malinteso bisogna dire che l'Ekd realizza solo i compiti comunitari a lei affidati senza interferire sull'autonomia delle singole Chiese regionali.

Gli organi direttivi dell'Ekd sono il Sinodo, il Consiglio e la Conferenza ecclesiale.
I membri del Sinodo sono eletti tra i rappresentanti dei sinodi delle varie Chiese regionali e tra alcuni membri scelti. Il Sinodo deve discutere e deliberare sui compiti e sulle questioni affrontate dall'Ekd. Ne fanno parte leggi ecclesiali (per esempio bilancio, protezione dei dati, eccetera), così come progetti del Consiglio e della Conferenza ecclesiale e, con determinati presupposti, anche proposte e richieste. A questo riguardo i membri del Sinodo non sono vincolati ad alcuna disposizione. Secondo l'ordinamento dell'Ekd, il Sinodo consta di 126 membri. 106 vengono eletti dai sinodi delle 22 Chiese membro e 20 dal Consiglio, prendendo in particolare considerazione personalità significative per la vita della Chiesa in generale e per le opere ecclesiali.

Per sei anni fanno parte del Consiglio dell'Ekd 15 membri, laici e teologi, dei quali 14 vengono eletti congiuntamente dal Sinodo e dalla Conferenza ecclesiale. La o il Preside del Sinodo è il quindicesimo membro in virtù del suo ufficio. Fra i membri eletti del Consiglio, il Sinodo e la Conferenza ecclesiale eleggono congiuntamente la o il presidente del Consiglio e il suo sostituto. Dal 2010 io sono il presidente del Consiglio dell'Ekd e Jochen Bohl, Vescovo regionale della Chiesa evangelico-luterana della Sassonia, è il mio vicepresidente.
Come tutti i membri del Consiglio e del Sinodo esercitiamo i nostri incarichi nell'Ekd a titolo onorifico.

Il Consiglio dell'Ekd è l'organo che si riunisce più spesso, di regola ogni mese. In genere, il Sinodo si riunisce soltanto una volta all'anno. Il terzo organo direttivo è la Conferenza ecclesiale. In essa le Chiese regionali con più di due milioni di membri dispongono di due voti. Le altre Chiese possono esprimere un solo voto.

Nella Conferenza ecclesiale e nel suo lavoro trovano espressione la diretta corresponsabilità e l'influenza delle Chiese regionali per il cammino dell'Ekd.
La Conferenza ecclesiale si riunisce di norma quattro volte nel corso dell'anno. Le attività del Sinodo, del Consiglio e della Conferenza vengono realizzate dall'ufficio ecclesiale dell'Ekd con sede a Hannover, ove lavorano circa 180 persone.

Per tutte le Chiese membro in Germania è importante l'opera pubblica dell'Ekd. Il presidente del Consiglio viene considerato il portavoce dei protestanti. L'Ekd si rivolge all'opinione pubblica con scritti ufficiali. Nel 2009 ha richiamato grande attenzione il documento dal titolo "Come una crepa in un alto muro", nel quale, sulla base della crisi dei mercati finanziari mondiali, sono stati analizzati criticamente i presupposti della nostra economia finanziaria. Inoltre, l'Ekd coordina da alcuni anni un processo di riforma intraecclesiale che reagisce alle sfide della secolarizzazione in Germania con provvedimenti e proposte adeguate. Naturalmente l'Ekd per le Chiese è impegnata in prima linea nella preparazione del cinquecentesimo anniversario della Riforma. Dal 2008, rappresentanti dell'Ekd, delle Chiese, dei Länder e del Governo federale collaborano sotto l'egida del presidente del consiglio dell'Ekd nel "Kuratorium Luther 2017".

Un'istanza particolare dell'Ekd è costituita dai buoni rapporti ecumenici con la Chiesa cattolica in Germania. Nel nostro Paese il numero dei protestanti e dei cattolici è all'incirca lo stesso. Questo significa che esistono molti coniugi e famiglie che racchiudono entrambe le confessioni. Le comunità, siano esse cattoliche o evangeliche, devono affrontare molte sfide comuni.

Mi rallegro della visita di Benedetto XVI in Germania e dell'incontro con lui nel convento agostiniano. Speriamo di poter tracciare un forte segno ecumenico, perché il nostro Paese ha bisogno della comune testimonianza di Cristo delle nostre Chiese.



(©L'Osservatore Romano 18 settembre 2011)


Caterina63
00venerdì 13 gennaio 2012 11:43

Il luterano che condannò la Riforma ed esaltò la Controriforma: Gottfried Benn

gen 13, 2012

 

QUEL NICHILISTA LUTERANO

CHE CONDANNÒ LA RIFORMA

ED ESALTÒ LA CONTRORIFORMA:

 

GOTTFRIED BENN

 

 

 

Pare anche di intravvedere persino ciò che resta della Germania “cattolica” di oggi, con tutti i suoi vescovi spostati, i suoi preti “sposati”, i suoi teologi spudorati. Sembra di gettare lo sguardo su alcuni dati del prolisso referto autoptico sull’immenso cadavere morale in avanzata decomposizione della Germania. Morta, a detta di Benn con l’avvento della Riforma, “inizio della fine”. Io ci vedo molti indizi sulle origini di ogni eccesso, deviazione, ribellione decostruttiva e distruttiva di tutto, e di se stessi in primis, propri del cattolicesimo tedesco e propri dello spirito tedesco. Quella Germania che proprio perchè aveva accettato il cattolicesimo si era affrancata dalla barbarie, pur restando barbara nel fondo dell’anima; e che quando, dal cattolicesimo ha abiurato, alla barbarie è sempre tornata. Fosse Hitler, fosse Lutero, fossero i vescovi tedeschi progressisti, fossero i comunisti, fossero -oggi- il liberalradicalismo e la dittatura del politicamente corretto, che sta portando la Germania, avvolta in una strana smania di odio per se stessa e di cupio dissolvi, verso la propria eutanasia. La “dolce morte”, la chiemerebbero quelli divenuti come loro, e cioè più niente. Basta dare un’occhiata alle sue grandi realtà metropolitane: depopolate di tedeschi ripopolate di musulmani, omosessuali, fanatici ecologisti, sbandati d’ogni risma, amanti della morte in ogni caso. Imago mortis essi stessi. Destino e forse castigo divino strani ma non inappropriati per la nazione che sfidando le categorie stabilite da Dio, s’era voluta dire “ariana”, “sopra tutti”: morirà straniera, musulmana, invertita. Il destino di tutti i Faust del mondo, l’esito fatale d’ogni patto col demonio, è questo. L’autodistruzione, la morte e il nulla. Non era dunque nichilista la penna di Benn: è nichilista la realtà che quella penna racconta.

 

 

 

 di  Antonio Margheriti Mastino

 

 

 INTINGERE LA PENNA NEL CADAVERE MORALE TEDESCO

Il giovane medico Benn nel 1912, al tavolo settorio dell'obitorio

Mi torna in mente un vecchio e un po’ dimenticato letterato prussiano. Gottfried Benn. Poeta sui generis, quasi narratore, si può dire narri la poesia, racconti poeticamente. I tormenti cupi, onirici e allucinati dell’epoca che lasciava dissepolta la “inutile carneficina” della Prima Guerra. I cui miasmi infettivi preparavano le folate livide del malarico vento nazista e la Seconda Guerra.

Per la verità, Benn non era solo uno scrittore, ma anche un medico – e medico militare, che vive in prima persona, come sifilopatologo, l’esperienza del fronte. E medico resta a guerra finita. Ed è proprio dentro gli ospedali, nella carne lacerata, nelle viscere sordide della sofferenza, nella putredine dell’immenso obitorio morale della Germania intinge la sua penna espressionista. Penna simbolistica, pesante, scandalosa, onirica, oscena e piena di cadaveri. E di giudizi letali, nel raccontare l’agonia spirituale di una nazione, la tedesca, che “comincia a morire”, a sentir lui, dai tempi della Riforma luterana che essa stessa ha scatenato, rompendo l’unità religiosa del Continente.

E’ proprio lui, figlio di un pastore luterano, a parlarne in termini così tetri e nefasti di quella sua Germania che tutto ci farebbe credere essergli congeniale. E invece no. Ma, qui pure, nella contraddizione, in quell’infinita putrefazione – che tanto ci fa pensare alla Germania di oggi che si odia, che ha deciso di eutanasizzare se stessa, che sta dissolvendosi nell’ideologia del politicall correctness stile peggiore americanata –, in quella putrefazione dunque, resta invischiato e cade anche il Benn.

 

IL RIFORMATO CHE ESALTA LA CONTRORIFORMA

Benne giovane sifilopatologo al microscopio

È volontario alla Prima Guerra ma poi si oppone a Weimar. Vede nel nascente nazismo la promessa di una nuova, e al contempo già mitica, Germania eroica, “dionisiaca”. Illusione, proiezione onirica che rende febbrile la sua ansia estetizzante.

È qui un’altra contraddizione del personaggio: da un lato condanna la latente e terragna indole pagana del suo popolo; dall’altra parte fa una feroce (feroce è la penna) critica alla Germania riformata, unita all’elogio sperticato per il “trionfo delle forme” nella Controriforma romana. Ma nei fatti si dimostra attratto dal fenomeno più mitizzante, tellurico e pagano, eminentemente teutonico della storia tedesca, che è il nazismo. E che al contempo è quanto di più alternativo e lontano dalla romanità controriformistica e cattolica si possa immaginare. E Benn lo esalta, e proprio con giudizi che nascono sì dalla sua sensibilità estetizzante, la quale, però, secerne da un paganesimo mitologico, tutto nibelungico che Benn sembra avere nel sangue. Mostrandosi afflitto da quella stessa patologia che egli diagnostica e stigmatizza nei suoi connazionali.

 

IL LUTERANO NICHILISTA

Dalle sue parole di fuoco, di lui luterano, contro il luteranesimo “tetro” e glaciale e di lode encomiastica per la “bellezza” abbagliante del cattolicesimo controriformista, si sarebbe portati a pensare trattarsi di un ex luterano naturalizzato cattolico. Ma forse le cose non stanno proprio così. Dal momento che egli stesso si riconosce “nichilista”, o meglio dà retta -ma con scetticismo- a chi così lo vede, e i cattolici sono in prima linea a dirlo tale. Ma per la verità lo dicono anche i suoi versi: almeno sembra. Ma certe volte non parla affatto come tale, come “nichilista”: è la realtà che egli descrive dal vero, che anzi dipinge a grumose e bollenti, tizianesche e sanguinolente pennellate di poetica esprressionista, ad essere tale, nichilista: è il mondo che è diventato all’improvviso così, in quegli anni Venti. Lui descrive soltanto, vomita nelle sue pagine quelle immagini di disumanizzazione che lo hanno stomacato incontrandole per strada.

Siamo sinceri: forse Gottfried Benn poteva dirsi “cattolico” solo dal punto di vista dell’amore per il bello. Amore per il bello che, sia chiaro, non va sottovalutato perchè è la prima “lettera d’amore” che Dio manda a noi e che noi spediamo a Dio: corrispondenza d’amorosi sensi. Cattolica era certamento la sua vista, ma il cuore? il cervello?

 

IL NICHILISTA NAZISTA

Fatto sta che il nazionalsocialismo si accorge di questo intellettuale anomalo che lo osanna, e allora lo chiama a presiedere l’Accademia Prussiana. Solo un momento prima opportunamente ripulita di quella porzione del gotha intellettuale che riempiva quell’arcadia teutonica che non volle ridursi a cantore di liriche hitleriane. Ma giunto al vertice di quell’olimpo di cartapesta non è che si trovò troppo a suo agio, questo intellettuale tormentato e angosciante. E tuttavia vi rimase, onorato dalla prebenda. Finchè l’altra primadonna del regime con fisime letterarie, Joseph Goebbels, non si accorse di lui. E pur di trovare il casus belli col quale impalare pubblicamente l’odiato e invidiato talentuoso rivale, non trovando nulla di “compromettente” negli scritti recenti di Benn, va a spulciare in quelli giovani: dove trova quel che cerca. E con tutta la perfidia degli aspiranti letterati dalle ambizioni magne ma frustrati e senza talento proprio -guardacaso- nello scrivere, la sola arte nella quale avrebbero voluto primeggiare (essendo stata la politica solo un ripiego, un far della propria vita letteratura, scrivere coi gesti e le imprese il romanzo che si ha dentro e che la penna non riesce a cavar fuori), prende di mira Benn. Perchè non sopporta, il Goebbels, quella che lui chiama “l’arte degenerata”, ovverossia l’espressionismo, che fosse pittorico od anche letterario. E Benn “espressionista” letterario era, così almeno la vedeva Goebbels, il nuovo padrone della cultura da caserma avvinazzata tedesca. Ed è così che il gerarca, la cornacchia di Hitler, il corvo zoppo del nazismo, il ministro della propaganda, decide di far cacciare Benn dall’Accademia di Prussia. E, naturalmente, ci riesce. Ma non in modo indolore e definitivo: vi saranno per anni alti e bassi, dove Benn troverà chi lo difendesse a mitra sguainato, tipo Himmler, nientemeno che il “burocrate dello sterminio”; ma inciamperà anche in chi continuerà a dargli addosso, fra i seguaci di Goebbels. Come Willrich, ufficiale delle SS, che di Benn scriverà in un libro (Pulizia del Tempio dell’Arte) alcune sanguinose pagine biografiche, piuttosto calunniose. E come non bastasse, tentano il colpo di grazia: è bandita la stampa, ristampa e vendita dei libri dello scrittore sassone. L’amarezza di Benn è profonda per questo oltraggio, ma più amara ancora per lui fu la perdita della patacca dello scranno presidenziale dell’Accademia, dove poteva indossare, fregiarsi e sfoggiare tutta la sinistra pompa magna e vacua della vanagloria di regime, nazista per giunta.

 

IL VANAGLORIOSO ANTINAZISTA

Il militare prussiano Benn

Se ne lagna in continuo Benn, e di continuo frigna e brontola per il suo giocattolo defraudato. Dirà allora del regime che molto gli aveva dato e tutto si era ripreso: “Il tutto mi comincia ad apparire come una sceneggiata che annuncia sempre il Faust ma la troupe è appena sufficiente per un’operetta. Con quali toni grandiosi ha esordito e come appare schifoso oggi!”. Già solo ora per lui tutto è “diabolico”, patetico, “schifoso”; ora che non è lui a stringer patti diabolici col suo Mefistofele, che non sta lui sul palcoscenico da primadonna a rendere “capolavoro” ciò che senza di lui sarebbe “operetta”, ora che non può sventolare patacche uncinate sul petto quel mondo del quale s’era ubriacato gli appare disgustoso. Eppure, il pur grande letterato che fu, sulfureo a suo modo, avrebbe dovuto ricordate gli esiti finali di tutti i patti col diavolo, il destino senza scampo di tutti i Faust della storia umana.

 

 

 

 

OSCURANTISMO RIFORMATO E SPLENDORE CONTRORIFORMISTA

Solo a questo punto nasce l’ostilità del Nostro al regime nazista. Un po’ troppo tardi forse? Per motivi troppo personali e di interesse forse? Forse sì. Ma siccome non possiamo sapere dei nascondigli del suo cuore, manteniamoci alle sue parole. Che se in caso i sentimenti di Benn fossero foschi e contraddittori come tutto nella sua vita, le sue parole spesso sono quelle giuste, chiare e inequivocabili. Terribili. Ed -per questo che ne scrivo- esalano un sentimento, una sensibilità direi cattolica, un cattolicesimo realista, duro, senza illusioni. Frasi che assumono maggiore rilevanza se si pensa che il giovane Benn veniva fuori da studi berlinesi di teologia (sebbene poi interrotti) la più duramente luterana e “antiromana” delle scuole teologiche… in terra tutta luterana prima che diventasse (oggi) post-cristiana e anti-cristiana. Per esempio, ho trovato un suo pensiero interessante sul profilo facebook di amici, ma che già tempo fa avevo letto e sottolienato, poi dimenticandomene, in uno di quegli oleosi e flatulenti libri (le poesie certamente, ma anche qualche “romanzo lungo”) di Gottfried Benn: “Romanzo del fenotipo

Così Gottfried Benn, prussiano, medico e poeta, figlio di pastore protestante, così da Berlino parla, nel 1945, su tedeschi, Riforma e politica:

I germani sono una razza che, diciamolo pure, si è limitata a riprendere il grosso dagli altri e là dove è intervenuta in modo autonomo, ha sortito effetti devastanti. E’ contraddistinta da una forte tendenza a svilire tutto, degradando il sublime a totalità, lo spirituale a pesantezza dottrinaria, l’esempio più noto, la Riforma, ossia la degradazione del XV secolo, di quella poderosa impennata di genialità nella pittura e nelle arti plastiche, in favore della tetraggine di visioni balorde. [...] Una bella congrega della Bassa Sassonia, da Lutero fino a Loens! Protestanti – ma in protesta sempre e soltanto contro le cose superiori, in privato piacevolmente adagiati fra coltri di famiglia, casucce, prosit e distese verdi. Lontanissimi dalla meravigliosa idea del martire dei primi secoli che accetta nell’arena le zampate dei leoni e, legato a un palo, le frecce dei pagani, rifiutando l’apostasia. La degradante secolarizzazione dell’Io, il suo atteggiamento individual-borghese di fronte al dio, questo irriverente e banale far di tutto un sacramento – ecco ciò che ha improntato il tedesco moderno. Questa meschina glorificazione della vita ha poi portato a compimento la devastazione morale e prodotto l’antropologia escrementizia che oggi riscontriamo intorno a noi nella politica“.

 

LA GERMANIA QUANDO S’È STACCATA DAL CATTOLICESIMO È RITORNATA ALLA BARBARIE DA CUI L’AVEVA AFFRANCATA

Benn, nel dopoguerra, e gli ultimi amari anni della sua vita

Non pare anche a voi di intravvedere persino ciò che resta della Germania “cattolica” di oggi, con tutti i suoi vescovi spostati, i suoi preti “sposati”, i suoi teologi spudorati? Non vi sembra di gettare lo sguardo su alcuni dati del prolisso referto autoptico sull’immenso cadavere morale in avanzata decomposizione della Germania? Morta, a detta di Benn -almeno nella “certa idea” che ne aveva- con l’avvento della Riforma, “inizio della fine”? Io ci vedo molti indizi sulle origini di ogni eccesso, deviazione, ribellione decostruttiva e distruttiva di tutto, e di se stessi in primis, propri del cattolicesimo tedesco e propri dello spirito tedesco. Quella Germania che proprio perchè aveva accettato il cattolicesimo si era affrancata dalla barbarie, pur restando barbara nel fondo dell’anima; e che quando, dal cattolicesimo ha abiurato, alla barbarie è sempre tornata. Fosse Hitler, fosse Lutero, fossero i vescovi tedeschi progressisti, fossero i comunisti, fossero -oggi- il liberalradicalismo e la dittatura del politicamente corretto, che sta portando la Germania, avvolta in una strana smania di odio per se stessa e di cupio dissolvi, verso la propria eutanasia. La dolce morte. Basta dare un’occhiata alle sue grandi realtà metropolitane: depopolate di tedeschi ripopolate di musulmani, omosessuali, fanatici ecologisti, sbandati d’ogni risma, amanti della morte in ogni caso. Imago mortis essi stessi. Destino e forse castigo divino strani ma non inappropriati per la nazione che sfidando le categorie stabilite da Dio, s’era voluta dire “ariana”, “sopra tutti”: morirà straniera, musulmana, invertita. Il destino di tutti i Faustdel mondo, l’esito fatale d’ogni patto col demonio, è questo. L’autodistruzione, la morte e il nulla. Non era dunque nichilista la penna di Benn: è nichilista la realtà che quella penna racconta.

Il mondo alla rovescia. Un'immagine della Berlino che fu di Gottfried Benn, oggi. Grande Germania addio...

Ma torniamo al nostro Gottfried Benn. Infine: perchè fu nazista? Mi pare di capire che egli vede la storia tedesca degli ultimi secoli, dalla Riforma in poi, come un continuo deterioramento, ininterrotta decadenza, che è prima di tutto sfascio di forme, smagliarsi di sontuose architetture di sapienza, infine desolazione, sterilità, buio tetro. Nel nazismo vede l’occasione di una “controriforma” tutta tedesca che sia un rinascere e un trionfo di antiche e nuove “forme” insieme, nuove liturgie, apparati, architetture tutte “radiose” e  gloriose, come a suo tempo lo fu, ai suoi occhi, la Controriforma romana, che abbandonò a se stessa mezza Germania riformata. Incapace di essere grande e “radiosa” e bella da sola se non inserita in un intero sistema culturale, quello cattolico, come lo poteva essere quello pre-riformato. E giacchè in quell’alveo non si può ritornare più, nè forse il cattolicesimo era -sempre ai suoi occhi- quello immediatamente seguito alla Controriforma, vede nel nazismo la possibilità di un balzo indietro ardimentoso. Non al periodo di Lutero, ma ancora oltre, oltre anche un certo pezzo di storia barbara: nell’indefinito tempo della Germania mitica e pagana, la stessa delle saghe nibelungiche e della mitologia nordica. Nel nazismo, dunque, vede la sua personale occasione in extremis di “Controriforma” tutta tedesca, che facesse risplendere la Berlino dei suoi tempi e dei tempi di Hitler così come la Roma di Bernini in cui l’unità cristiana a causa dei principi tedeschi e di Lutero si spezzò.

 Isolato, evitato e alla fine dimenticato (per forza) dall’intellighenzia tedesca del dopoguerra, morirà nel 1956, settantenne, senza illusioni e senza pretese. E, qui pure, ancora una volta, le sue parole furono chiare e inequivocabili. Feroci: «Quando uno come me, negli ultimi quindici anni, viene pubblicamente definito dai nazisti un porco, dai comunisti un imbecille, dai democratici uno che si prostituisce spiritualmente, dai religiosi un nichilista patologico, non è più così desideroso di farsi largo tra questo pubblico».

[SM=g1740771] 


Caterina63
00sabato 4 febbraio 2012 23:40
[SM=g1740733] Umiltà ed orgoglio in kant - di Padre Giovanni Cavalcoli, OP

da RiscossaCristiana


http://www.riscossacristiana.it/images/kant.jpg


 Kant

Come è noto dalla storia della filosofia, la critica kantiana della ragione sfocia nel rifiuto di quella metafisica e teologia realiste ed ontologiche, che sino ai suoi tempi erano state patrimonio della cultura cattolica - si pensi alla scuola aristotelico-tomista - , sostituite da quella che Kant ritiene una metafisica veramente rigorosa e fondata, la quale parte da quel cogito cartesiano che in Kant assume il volto dell’ “Io penso” (Ich denke), ossia l’autocoscienza come principio primo del sapere e della certezza, “condizione di possibilità dell’esperienza”.

Però la critica che Kant rivolge al realismo ontologico non si pone solo sul piano speculativo, ma anche, potremmo dire, sul piano morale. Infatti Kant ritiene di poter accusare di “orgoglio” e “presunzione” quel ragionare, pur accreditato dalla rivelazione cristiana (vedi Rm 1,20 e Sap.13,5), il quale, partendo dalla considerazione dei dati dell’esperienza, si eleva per viam causalitatis et analogiae entis all’affermazione dell’esistenza di Dio e quindi ad un’etica fondata su questa conoscenza di Dio.

[SM=g1740733] Ma cosa intende Kant con questa accusa di “orgoglio? In realtà egli opera una gran confusione, alla quale desidero accennare pur nel breve spazio di questo articolo, una confusione che tuttora grava pesantemente sulla cultura moderna, cattolica e non cattolica.

In realtà Kant intende come orgoglio quella che è umiltà ed intende come umiltà quello che è orgoglio. Egli ammette bensì - come è noto - l’esistenza di una “cosa in sé” esterna alla ragione ed indipendente dalla ragione, ma poi considera orgoglio l’idea che la ragione speculativa possa superare i fenomeni per cogliere l’essenza della cosa in sé e, partendo da essa, dimostrare l’esistenza di Dio applicando il principio di causalità.

Secondo lui l’umiltà, la modestia e la sobrietà della ragione speculativa richiedono che essa rinunci alla pretesa di superare la conoscenza di ciò che cade sotto i sensi per avventurarsi in un mondo sovrasensibile, che, se esiste o può esistere, le rimane tuttavia del tutto sconosciuto, perché le manca il riferimento all’esperienza e quindi la condizione per poter conoscere (i famosi “giudizi sintetici a priori”).
Kant non capisce che la vera umiltà è proprio quella per la quale la ragione speculativa riconosce l’esistenza di una realtà esterna, dotata di una propria essenza da noi intellegibile, - si tratti del mondo o delle altre persone - che la ragione deve prender in considerazione e deve rispettare, alla quale la ragione deve adeguarsi e deve obbedire, che la ragione deve rispecchiare e rappresentare fedelmente ed oggettivamente per conoscere veramente ed essere nella verità.

Non capisce che la vera umiltà è riconoscere le cose come sono, ossia come effetto della causalità divina e del suo potere creatore.  La vera umiltà quindi è riconoscere che Dio esiste e che quindi l’uomo e la sua ragione dipendono da lui come loro creatore e Signore.

Limitare la conoscenza all’ambito dei fenomeni, apparenze che non consentono di raggiungere la cosa in sé, non è umiltà o modestia, ma è pusillanimità e meschinità, è avvilire la ragione, chiamata a trascendere il visibile per aprirsi all’invisibile, è restringere vergognosamente la conoscenza umana quasi all’ambito dell’animalità, esclusivamente limitata alle realtà del senso.    D’altra parte la ragione è grande proprio quando partendo dal dato del senso, si eleva, per induzione e per viam causalitatis – per ea quae facta sunt (Rm 1,20) – alla conoscenza dello spirito e delle realtà divine. Concepire la ragione sul modello dell’autocoscienza cartesiana – quell’“Io penso” kantiano che deriva dal cogito cartesiano – non è la vera grandezza della ragione, ma è l’orgoglio di una ragione autoreferenziale che non vuol dipendere dal reale, ma vuol essere il principio e l’ideatrice del reale, alla pari del pensiero divino, come poi successivamente si rivelerà pienamente in Hegel, continuatore di Cartesio.

La ragion pratica kantiana dal canto suo manca essa pure di umiltà. Essa bensì avverte in se stessa la voce del dovere e l’imperativo categorico, avverte l’assolutezza della legge morale e la dignità della persona e della coscienza.  Tuttavia questo stimolo interiore essa non lo riceve da un rapporto interpersonale con un Dio oggettivamente e realmente esistente, trascendente rispetto alla ragione, ma da un “Dio” come “ideale della ragione”, “idea regolativa - come dice Kant - dell’unità sistematica della ragione”, quindi un Dio immanente alla ragione, che in fin dei conti non si capisce più come si distingue dalla ragione stessa. Dunque nell’etica kantiana alla fine non abbiamo affatto umiltà ma orgoglio, l’orgoglio di una ragione che non si regola su Dio, ma solo su stessa, “obbedisce a se stessa”, come diceva Rousseau.
Kant non capisce che la vera dignità della ragion pratica è invece obbedire a quel Dio che la ragione speculativa ha scoperto come creatore dell’uomo ed essendo creatore ne è anche legislatore, per cui la legge morale è l’ordinamento della Ragione divina, è realmente e non solo metaforicamente comando divino per il bene e la felicità dell’uomo. Kant, al quale pure piace spesso citare  motti latini, si è dimenticato dell’antico detto: “Servire Deo regnare est”.

La coscienza del dovere, dice Kant, richiede l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima e la speranza in un mondo eternamente felice oltre la morte. Se dunque, ci dice Kant, la ragione speculativa non può sapere che Dio esiste, lo sa la ragion pratica.  Senonchè questo discorso non sta in piedi, giacchè in verità ciò che la ragion pratica sa non è altro che quello che le è fornito dalla ragione speculativa con la semplice aggiunta che il sapere pratico è ordinato all’azione o presenta il suo oggetto sotto l’aspetto del bene o del fine. Quel Dio che nella prassi appare come bene e come fine è quello stesso Dio che la speculazione propone come vero e come reale. Nihil volitum nisi cognitum.

[SM=g1740733] Dunque Kant viene ad impigliarsi in un irresolubile dilemma: o ammettere Dio, ma allora suppone l’assurdo di un sapere pratico non fondato su quello teorico, per cui Dio appare come prodotto della ragion pratica (“ideale della ragione”) e qui si preannuncia Hegel; oppure è vera la sua tesi che la ragione speculativa non raggiunge Dio, ma allora la sua convinzione che Dio esiste basata sulla morale perde il suo fondamento. Ed appare l’ombra dell’ateismo e si preannuncia Marx.

In Kant l’io si ingigantisce mentre Dio si illanguidisce. In nome di una falsa umiltà in realtà Kant tende a sostituire la ragione umana alla ragione divina, l’uomo non dipende più da Dio ma solo da se stesso. Ben lungi dal vincere l’orgoglio, Kant lo stimola sostituendo l’egocentrismo (l’Ich denke) al teocentrismo dell’ipsum Esse tomistico, vero fondamento dell’umiltà e per conseguenza vero fondamento dell’umana grandezza.

Giusta è in Kant l’esigenza di esaltare la grandezza e l’autonomia teoretico-morale della ragione umana, mentre ne vuol sottolineare i limiti. Ma pone limiti laddove, per usare un’espressione del Papa, dovrebbe “ampliare la ragione”, laddove cioè la ragione dà prova della sua grandezza - elevarsi a Dio -, e sopravvaluta la grandezza della ragione quando la concepisce non fondata su Dio ma fondata su se stessa. Alla paralizzante timidezza kantiana in ordine alla conoscenza della cosa in sé corrisponde un’illimitata audacia nella fiducia che la ragione ha in se stessa  di essere cartesianamente a priori il principio della verità e della certezza.    

Kant ritiene che lo scendere a compromessi con le esigenze del dovere comporti una mancanza di rispetto dell’uomo verso se stesso, ma non si chiede se ciò comporti anche una cosa ben peggiore: la mancanza di rispetto dell’uomo nei confronti Dio.
[SM=g1740733] Il Dio kantiano non è un Dio al quale la ragione rende culto, ma è un Dio funzionale ai bisogni della ragione. Non un homo servus Dei ma un Deus servus hominis.

In fondo l’etica kantiana si può intendere anche come ripresa del soteriologismo luterano: quello che m’interessa non è la contemplazione divina, ma la mia salvezza, con l’aggravante che almeno Lutero resta nell’orizzonte del realismo biblico, mentre Kant, erede dell’idealismo cartesiano, fa perdere a Dio il suo essere trascendente e rimpicciolendo Dio ad un “ideale della ragione”, inizia quella riduzione dell’essere al pensiero, che avrà il suo totale compimento nell’idealismo panteistico hegeliano sino a Giovanni Gentile ed ai suoi odierni  complessati epigoni del postmoderno.

[SM=g1740771]

Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 18:07

Santa Maria dell'Anima. Lutero e la Riforma protestante. File audio da una lezione di Andrea Lonardo

Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /01 /2012 - 21:40 pm | Segnala questo articolo:
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio le registrazioni ed i testi commentati nell'incontro tenuto da Andrea Lonardo su Lutero e la Riforma protestante presso la chiesa di Santa Maria dell'Anima, il 14 gennaio 2012.

Per altri files audio vedi la sezione Audio e video.
Per approfondimenti sulla Riforma protestante vedi la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (31/1/2012)

 

TESTI COMMENTATI DURANTE L'INCONTRO

Ufficio catechistico di Roma

www.ucroma.it (cfr. anche www.gliscritti.it )

Lutero e la Riforma protestante

1A/ Lutero a Roma nel 1510

da 1510-2010: a 500 anni dalla venuta di Lutero a Roma, di Battista Angelo Pansa (su www.gliscritti.it )

La popolazione di Roma cresceva notevolmente in quegli anni. Il censimento del 1526 le attribuisce un totale di quasi 55.000 abitanti. L'anno seguente il numero diminuisce di molto a causa del famoso sacco di Roma (1527).

Il viaggio [di Lutero] era stato lungo. Con la fede semplice di un pellegrino medioevale, l'animo commosso da un profondo sentimento religioso, fra Martino arrivò nei pressi di Roma e si affacciò alla valle del Tevere, dalle alture di monte Mario. Depose a terra il povero bagaglio, si scoprì la testa e si inginocchiò con devozione, guardando ai suoi piedi la sospirata Città Eterna. Ce lo racconta egli stesso «Quando nell'anno 1510 contemplai per la prima volta l’Urbe, prostrato a terra esclamai: Salve, o santa Roma! Sì, veramente santa, perché è intrisa del sangue dei santi martiri» «Anno 10 cum primum civitatem inspicerem, in terram prostratus dicebam Salve sancta Roma! Ja, vere sancta a sanctis martyribus, quorum sanguine madet» (Tischr. 6059, V, 467). Nessun inno comincia con queste Salve sancta Roma! Forse Lutero si riferiva all'antico inno che solevano cantare i pellegrini medievali avvistando la Città Eterna da Monte Mario: «O Roma nobilis, orbis et domina, cunctarum urbium excellentissima,roseo martyrum sanguine rubea...». Avrebbe potuto anche aver presente la nota strofa dell'ufficio di San Pietro e Paolo: «O Roma felix, quae tantorum principum es purpurata pretioso sanguine, excellis omnem mundi pulchritudinem».

Fra Martino discese la costa della collina e attraversò il Tevere a ponte Milvio; poi per la via Flaminia, che si snodava tra vigneti e case di cardinali, si avvicinò alle mura di Aureliano, fortificazione militare con 361 baluardi e dodici porte, per una delle quali sboccò nella piazza del Popolo. Il primo edificioche incontrò a sinistra, ai piedi del boscoso Pincio, fu la magnifica chiesa di Santa Maria del Popolo, da poco decorata da famosi artisti. Accanto alla chiesa s'ergeva il convento dei frati agostiniani della congregazione lombarda, con cui era in ottime relazioni la Congregazione dell'Osservanza tedesca. Per questo e perché un decreto del capitolo generale del 1497 ordinava che i frati osservanti forestieri cercassero alloggio a Roma a Santa Maria del Popolo, si afferma di solito che Lutero fu ospitato in quel convento. Fra Martino forse aveva sulla coscienza un gravissimo peccato, con censura riservata alla Santa Sede, voleva confessarsi da qualche penitenziere minore o forse voleva presentare il suo caso al cardinale penitenziere maggiore. Si sarà dunque inginocchiato in un confessionale - forse nella basilica di San Giovanni in Laterano - e avrà esposto al confessore i peccati degli ultimi anni. Non sappiamo come gli avrà spiegato le angosce, le tentazioni, gli scrupoli, i dubbi che attanagliavano il suo animo. Più tardi affermerà che i sacerdoti italiani e francesi sono «del tutto inetti e ignorantissimi, barbari completamente perché non capiscono una parola di latino» (Tischr. 4195, IV, 193; 4585, IV, 389.). Si noti che la testimonianza sui cardinali indoctissimos è dell'anno 1537; ma ancora prima, quando i suoi ricordi erano molto più freschi e non inficiati dalla passione, pensava in altro modo: infatti il 5 agosto 1514 scriveva: «Cum Roma doctissimos homines inter cardinales habeat» (Briefw. I, 29). A chi credere? Al cattolico del 1514 o all'antiromano del 1537.

Non merita molto credito nemmeno quando riferisce cose che assicura d'aver visto con i suoi propri occhi; per esempio: «Ho visto a Roma celebrare sette messe nello spazio di una sola ora sull'altare di San Sebastiano». «Vidi ego Romae in una hora et in uno altari S. Sebastiani septem missas celebrari»; basta dare un'occhiata ai messali di allora, per convincersi che era una cosa assolutamente impossibile: dire più di tre messe private in un'ora era inoltre severamente condannato da tutti i moralisti. Un'altra volta afferma che a Roma e in altre parti d'Italia «due sacerdoti celebrano contemporaneamente, uno di fronte all'altro, le loro messe sullo stesso altare». Deluso dalla confessione, si dedicò a lucrare tutte le indulgenze possibili per sé e per i defunti, andando in tutte le chiese, spinto da una pietà folle. «Mi accadde a Roma - diceva nel 1530 - di essere anch'io un santo matto (ein toller Heilige) e di correre per tutte le chiese e catacombe, credendo a tutte le menzogne e finzioni che lì si raccontavano. Anch'io ho celebrato una o dieci messe a Roma, e quasi mi dispiaceva che mio padre e mia madre vivessero ancora, poiché volentieri li avrei liberati dal purgatorio con le mie messe e altre buone opere e preghiere. A Roma si dice questo proverbio: "Beata la madre il cui figlio celebra messa il sabato a San Giovanni". Come mi sarebbe piaciuto rendere beata mia madre!» (WA 31,1, p. 226).

Della basilica di San Pietro in Vaticano costantiniana e medioevale, che in buona parte si conservava e nella quale si officiava mentre s'alzavano le mura maestre della nuova costruzione sotto la sapiente direzione di Bramante, gli rimase solo il ricordo dell'immensa grandezza. Una simile impressione aveva riportato delle cattedrali di Colonia e di Ulma. Ivi, in mezzo a un'innumerevole moltitudine di pellegrini, contemplò uno spettacolo che lo commosse devotamente e gli parve una gran cosa (maxima res): migliaia di fedeli s'inginocchiavano tutti insieme davanti al velo della Veronica, cantando - come di solito si faceva in tale occasione - l'inno Salve, sancta facies nostri redemptoris. Erano i giorni in cui Michelangelo stava decorando le lunette e la volta della cappella Sistina e il giovane Raffaello d'Urbino dava gli ultimi ritocchi, nella stanza della Segnatura, alla cosiddetta Disputa del Sacramento, una delle più splendide esaltazioni pittoriche dell'eucarestia. Fra Martino non vide le meraviglie che dietro quelle mura del palazzo papale stava creando il genio italiano [...]. Della basilica di San Paolo fuori le mura soltanto una volta fa rapida menzione nei suoi scritti; indizio certo che avrà visitato quella grande e fastosa chiesa basilicale è un'altra allusione alla vicina località delle Tre Fontane, dove, secondo la tradizione, fu decapitato l'Apostolo delle genti. Da lì, per la via delle Sette Chiese, i pellegrini erano soliti andare alle catacombe di San Callisto e di San Sebastiano.
Qui lo disturbò la precipitazione con cui moltissimi sacerdoti celebravano la messa.
Non sempre si mostrò tanto credulone.
Vicino al palazzo lateranense - residenza dei papi medioevali - c'è la Scala santa, supposta scala del pretorio di Pilato, che fra Martino, come altri fedeli, salì in ginocchio, dicendo un padrenostro per ognuno dei 28 gradini che la formano; si diceva infatti che con questa pia pratica si liberava un'anima dal purgatorio, ed egli voleva pregare per l'anima di suo nonno; solo che, arrivato all'ultimo gradino. venne questo pensiero: «chi sa se sarà vero?» «Sic Romae wolt meum avum ex Purgatorio erlosen, gieng die Treppen hinauff Pilati; orabam quolibet grado Pater Noster. Erat enim persuasio, redimeret animam. Sed in fastigium veniens cogitabam: quis scit an verum» (WA 51,89). Bisogna dire che dove si trovò meglio, come se stesse nella sua patria, fu nella chiesa nazionale dei tedeschi, Santa Maria nell'Anima, di cui tesse un elogio inatteso in un sermone del 1538. Alla domanda qual è la vera Chiesa (con la maiuscola), risponde: è quella che si fonda sulla pietra angolare, che è Cristo, mentre falsa Chiesa è la curia romana, che rigetta la pietra angolare e osteggia la dottrina di Cristo; e prima di continuare ingiuriando il papa, s'interrompe ed esclama: «A Roma c'è la chiesa tedesca con un ospizio; è la chiesa migliore e ha un parroco tedesco» (WA 47,425).

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 20-21


Ma che significò per l’evoluzione di Lutero verso la Riforma questo incontro con la Roma del rinascimento? Ricevette qui, eventualmente, la spinta decisiva per la sua lotta contro la curia? Assolutamente no! Lutero ha trovato Roma come gli altri pii pellegrini del suo tempo. La Roma santa, con i suoi luoghi di grazia, lo ha tenuto così occupato che a malapena poté riceverne impressioni negative: «A Roma io ero un santo pazzo, correvo per tutte le chiese e le rovine, credevo a tutto ciò che ivi s’inventava. Io ho celebrato una messa, oppure dieci, e mi dispiaceva quasi che mio padre e mia madre fossero ancora in vita; io, infatti, li avrei tratti volentieri dal purgatorio con le mie messe e inoltre, con eccellenti opere e preghiere» (1530; WA 31, I, 226). «Lo scopo principale del mio viaggio a Roma» - così raccontò più tardi Lutero in un discorso conviviale - «era quello di fare una completa confessione a cominciare dalla mia giovinezza e divenire un uomo pio» (WATr 3, 431, s, n. 3582a; WA 47, 392; H. Boehmer, Luthers Romfahrt, 159 s.). A dire il vero, egli fu deluso nella speranza di liberarsi con una confessione generale, fatta a Roma, dalle sue pene interiori. Egli s’imbatté in confessori non colti e, secondo la sua opinione, scarsamente comprensivi.

1B/ Adriano VI (1522-1523)

nato a Utrecht nel 1459

nel 1507 tutore di Carlo V

1516-1517 reggente di Spagna insieme al cardinal Cisneros, fino all’arrivo di Carlo I (V)

succede a Leone X

azione antiturca

stile severo in Curia

2/ Per entrare in argomento. Nella tempesta della Riforma luterana: la straordinaria storia di Caritas Pirckheimer e delle clarisse di Norimberga (da M.C. Roussey – M.P. Gounon)

da M.C. Roussey – M.P. Gounon, Nella tua tenda per sempre. Storia delle clarisse. Un'avventura di ottocento anni, Porziuncola, Assisi, 2005, pp. 491-516

L’imperatore Carlo V, eletto dai sette grandi Elettori, tentò invano di mantenere l'unità in seno alla Chiesa, ma era obbligato a rispettare l'autonomia di tutte queste entità locali.

Norimberga: Caritas Pirckheimer e le sue suore

Norimberga era allora una città di modeste dimensioni (25.000 abitanti circa), ma era uno dei grandi focolai culturali dell'epoca, centro europeo in cui s'incontravano i dotti e gli artisti e, nello stesso tempo, importante centro commerciale ai confini dei colli transalpini, sulla strada che dall'Italia porta verso il Mare del Nord.

La città era retta da un Consiglio dove sedevano i rappresentanti delle grandi famiglie patrizie i cui membri andavano a studiare nelle diverse università d'Europa. Fra queste c'era la famiglia Pirckheimer: Johann Pirckheimer, padre di Caritas (abbadessa delle Clarisse di Norimberga al tempo di Lutero), aveva studiato diritto a Padova. Era entrato poi al servizio del Principe-Vescovo d'Eichstadt e, successivamente, dei duchi di Baviera e del Tirolo. Willibald, fratello di Caritas, era dottore in diritto dell'università di Bologna, diplomatico e anche sapiente grecista, amico d'Erasmo, di Melantone, di Dürer e del poeta Conrad Celtis che chiamava la sua casa: 'l'asilo dei letterati.

 

Il Monastero di Santa Chiara di Norimberga

Le vocazioni femminili erano numerose. Caritas, per esempio, aveva tra i suoi nove fratelli e sorelle, due Benedettini a Bergen, un'altra Benedettina a Geisenfeld, una Clarissa con lei a Norimberga, una Clarissa a Monaco. Una sola sorella si era sposata, come pure suo fratello Willibald.

Il monastero di Santa Chiara, antica casa di penitenza, trasformata nel 1278 in convento di Clarisse, era un monastero Urbanista riformato nel XV secolo, di grande pietà e regolarità. Comprendeva sessanta religiose, provenienti per la maggior parte dalle famiglie patrizie della città. La comunità disponeva di ricchezze molto numerose: terre esenti dal censo, una grande fattoria gestita da un intendente e molti servitori; beneficiava di privilegi e di esenzioni diverse.

Le suore ricevevano le ragazze dall'età di dodici anni, affidate loro dai parenti per educarle. Era una pratica corrente: infatti in quel tempo non esistevano dei collegi per ragazze.

Anche Caritas era entrata a dodici anni presso le Clarisse di Norimberga; e sua zia, Apollonia Tücher, le dette un'educazione molto accurata: Caritas conosceva bene il latino, un po' il greco, la letteratura, la musica, suonava in particolare la cetra; possedeva una buona cultura religiosa e umanistica. La sua vita spirituale, come quella delle sue sorelle, si era nutrita di una solida dottrina. Il suo convento sceglieva dei predicatori di qualità. Etienne Fridolin, per esempio, notevole autore spirituale francescano, ha predicato più volte a Santa Chiara di Norimberga. Spesso le suore trascrivevano i sermoni e ne inviavano delle copie alle sorelle di monasteri meno dotati.

Chiaramente, la comunità viveva in osmosi con la classe umanista della città. Le famiglie delle Clarisse condividevano con le suore la passione per il sapere e per il capire che animava l'élite culturale della città. Parenti e amici non disdegnavano di avere scambi con le religiose anche su argomenti abbastanza ardui.

All'inizio del XVI secolo il canonico Tücher aveva scritto non meno di quaranta lettere in latino a Caritas e alla sua zia, Apollonia; queste furono tradotte e pubblicate dal nipote già nel 1515: «Si costata che spesso lui ringrazia le suore per i loro preziosi consigli e le loro esortazioni». Willibald Pirckheimer dedica a sua sorella la traduzione delle Opere di Plutarco. Il poeta umanista Conrad Celtis dedica a lei la sua edizione delle opere di una religiosa tedesca del Medioevo, Hrotswitha von Gandersheim, come anche un lungo poema in onore della città, I Norimberga, accompagnati da un'ode a suo encomio. Altri letterati le scrivono o le dedicano le loro opere, fanno menzione di lei nelle loro corrispondenze; anche Erasmo e Reuchlin incaricano Willibald di trasmettere a lei i loro saluti; lei stessa ebbe con gli amministratori della città una corrispondenza frequente, non soltanto ufficiale in quanto abbadessa, ma anche personale.

Caritas stessa, divenuta abbadessa nel 1503, fece acquistare a Venezia un esemplare del Pentateuco in ebraico che offrì a Francescano Pelican, che studiava ebraico. La sua intelligenza e la sua virtù erano rinomate e la città ne era fiera.

Una curiosità intellettuale e religiosa animava dunque tutti gli spiriti, nei conventi come negli ambienti secolari. Quando arrivò la Riforma le suore di Norimberga non furono prese alla sprovvista e dettero prova di una grande capacità di riflessione, d'argomentazione e di conoscenza che le misero sullo stesso piano dei loro interlocutori. Nel 1527 Caritas poteva dire ai Consiglieri della città: «Ho letto molto, ho ascoltato tante cose da quando sono nata, .. ma non ho mai letto, né inteso un vangelo così straordinario come il suo» (cioè quello del predicatore).

 

1. La penetrazione delle dottrine di Lutero

A Norimberga, Gaspard Nutzel, Curatore delle Clarisse, tradusse dal latino in tedesco le tesi di Lutero: esse furono stampate e largamente diffuse e, ben presto, in tutta la città ci si appassionò a tali problemi. All'inizio ci fu un dibattito di idee che non coinvolse la vita corrente: infatti nel 1519 Gaspard Nutzel e il suo amico Conrad Ebner lasciano entrare le loro figlie nel convento di santa Chiara, pur essendo i capi del circolo di amici di Lutero. Nel luglio del 1522 anche la figlia di un Consigliere della città entrò tra le Clarisse.

Ma le idee si propagarono e si irrobustirono e le divergenze si affermarono. La maggior parte delle famiglie delle monache incominciarono a simpatizzare per le nuove idee. Willibald Pirckheimer venne scomunicato già dal 1520 assieme a Lutero. Ma in seguito, disgustato dagli eccessi dei riformatori, prese le distanze da essi e si mostrò fedele sostegno delle suore. Intanto la popolazione guadagnata alla Riforma, arrivava a turbare perfino le prediche cattoliche delle chiese. Fu il caso dell'agosto 1523 nella chiesa del convento.




[SM=g1740771]  continua.............

Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 18:12

2. Le dispute delle clarisse con i luterani

Le suore hanno lasciato una cronaca delle loro dispute con la città diventata ormai Luterana; questa cronaca non copre che i primi quattro anni, dal 1524 al 1528. Si tratta dei Fatti memorabili: testimonianza estremamente preziosa sulla vita delle suore in questo difficile periodo.

Caritas comincia così la sua relazione: «La dottrina di Lutero è stata la causa di molte rovine; crudeli discordie hanno straziato la cristianità, le cerimonie delle chiese sono state mutilate e in molti luoghi i preti hanno di colpo abbandonato il loro stato, perché si predicava la sedicente libertà cristiana, si andava ripetendo che le leggi della Chiesa e i voti non obbligavano più nessuno. La conseguenza di tali discorsi fu che un buon numero di monaci e di monache usarono di questa libertà per uscire dal chiostro e deporre i loro abiti; molte si maritarono persino e, in una parola, non agirono che seguendo la propria fantasia.
Noi provammo dolorosamente il contraccolpo di questo ribaltamento, perché una folla di personaggi molto potenti e molto temibili veniva giornalmente a fare visita alle amiche che avevano tra di noi. Insegnavano loro la nuova dottrina, cercavano di convincerle attraverso tutti i mezzi, e le loro argomentazioni non avevano mai fine. Volevano provar loro che lo stato religioso era uno stato di dannazione e che era impossibile conquistare la propria salvezza e che, infine, noi tutte appartenevamo al diavolo.
Molte famiglie, influenzate da questi discorsi, tentarono di riportar via dal chiostro le figlie, le sorelle o le parenti che avevano tra noi. Le mie povere ragazze ora venivano minacciate duramente, ora si sceglieva di incantarle con delle belle promesse di cui non avrebbero neanche mantenuto la metà. E queste lotte duravano ore intere» (pp. 2-3).

I Fatti Memorabili raccontano inoltre il reclamo della signora Tetzel accompagnata dai suoi due fratelli per la Candelora del 1525: «(I due fratelli) chiesero immediatamente, con tono arrogante, che si rendesse la nipote alla loro sorella, perché quest'ultima era troppo illuminata dal vero vangelo e dalle nuove predicazioni per lasciare, in coscienza, sua figlia tra di noi. E nello stesso tempo essi rifiutavano lo stato religioso, criticando tutti i nostri modi di fare e di pensare» (p. 21).

Ma la figlia non li volle seguire. La madre scrisse allora al Consiglio della città una supplica che rivela molto bene lo stato d'animo dei cristiani del tempo: «Onorevoli Consiglieri e Illustrissimi Signori, il defunto mio marito ed io abbiamo fin dalla sua infanzia, affidato la nostra cara figlia al convento di Santa Chiara, essendo persuasi, allora, che l'avremmo offerta così a Dio come un'ostia vivente, e questo sacrificio l'avrebbe mondata dai suoi peccati e che, grazie alla vita del chiostro essa sarebbe avanzata nella via della salvezza. In seguito, appresi, per la lettura e per le prediche, che Dio non teneva in nessun conto la clausura, e che questa non era che un'invenzione umana. La mia coscienza, messa in allarme, mi ha spinto a richiedere mia figlia alla venerabile abbadessa, cosa che io ho fatto in presenza dei miei due fratelli» (p. 25).

Si coglie qui la devozione deviata del tempo e la ragione per la quale la dottrina Luterana ebbe così facilmente presa sulla popolazione.

Qui la vita religiosa è vista non come una risposta d'amore ad una chiamata percepita nel cuore di un'esperienza personale di Dio, come era per tante e tante religiose della stessa epoca (pensiamo alla beata Camilla Battista da Varano, per esempio); piuttosto, ai parenti cristiani, appariva come il mezzo più sicuro per raggiungere la propria salvezza: che era il grande problema di questi secoli così tormentati. La vita religiosa è vista unicamente come un sacrificio, non nel senso di una consacrazione per amore, ma nel senso di uno scambio.

Si comprende come, in queste condizioni, il numero delle vocazioni, in un certo senso obbligate o per lo meno suggerite, fosse molto elevato; ma, d'altra parte, ci si può stupire anche del piccolo numero delle defezioni. La vita dei chiostri, in una comunità fraterna vivente, anche se austera, favorisce una pienezza di vita in Dio e la figlia della signora Tetzel, per esempio, non volle uscire. «Ella finì per dire alla mamma che nessuno al mondo l'avrebbe potuta convincere a uscire dal convento: era risoluta, con il soccorso della grazia, a mantenere la promessa che aveva fatto a Dio. Allora, la madre, corrucciata, lasciò sua figlia dicendole di non credere che l'avrebbe lasciata in questo stato di perdizione» (p. 18).

Per tutto il periodo della Quaresima del 1525, in città si ebbero continui dibattiti tra coloro che parteggiavano per la nuova dottrina e alcuni preti e religiosi. Ogni volta i seguaci di Lutero guadagnavano maggiormente terreno. Anche molti religiosi della città erano passati alla Riforma. Solo i Domenicani e i Francescani erano rimasti irriducibili. I Consiglieri annunciarono dunque alle suore la loro intenzione di sottrarle al servizio spirituale dei frati e di dar loro dei predicatori e dei confessori adeguati, pescati tra gli adepti della nuova dottrina e scelti dagli stessi Consiglieri.

«Tutta la città in questo momento era in possesso del puro Evangelo, così oscurato già da coloro che avevano la missione di annunciarlo; il Consiglio non voleva privarci per molto tempo di un tale beneficio, e non badavano a spese per procurarcelo. Per questo scopo era stato designato un predicatore molto sapiente e molto apprezzato, chiamato Poliandro, di Würzburg. Egli comincerà da lunedì mattina a predicare a noi suore. In più, il Consiglio aveva stabilito un confessore che dovevamo preferire, per il suo zelo e per la sua intelligenza illuminante, a quelli che ci avevano diretto fino ad allora. Il Consiglio ci lasciava la scelta tra più preti: due agostiniani, Karl e Dorfer, e un prete secolare di San Sebald di nome Sebelt. Eravamo libere di prendere chi noi preferivamo. Il venerdì seguente il nostro confessore e il nostro predicatore ritornarono per cercare i loro strumenti di lavoro nella casa. Ci dissero la messa, ci predicarono un'ultima volta e rinnovarono il Santissimo. Poi partirono. Non li abbiamo più rivisti: neanche il padre guardiano, né il nostro superiore, né i Frati Minori (p. 40). Da questo giorno noi siamo state private della confessione, della comunione e di tutti i sacramenti persino in pericolo di morte» (p. 41).

Caritas e le sue suore protestarono più energicamente che poterono: si sottomisero a tutte le esigenze del Consiglio sul piano temporale, accettarono i predicatori, ma rifiutarono ostinatamente i confessori imposti, preferendo fare a meno dei sacramenti (pp. 9-10). Durante una visita dei Consiglieri Caritas incalza dicendo: «Il Consiglio ricorderà certamente che noi gli abbiamo sempre obbedito nelle cose temporali, ma in ciò che tocca le nostre anime noi non obbediremo che alla nostra coscienza» (p. 43).

I Consiglieri sono stupiti della resistenza delle suore che essi rispettano e tra le quali hanno delle parenti prossime, alle quali desiderano ardentemente fare del bene. Per esempio: nel corso di una visita, il Curatore Nutzel «ci disse che aveva annunciato in piena seduta ai Consiglieri la nostra decisione di riceverli e che tutti si erano rallegrati e speravano che il Santo Spirito ci avesse visitato e ci avesse ispirato delle sagge riflessioni» (p. 45).

Il Consiglio della città offre loro i migliori predicatori, spesso anziani religiosi spretati di grande nome, come il già citato Poliandro, ricco canonico di Würtzburg. «Questo Poliandro fece otto prediche, dal lunedì dopo 'Oculi' fino al venerdì dopo la domenica 'Iudica'. Ci fu una grande affluenza di gente presso di noi e gli assistenti della cappella provavano grande piacere nell'ascoltarlo. Mi disse il nostro Curatore che gli avrebbe volentieri dato seicento fiorini l'anno pur di conservarlo a Norimberga e perché riuscisse a convertirci» (p. 78).

Le suore dovettero ascoltare molti altri predicatori che duravano anche delle ore e che non erano mai molto pacifici: dovettero protestare a più riprese contro l'aggressività dei predicatori nei loro confronti. Ascoltarono così centoundici prediche. Poi, il Consiglio, stanco, rinunciò a convertirle con questo sistema.

Attraverso il racconto di questi Fatti Memorabili si comprende la sovrapposizione civile e religiosa negli affari della città; il Consiglio ha una grande autorità sui conventi, in parte per un 'contratto' tacito, da tempi immemorabili, in parte perché si era arrogato l'autorità dei superiori ecclesiastici mandati via: di qui l'ostinazione dei Consiglieri a imporre alle suore i propri confessori e predicatori.

A poco a poco le posizioni si irrigidiscono e si accaniscono, e sotto espressioni ancora cortesi, si avverte una certa violenza. Le suore sono strettamente sorvegliate. È loro interdetto di ricevere novizie. Si moltiplicano le imposte materiali: tasse, ecc., e allora diminuiscono i redditi.

Per la festa di Tutti i Santi del 1527, l'Abbadessa può dire ai Consiglieri: «Durante questi tre anni noi siamo vissute tra le privazioni, nude, come miserabili vermi della terra» (p. 219), ma le pressioni si fanno sempre più insistenti.

 

3. La situazione di confusione della Germania

Sullo sfondo dei dibattiti si avverte il cambiamento che c'è nella popolazione; si capisce il tradimento degli uni, la fedeltà di altri e lo scatenamento delle passioni popolari. Questi Fatti Memorabili sono un documento di primo valore. «Quando il Curatore Nutzel vide che non sarebbe mai arrivato a vincere la mia resistenza cambiò soggetto e mi parlò di un grande sollevamento di contadini che erano entrati in rivolta, in numero molto considerevole, per saccheggiare i conventi e scacciare o mettere a morte tutti i Religiosi e le Religiose. E che in quello stesso Venerdì Santo si diceva che essi erano stati a Bamberga e avevano distrutto i chiostri. E che non doveva rimanere presente una sola Clarissa nel convento di quella città; e che avremo fatto bene a riflettere a non dare occasione, a nostra volta, ad una grande carneficina. Aggiunse che, anche se i contadini non sarebbero venuti fin qui, la popolazione delle nostre contrade era stata ben istruita dal puro Evangelo per sapere che lo stato religioso era da condannare. Ci consigliava di non perseverare nella nostra ostinazione. Fu da queste parole di minaccia e di discordia che fummo straziate in quel Venerdì Santo. E la stessa cosa avvenne la Domenica e il Lunedì di Pasqua, quando il nostro Curatore ritornò ancora per due giorni e impiegò tutto il suo zelo a farci cambiare opinione. Ma, grazie a Dio, niente ci fece vacillare» (pp. 98-99).

Si percepisce presso questi grandi borghesi la paura di essere scavalcati dai moti popolari. In effetti, nel 1525 la rivolta dei contadini scoppiò in Germania come conseguenza non prevista della predicazione protestante. I contadini confusero facilmente libertà religiosa e libertà sociale. Lutero li condannò molto severamente e spinse i Signori a far loro una guerra implacabile, anche perché, comprendendo essi a modo loro i principi teologici, rifiutavano tutti i sacramenti compreso il battesimo, e stavano diventando preda delle diverse sétte, specialmente quella degli Anabattisti.

La pressione popolare s'accrebbe sulle città restate cattoliche; nelle due vicine città di Rothenwerk e Windsheim, il popolo imprigionò il Consiglio della città e il Borgomastro che avevano scacciato i predicatori (cfr. p. 74).

Per contro, altre città restarono fedeli al cattolicesimo: Bamberga per esempio, dopo essere stata occupata dai rivoltosi, diviene rifugio per un grosso numero di Religiosi. Le suore di Norimberga che non potevano più accogliere le novizie, nel 1539 mandarono al convento di questa città una ragazza che desiderava diventare Clarissa (cfr. p. 78).

 

4. Pasqua 1525: interdizione del culto cattolico

A Norimberga la situazione per le suore era sempre più grave: «Che quaresima di dolore abbiamo passato! Piena di angoscia e privazioni spirituali, piena di apprensioni e di paure. Non abbiamo potuto celebrare degnamente gli Uffici della Settimana Santa cantando la Passione. Siamo state obbligate a fare da sole l'Adorazione della Croce e a cantare l'Alleluia, poiché non hanno voluto darci neanche un prete» (p. 99). Il giorno dopo la Pasqua del 1525, ci fu l'interdizione di ogni culto cattolico per tutta la città. «Il venerdì di Pasqua viene interdetto ai nostri venerabili Frati Minori di suonare le campane e di celebrare qualsiasi Ufficio di giorno o di notte, e di radunarsi per pregare in comune. Ed è così che essi hanno vissuto da quel giorno. Non si è usato lo stesso rigore che nei confronti dei poveri Francescani; agli altri Ordini non è stato interdetto che di celebrare la messa» (p. 100).

«In seguito... i monaci abbandonarono i loro abiti monastici, si rivestirono di vestiti laicali, di cui alcuni molto sontuosi. Non dissero più il Mattutino, in una parola celebravano gli Uffici a loro piacere. Gli Agostiniani seguirono lo stesso esempio: gli Agostiniani che erano la sorgente di tutte queste disgrazie! e poi i Carmelitani, poi i Certosini. Nessuna regola fu più osservata nei chiostri: vi si conduceva una vita disordinata, ciascuno viveva a modo suo. Molti monaci abbandonarono di colpo i loro conventi e presero moglie. I frati Predicatori avrebbero volentieri consegnato il loro convento in regalo al Consiglio, ma la loro richiesta fu respinta perché erano troppo poveri, e non avevano le rendite come altri conventi. Allora, se ne andarono tutti, salvo nove tra di loro» (pp. 101-102).

Ormai la mano sulle suore si fa più pesante. «Siamo vissute in mezzo a grandi inquietudini, perché ci minacciavano in ogni modo. Abbiamo deciso, all'unanimità, che non avremmo mai fatto la consegna del nostro convento: non ci appartiene, noi non l'abbiamo né fondato né costruito. Giornalmente ci minacciavano di scacciarci, di demolire il chiostro, e di mettere il convento a ferro e fuoco. Come tori furiosi insultavano i nostri servitori, proprio davanti alla nostra casa. Una notte sono penetrati fin dentro il chiostro; noi provammo uno spavento terribile e dormimmo molto poco, perché sapevamo che c'era grande fermento in città, e temevamo che il popolo, nel corso dei tumulti, potesse indirizzare tutto il suo furore contro i Religiosi e i conventi. Siamo diventate per tutti, grandi e piccoli, oggetto di disprezzo e i nostri servitori si azzardano a stento a fare gli acquisti. Siamo tenute in maggiore disprezzo delle donne pubbliche e ci dicono che veramente noi valiamo meno di loro. I nostri amici non osano venire a vederci che furtivamente e tremando, e ci tormentano senza tregua, perché i predicatori [scatenano] il loro auditorio contro di noi e ripetono che non bisogna più tollerare né chiostro, né abiti religiosi. Non volevano che qualcuno chiamasse più 'chiostri' i nostri conventi, ma 'ospizi' e che le suore si chiamassero 'canonichesse', le abbadesse e le priore, si dovevano chiamare 'direttrici': non doveva più esistere alcuna distinzione tra i chierici e i laici» (pp. 102-103).

I Consiglieri desideravano soprattutto strappare l'adesione di Caritas e della sua comunità: non arrivando a comprendere come una donna così intelligente non si impegnasse con entusiasmo nel campo della Riforma. Questo accanimento a convertirle era per loro una questione che li avrebbe rassicurati sulla propria salvezza spirituale.

Uno degli incontri tra l'Abbadessa e il Curatore Nutzel, trascritto nei Fatti memorabili, presenta dei tratti commoventi. «Egli (il Curatore) argomentò sulle nuove dottrine. Si felicitò della giusta abolizione delle credenze passate, anche se, in verità, la messa tedesca non gli era mai piaciuta molto, quantunque i predicatori affermassero che era la vera messa degli apostoli ... E m'intrattenne ancora su numerose eresie di cui era invaghito al massimo grado. Io gli risposi: 'Venerabile e caro signore, vi stimo molto e desidero tutto il bene per voi; è per questo che vi compiango dal fondo del cuore perché vi lasciate così convincere e accecare. Le cose sono le stesse del tempo di Ario e di altri eretici. Si trascina la gente nell'errore con parole menzognere che sembrano piene di sapienza. Veramente, veramente! Degli uomini simili a quelli d'allora vi ingannano oggi. Un giorno voi vi accorgerete che hanno illuso i vostri cuori portandovi dubbi e angosce'. Egli rispose: 'No, no! Ci sta cadendo addosso proprio una rugiada di benedizioni come non s'erano più viste da secoli'. Rimanemmo a lottare per lungo tempo: ciascuno di noi era persuaso dell'accecamento e dell'errore dell'altra parte. Allorché ci siamo alzati per uscire dal coro, sua figlia, Clara, entrò, seguita da altre suore che avevano i loro padri tra i Consiglieri. Esse caddero ai suoi piedi e lo pregarono insistentemente di dire ai loro padri che loro le supplicavano di lasciarle nel chiostro. Ma egli girò loro le spalle di scatto e se ne andò con una grande tristezza. Disse uscendo: 'Sono entrato qui allegro, avevo la speranza di riportare una buona risposta al Consiglio: ma questa grazia non mi è stata accordata! Adesso che vado a dire? Perché qui lo Spirito Santo non si fa sentire!' Sua moglie ci venne a visitare il giorno dopo, in gran collera. Essa ci fece un discorso sul male che avevamo fatto a suo marito e che lei non l'aveva mai veduto così triste e che non aveva dormito la notte e che la nostra testardaggine era colpevole e che ci sarebbero arrivate sicuramente delle disgrazie se non ci fossimo sottomesse...» (pp. 62-63).

Ma Caritas le rispose: «'Lasciate a Dio la preoccupazione della nostra conversione' e un'altra volta: 'Se lui cambia i nostri cuori, noi ve lo faremo sapere'» (pp. 72-73).

Eppure i Consiglieri rispettavano queste suore che argomentavano, sapevano rispondere per le rime, si sentivano a loro agio dentro la fede cattolica e non si lasciavano smontare facilmente. Queste suore erano chiaramente di un notevole livello di cultura e, senza aver fatto degli studi approfonditissimi, erano tuttavia al corrente delle grandi questioni che scuotevano il pensiero dei loro contemporanei.

Malgrado ciò continuarono ad invitarle a discutere con i più sapienti predicatori. Gaspard Nutzel scrive alle suore dicendo loro: «Vi invito dunque ad una conferenza amichevole con uno dei nostri predicatori attualmente in servizio a Norimberga. Ne avete otto a scelta, tra cui il priore dei Certosini, vegliardo rispettabile, così saggio quanto pieno di devozione. Se voi desiderate che io mi metta in contatto con qualcuno o con diversi di questi predicatori, lo farò molto volentieri. Non domando a Dio che una grazia: di vivere fino a che la sua volontà si compia presso di voi, sia che vi conduca a lasciarvi dolcemente guidare, o vi costringa lui stesso a credere, attraverso i fatti e i suoi interventi: perché, tanto, bisognerà che vi risolviate, una buona volta, ad obbedire» (p. 67).

Caritas rivela in queste discussioni la sua grande intelligenza, il buon senso, l'abilità personale, ma c'è anche tutta una comunità viva e libera che fa corpo con lei. Ella scrive: «Abbiamo ascoltato centoundici di queste prediche, e ci siamo sorbite Andrea Osiandro per quattro ore di seguito. Abbiamo letto con attenzione gli scritti del Dottor Wenzel e ce li siamo anche copiati.
Abbiamo dunque ricevuto molti insegnamenti da tutti i lati per sapere quali sono gli argomenti di tutti questi dottori, le loro idee, le loro conclusioni (p.164). Se io ho conservato così a lungo lo scritto del Dott. Wenzel è perché l'ho fatto copiare interamente. Sono quasi felice che Filippo Melantone sia stato chiamato qui; è da tempo che ho sentito di lui che è un uomo giusto, pio, retto, e amico dell'equità. Non credo che lui approvi tutte queste cose, specialmente che si voglia forzare la gente a credere e a fare ciò che è contrario alla propria coscienza. Che Dio doni a lui e a noi tutti il suo Santo Spirito e che benedica eternamente Vostra Saggezza» (p. 167).

Caritas riunisce le sorelle nel Capitolo e domanda loro il parere sulla condotta da seguire: «Ho dato lettura della lettera alla comunità ed ho chiesto il parere a ciascuna» (p. 107). Le sorelle fanno corpo: «Le ho trovate tutte con lo stesso sentimento e mi hanno risposto che non si sarebbero lasciate convertire alle dottrine nuove attraverso nessuna sofferenza; che non si sarebbero separate dalla santa Chiesa e che non sarebbero mai riusciti a trascinarle fuori dalla vita monastica. Rifiutarono la direzione dei preti apostati preferendo restare lungo tempo senza confessione e private della santa Comunione. Furono d'avviso di scrivere le loro risposte al Curatore, in un buon tedesco; con la preghiera che lui stesso leggesse la nostra lettera ai Consiglieri in modo che questi sapessero una volta per tutte come regolarsi con le suore. Scrissi la supplica seguente che la comunità approvò all'unanimità dopo averne ascoltata la lettura. Ciascuna chiese di firmare; tutte volevano la loro parte di responsabilità delle disgrazie di cui essa avrebbe potuto essere per noi la fonte» (p. 168) . Poi Caritas precisa di nuovo: «Allorché fummo sole tra di noi, le mie sorelle mi hanno supplicato di non cedere in niente, e mi hanno avvertito inoltre, che se per caso io avessi avuto un attimo di debolezza esse non mi avrebbero seguito e mi avrebbero rifiutato per sempre la loro obbedienza».

Le suore pur non rimanendo chiuse, non si allontanarono mai da questa linea di ferma condotta, né manifestarono aggressività o polemica. E non mancarono nemmeno di humour: «Se noi avessimo tanti difensori quanti sono i Reggenti e Consiglieri, saremmo alla testa di una vera armata, e se noi ascoltassimo tutti gli ordini che ci vengono impartiti, non saremmo meno disciplinate di una carovana di zingari» (p. 167). Anche a proposito del matrimonio: «L'eccellente dottore ci domanda di modellarci su di lui. Che Vostra Saggezza ci scusi. Se io dovessi imitarlo, dovrei prendere marito, ma forse non saprei trovarmelo, perché sono vecchia e non sono adatta a questa ricerca. Sarei obbligata a pregare Vostra Saggezza di farsi carico di questa preoccupazione, e non sarebbe davvero una piccola faccenda!» (p. 201).

In alcuni punti sono molto incisive: «Vostra Saggezza mi ha scritto che si è accorta che gli insegnamenti del signor Andrea Osiandro mi dispiacciono. Io rispondo che nessuna dottrina mi piace quanto quella del Cristo e dei suoi Apostoli. Oggi, come mille anni fa, gli uomini non sono che degli uomini, ma la Parola di Dio resta eternamente. Magari fosse piaciuto a Dio che Osiandro avesse insegnato il modo di evitare tumulti prima che arrivassero, prima che tanta gente fosse stata messa a morte. Io mi auguro che egli impari ad impedirli per l'avvenire» (p. 167).

 



[SM=g1740771]   continua.........

Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 18:25

5. L'isolamento progressivo

Poco dopo la Pentecoste del 1525 i Consiglieri pretesero di imporre alle suore una riforma in cinque punti, al fine, dicevano, «di preservarle dagli eccessi popolari». Si trattava:

- di rimettere le doti a disposizione delle suore (in modo di assicurare la loro vita materiale, nel caso volessero lasciare la comunità);

- di rimandare le giovani presso le famiglie che volessero riprendersele a tutti i costi, anche contro la loro stessa volontà, perché, dicevano: «Il comandamento di Dio è che i figli obbediscano ai loro genitori»;

- di lasciare l'abito religioso e di vestire come tutti gli altri, perché «non esisteva nessuna differenza tra i laici e gli ecclesiastici»;

- di consegnare al Consiglio l'inventario di tutti i loro beni, redditi, censi, ritenute, guadagni, il tesoro (cioè la cassa), l'ammontare delle doti;

- di aprire una finestra nella grata del parlatorio per conversare liberamente con le suore (pp. 109-115).

Consultate, «le monache tutte e ognuna in particolare, risposero che esse volevano conservare la Regola che avevano accettata davanti a Dio e non quello che sarebbe piaciuto al Consiglio d'imporre» (p. 116).

Le suore fecero l'elenco dell'inventario. Quanto allo finestrella dissero «che certamente non ne consentivano di buon grado la sua apertura, ma che, per evitare un male ancora peggiore, valeva meglio cedere; d'altronde la nostra Regola non impediva di mostrarsi a viso scoperto (p. 117). Ma esse non potevano decidersi di accettare il cambiamento di vestito prima di aver domandato consiglio a qualcuno dei nostri buoni amici ... » i quali consigliarono loro di attendere (p. 118).

In tutte queste occasioni le suore manifestano un senso considerevole di ciò che è essenziale ed un grande spirito di discernimento che testimonia la qualità della loro vita spirituale. Le monache Domenicane avevano accettato d'aprire i loro chiostri ed ebbero a subire molti dispiaceri per questo: «Qualche settimana più tardi il Consiglio decise che i chiostri sarebbero ormai diventati aperti, e che chiunque vi poteva accedere e visitare i propri amici, a piacimento. Da parte loro le suore avevano la libertà di uscire per andare a casa dei loro amici, quando ne sentissero la necessità. E quando gli amici invitavano una monaca a venire da loro, l'Abbadessa non aveva il diritto di rifiutarglielo, ma doveva darle una compagna che mangiava a fianco dell'invitata e poi la riconduceva in seguito al convento. Avevano apportato queste innovazioni a Santa Caterina e ora in questo chiostro c'era un andirivieni perpetuo. Si racconta che il predicatore luterano, Thomas, aveva fatto a cambio di vestito con un altro burlone e poi si era introdotto nel convento di Santa Caterina. Là aveva dato fastidio alle giovani suore pretendendo che gli promettessero di sposarlo. Quando uscì dal convento lui raccontò molte sconvenienze sulle povere figliole di cui invece loro erano totalmente innocenti. Esse reclamarono davanti al Consiglio. Certi Consiglieri che ci sono favorevoli avevano colto l'occasione di tale scandalo per opporsi con tutta la loro forza contro l'apertura dei conventi delle donne. Avevano detto al Consiglio: 'Che ci guadagnerete voi a causare una simile onta. Tra le suore ci sono pure le vostre figlie, le vostre sorelle' ... » (p. 119).

Questo duro combattimento d'una comunità, ormai isolata, contro tutta una città è chiaramente portato avanti con forze ineguali e le Clarisse vedono sempre più restringersi le loro condizioni di vita. Parecchi privilegi ed esenzioni sono soppressi, le rendite delle loro terre compromesse dalle rivolte contadine e dalle guerre tutt'intorno. La loro vita materiale è molto povera; incominciano a prendere in considerazione la possibilità di vendere i loro beni a un prezzo molto basso.

La vigilia del Corpus Domini dello stesso anno ebbero il dispiacere di vedersi portare via tre delle loro sorelle. Le loro famiglie erano venute a riprenderle con la forza, scortate dai membri del Consiglio e dai gendarmi della città. La moglie del loro Curatore partecipava alla 'spedizione'. Su loro richiesta l'incontro ebbe luogo nella Cappella. Le discussioni durarono delle ore: «Ogni madre battagliava con sua figlia, a turno, riempiendola di promesse o asfissiandola di minacce; ma le povere ragazze continuavano a piangere e a lamentarsi senza retrocedere. Il combattimento durò molto a lungo. Caterina lo sostenne così validamente e con tanta intelligenza, che ci si sbalordiva ad ascoltarla. Seppe mettere in tutte le sue parole le affermazioni della Sacra Scrittura, rispondeva a tutte le obiezioni e dimostrò a quelle donne che esse agivano contro il santo Vangelo. Dopo di questo i Consiglieri dissero che non avevano mai udito niente di paragonabile» (pp. 131-132).

Alla fine, però, presero le figlie per le braccia, le tirarono fuori, e le spinsero fin dentro la carrozza malgrado le loro grida e le loro lacrime.

In questo periodo in Germania la dottrina di Lutero avanzava. «Molti principi elettori ed altri hanno ordinato che la nuova religione sia insegnata in ogni luogo dei loro stati e che nessun prete papista poteva ormai predicare, perché non si voleva più vedere gente simile ai membri degli antichi Ordini» (p. 161).

Ma c'erano ancora tanti problemi da risolvere, specialmente quello dell'istruzione della gioventù, perché la cura dell'educazione era, fino a quel momento, affidata alla Chiesa: Melantone era atteso a Norimberga per organizzare un nuovo collegio.

Nello stesso tempo sembra insinuarsi negli spiriti un senso di rilassamento. Nessun dubbio che questo dissidio tra i cristiani sia stato all'origine di una corrente di scetticismo di fronte alla religione, che crescerà sempre più nel corso dei tempi moderni, e che fosse l'esatto contrario di quanto aveva detto Gesù Cristo: «che essi siano una cosa sola affinché il mondo creda». Caritas scrive nelle sue memorie: «Intendo dire che molte persone sono perplesse e che non vanno più a nessuna predica. Dicono che sono indotte in errore dai predicatori e non sanno più a che cosa bisogna credere e darebbero molto per non averli mai ascoltati» (p. 161).

Intanto il Curatore Nutzel si fa sempre più pressante. Cerca tutti i mezzi per convincere le suore. C'è da notare che quasi mai, nelle sue argomentazioni, si parla di scandali o di deficienze del clero. Il dibattito si colloca a livello della fede, non della morale.

Le suore sono preoccupate di ricopiare le lettere o memorie e di annotare certi elementi della predicazione o delle dichiarazioni che i Consiglieri della città sono venuti a fare, assieme alle risposte che loro stesse hanno dato. Per questo motivo noi conosciamo gli argomenti utilizzati da una parte e dall'altra. Lo scambio tra il Dottor Link, e la comunità è particolarmente interessante. Le suore hanno studiato e ricopiato il piccolo trattato del Dottor Link, che mette in discussione tutta la loro vita religiosa.

 

6. I confronti teologici e le controversie sulla vita religiosa

I grandi dibattiti girano attorno ai principali elementi della 'nuova dottrina'.

La Sacra Scrittura. La lettura e l'interpretazione della Sacra Scrittura è sempre alla base dei dibattiti e gli avversari s'appigliano alle citazioni bibliche.

Caritas è fiera di poter affermare a coloro che l'accusano d'essere male illuminate e d'essere dei 'ciechi condotti da altri ciechi': «Noi affermiamo che l'Antico e il Nuovo Testamento, in latino e in tedesco, sono presso di noi di uso quotidiano. Noi li studiamo e ci sforziamo di comprenderli. E non leggiamo solamente la Bibbia, ma anche gli scritti che ci giungono giornalmente. Noi leggiamo tutto, ad eccezione dei libelli o degli opuscoli che ripugnano alla nostra coscienza e che non ci sembrano conformi alla semplicità cristiana» (p. 51).

Di fronte alle diverse interpretazioni della Parola di Dio Caritas non trova ragioni di sceglierne una piuttosto che quella della Chiesa: «Vostra Saggezza per un certo tempo mi ha vantato molto Zwingli e altri. Se noi avessimo creduto loro, dove saremmo arrivate oggi, per esempio, per quanto riguarda il dogma dell'Eucaristia? I predicatori di Strasburgo, me ne sono dettagliatamente informata, non considerano il Cristo che un uomo, simile a tutti gli altri uomini. Se noi li ascoltassimo saremmo certamente sulla cattiva strada. Ciascuno dice: 'Seguiamo la verità della Scrittura', ma ciascuno si serve della Scrittura a modo suo, ciascuno vuole avere ragione, nessuno vuol cedere e queste discussioni non hanno mai fine. Noi ci rimettiamo a quelli più saggi di noi per sbrogliarci da questo caos. In attesa che ci si mostri ciò che è meglio, ci atteniamo a quello che pensiamo meno biasimevole. Se ci sbagliamo in qualche punto, ne siamo dispiaciute, ma ci sono tanti errori in questo momento che saremmo sicure di non soddisfare Dio intraprendendo una qualunque via; preferiamo restare come siamo e Dio accordi la sua grazia a noi povere creature. Amen» (p. 184).

I protestanti le accusano: «Voi credete che Dio giudichi gli uomini solo attraverso i meriti di Gesù Cristo; ne consegue che non dovete annettere tanti meriti alle vostre azioni, alle vostre preghiere, né credervi giustificate attraverso le vostre opere, né sperare il perdono per i meriti dei santi, né per la loro intercessione; ma solamente per la fede, in grazia di Gesù Cristo. Perché queste stazioni, queste cappelle alle quali è affisso un così grande numero di indulgenze? Perché cercate consolazione e soccorso presso i santi, confidando in loro e non soltanto in Dio? E non dite che fate queste opere come frutto della vostra fede, perché la fede non agisce che attraverso l'amore. Non ci sono opere cristiane al di fuori di quelle determinate dall'amore di Dio e del prossimo, perché Cristo è Dio e uomo e ci renderà quello che noi abbiamo fatto al più piccolo dei nostri fratelli» (p. 171).

Caritas replica: «Ci si accusa di confidare nelle nostre opere e di non aspettare salvezza che dal loro soccorso. Grazie a Dio, noi non ignoriamo che l'uomo, seguendo la parola di san Paolo, non può essere giustificato dalle sole opere, ma dalla sua fede nel Nostro Signore Gesù Cristo. Il Salvatore ce lo ha insegnato lui stesso dicendo che, allorché noi avremmo compiuto tutto ciò che era in nostro potere, dobbiamo considerarci come dei servi inutili. Sappiamo, d'altra parte, che una fede vera non esiste senza gli atti, le opere, come non esiste un buon albero senza dei buoni frutti. Noi siamo sicure che Dio tratterà ciascuno secondo le sue buone o cattive opere, allorché appariremo davanti al tribunale di Cristo.
San Giacomo dice che la fede senza le opere è una fede morta .... Sappiamo che non dobbiamo attribuirci il merito delle nostre azioni, e che, se qualche bene si compie per mezzo nostro, la gloria ritorna a Dio, unicamente a Dio. È dunque senza alcun fondamento che ci si accusa di gloriarci nelle nostre opere, perché la nostra gloria è tutta intera in Gesù crocifisso e umiliato, che ci invita a portare la sua croce e a seguirlo.
Ma se l'uomo è salvato per la grazia di Dio, e non per i propri meriti, bisogna dunque che, come un buon albero, porti dei buoni frutti, che saranno la dimostrazione della sua fede, perché il Signore Gesù ha detto: 'li riconoscerete dai loro frutti'.
Quando le opere della fede non esistono e più ancora quando la carità fraterna, che insegna a sopportarci reciprocamente, è assente, allora la fede è meno che niente, e non sposta nessuna montagna. È proprio perché, secondo le parole di san Paolo, sappiamo che saremo giudicati sulla nostra fede, che noi siamo in pace con Dio. In tale fede vogliamo vivere e morire; e che il mondo ci giudichi come vuole» (p. 152).

La vita religiosa. Il grande argomento dei Luterani: questa forma di vita non c'è nel Vangelo; è una invenzione umana e perciò diabolica. Il Curatore Nutzel diceva loro: «Che i loro dottori insegnano, al momento, che in questo mondo non serve a niente condurre la vita del chiostro, e che perciò il chiostro non poteva essere di nessun aiuto alla nostra salvezza, non avendo il suo fondamento nel Vangelo» (p. 23). «E che non si deve fare niente per Dio al di fuori di ciò che la sua parola ci ordina con sicurezza ... » (p. 195). Caritas replica citando san Paolo e gli Atti degli Apostoli: «Noi seguiamo l'esempio dei primi cristiani di cui è scritto negli Atti, che possedevano tutte le cose in comune, condividevano tra loro ogni nutrimento e che dimoravano tutto il giorno nel tempio e lodavano Dio» (p. 32).

Altro argomento dei protestanti: si deve seguire la via comune e non bisogna fare i singolari, in quanto non c'è che un solo popolo cristiano. «Voi non dovete separarvi dal resto degli uomini, né cercare delle vie e dei modi di vivere in maniera singolare. L'amore non vuole queste cose, è libero e comune a tutti e Cristo non ama che le opere che emanano da una vera fede e da una vera carità. Io temo che la vostra scelta di opere singolari vi impedisca di fare opere di carità cristiana. Quante tra di voi potrebbero servire gli uomini attraverso delle strade ordinarie, sia nell'istruzione della gioventù, la manutenzione di una casa, il governo di un ambiente coniugale, l'educazione dei ragazzi ecc. Ecco le opere che Dio domanderà, nell'ultimo giudizio, come i veri frutti di una fede vera. Voi siete impedite e imprigionate dalle vostre opere che vi siete inventate, non meno di un giovane albero che è soffocato, tanto che non può crescere e portare frutti per i bisogni degli uomini. È evidente che voi non cercate nella vita del chiostro che la vostra salvezza, non tenendo conto di ciò che è utile al prossimo e di ciò che è comandato dal vero amore. Non rispondete: 'noi preghiamo, noi cantiamo, e digiuniamo per gli altri'; queste cose non devono servire che per la mortificazione dell'uomo vecchio e per il rinnovamento della vita interiore; pur facendo queste cose non devono essere trascurate le opere della carità. Il Cristo vi punirà come delle ipocrite, voi che prendete pretesto dalla vostra vita chiusa nel chiostro per disinteressarvi del vostro prossimo. Ciascuno riceverà il prezzo delle sue opere secondo il modo in cui avrà messo a prova la propria fede nel servizio dei suoi fratelli, e non secondo come avrà cantato, pregato e fatto le sue stazioni» (pp. 171-172).

Di fronte all'accusa d'inutilità fatta ai monasteri, suor Caritas replica: «Noi non possiamo credere che uno sia in buonafede quando ci rimprovera la nostra vita claustrale. Abbiamo imitato gli Apostoli che avevano tutto in comune, i cristiani. della Chiesa primitiva. Allorché la vita claustrale abbia per scopo un'intenzione retta e non faccia del torto a nessuno non può essere un male, perché si ottiene, grazie ad essa, più pace, ordine e concordia in mezzo ad un gran numero di persone.
Sappiamo anche che dobbiamo sostenere fedelmente ed aiutare il nostro prossimo. Speriamo di non mancare a questo dovere: si tratta di un dovere che le nostre suore si sono prefisse di esercitare tra di loro. Ma se con questo rimprovero s'intende che noi ci aiutiamo tra noi e non aiutiamo per niente gli altri, ebbene, allora possiamo invocare a nostro favore la testimonianza di molta gente di fuori» (p. 179).

Quanto al matrimonio sul quale i protestanti insistevano tanto, lei dichiara: «Non crediate tuttavia che noi disprezziamo lo stato di matrimonio. Colui che si sposa fa bene, ma san Paolo ci dice che colui che non si sposa fa meglio. Nessuna persona sensata saprebbe biasimarci della scelta di servire Dio nello stato verginale. Noi non vorremmo mai trattenere tra noi quelle che non hanno questa vocazione; noi non tratteniamo, contro la sua volontà, nessuna delle nostre sorelle; i loro parenti possono testimoniarlo, noi non nascondiamo la possibilità del matrimonio. Se qualcuna desiderasse ritornare nel mondo, noi non la condanniamo: che ciascuna di noi giudichi se stessa, ciascuno parlerà per conto suo davanti al tribunale di Dio. Giacché non opprimiamo nessuno, noi chiediamo che si usi questa stessa reciprocità con noi: reclamiamo la libertà, non del corpo ma dello spirito».

Le si accusa anche di confidare nell'intercessione dei Santi al posto di contare sull'unica mediazione del Cristo, accusa che Caritas rifiuta energicamente: «Io so, e le nostre suore lo sanno come me, che non c'è altro mediatore tra Dio e gli uomini al di fuori di Gesù fatto uomo; tuttavia, non è giusto non onorare i cari santi; invocandoli io seguo le lezioni di sant'Agostino, di san Girolamo e di san Cipriano. Se si dice che costoro erano degli uomini e potevano sbagliarsi, rispondo che nemmeno quelli che li combattono sono degli dèi e possono sbagliarsi anche loro. Questi grandi santi di cui molti hanno versato il loro sangue per la fede cristiana sono più degni di fede che gli iconoclasti e i detrattori dei Santi».

Con un grande e abile buon senso, con una costanza tenace e infrangibile, suor Caritas oppone a tutti questi attacchi degli argomenti che testimoniano una fede molto illuminata. Nello stesso tempo ella rivendica, in un modo molto moderno, l'imprescrittibile libertà della coscienza. Ha saputo accogliere gli argomenti protestanti, riconoscendo in essi quello che c'è di buono e utilizzandoli per difendere la sua fede cattolica.

I suoi argomenti sono semplici, chiari e vanno diritto all'essenziale. Non si perde dietro questioni secondarie. Non è fissa sul passato come tale, ma in questi tempi di dubbi dove nessuno è d'accordo, essa si attiene al perenne pensiero dell'intera Chiesa. «Essendo la nuova dottrina oggetto di grandi discordie ... poiché ognuno rivendica per sé la vera interpretazione della Sacra Scrittura, noi povere figlie ignoranti, vogliamo rimanere attaccate alla fede primitiva del santo Vangelo, finché tutto quanto non sarà rientrato nell'ordine con l'aiuto di Dio» (p. 93).

Ella fa questa professione di fede: «La Chiesa è stata governata fino ad ora dallo Spirito Santo, secondo le promesse del Cristo. Niente ci separerà da essa. Noi soffriremo ciò che piacerà a Dio di mandarci, è meglio soffrire a causa del male che consentire a fare del male» (p. 72).

Il dibattito è stato spesso indirizzato sul problema della libertà. Caritas fa della libertà della coscienza la sua roccia incrollabile. Contrariamente a ciò che ci si sarebbe potuto attendere, è Caritas che prende la difesa della libertà di fronte ai Luterani che non esitano a pensare che si possa costringere qualcuno pur di salvarlo. Per esempio, appoggiandosi sul decalogo, essi trovano legittimo che i parenti impongano la loro volontà ai loro figli anche se adulti. Alle suore che deplorano questo fatto, i Consiglieri dichiarano: «Voi dovete capire bene che gli amici e i parenti cercano di portarvi via dal chiostro attraverso tutti i mezzi possibili e condurvi nella vera via della salvezza, senza sentire se volete restare o no al convento. Allo stesso modo che, quando si vede un malato in preda alla febbre, non si deve esitare, né domandare il suo consenso per curarlo. E voi siete obbligate dalla legge di Dio a obbedire ai vostri parenti e ai vostri superiori e non ai vostri voti che non sono stati ordinati dalla parola di Dio». In modo più generale aggiungono: «Se vi si dimostra con ragione, attraverso le Scritture, che alcune delle vostre cerimonie non
sono utili né benefiche ai cristiani, anche se non ne convenite, bisogna tuttavia che vi sottomettiate a questa verità e non vi crediate perseguitate perché uno ve le impedisce. Voi le conservate solo per delle ragioni estranee alla parola di Dio. Colui che predica la Parola non deve domandarsi se è dolce o no a colui che l'intende, se ferisce o no, se è contro la sua coscienza o no, perché la coscienza non esiste se non si fonda sulla Parola di Dio; fuori di ciò, tutto quanto è pura chimera».

A quell'epoca non c'era separazione tra potere civile e potere religioso, perché si considerava che ogni autorità provenisse da Dio. Ciò spiega le pretese del Consiglio di dirimere le questioni religiose. Ma suor Caritas afferma: «Se si deve cedere nelle altre cose, è per andare incontro alla salvezza, e non bisogna abbracciare una fede solo per obbedire a delle creature» (p. 92). «La Fede è un dono di Dio ed è libera; è per questo che non può essere introdotta a forza e con le minacce nel cuore degli uomini» (p. 152).

 




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Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 18:31

7. La visita di Melantone

I Consiglieri, però, non sembravano sensibili agli argomenti delle suore. Fortunatamente esse trovarono un appoggio, insperato, proprio in Filippo Melantone, uno dei maggiori capi del movimento luterano: «Qualche giorno più tardi, il Curatore venne a visitarci con Messer Filippo Melantone, nella casa dei confessori. Messer Filippo parlò molto della nuova dottrina; ma quando intese da me che ci basiamo sulla grazia di Dio e non sulle nostre proprie opere, disse che noi possiamo salvarci sia nel chiostro che fuori del chiostro, dal momento che non leghiamo nessun merito ai nostri voti. Diceva che i voti non ci vincolano, e io rispondevo che si era obbligate a mantenere, con il soccorso della grazia, quello che si era promesso a Dio. Nei suoi discorsi era più sensato di tutti gli altri Luterani che ho inteso. Si mostrò totalmente contrario alla violenza. Si congedò da noi molto amichevolmente. In seguito sembra che abbia discusso con vivacità con il Curatore e gli altri Consiglieri su molti punti. Si lamentò che fosse stato interdetto ai Frati Minori di officiare presso di noi e del fatto che erano state portate via con forza le tre religiose fuori dal convento. A quattr'occhi disse loro che era stato commesso in questo un grande peccato. Dio ci aveva inviato questo Luterano al momento giusto, perché questo era il tempo in cui avevano deciso definitivamente di scacciarci dal chiostro, di distruggere i nostri monasteri, di chiudere in uno stesso convento tutte le religiose che rimanevano intestardite nella loro antica dottrina e di forzare le giovani a rientrare nel mondo.
Messer Filippo respinse un gran numero di cattiverie che volevano fare contro di noi. Egli disse quanto fosse contrario alla mente di Dio usare una tale violenza. Avrebbe anche aggiunto: che né il padre né la madre avevano diritto di rispondere a Dio dei figli che essi avevano ripreso forzatamente dal chiostro. Ad alcuni che gli avevano chiesto cosa bisognasse fare per i chiostri e se lui fosse favorevole a distruggerli, rispose che bisognava lasciarli nel loro stato attuale, che si poteva anche non dare loro un grande aiuto, ma che non si aveva il diritto di togliere nulla; che non era stato distrutto nessun convento né a Wittenberg e nemmeno negli altri centri luterani. Prese così bene la nostra difesa che tutti si calmarono e da quel giorno, non mostrarono più verso di noi la stessa insolenza. Egli insistette con Messer Nutzel perché non ritirasse la sua curatura, cosa che lui ha continuato a svolgere con zelo.
Il Curatore mi scrisse a questo proposito la lettera seguente: 'venerata signora e cara suora: ... mi dispiace che per colpa mia certi predicatori vi abbiano importunato. Dio sa che è il desiderio di essere utile che mi ha fatto eccedere nella mia autorità e nel mio impegno. È perciò che ho deciso di non tormentare più né voi né le vostre sorelle; e di attenermi alle mie funzioni passate, che non mi pesano e non mi danno dei ripensamenti: al contrario, di queste io ringrazio Dio'».

 

8. Gli ultimi anni

Uno dei dispiaceri più grossi verrà tuttavia alla comunità delle suore, dal proprio interno. In questa comunità così unita fino a quel momento, una sorella finisce per farsi convincere ad abbracciare la nuova dottrina. Anna Schwarz cominciò a condurre una vita appartata: «Quando si andava a tavola ella andava a dormire, quando si era nel coro ella si metteva a mangiare ... Non intendeva più ricevere alcuna ammonizione dalle sue superiore e viveva in uno stato di ostilità continua ed era diventata di peso al convento intero ... Nonostante ciò il convento aveva deciso all'unanimità che le cose non si sarebbero troncate da parte nostra, perché non si dicesse, poi, che noi l'avevamo mandata via .... La sua famiglia stessa le consigliava di restare, sperando così d'indebolire la comunità, ma un giorno lei reclamò la sua dote e chiese di partire .... Noi fummo molto rattristate per la salvezza della sua anima, benché la sua partenza fosse un grande sollievo per tutta la comunità» (pp. 227-231).

Lo stesso anno il Vescovo di Bamberga, da cui dipendeva Norimberga, tentò di fare il punto della situazione dei conventi della sua diocesi e convocò «tutti gli Abati, i Priori, i Superiori, le Decane, le Abbadesse per il mercoledì dopo la festa di san Pietro in Vincoli il 5 aprile». Ma la situazione è tale che Caritas scrive per scusarsi della sua assenza: «Non abbiamo libertà nei nostri atti e siamo soverchiate da tutti i mali» (p. 235).

La raccolta dei Fatti memorabili si ferma al 1528. In seguito, noi siamo informati sul monastero solo attraverso le lettere che Caterina manda a suo padre Willibald Pirckheimer, fratello di Caritas; racconta con grande gioia il giubileo d'argento di Caritas e questo ci permette di entrare un po' nell'intimità della vita di queste suore la cui resistenza e l'isolamento non hanno assolutamente abbattuto il morale.

Nel 1529, dopo tutti questi anni di avversità e di molestie, Caritas doveva ancora conoscere una grande gioia. Era il giubileo dei suoi venticinque anni di Abbaziato e le sue sorelle s'ingegnarono a festeggiare con molta solennità. Caritas stessa aveva da anni fatto economia per poter offrire qualche cosa alle sue sorelle. Willibald inviò un vino squisito e, per la cena della festa, aveva mandato anche il suo vasellame in argento. La stessa speziaia, una vedova che amministrava la casa di Willibald, rimasto vedovo anche lui da molto tempo, inviò del vino e del vasellame d'argento. La sorella di Caritas e le figlie sposate di Willibald inviarono ugualmente del vino, delle trote e dei dolciumi.

La figlia di Willibald, Caterina, festeggiava, nello stesso giorno, il sedicesimo anniversario del suo ingresso in monastero. E racconta in dettaglio la festa in una lettera a suo padre: «Il mattino del giubileo tutta la comunità andò a prendere l'Abbadessa nella sua cella e la accompagna al coro con delle candele accese; la Vicaria le ha messo sulla testa la corona giubilare. Le suore hanno cantato l'Ufficio del giorno e i canti della messa; esposto il Santissimo Sacramento, hanno fatto la comunione spirituale, secondo le parole di san Agostino: 'Crede et manducasti'» (così scrive Caterina nella sua lettera). Poi l'Abbadessa è stata fatta mettere davanti all'altare e ogni suora le si è avvicinata; l'Abbadessa abbracciando ciascuna le ha dato un piccolo anello in segno della loro fedeltà reciproca e della loro fedeltà al loro Sposo spirituale Gesù Cristo.

In refettorio, 'niente economia' (come scrive Caterina); le suore si misero d'accordo nel mangiare e nel bere qualcosa di speciale in occasione di questa festa rara. Willibald aveva dato loro una piccola damigiana di vino e aveva fatto dire loro che la dovevano vuotare, ma era troppo per essere bevuto per un solo giorno, e fu servito ancora nei giorni seguenti. Verso la sera iniziarono un piccolo passo di danza alla quale partecipò anche la vecchia Madre Vicaria, Apollonia Tücher in monastero da cinquantasette anni. L'Abbadessa suonò la cetra: era molto dotata nella musica, come suo fratello.

'Non era mai stata ancora celebrata una grande festa al monastero di Santa Chiara' - continua Caterina nella sua lettera - perché mai un'Abbadessa era stata così tanto in carica. «Ciò che ci dispiace - scrive - è che l'Abbadessa, alla sua rispettabile età, dovesse ancora fare fronte a tutti questi compiti come il primo giorno in cui aveva fatto le solenni promesse, ma ne avrebbe sofferto molto se qualcuna l'avesse dispensata». Prova che Caritas seguiva coscientemente le Regole dell'Ordine malgrado la sua età e la sua malattia.

In questi ultimi anni Caritas aveva ancora un amico e consigliere spirituale. Non abbiamo che una lettera da parte sua, ma è lecito dedurne che ebbero uno scambio di corrispondenza molto frequente. Malauguratamente non abitava a Norimberga. Era il priore del convento dei canonici di San Agostino, Kilian Leib, un umanista ardente che era legato da amicizia con Willibald Pirckheimer ed era in corrispondenza con lui. Nella sola lettera che noi abbiamo, del mese di marzo 1530, Caritas ringrazia il priore dei suoi buoni consigli e gli chiede di nuovo consiglio, soprattutto riguardo la validità dei voti, perché i Luterani la rimproveravano con una certa sottigliezza. È ella spergiura e traditrice come le altre monache e monaci che escono dai monasteri, in quanto avendo promesso obbedienza, non aveva potuto tener fede a questo voto non avendo più dei superiori a cui era tenuta ad obbedire?

Nel 1530 Willibald, il loro fedele sostenitore, muore; Caritas muore a sua volta nel 1532. Sua sorella Clara le succedette, ma il Signore la chiamò a sé l'anno seguente ed è sua nipote Caterina, ad essere eletta abbadessa. La comunità si mantenne solida, pur diminuendo progressivamente.

Ma lo Spirito soffia dove vuole; e la commovente avventura della giovane Caterina Glaser lo testimonia, unico evento inatteso nell'umile, fiera e lunga perseveranza quotidiana delle suore: «Il 5 ottobre del 1539 Caterina, che da tre anni supplicava le suore di accoglierla, architettò, aiutata da una serva, di penetrare all'insaputa delle suore attraverso la ruota. Essendo riuscita in questo stratagemma, sorprese le suore nel refettorio e le supplicò di tenerla con loro. Ora, il Consiglio della città aveva interdetto ogni nuovo ingresso in monastero. Le suore imbarazzate e commosse non ebbero tuttavia cuore di rinviarla e la tennero con sé come serva, ma la cosa finì per essere risaputa nel giro di qualche settimana e i Consiglieri vennero al monastero esigendo che venisse loro restituita. La trascinarono via malgrado le sue lacrime e le sue suppliche. La portarono nella casa del sergente della città, la tennero chiusa per parecchi giorni e la interrogarono duramente. Ella dovette fare ammenda onorevole in presenza di sua madre e giurare che non avrebbe tentato una cosa simile mai più. E le si volle interdire l'ingresso a tutti gli altri chiostri della giurisdizione del Consiglio, dentro la città e fuori della città. Poi le si rese la libertà. Ella ritornò da noi dopo il pranzo e ci raccontò piangendo a calde lacrime, che cosa le era capitato. Allora noi ringraziammo e lodammo Dio per la sua misericordia verso di noi, considerando la fortezza che ha dato agli umili. I due Signori, Geuder e Ebner ritornarono da noi, due giorni più tardi a direi che il Consiglio li aveva incaricati di esprimere molto severamente la propria disapprovazione. In seguito inviammo quella povera ragazza a Bamberga dalle suore di santa Chiara con sua madre. L'anno seguente, dopo Natale, fu ricevuta nella comunità con grande solennità; e le suore ringraziarono Dio d'aver una così pia fanciulla tra di loro».

A Norimberga l'ultima Clarissa, suor Felicita, si spense nel 1591 all'età di novant'uno anni. Conformemente alle loro promesse, i Consiglieri dovettero attendere la sua morte per prender possesso del convento. Questa clausola era stato un privilegio in omaggio alla bella resistenza di Caritas e delle sue suore: infatti, in quasi tutte le altre città protestanti, le monache erano state obbligate all'esilio.

3/ Il senso delle pressioni religiose dell’epoca

3.1/ presso i luterani

 

da Lucas Cranach il Vecchio (presentazione della mostra organizzata dalla Luther Memorial Foundation of Saxony-Anhalt)  su www.gliscritti.it

Oltre la sua estesa attività artistica Cranach il Vecchio spesso lavorava per la città di Wittenberg - fu eletto al consiglio cittadino in più occasioni come tesoriere e sindaco.

Durante il suo incarico di sindaco fu anche giudice e nel 1540 dovette infliggere numerose condanne a morte. Le persone da lui condannate per assassinio, stregoneria e magia nera furono decapitate nella piazza del Mercato, a pochi passi dal portale del Municipio.

 

da Martin Lutero, Contro le empie e scellerate bande dei contadini

Un uomo ribelle è al bando di Dio e dell’imperatore, cosicché chi per primo voglia ucciderlo agisce molto rettamente: contro chiunque sia sedizioso in modo manifesto ogni uomo è a un tempo giudice e carnefice... Per la qual cosa chiunque lo può colpire, scannare, massacrare in pubblico o in segreto, ponendo mente che nulla può esistere di più velenoso, nocivo e diabolico d’un sedizioso, proprio come si deve accoppare un cane arrabbiato, perché, se non lo ammazzi, esso ammazzerà te e con te tutto un paese (WA 18,358; Contro le empie e scellerate bande dei contadini, p. 485). Per la qual cosa, cari signori, liberate, salvate, aiutate e abbiate misericordia della povera gente; ma ferisca, scanni e strangoli chi lo può; e se ciò facendo troverai la morte, te felice, morte più beata giammai potresti incontrare, perché muori in obbedienza alla parola ed al volere di Dio (Rm 13, 5 ss) e al servizio della carità, per salvare il prossimo tuo dall’inferno e dai lacci del demonio (WA 18,361; Contro le empie e scellerate bande dei contadini, 490).

 

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, in E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, p. 170

I predicatori sono i più grandi assassini. Essi infatti esortano l’autorità a disporre risolutamente e a proprio talento del suo ufficio e a punire gli elementi nocivi. Nella sollevazione io ho ammazzato tutti i contadini; tutto il loro sangue è sul mio collo. Ma io lo rovescio su nostro Signore Iddio; egli mi ha imposto di parlare in modo siffatto (WATr 3, 75, n. 2911a).

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, n. 2189, p. 166 (in Discorsi a tavola. Passi scelti e chiose di G.B. Proja, Roma, 1983, p. 55-56)

Per questo la battaglia con i falsi fratelli [allusione agli zwingliani] sia per i cristiani la più grande di tutte, essa tuttavia è di gran lunga la più grande poiché essi vogliono essere, ed essere chiamati cristiani pur non essendolo. Che se volessero chiamarsi Pilato, Giuda ed Erode, se cioè volessero rinunziare all'appellativo di cristiani, sopporteremmo da loro tutte quelle molestie che osassero infliggerei e la guerra cesserebbe e ci sarebbe restituita la pace. Invece poiché vogliono frattanto che sia apposto il nome di cristiani, bisogna combatterli e non sopportare in alcun modo che parlino con sicurezza e facciano quello che non si addice ai cristiani. Infatti rivendichiamo a noi il governo delle coscienze mediante la parola e non vogliamo lasciarcelo portar via».

 

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, 3969 – 20 agosto 1538, Einaudi, Torino, p. 276

Un parere di Lutero sulle streghe. Quel giorno il signor Spalatino riferendo dell'insolenza delle streghe disse che una fanciulla di Altenburg versava lacrime di sangue: «Se quella strega è presente, anche se essa non la vede o non la conosce, sente tuttavia la sua presenza e versa lacrime». Lutero rispose: «In questo caso, con donne simili, si dovrebbe andare per le spicce e suppliziarle! I giuristi vogliono avere troppe testimonianze, disprezzano quei fatti evidenti. Io, - disse, - ho avuto proprio in questi giorni un caso matrimoniale di questo genere: una moglie aveva voluto uccidere col veleno il marito, cosicché questi si era strappato di dosso delle lucertole, e inquisita con le torture, non dette alcuna risposta, perché tali streghe sono mute e disprezzano le pene; il Diavolo non le lascia parlare. Quei fatti portano testimonianze sufficienti sulla necessità che vengano punite in maniera esemplare per spaventare gli altri».

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, 3969 – 20 agosto 1538, Einaudi, Torino, p. 347

5670 – 1544.

Le annotazioni di Erasmo al Nuovo Testamento. «Io preferirei che fossero vietate a causa dell’epicureismo e perché vi sono inoculati molti veleni. Egli ha ucciso molti corpi, vite e anime. È una delle cause dei sacramenti. Quando fece progredire la filologia, tanto nocque al Vangelo. È stato un uomo infame. Zwingli fu sedotto da lui. Ha convertito anche Egrano, che crede altrettanto quanto lui. Anch’egli morì senza la croce e senza la luce. Se fossi giovane, vorrei studiare alla perfezione la lingua greca per conoscerla e così potrei farci altre annotazioni».

3.2/ presso i calvinisti

da Le Conseil de Berne au Conseil de la neuveville, 28 marzo 1544, in Calvino, Contro i nicodemiti, anabattisti e libertini, Claudiana, Torino, 2006, p. 36

Ci è stato riferito che uno dei vostri cittadini, chiamato (se inteso bene) le Pelloux ha fatto stampare in Germania circa 1500 libri contenenti le questioni discusse da quelli detti ribattezzatori [ ... ] essi sono già diffusi nel cantone di Neuchàtel, per cui c'è da temere molti disordini. Pertanto vi preghiamo ed esortiamo a voler provvedere e por rimedio con la massima diligenza possibile, prima che le cose vadano troppo oltre; giacché conoscete bene le conseguenze che possono derivare dai libri suddetti se non vi si provvede come si deve.

 

da Calvino, Contro gli anabattisti, 1544, Claudiana, Torino, 2004, p. 173

Non neghiamo certo che la scomunica sia una regola buona e santa; e non solo utile, ma anche necessaria alla chiesa. Per di più è da noi che questi miseri ingrati hanno appreso tutto quello che sanno; soltanto che per la loro ignoranza e la loro presunzione hanno corrotto la dottrina che da parte nostra avevamo insegnato loro correttamente. Comunque, per toglierei rapidamente di torno questo articolo, metterò in evidenza su che cosa concordiamo e in che cosa differiscono da noi. Come ho già detto, da parte nostra non ci stanchiamo di insegnare che la scomunica, secondo quanto Gesù Cristo ci ha prescritto, deve essere mantenuta e riteniamo che essa sia uno strumento necessario per custodire la Chiesa. Inoltre, siamo attenti e solleciti, per quanto attiene a noi, nel vigilare con premura che sia ristabilita nella sua autorevolezza e che sia esercitata come si deve, dichiarando ad alta voce che quando non si fa così si commette una grave colpa e un peccato davvero esecrabile. In questo, dunque, gli Anabattisti non differiscono in nulla da noi. Se noi condannassimo la scomunica, oppure facessimo credere che è cosa superflua e inutile, oppure fossimo ben felici se nella chiesa non ci fosse posto per essa, allora avrebbero ragione di brontolare contro di noi.

da Calvino, Contro gli anabattisti, 1544, Claudiana, Torino, 2004, p. 205

Noi riconosciamo di comune accordo che la spada è la legge di Dio, al di fuori della perfezione di Cristo. Dunque i principi e i potenti della terra sono stabiliti per punire i malvagi e metterli a morte. Nella perfezione di Cristo, invece, la massima pena è la scomunica, senza morte del corpo.

 

da A cinquecento anni dalla nascita di Giovanni Calvino. L'uomo di fronte all'incomprensibile volontà divina, di Jean-Blaise Fellay

Si è detto che il primo Lutero si domandava: come posso essere salvato? Zwingli, parroco di città, si inquietava: come riformare la mia parrocchia? E Calvino, giurista di formazione, e che non è mai stato prete, si diceva: come realizzare una città cristiana? È ciò a cui intende dedicarsi. "Prima del mio arrivo a Ginevra - dice sul letto di morte - non c'era alcuna riforma, si predicava appena un po'. (...) Non basta che ogni cittadino sia cristiano, ma bisogna che anche lo Stato lo diventi". Calvino organizza il controllo della città: una professione di fede che tutti gli abitanti devono sottoscrivere, e il concistoro, nel quale siedono pastori e magistrati. Essi sorvegliano l'ortodossia religiosa, le abitudini, i divertimenti e le forme di pietà degli abitanti. Ginevra diventa una città-Chiesa, dedita al servizio e alla gloria di Dio, un centro internazionale di esportazione ideologica.

 

-Sono noti, fra gli altri, i casi di Miguel Servet, Valentino Gentile, Sébastien Castellion, Jérome Bolsec, Jacques Gruet, o delle “centinaia di povere donne (spesso procuratrici di aborti), che Calvino ha fatto bruciare” (Franco Cardini su La stampa del 3 luglio 2009) – oppure sulla riforma da lui propugnata volta a trasformare la città in un luogo dove una certa morale governasse la vita pubblica, attraverso il controllo degli eventi privati e familiari, fino all’abolizione di ogni svago lascivo e, persino, del gioco delle carte.

 

-Teodoro di Beza

De haereticis a civili magistratu puniendis libellus, adversus Martini Bellii farraginem et novorum Academicorum secta



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Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 18:33

3.3/ presso gli anglicani

-arcivescovo John Fischer, decapitato nel 1535; la testa esposta per 10 giorni

-madre del cardinal Reginald Pole uccisa nel 1541, perché il figlio si rifiutava di appoggiare Enrico VIII

-Tommaso Moro, decapitato il 6 luglio 1535

 

da Antonio Maria Sicari, Ritratti di santi, Jaca, Milano, 2009 

Nel carcere [Tommaso Moro] scrive uno dei più bei testi filosofico-spirituali in lingua inglese: il Dialogo del conforto nella tribolazione; poi inizia un Commento alla Passione di Cristo. Negli atti del processo si legge:

Interrogato se riconosceva e accettava e riteneva il re quale Capo supremo della Chiesa inglese… si rifiutava di dare una risposta diretta dichiarando: «non voglio più avere a che fare con tutto questo, perché ho fermamente deciso di dedicarmi alle cose di Dio e di meditare sulla sua Passione e sul mio passaggio da questa terra».

Sa di dover morire, ma non vuol dare nessun appiglio. Quando – commentando la passione – giunge alla frase evangelica che dice «gli misero le mani addosso», il trattato si interrompe perché gli tolgono tutto ciò che gli serve per scrivere.

Il 1° luglio, viene condannato a morte per alto tradimento. Allora, con tutta la chiarezza giuridica di cui è capace, dichiara l’illegittimità dell’Atto di supremazia.

Il 6 luglio viene decapitato (p. 42). [...]

«Lascia i vivi e ripensa a quelli che sono morti e che Dio, spero, ha ricevuto in paradiso. Son sicuro che la maggior parte di essi, vivendo, avrebbe giudicato le cose come me… e prego Dio che la mia anima resti in compagnia della loro. Ancora non ti posso dire tutto. Ma, per concludere, figlia mia, come t’ho detto spesso, io non mi incarico di definire, né di discutere in queste materie, non attacco né condanno l’attitudine degli altri, non ho mai detto una parola, né scritto una riga contro la decisione del Parlamento e non mi impiccio per nulla della coscienza di quelli che pensano o dicono che pensano diversamente da me. Non condanno nessuno, ma la mia coscienza su questo punto è tale, che va della mia salvezza. Di ciò Meg, sono convinto come dell’esistenza di Dio» (p. 44). [...] 

«Certamente, Meg, tu non puoi avere un cuore più debole e più fragile di quello di tuo padre… e in verità, in ciò è la mia grande forza, che benché alla mia natura ripugni così grandemente il dolore, che un buffetto mi fa quasi traballare, tuttavia in tutte le agonie sofferte, grazie alla pietà e alla potenza di Dio, non ho mai pensato di acconsentire a tutto ciò che fosse contrario alla mia coscienza» (p. 45).

«Cristo sapeva che molti, per la loro stessa debolezza fisica, si sarebbero lasciati atterrire alla sola idea del supplizio… e ne volle confortare l’animo con l’esempio del suo dolore, la sua tristezza, la sua angoscia, la sua paura. E a chi sarebbe stato fisicamente costituito a quel modo, cioè debole e pauroso, volle dire quasi parlandogli direttamente: ‘Fatti coraggio, tu che sei così debole; per quanto tu ti senta stanco, triste, impaurito e piegato d’intima angoscia... Pensa che ti basterà camminare dietro a me… Affidati a me, se non puoi avere fiducia in te stesso. Vedi: io cammino innanzi a te per questa via che ti fa tanta paura, aggrappati all’orlo della mia veste e da lì attingerai la forza che tratterrà il tuo sangue dal disperdersi in vani timori e terrà saldo il animo al pensiero che stai camminando dietro le mie orme. Fedele alla mie promesse io non permetterò che tu sia tentato al di sopra delle tue forze’». (Nell’Orto… p.35) (p. 46). [...]

Discorso di Tommaso Moro dopo la condanna:

«Milord, dal momento che questa accusa si basa su un atto del Parlamento che è formalmente in contraddizione con le leggi di Dio e della santa Chiesa, secondo le quali nessun principe temporale, mediante nessuna legge, può arrogarsi il supremo governo o una qualche parte di governo che appartiene legittimamente alla sede di Roma, a causa della preminenza spirituale accordata come prerogativa speciale per bocca del nostro Salvatore presente di persona su questa terra, unicamente a san Pietro e ai suoi successori, i vescovi della stessa sede, tale atto è dunque tra i cristiani insufficiente in via di diritto a perseguire qualsiasi cristiano».

All’obiezione che tutti vescovi, tutte le Università e tutti i dotti del regno hanno sottoscritto quell’atto, risponde:

«Quand’anche l’insieme dei vescovi e delle Università fosse così importante quanto Vossignoria sembra credere, io non vedo affatto, Milord, per quale ragione questo debba portare qualche cambiamento nella mia coscienza. Poiché io non metto in dubbio che in tutta la cristianità, anche se non in questo Regno, non sono pochi ad essere del mio parere a tale riguardo.

Ma se parlassi di coloro che sono già morti, e tra essi ora molto sono santi in cielo, sono certissimo che di gran lunga la maggior parte di loro, da vivi hanno pensato come io penso ora; è per questo quindi che non sono tenuto, Milord, a confermare la mia coscienza al concilio di un solo regno contro il Concilio generale della cristianità».

Parole finali di Tommaso Moro davanti ai suoi giudici:

«Non ho nulla da aggiungere, Signori, se non questo: come l’apostolo Paolo, secondo quanto leggiamo negli Atti degli Apostoli, assisté consenziente alla morte di S. Stefano, custodendo addirittura gli abiti di coloro che lo lapidavano, e tuttavia ora è con lui , santo in cielo, e là essi resteranno uniti per sempre, veramente allo stesso modo io spero (e pregherò intensamente per questo) che io e voi, miei Signori, che siete miei giudici e mi avete condannato sulla terra, possiamo, tutti insieme incontrarci con gioia in cielo per la nostra salvezza eterna». (Dalla Biografia, scritta da Roper) (pp. 46-47).

 

3.4/ a “sinistra” di Lutero

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, n. 84, p. 14 (in Discorsi a tavola. Passi scelti e chiose di G.B. Proja, Roma, 1983, p. 33)

Müntzer, Carlostadio, Campano sono proprio diavoli incarnati. Infatti non pensano altro che a nuocere e vendicarsi.

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, n. 440, p.34 (cfr. anche n. 1793, p. 152) (in Discorsi a tavola. Passi scelti e chiose di G.B. Proja, Roma, 1983, pp. 33-34)

Perciò d’ora innanzi Butzer [collega e continuatore del morto Zwingli] non avrà presso di me alcuna speranza di indulgenza e di perdono, perché giustifica ancora Zwingli e non si pente ancora del falso dogma. Essi sono strumenti di Satana perché san vendere parole così belle che splendono con tanta grazia e tuttavia sono puro veleno.

da T. Müntzer, scritti diretti agli abitanti di Allstedt del 26 o 27 aprile 1525 (quando incitò i suoi seguaci , quali “servitori di Dio contro gli empi”, ad aderire alla guerra dei contadini “con la spada di Gedeone” (cfr. E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, p. 161)

Io vi dico questo: che se voi non volete soffrire per amore di Dio, dovete essere martiri di Satana... Tutte le nazioni, la tedesca, la francese e quelle straniere in genere sono vigilanti... Non spaventatevi, dunque. Dio e con voi... Non dovete temere la gran massa: la lotta non è vostra, ma del Signore. Non siete voi a combattere.

da Luther Blisset, Q, Einaudi, Torino, 2000, p. 86

Vidi falci trasformarsi in spade, zappe divenire lance e uomini semplici lasciare l’aratro per mutarsi nei più impavidi guerrieri. Vidi un piccolo falegname incidere un grande crocifisso e guidare le schiere di Cristo come il capitano del più invincibile esercito. Vidi tutto questo e vidi quegli uomini e quelle donne raccogliere la propria fede e farne bandiera di rivincita. L'amore stringeva i cuori in quell'unico fuoco che avvampava dentro di noi: eravamo liberi ed eguali nel nome di Dio e avremmo spaccato le montagne, fermato i venti, ucciso tutti i nostri tiranni per realizzare il Suo regno di pace e fratellanza. Potevamo farlo, finalmente potevamo farlo: la vita ci apparteneva.

da Luther Blisset, Q, Einaudi, Torino, 2000, pp. 113-114

- Popolo di Mühlhausen, ascolta, la battaglia finale è prossima! Il Signore presto metterà l'empio nelle nostre mani, come fece con i Madianiti e con i loro re, sconfitti dalla spada di Gedeone, figlio di Ioas. Come le genti di Succot, anche voi, dubitando della potenza del Dio d’Israele, rifiutate di portare aiuto alle schiere degli eletti, e riservate i cannoni e le armi alla difesa del vostro privilegio, Gedeone sconfisse le tribù di Madian con trecento uomini, di trentamila che ne aveva chiamati a raccolta. Fu il Signore ad assottigliare le sue fila, perché il popolo non credesse di aver trionfato grazie alle sue sole forze. Coloro che temevano furono cacciati indietro. Non diversamente oggi, la schiera degli eletti si assottiglia, per la defezione dei cittadini di Mühlhausen. Io dico che questo è bene: perché nessuno potrà dimenticare quel che il Signore ha fatto per il suo popolo e, se fosse necessario, sarei pronto a muovere da solo contro i mercenari dei principi. Nulla è impossibile a coloro che hanno fede. Ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo ascoltate, gente di Mühlhausen: il Signore ha scelto i suoi, gli eletti; chi non ha il cuore gonfio del coraggio della fede, non ostacoli i progetti di Dio: se ne vada, ora, verso il suo destino di cane. Via! Torni alla bottega, torni al suo letto. Vada via, scompaia per sempre.

La gente comincia a urlare e a gridare, a spingersi e a ondeggiare e si accendono risse un po' dappertutto tra coloro che si ritengono degni e quelli che vogliono restare a casa e danno del pazzo a Magister Thomas, urlando a gran voce.

Alla fine, rimangono proprio in trecento, per lo più gente di fuori, vagabondi giunti in città per far razzia nelle chiese, poveracci e gente di San Nicola, che non abbandonerebbero Thomas Müntzer nemmeno se il sole si facesse nero. Il Magister, che non ha più aperto bocca, fa per rivolgersi al suo piccolo esercito, quando quello si divide in due, per lasciar passare alcuni miliziani che trascinano tre cannoni.

da Luther Blisset, Q, Einaudi, Torino, 2000, p. 197

Le idee di Lutero si erano diffuse tra il popolino e anche tra i mercanti che si arricchivano alle sue spalle. Le faccende di Germania rimanevano lontane, l'ubbidienza a cui erano stati ricondotti i contadini tedeschi non poteva riguardare i lavoratori delle manifatture olandesi, i tessitori, i carpentieri dei porti, gli artigiani di quelle città in costante espansione. La religione riformata di Lutero portava con sé nuovi dogmi, nuove autorità religiose, che alienavano la fede ai credenti in modo appena più tenue di quanto facessero i papisti. L'eguaglianza nella fede, la vita comunitaria, avevano bisogno di una linfa diversa. Noi eravamo lì per portarla.

da Luther Blisset, Q, Einaudi, Torino, 2000, pp. 290-291;297;312

Cominciano i mendicanti di Münster, che entrano nella Cattedrale e da buoni ultimi si prendono un anticipo su quello che dovrebbe spettargli nel regno dei cieli: spariscono gli ori, i candelabri, i broccati delle statue e l’obolo per i poveri passa direttamente nelle mani degli interessati, senza che i preti possano farci la cresta. Quando Bernhard Mumme, filatore e cardatore, si trova di fronte all'orologio che per anni ha scandito il tempo della sua fatica, ascia in mano, non ci pensa due volte a far saltare quei marchingegni infernali. Intanto i suoi colleghi cagano nella biblioteca capitolare, lasciano ricordi maleodoranti nei libroni liturgici del vescovo, le pale d’altare vengono tirate giù, e, affinché possano servire da stimolo agli stitici, con esse viene edificata una latrina pubblica sull’Aa. Il battistero viene giù a suon di mazzate, insieme all’organo a canne. Ci si dà alla gozzoviglia sfrenata sotto le volte, un banchetto è allestito sull’altare, finalmente si mangia in quantità, finalmente si scopa contro le colonne della navata, per terra, lo spirito liberato d'ogni fardello, tutti a pisciare sulle pietre tombali dei signori di Münster, su quei nobilissimi scheletri che giacciono li sotto il pavimento. E dopo aver dato concime a volontà a quelle salme aristocratiche, tutti a lavarsi il culo nelle acquasantiere.

Piangete, santi, strappatevi la barba, il vostro culto è finito.

Piangete, signori di Münster, voi che con la devozione dell'oro circondate il presepe di Cristo: la vostra epoca è tramontata. Niente di tutto ciò che per secoli ha rappresentato il potere nefando dei preti e dei signori deve rimanere in piedi.

Le altre chiese subiscono lo stesso genere di visite, frotte di poveracci carichi di bottino si aggirano per le strade, regalano i paramenti da messa alle puttane, danno fuoco ai documenti di proprietà asportati dalle parrocchie.

Tutta la città è in festa, le processioni carnevalesche percorrono le vie sui carri. Tile Bussenschute vestito da frate attaccato a un aratro. La puttana più famosa di Münster portata intorno al cimitero di Uberwasser con l'accompagnamento di salmi, sventolio di vessilli sacri e suono di campane.

[...]

[parla Jan Matthys] - Questo è il luogo prescelto. Questa è la Nuova Gerusalemme: non c’è posto per i non rigenerati. Possono ancora scegliere, convertirsi. Ma il tempo è giunto agli ultimi rintocchi. Che facciano presto.

- E se non lo fanno?

- Saranno spazzati via insieme a tutto ciò che è decrepito.

[...]

A uccidere ogni curiosità, e ogni ingegno. Sale piano il fumo del rogo dei libri. A manciate raccolgono i volumi che vengono scaricati sul selciato dai carri, e li gettano nel falò; una colonna di fuoco alta fino a lambire il cielo, per richiamare gli angeli col fumo di Pietro Lombardo, Agostino, Tacito, Cesare, Aristotele...

Il Profeta, ritto in piedi sul palco, stringe in mano una Bibbia. Sono certo che mi vede. Sillabe che non superano il vociare esaltato della gente, né il crepitio del fuoco, ma sono pronunciate per me, da quelle labbra sottili.

- Vane parole d'uomini, non vedrete il giorno del tuono. La Parola, e soltanto essa, canterà il giudizio del Padre.

La catasta cresce e si consuma, si alza e incenerisce, scorgo una copia di Erasmo, a dimostrare che quel Dio non ha più bisogno della nostra lingua, e non ci darà pace. Il vecchio mondo si consuma come pergamena nel fuoco...

3.5/ l’iconoclastia

da Olivier Christin, I protestanti e le immagini, in Arti e storia el Medioevo. IV Il Medioevo al passato e al presente, Einaudi, Torino, 2004, pp. 99-100

La posizione di Lutero riguardo alle immagini si modifica sensibilmente intorno al 1520-22 in parte a causa del conflitto con Carlostadio. La svolta può essere forse individuata, in questo caso, nei sermoni della Quaresima del 1522. Pur mantenendo vivi gli attacchi contro la falsa sicurezza delle buone opere e il lusso inutile, Lutero sottolinea che nessuno, nemmeno il più semplice di spirito, è tanto sciocco da confondere l'immagine con chi essa rappresenta, e prendere per divini dei segni umani. Inoltre, Lutero contesta l'efficacia politica dell'iconoclastia.

L'iconoclastia luterana non esiste in sé. È tutta questione di contesto locale, di rapporti di forze tra il clero, il magistrato del luogo, la popolazione urbana. Non c'è un unico modello di ritiro delle immagini.

In un grande numero di casi, il magistrato cittadino, il Rat, intende conservare il controllo del processo di trasformazione delle chiese. Il fine e la giustificazione di questo atteggiamento sono quelli di evitare tumulti, di mantenere l'ordine, di impedire gli scandali. D'altronde, fu questo uno degli argomenti principali di Lutero nel suo scontro con Carlostadio: le violenze iconoclastiche scandalizzano i semplici, li turbano profondamente, urtando la loro sensibilità. Le violenze impediscono o allontanano il trionfo del Vangelo, più di quanto non lo favoriscano. Inoltre, la confisca o l'eliminazione delle immagini pongono immediatamente problemi giuridici complessi: a chi appartengono realmente questi beni dall'ambiguo statuto?

-cfr. Martin Lutero e Cranach, suo pittore ufficiale; cfr. la chiesa parrocchiale di Santa Maria di Wittenberg

da Olivier Christin, I protestanti e le immagini, in Arti e storia el Medioevo. IV Il Medioevo al passato e al presente, Einaudi, Torino, 2004, pp. 108-109

L'iconoc1astia è divenuta endemica nel corso degli anni 1550. Fino dagli anni 1560-61, vale a dire prima delle guerre, assume una dimensione rivoluzionaria, suscita le sommosse che radunano centinaia di partecipanti, tocca pressoché tutte le regioni del regno, specie quelle sudoccidentali. Una marea di pubblicazioni, anonime o no, di libelli, di canzoni, di componimenti poetici giustifica e celebra la distruzione degli idoli. Le prudenze di Calvino sono dimenticate: questi testi violenti e gioiosi invitano i fedeli ad agire, a non perdere tempo, a instaurare al più presto il regno del Vangelo in terra. Un canto anonimo di questi primi anni di guerra civile così chiama alla distruzione immediata delle immagini: «ôte la toile de tes yeux / Et reconnais le Dieu des cieux, / Peuple abruti. Tombe par terre / Tes idoles de bois et de pierre» («strappa il velo dai tuoi occhi /  E riconosci il Dio dei cieli, / Popolo abbrutito. Getta a terra / I tuoi idoli di legno e di pietra»). Abbattere gli idoli è dunque il primo passo verso la vera fede, il presupposto indispensabile, la condizione necessaria per riconoscere il vero Dio. Una volta fatto questo, il trionfo della Parola di Dio sarà imminente. [...]

[A Lione], da un lato, i soldati protestanti entrano nella chiesa di San Giusto e cominciano subito, secondo un testimone, ad «abbattere, demolire e frantumare tutte le immagini, i reliquiari e gli altari della chiesa». Allo stesso modo, si impadroniscono di «libri e abiti che offrono in strada al dileggio». Altri testimoni confermano che i soldati si sono introdotti nelle case dei canonici e hanno rubato o distrutto ciò che vi hanno trovato. Fanno nelle strade parate e sfilate parodistiche. Dall'altro lato, tuttavia, alcuni gesti si rifanno con tutta evidenza a un rituale più sofisticato. Quella stessa mattina, il pastore Ruffy entra nella cattedrale di San Giovanni e fa cadere a terra il grande crocifisso. Ci salta sopra a piedi giunti sguainando la sua spada; mozza la testa del Cristo e la brandisce in alto gridando: «Ecco la testa dell'idolo». Il pastore ordina quindi di ridurre il resto del corpo in quattro pezzi e si reca alla residenza episcopale con la testa in mano. Infine, qualche giorno più tardi, il barone des Adrets, comandante delle truppe protestanti della regione, giunge a Lione. Molto rapidamente, pone fine a questa prima iconoclastia, indotto a questo da una lettera di Calvino in data 16 maggio 1562. Da quel momento, l'iconoclastia cambia radicalmente. Sono stati stipulati dei contratti tra il barone des Adrets, i suoi rappresentanti o il consolato, e alcuni demolitori privati, pagati per il loro lavoro. Alcuni notai o librai sono incaricati di redigere inventari esatti dei beni sequestrati nelle chiese e di consegnarli alle autorità. Gli iconoclasti privati sono perseguiti dalla giustizia come razziatori.



[SM=g1740771]  continua...........

Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 18:38

3.6/ presso gli ebrei

 

da H. Méchoulan, Gli ebrei di Amsterdam all’epoca di Spinoza, ECIG, Genova, 1991, pp. 145-146

I Signori del ma'amad [consiglio degli anziani] comunicano alle vostre Grazie che, essendo venuti a conoscenza da qualche tempo delle cattive opinioni e della condotta di Baruch de Spinoza, si sforzarono in diversi modi e promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. Non potendo porre rimedio a ciò e ricevendo per contro ogni giorno le più ampie informazioni sulle orribili eresie che praticava e sugli atti mostruosi che commetteva, e avendo di ciò numerosi testimoni degni di fede che deposero e testimoniarono soprattutto alla presenza del suddetto Spinoza, egli è stato riconosciuto colpevole; esaminato tutto ciò alla presenza dei Signori rabbini, i Signori del ma'amad hanno deciso, con l'accordo dei rabbini, che il suddetto Spinoza sia messo al bando ed escluso dalla Nazione d'Israele a seguito del cherem che pronunciamo ora in questi termini: Con l'aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, noi escludiamo, cacciamo, malediciamo ed esecriamo Baruch de Spinoza con il consenso di tutta la santa comunità, in presenza dei nostri libri sacri e dei seicentotredici precetti in essi racchiusi. Formuliamo questo cherem come Giosuè lo formulò contro Gerico. Lo malediciamo come Elia maledisse i figli e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno, che sia maledetto di notte; che egli sia maledetto durante il sonno e durante la veglia, che sia maledetto quando entra e che sia maledetto quando esce. Voglia l'Eterno accendere contro quest'uomo tutta la Sua collera e riversare su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge. E voi restiate legati all'Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con (Spinoza) alcuna relazione né scritta né verbale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno l'avvicini a meno di quattro cubiti. Che nessuno viva sotto lo stesso tetto con lui e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti.

3.7/ presso i cattolici

cfr. il monumento a Giordano Bruno a Campo dei Fiori

Ma esso comprende, fra gli altri, anche:

-Lucilio (Giulio Cesare) Vanini, perseguitato dai cattolici perché si fa protestante e dagli anglicani perché torna ad essere cattolico, ucciso infine a Tolosa. Nel medaglione di Vanini, si vede in piccolo la testa di Lutero, perseguitato e a sua volta persecutore di eretici e di streghe.

-Aonio Paleario, ucciso come eretico dall'Inquisizione nel 1570 e Michele Serveto, ucciso come eretico dal tribunale di Calvino a Ginevra nel 1553.

3.8 appendice. la questione delle nuove inquisizioni laiche

dalla rivoluzione francese (4 gennaio 1791, obbligo per il clero di giurare fedeltà alla Costituzione: clero “giurato” e clero “refrattario” che viene dichiarato decaduto) ad oggi

3.9/ mentre matura lentamente l’idea della libertà di coscienza, è presente la consapevolezza complementare che il pensiero determina le coscienze

4.1/ L’uso della Sacra Scrittura

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp.. 21-22

Grazie al suo ordine, Lutero entrò precocemente e intensamente in contatto con la Sacra Scrittura. Lo ammette egli stesso nei discorsi a tavola: «I monaci gli consegnarono nel monastero una Bibbia rilegata in pelle rossa. Egli ne prese tale dimestichezza da sapere quel che era contenuto in ogni pagina, e subito, quando gli si presentava qualche versetto, era in grado di riconoscere dov’era stato scritto. Se io li tenessi a mente potrei essere un ottimo prontuario biblico. Nessuno studio mi dilettava allora, quanto quello della Sacra Scrittura. Lessi la fisica di Aristotele con grande ripugnanza, e il cuore mi arse quando potei finalmente ritornare alla Bibbia» (WATr 1, 44, n. 116). «Entrato nel chiostro, cominciai a leggere la Bibbia, a rileggerla ancora e sempre ripetutamente con grande meraviglia del dr. Staupitz» (WATr 3, 598, n. 3767). Lutero raggiunse così una stupefacente solidità in materia biblica, che lo mise in grado di fare lunghe citazioni a memoria. Ma più importante di questo formale dominio della Sacra Scrittura è il rapporto personale che egli vi trovò e che gli permise di chiamarla la sua sposa. La consuetudine con la Bibbia non fu per lui un’esperienza culturale come per alcuni umanisti, e nemmeno teologica, intesa come disciplina distinta dall’immediato incontro religioso con la parola di Dio; tale separazione per Lutero non esisteva: «Se vuoi diventare un cristiano, accogli la parola di Cristo e sappi che non l’apprenderai mai a fondo, e tu dovrai confessare insieme con me che non ne conosci ancora l’abc. Se valesse la pena di vantarsi, io lo potrei anche. Io ho passato infatti e giorni e notti in questo studio, ma in questo insegnamento devo restare uno scolaro. Io ricomincio quotidianamente come un alunno delle elementari» (WA 29, 383).

da C. M. Martini, La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione, (commento al capitolo VI della Dei Verbum), in La Bibbia nella Chiesa dopo la «Dei Verbum». Studi sulla costituzione conciliare, Paoline, Roma, 1969, pp. 157-172 (in particolare 165-172)

In [alcuni movimenti precedenti alla riforma] purtroppo lettura della Bibbia e resistenza all'autorità andavano non di rado di pari passo. Parve così a quei tempi che non fosse possibile trovare un rimedio al secondo atteggiamento se non stroncando anche il primo. È così che vediamo il Concilio provinciale di Tolosa nel secolo seguente (1229), assumere una posizione fortemente negativa nei riguardi di ogni traduzione biblica, anzi dell'uso stesso della Bibbia da parte dei laici.

È difficile per noi oggi giudicare del bene o del male di questi provvedimenti, presi in circostanze così diverse dalle nostre e così complesse. Forse è più saggio non pretendere di dare un giudizio definitivo e contentarci di registrare i fatti. E i fatti sono rappresentati da una serie di restrizioni nella lettura della Bibbia.

Assistiamo infatti nei secoli seguenti al ricomparire qua e là in Europa di simili proibizioni, dovute al diffondersi di analoghi movimenti. Troviamo così il Concilio provinciale di Oxford del 1408, che proibisce ogni traduzione della Bibbia che non avesse avuto una approvazione ufficiale. Più oltre andavano le norme stabilite in Catalogna a partire dal secolo XIII dall'autorità civile, poi riconfermate nel sec. XV e divenute leggi di Stato agli inizi del sec. XVI, sotto il regno di Ferdinando e Isabella, che stabilirono che nessuno potesse tener presso di sé alcuna versione biblica. Si trattava di disposizioni estreme, prese sotto la spinta di gravissime circostanze. Esse rimanevano inoltre locali e temporanee.

Non impedirono infatti che al tempo dell'invenzione della stampa, a partire dal 1450, la Bibbia, non solo in latino, ma anche nelle lingue volgari, fosse uno dei libri più stampati e venduti, specialmente in Germania e in Italia. Secondo ricerche fatte dal P. Vaccari, alla vigilia della riforma protestante erano in circolazione un grande numero di edizioni della Bibbia.

In Germania, tra il 1450 e il 1500 furono stampate oltre 25 edizioni della Bibbia latina e 15 in lingua volgare. In Svizzera, nella sola Basilea, si produssero 18 edizioni della Bibbia tra il 1450 e il 1500. In Italia nello stesso periodo erano uscite 27 edizioni, di cui 22 nella sola Venezia e una rispettivamente a Roma, Napoli, Brescia, Piacenza e Vicenza. Di queste 27 edizioni, 10 erano in volgare, tutte edite a Venezia: 9 edizioni della versione del Malermi, e una della versione anonima detta Bibbia d'agosto, perché pubblicata il 1° agosto 1471.

Non si può dunque sottoscrivere la frase di Lutero, pronunciata in uno dei suoi discorsi conviviali (Tischreden), il 22 febbraio 1538, secondo cui prima della sua riforma la Bibbia era «a tutti sconosciuta». «A vent'anni - dice Lutero - io non avevo ancora veduto una Bibbia». L'espressione è forse un po' esagerata, e certamente non indicativa della reale situazione di allora, se si pensa che del solo periodo 1459-1500 ci sono state conservate 5400 Bibbie stampate, che non sono se non una piccola parte delle decine di migliaia allora in circolazione. Oltre a ciò bisogna tener conto delle Bibbie manoscritte che ancora si producevano (si calcola che nel secolo XV siano stati trascritti almeno 3600 manoscritti biblici di versioni tedesche).

Bisogna inoltre ricordare le moltissime Bibbie, diremmo così, di divulgazione, che si chiamavano Bibbie istoriali, fioretti, lezionari o «Plenarien» (in Germania), specchi dell'umana salvezza, Bibbie dei poveri, che erano florilegi biblici, spesso provvisti di illustrazioni ad uso di chi sapeva leggere poco o nulla.

La Bibbia dunque, malgrado le restrizioni precedenti, era ancora abbondantemente diffusa anche tra il popolo. Con la riforma protestante tuttavia, verso la metà del secolo XVI, il regime di cautela che fino a quel momento si era espresso soltanto in restrizioni parziali, divenne universale. La Congregazione dell'Indice, prima nel 1559 sotto Paolo IV, poi nel 1564 sotto Pio IV, promulgando l'indice dei libri proibiti, vieta pure di stampare e di tenere Bibbie in volgare senza uno speciale permesso. È sintomatico il motivo portato per questa proibizione: «Essendo chiaro dalla esperienza che, se si permette la sacra Bibbia in volgare senza discriminazione, a causa della temerità degli uomini ne segue più danno che vantaggio». Anche se non si trattava di una proibizione assoluta di accedere personalmente alla Bibbia intera per chi non sapesse il latino, era questo tuttavia un provvedimento destinato a limitare assai l'uso della S. Scrittura.

Una prova concreta di questo fatto la possiamo vedere recensendo le edizioni delle Bibbie apparse in Italia in quel periodo. Nella Biblioteca del Pontificio Istituto Biblico, dove si trova una raccolta assai ricca di Bibbie antiche italiane, figurano le seguenti edizioni, a partire dalla metà del '500:

1541: Bibbia intera, tradotta dal Malermi;

1542: NT tradotto dal domenicano Fra Zaccaria di Firenze;

1545: Bibbia intera, tradotta in lingua toscana da Santi Marmochino, domenicano.

A partire da queste date, cessano le Bibbie tradotte e pubblicate da cattolici. Tutte le Bibbie italiane pubblicate dopo quegli anni sono di origine protestante o ebraica, e per lo più pubblicate fuori d'Italia: a Lione, a Ginevra, a Norimberga. Esiste una eccezione, cioè una Bibbia cattolica pubblicata nel 1567, tre anni dopo il decreto dell'Indice di Pio IV. È una ristampa della Bibbia del Malermi pubblicata a Venezia «con licentia della S. Inquisitione ». Ciò mostra che era ancora possibile pubblicare Bibbie italiane per i cattolici. Ma di fatto ciò non avvenne più, per quasi due secoli.

È infatti soltanto nel 1757 che si permisero di nuovo in maniera generale le edizioni in volgare, purché approvate dalle competenti autorità e munite di note. Abbiamo così ad esempio una edizione dei Salmi del 1770, una nuova edizione rifatta della Bibbia del Malermi nel 1773, e, a partire dal 1778, la nuova traduzione del Martini, che doveva rimanere in uso presso i cattolici italiani fin quasi ai nostri giorni.

da La lettura della Bibbia nella chiesa, tra protestantesimo e cattolicesimo. Appunti (almeno in parte) controcorrente, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )

Gli studi moderni tendono a ridimensionare l’incondizionato invito alla lettura della Bibbia nel mondo protestante che una certa vulgata aveva precedentemente accreditato.

Infatti da un lato l’esperienza della rivolta dei contadini e poi, via via, delle diverse eresie che luteranesimo e calvinismo si trovarono a combattere spinse a riservare un ampio utilizzo della Sacra Scrittura ai soli teologi e pastori e, solo per loro mediazione, al popolo.

Dall’altro, proprio nella riforma maturò la convinzione della necessità di un’esposizione sintetica della fede della chiesa riformata espressa dai diversi catechismi. Lutero redasse un Grande ed un Piccolo Catechismo e, dopo di lui, anche Calvino ed altri riformatori elaborarono i loro catechismi.

Se ha senso riportare un’esperienza personale, ricordo la risposta di un pastore valdese nel corso di un incontro del catecumenato europeo, svoltosi alcuni anni fa a Firenze. Chiamato a spiegare come avvenisse la formazione cristiana nella sua comunità, egli raccontò che la catechesi era incentrata sulla storia della salvezza nella Sacra Scrittura, sul Simbolo di fede, sui Dieci Comandamenti e sul Padre nostro.

A questa affermazione seguì la domanda sorpresa dei presenti: «Ma come? Voi protestanti non utilizzate la sola Scrittura per fare catechesi?». Il pastore, sorpreso a sua volta, replicò: «Ma i Comandamenti ed il Padre nostro non sono fra le parti più importanti della Sacra Scrittura? Ed il Simbolo di fede non è forse la sintesi di tutta la Scrittura?».

Lutero e gli altri leaders della riforma compresero ben presto che era necessaria una formazione cristiana che non si limitasse alla lettura della Bibbia, ma sapesse anche presentare in maniera catechistica una sintesi semplice ed insieme globale della fede.

Il passaggio in area protestante ad un più accorto ed addirittura sospettoso utilizzo della Scrittura nella formazione dei laici è presentato in dettaglio da Jean-François Gilmont, Riforma protestante e lettura, in Cavallo Guglielmo - Chartier Roger, Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma - Bari, 2009, pp. 243-275 e da Susanna Peyronel Rambaldi, Educazione evangelica e catechistica: da Erasmo al gesuita Antonio Possevino, in Ragione e “civilitas”. Figure del vivere associato nella cultura del ’500 europeo, Bigalli Davide (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1986, pp. 73-92.

Gilmont ricorda come Lutero, fin dal 1520, in Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, propendesse per un insegnamento della fede semplificato e controllato dalla nuova autorità:

«Quanto ai libri teologici, bisognerebbe anche ridurne il numero e scegliere i migliori. Non ci sarebbe neppure bisogno di leggere molto, bensì di leggere buone cose e di leggerle spesso, per poco che ciò sia. Ecco ciò che rende dotti nella Sacra Scrittura e pii al tempo stesso» (p. 251).

Ma soprattutto «dopo la Guerra dei Contadini e sotto l'effetto del proliferare di interpretazioni eterodosse della Scrittura, il suo discorso si evolve. Egli insiste a proposito del controllo della Chiesa sull'accesso alla Bibbia. La Parola racchiusa nella Bibbia resta lettera morta, se non è trasmessa dalla predicazione. “Il Regno di Cristo - afferma in una predica del 1534 - è fondato sulla Parola, che non si può afferrare né comprendere senza i due organi, le orecchie e la lingua”. Nel 1529, dopo aver composto i suoi due catechismi, egli insiste perché questo manuale sia messo nelle mani di tutti: “Il catechismo è la Bibbia del laico; contiene tutto ciò che un cristiano deve conoscere della dottrina cristiana”» (pp. 251-252).

Gilmont spiega come «parimenti, quando nel 1524 invita i magistrati a costituire buone biblioteche, Lutero assegna loro due funzioni: conservare i libri e consentire ai dirigenti temporali e spirituali di studiare. Niente a che vedere con la lettura popolare» (p. 252)[1].

Una analoga evoluzione si può riscontrare in Melantone:

«Nella Prefazione ai Loci communes del 1521, egli presenta il proprio libro come una modesta introduzione destinata a scomparire di fronte alla lettura della Bibbia; auspica ardentemente che “tutti i Cristiani si applichino in assoluta libertà alla sola lettura delle Scritture Sante”. Al contrario, nella Prefazione del 1543, egli insiste sulla necessità di questi ministri del Vangelo, che Dio desidera far preparare nelle scuole. Sono loro che Egli ha voluto come guardiani dei Libri dei Profeti e degli Apostoli e dei dogmi autentici della Chiesa» (p. 252).

Simile è il cammino di Zwingli, che passa anch’egli a maggiori cautele nei confronti di un utilizzo troppo popolare della Scrittura:

«L'evoluzione dei principi esegetici di Zwingli tra il 1522 e il 1525 è parallela a quella constatata in Lutero e Melantone. In un primo momento, egli tenta di destabilizzare la Chiesa tradizionale mediante un ampio appello all'opinione pubblica. Si fonda sulla dottrina del sacerdozio universale: tutti i Cristiani che affrontano la Bibbia con umiltà sono in grado di interpretarla. Lo proclama nelle dispute pubbliche come in diversi opuscoli del 1522. Ma presto la situazione si evolve. Il clero cattolico è rovesciato e i primi anabattisti si fanno minacciosi. Essi si appoggiano sui medesimi principi per rimettere in questione la legittimità del nuovo potere. Donde il voltafaccia di Zwingli. A partire dal 1525, egli riserva l'interpretazione della Bibbia a persone competenti, in effetti ad un gruppo composto dall'élite politica e dall’intellighenzia clericale» (pp. 252-253).

Anche nella nuova Inghilterra anglicana la direzione è la medesima:

«A lungo Enrico VIII interdice ogni diffusione della Bibbia in inglese. Infine, nel 1543, cede alle pressioni della propria cerchia. Ma l'autorizzazione a stampare la Bibbia in inglese è corredata da restrizioni significative. Egli distingue tre categorie di persone e di letture. Nobili e gentiluomini possono non solo leggere, ma anche far leggere a voce alta la Scrittura in inglese per se stessi e per tutti coloro che abitano sotto il loro tetto. Basta la presenza di un membro della nobiltà per autorizzare il libero accesso alla Scrittura. All'altro estremo della scala sociale, la lettura della Bibbia in inglese è totalmente interdetta a “donne, artigiani, apprendisti e dipendenti al servizio di persone di rango pari o inferiore a quello di piccoli proprietari, agricoltori e manovali”. Quanti si situano fra queste due categorie - di fatto i borghesi come le donne nobili, “possono leggere, per se stessi e per altri, tutti i testi della Bibbia e del Nuovo Testamento”. Questa categoria intermedia ha dunque la competenza bastante a non lasciarsi fuorviare, ma manca dell'autorità per imporsi sul proprio ambiente» (p. 253).




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Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 18:39

Nella Svizzera calvinista si incontrano analoghe cautele:

«Per Calvino, la Bibbia non è direttamente accessibile a chiunque. Si tratta - come spiega nel corso di una predica - di un pane dalla crosta spessa. Per nutrire i suoi figli, Dio vuole “che il pane ci sia tagliato, che i pezzi ci siano messi in bocca e che ci siano masticati”. San Paolo mostra riguardo alla Scrittura che “non basta leggerla ciascuno nel proprio  privato, ma occorre avere le orecchie colpite dalla dottrina da essa estratta e che ci sia predicata perché possiamo esserne istruiti”. Teodoro di Beza fornisce ancora una testimonianza delle resistenze da parte calvinista a mettere la teologia sulla pubblica piazza. Nella dedica alle sue Questions et responses chretiennes, del 1572, il successore di Calvino spiega di aver accettato a malincuore questa traduzione francese del proprio trattato. Si è sentito forzato dalla curiosità del pubblico, del quale denuncia la mania di volersi gettare nei “labirinti” di questioni delicate. L'opinione di Beza è evidente: la teologia costituisce un campo riservato, che esige di “conoscere tutte le vie e i passaggi per i quali bisogna passare e ripassare”» (pp. 253-254).

Gilmont conclude affermando che nelle chiese calviniste del tempo «alla fine, prevale il punto di vista opposto: “non tutti hanno i mezzi per leggere i commenti integrali, né la fermezza di giudizio per recepirne e selezionarne opportunamente la sostanza”» (p. 254).

Pesò evidentemente in tutti quei padri riformatori che spinsero verso una direzione istituzionale i nuovi fermenti il giudizio negativo sull’utilizzo della Scrittura fatto dai capi della rivolta dei contadini, così come da altre letture del testo sacro dissonanti con quella proposta dalle correnti ufficiali della riforma. Si ebbe insomma cura di vigilare affinché una “corretta” interpretazione della Scrittura non portasse al sovvertimento dell’autorità politica e della nuova autorità religiosa.

Gilmont ricorda che solo nelle frange più estremiste della riforma, in effetti, si mantenne la libera interpretazione della Scrittura.  Ma, anche qui, egli sfuma poi subito il giudizio, attestando che presto si giunse anche in quelle ad una nuova ortodossia che restringeva le letture possibili per uniformarsi a quella dei leaders dei gruppi stessi: «A Zurigo, gli anabattisti restano fedeli alle prime prese di posizione di Zwingli e aderiscono ad un'interpretazione radicale della Scrittura: “Dopo aver preso anche noi fra le mani la Scrittura e averla interrogata su tutti i punti possibili, siamo divenuti più istruiti e abbiamo scoperto gli errori enormi e vergognosi commessi dai pastori”. Con sfumature diverse, gli spiritualisti adottano posizioni vicine, rifiutando ogni intervento autoritario nel contatto con i libri sacri. La loro posizione è strettamente connessa alla convinzione della priorità dello Spirito sul testo. Nel Manifesto di Praga, del 1521, Thomas Münzer squalifica i preti che propongono una Scrittura “celata con fare sornione nella Bibbia, con la furberia dei briganti e la crudeltà degli assassini”. Solo gli eletti sono beneficiari della Parola vivente: “Quando il seme cade sul campo fertile, vale a dire nei cuori riempiti del timor di Dio, lì si trovano la carta e la pergamena su cui Dio scrive non con l'inchiostro, ma col suo dito vivente la vera Scrittura santa, di cui la Bibbia esteriore è autentica testimonianza.

Münzer però sa di vivere in una società poco adatta alla lettura individuale. Così egli auspica, in testa alla sua Predica ai prìncipi, del 1524, “che i servitori di Dio, zelanti e infaticabili, diffondano quotidianamente la Bibbia attraverso il canto, la lettura e la predicazione”. Nella stessa logica, egli desidera una liturgia che si svolga in una lingua compresa dal popolo. E si augura che la Bibbia sia letta ad alta voce di fronte al popolo, per consentirgli di appropriarsene. È vero che questo ideale fu disatteso e che Münzer sostituì ben presto la propria predicazione al dettato della Bibbia» (pp. 254-255).

Recentemente è stato Luther Blisset, l’autore collettivo di Q (Einaudi, Torino, 1999), a ricordare in forma romanzata come tutti i rami della riforma si siano presto irrigiditi a propugnare la loro visione dell’ortodossia. Nel romanzo storico Q i gruppi minoritari della riforma divengono alla fin fine ancora più integralisti dei gruppi maggioritari e la narrazione evidenzia non solo le tensioni fra cattolicesimo e mondo protestante, ma anche quella violenta  fra luteranesimo e calvinismo da un lato ed i gruppi più rivoluzionari dall’altro.

Gilmont evidenzia la fioritura dei catechismi nel mondo protestante del tempo fu corrispettiva alla nuova prudenza nell’utilizzo della Bibbia: i riformatori ritenevano che i Catechismi fossero necessari per permettere un’istruzione che garantisse una reale “ortodossia” riformata ed una formazione dei fedeli:

«Il catechismo conosce una fioritura considerevole con la Riforma e la Controriforma. Lutero ha fortemente incoraggiato un catechismo mirante ad un insegnamento cristiano semplice a partire dall'infanzia. Si riallacciava così ad un movimento che affondava le sue radici nel medioevo. Come Jean Gerson nel Quattrocento, Lutero si rende conto che il rinnovamento religioso si scontra tanto contro l'ignoranza delle masse quanto contro l'incapacità catechetica di molti pastori, come chiarisce nella prefazione al suo grande catechismo del 1529. Col suo piccolo catechismo egli va più lontano, prospettando un modello di catechesi da realizzare in famiglia: una volta memorizzati, i testi fondamentali - i Dieci Comandamenti, il Pater, il Credo - devono essere commentati dal padre di famiglia. Ben presto - lo si è visto - Lutero finisce col voler mettere questo tipo di opera nelle mani di tutti al posto della Bibbia.

La Riforma calvinista accorda un ruolo importante al catechismo, come conferma la bibliografia. Se il numero di edizioni della Bibbia e del Nuovo Testamento è impressionante, esso è nullo al confronto di quello dei catechismi e dei salteri. Ed è certo che le nostre stime sono inferiori alla realtà, a causa delle perdite importanti subite da queste opere di uso quotidiano.

Ora, la catechesi è un'attività in cui predomina l’oralità. L’apprendimento mnemonico del catechismo ne precede la spiegazione. Senza dubbio, il libro è indispensabile: il testo letto ad alta voce dal padre di famiglia o dal catechista è seguito in silenzio dagli occhi del fanciullo che ascolta. In quest'uso dello scritto, il libro fa da supporto alla memoria: non è affatto il luogo di scoperta di un messaggio inedito. Non bisogna peraltro svalutare questo tipo di apprendimento piuttosto rigido, né trascurarne gli effetti sull’iniziazione alla lettura» (p. 260).

Ovviamente nel complesso rapporto con il testo biblico giocarono un ruolo decisivo gli apparati di note che venivano redatti appositamente per aiutare il lettore a comprendere i passaggi più difficili. Ma le note avevano anche il fine di favorire una determinata interpretazione:

«L'utilizzazione di queste Bibbie pone un altro problema. Il testo sacro è infatti illustrato con vari strumenti di ausilio alla lettura, che propongono diversi approcci paralleli al testo. Alcuni di questi complementi al testo si situano al principio o alla fine del libro: introduzioni, tavole, riassunti. Ma compaiono anche annotazioni nei margini, con o senza rinvii a partire dal testo. Queste indicazioni marginali sono di natura filologica, teologica o liturgica. Si trovano anche rimandi a passi paralleli. Come si orientava il lettore in mezzo a queste glosse? La Bibbia diveniva oggetto di consultazione dotta? Non è senza interesse ricordare, a proposito di tale “paratesto”, che le autorità cattoliche temevano più questi commentari marginali che non le tradu­zioni realizzate dai protestanti» (p. 263).

Susanna Peyronel Rambaldi, nel giungere a conclusioni analoghe a quelle di Gilmont, sottolinea come le stesse cautele fossero presenti in maniera crescente nelle aree cattoliche. La studiosa ricorda come già Erasmo si fosse espresso in merito:

«Ci sono nelle Scritture – dirà nella famosa polemica con Lutero sul libero arbitrio – “dei santuari reconditi dove Dio non ha voluto che cercassimo di entrare e nei quali, se pur tentassimo di penetrare, saremmo avvolti da caligine vieppiù spessa [... ] Perciò resta lecito trattare di queste cose nelle conferenze per i sapienti o nei corsi di teologia, purché lo si faccia sobriamente; dibatterne invece sulla pubblica piazza davanti ad un uditorio molto vario mi sembra non solo inutile ma pernicioso”» (p. 78).

All’opposto alcuni dei vescovi più illuminati vedevano in maniera fortemente critica l’assenza di formazione dei laici in merito alla Sacra Scrittura. Il cardinale Madruzzo, principe vescovo di Trento, ad esempio,

«difendeva con espressioni quasi erasmiane la volgarizzazione dei testi sacri: “noi quasi neghiamo al santo popolo di Dio questa santa consolazione delle Sacre Scritture [...] nessuna età, nessun sesso, nessuno stato di fortuna, nessuna condizione vanno tenuti lontani dalla lettura delle divine Scritture”» (pp. 79-80).

Mentre, dal canto loro, «gli stessi “spirituali” italiani, che avevano assimilato lezioni e suggestioni non solo da Erasmo, ma anche dalla teologia di Lutero e Calvino (il Beneficio di Cristo ne è la prova più evidente), indietreggeranno spaventati, come aveva fatto anche Erasmo, di fronte alle conseguenze di una teologia ed una Bibbia messa alla portata degli “idioti” e delle “donnicciole”» (p. 80).

D’altronde, la convinzione che solo una maggiore formazione cristiana diffusa fra il popolo potesse permettere di far fronte al pericolo protestante, era chiaro in molti ambienti cattolici, come attestano le riflessioni del cardinale Possevino:

«Quando si dice – scriverà nel De necessitate, utilitate ac ratione docendi catholici catechismi – che non si possa provvedere meglio alla salvezza della repubblica cristiana se non che ciascuno rimanga in quella semplicità nella quale è stato allevato, è cosa che andava nel modo più assoluto contrapposta agli eretici, nel momento in cui hanno invaso la fortezza della chiesa cattolica con falsi catechismi; ma d’altra parte proibire un antidoto quando un tale veleno serpeggia e si sparge ovunque, cos’è se non negare la salvezza alle anime ed impedire in modo efficacissimo la diffusione del nome di Dio? Le tenebre invero sono l’ignoranza, per cui cadiamo nel peccato, vaneggiando sulla verità» (p. 87).

Considerazioni come queste furono alla base dello sforzo educativo messo in atto a partire dal Concilio di Trento, con un lavoro diffuso rivolto ai vescovi, al clero, ai laici.

Dal canto suo, Gigliola Fragnito (Fragnito Gigliola, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Il Mulino, Bologna, 1997)

ha studiato il processo che portò il mondo cattolico al divieto di leggere la Scrittura, senza previa autorizzazione ecclesiastica – tale provvedimento entrò in vigore nel 1596:

«Confrontati con la determinazione e la tempestività dei provvedimenti adottati dalle autorità civili di Spagna, Francia ed Inghilterra tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento per impedire la diffusione della Bibbia nelle lingue vernacole, il ritardo e la contraddittorietà degli interventi romani non mancherebbero in effetti di lasciare stupiti, ove non si tenga conto del numero rilevante di edizioni integrali della Scrittura stampate a Venezia prima della Riforma. La lunga ed incontrastata consuetudine degli italiani con la Bibbia che esse testimoniano dovette influire non poco sulle tergiversazioni delle autorità ecclesiastiche: perfino di fronte al proliferare di versioni “eterodosse” ed alla crescita del numero dei loro lettori in ogni strato della società, in seguito alla penetrazione nella penisola delle dottrine riformate, la Chiesa esitò a lungo prima di adottare misure restrittive. Bisognerà, infatti, attendere l’indice del 1559 per imbattersi nel primo divieto, che verrà, comunque rimesso in discussione fino alla promulgazione dell’indice clementino del 1596. L’azione incerta ed oscillante di Roma – che, pur rivolgendosi all’intera cattolicità, sapeva di poter contare tutt’al più sull’ubbidienza degli Stati italiani – sembra, quindi, essere stata fortemente condizionata dalla difficoltà – ma anche dall’imbarazzo – di sradicare una antica consuetudine, riconosciuta anche dai padri riuniti a Trento, i quali nel 1546 annoveravano l’Italia tra i paesi in cui vi era un’antica familiarità con i testi sacri» (pp. 12-13).

La Fragnito confuta l’errata convinzione che la cessazione dell’utilizzo privato della Scrittura sorga da un decreto tridentino. Ricorda, d’altro canto, come effettivamente si giunse solo a cavallo del secolo ad interrompere in Italia la lettura diretta del testo biblico che era abituale nelle epoche precedenti:

«Se è stato agevole dimostrare l’infondatezza di una tesi consolidata secondo cui sarebbero stati i padri riuniti a Trento a condannare definitivamente le traduzioni bibliche nelle lingue materne – grazie anche alla documentata persistenza di edizioni veneziane postridentine – più arduo è stato ricostruire l’evoluzione tutt’altro che lineare delle posizioni romane negli anni che intercorrono tra l’indice tridentino (1564) e l’indice clementino (1596). Durante quel trentennio, mentre i conflitti ai vertici della Curia facevano insabbiare ben tre indici pronti per la promulgazione, si susseguirono una serie di interventi da parte di Roma che di fatto stravolgevano la normativa dell’indice tridentino ancora ufficialmente in vigore, grazie alla quale vescovi ed inquisitori locali avevano la facoltà di rilasciare licenze per la lettura delle traduzioni» (p. 13).

La valutazione complessiva della Fragnito conferma le ricerche di storici come Gilmont e Peyronel Rambaldi, ma sottolinea come l’assenza della Scrittura nel mondo cattolico fu più sensibile dopo il 1596:

«Anche se è ormai acclarato che sia Erasmo sia i riformatori protestanti, dopo un’iniziale propaganda a favore di un accesso diretto e indiscriminato del popolo alla Sacra Scrittura nelle lingue materne, ripiegarono su posizioni di maggiore cautela, se non addirittura di diffidenza, e se è stato dimostrato che la Bibbia ebbe un ruolo assai meno preminente nelle letture individuali e nella formazione religiosa e culturale di coloro che avevano aderito alle nuove confessioni, la tendenza ad equiparare le posizioni dei protestanti – pur con la variante dei calvinisti, maggiormente propensi ad un approccio individuale alla Bibbia – a quelle dei cattolici è quanto meno fuorviante» (pp. 318-319).

Certo è che il nuovo decreto che vietava la lettura personale della Bibbia si impose lentamente, come dimostra il grande numero di Bibbie che risultano in possesso dei laici e che non destavano nelle autorità cattoliche alcun sospetto di eresia nei confronti di quei possessori:

«Quelle liste di fine secolo [che indicavano le Bibbie sequestrate a laici che non erano minimamente sospettati di eresia], in cui tanti volgarizzamenti biblici vennero inseriti senza destare in chi li sequestrava il sospetto che i possessori fossero eretici, documentano ancor oggi il tenace attaccamento ai testi biblici e l’audace e rischiosa difesa di un’antica tradizione» (p. 328).

Al termine del suo studio, la Fragnito cita, a livello esemplificativo della prassi di fine Cinquecento, la documentazione relativa alla concessione del permesso di tenere con sé la Bibbia ricevuto da una coppia, mostrandoci la prassi che intercorse dal 1596 fino ai nuovi decreti che renderanno nuovamente libero l’accesso alla Scrittura emanati nel 1758, con Benedetto XIV:

«Si veda la supplica inoltrata il 27 ottobre 1597 al Maestro del Sacro Palazzo da due coniugi vicentini, Bartolomeo e Maddalena Camiolo, i quali chiedevano “di potere tenere gli Evangelii latini et volgari ligati insieme quali desiderano leggere per loro devotione et dal detto loro curato si farà fede [...] che gli detti oratori sono buoni Christiani et senza alcun sospetto di heresia et tutto receveranno per gratia singulare”. Allegato alla supplica l’attestato del parroco di San Salvatore a Roma, Alfonso Baldini, il quale certificava che i suoi parrocchiani erano buoni cristiani, confitentes et communicantes saepe in anno, e liberi da ogni sospetto di eresia. L’autorizzazione venne concessa a condizione che si trattasse di un’edizione annotata da Remigio Nannini. Cfr. ASO, Indice, vol. XVIII/1, f. 219r» (p. 329).

Merita ricordare che il Concilio di Trento aveva esplicitamente chiesto, in maniera tassativa, che l’opera di riforma cattolica avvenisse tramite una conoscenza dei tesori della Scrittura che dovevano esser messi a disposizione del popolo, come afferma lungamente il Secondo decreto del Concilio stesso Sulla lettura della S. Scrittura e la predicazione:

«1. Lo stesso sacrosanto sinodo, aderendo alle pie costituzioni dei sommi pontefici e dei concili approvati, le fa sue; e volendo completarle, perché non avvenga che il tesoro celeste dei libri sacri, che lo Spirito Santo ha dato agli uomini con somma liberalità, rimanga trascurato, ha stabilito e ordinato che nelle chiese, in cui vi sia una prebenda o una dotazione, o uno stipendio comunque chiamato destinato ai lettori di sacra teologia, i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari locali obblighino, anche con la sottrazione dei frutti relativi, quelli che hanno questa prebenda, dotazione o stipendio, ad esporre e spiegare la Sacra Scrittura personalmente, se sono idonei, altrimenti per mezzo di un sostituto adatto, da scegliersi dai vescovi, dagli arcivescovi, dai primati e dagli altri ordinari stessi.

Per il futuro tale prebenda, dotazione o stipendio non dovrà esser conferito se non a persone adatte, che siano capaci di esplicare tale ufficio da se stessi.

Ogni provvista fatta altrimenti sia nulla e invalida. [...]

8. Gli insegnanti di Sacra Scrittura, nel tempo in cui insegnano pubblicamente nelle scuole, e così pure gli studenti godano ed usufruiscano di tutti i privilegi concessi dal diritto di percepire i frutti delle loro prebende e dei loro benefici anche durante la loro assenza.

9. Poiché, tuttavia, alla società cristiana non è meno necessaria la predicazione del Vangelo, che la sua lettura, e questo è il principale ufficio dei vescovi, lo stesso santo sinodo ha stabilito e deciso che tutti i vescovi, arcivescovi, primati, e tutti gli altri prelati di chiese siano tenuti a predicare personalmente il santo Vangelo di Gesù Cristo se non ne sono legittimamente impediti.

10. Se i vescovi e le altre persone nominate fossero impedite da un legittimo motivo, siano tenuti, conformemente a quanto prescrive il concilio generale, a farsi sostituire da persone adatte per questo ufficio della predicazione.

Se qualcuno trascurasse di adempiere ciò, sia sottoposto ad una pena severa.

11. Anche gli arcipreti, i pievani, e tutti coloro che abbiano cura d’anime nelle parrocchie o altrove, personalmente o per mezzo d’altri se ne fossero legittimamente impediti, almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni, nutrano il popolo loro affidato con parole salutari, secondo la propria e la loro capacità, insegnando quelle verità che sono necessarie a tutti per la salvezza e facendo loro conoscere, con una spiegazione breve e facile, i vizi che devono fuggire e le virtù che devono praticare, per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste.

Se poi qualcuno di loro fosse negligente anche se pretendesse di essere esente dalla giurisdizione del vescovo per qualsiasi motivo o anche se le chiese fossero ritenute in qualsiasi modo esenti, o forse annesse o unite a qualche monastero, situato magari fuori diocesi, purché in realtà si trovino nella diocesi, non manchi la provvidenziale sollecitudine dei vescovi, perché non debba avverarsi il detto: I piccoli chiesero il pane e non vi era chi lo spezzasse loro».

Si noti come la sottolineatura è quella della predicazione, mentre è passata sotto silenzio la lettura personale del testo sacro. La Scrittura non è assente dalla visuale del Concilio di Trento, ma deve essere mediata dalla viva voce della catechesi.

A livello iconografico, l’importanza della Sacra Scrittura è manifesta anche nell’arte del Cinquecento ed in quella successiva dell’età barocca.

Si pensi allo straordinario dipinto di Lorenzo Lotto, Matrimonio mistico di Santa Caterina (1524, Roma, Galleria Nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini), dove vengono rappresentati insieme il valore del Libro Sacro, il valore della santità che legge e testimonia la rivelazione ed infine il ruolo di Cristo Bambino, Parola di Dio, che celebra le sue nozze con Santa Caterina. Nel dipinto la Vergine volta la pagina del testo sacro, poiché con il suo assenso all’Incarnazione la Parola di Dio diviene carne.

 

Si pensi anche al San Matteo e l’angelo del Caravaggio della Cappella Contarelli in San Luigi dei francesi (l’opera è del 1602), dove l’ispirazione divina delle Scritture è posta in rilievo.

4.2/ La figura di Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536; prete, poi con dispensa; il papa gli offre il cardinalato nel 1535)




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Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 18:53

da Erasmo da Rotterdam, Il pugnale del soldato cristiano, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p. 26

Dunque, l'uomo è un animale stupefacente, fatto di due, anzi tre parti diversissime tra loro, con un'anima che lo fa simile a un nume e un corpo che lo fa simile a un animale bruto. Il nostro corpo, peraltro, è inferiore sotto tutti i riguardi a quello degli altri animali bruti; quanto all'anima, invece, siamo a tal punto capaci di divinità che ci è possibile sorvolare perfino le menti angeliche e diventare una cosa sola con Dio. Se non ti fosse stato aggiunto un corpo, saresti un dio: se non ci fosse stata inserita quest’anima, saresti una bestia. Queste due nature così diverse tra loro il grande artefice le aveva legate in armoniosa concordia, ma il serpente, nemico della pace, le ha divise in sterile discordia, di modo che ormai non possono né dividersi senza il massimo tormento né vivere insieme senza una continua guerra. Come si suol dire, ciascuno dei due lupi in lotta tiene l'altro per l'orecchio e ad entrambi si adatta l'arguta battuta «Non posso vivere con te, né senza di te».

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam (1516, insieme all’edizione del NT), Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 128-129

Mi dispiace dovere adesso, per prima cosa, rinnovare una vecchia lamentela: vecchia, ma, ahimé!, fin troppo giusta. E non so se sia mai stata più giusta di oggi, quando, mentre i mortali si dedicano con tanta passione ai loro studi, la sola filosofia di Cristo è addirittura derisa da certi cristiani, dalla maggior parte di essi è trascurata, e solo da pochi viene studiata - ma con indifferenza, per non dire con ipocrisia. Eppure, in tutte le altre discipline create dall'ingegno umano non c'è niente di cosi recondito e nascosto che non sia stato esplorato dalla sagacità dell'intelletto, niente di tanto difficile che non sia stato compreso grazie a un lavoro incessante. Perché allora accade che noi, che pure ci chiamiamo tutti col nome che ci viene da Cristo, non ci dedichiamo a quest'unica filosofia con l'animo che essa merita? Platonici, Pitagorici, Accademici, Stoici, Cinici, Peripatetici, Epicurei conoscono profondamente i principi della propria scuola, e li sanno a memoria, e per essi combattono, pronti a morire piuttosto che tradire l'insegnamento del proprio maestro. E noi, perché non dimostriamo una fedeltà anche maggiore al nostro fondatore e maestro Cristo? Chi non troverebbe assurdo che un seguace di Aristotele ignorasse il pensiero di quel filosofo sulle cause dei fulmini, sulla materia elementare, sull'infinito? Eppure, queste sono cose che non rendono felici a saperle, né infelici a ignorarle. E noi, che siamo stati iniziati e avvicinati a Cristo in tanti modi e con tanti sacramenti, non riteniamo disonorevole ignorare una dottrina che garantisce a tutti una felicità certissima? Ma a che serve ingrandire qui polemicamente l'argomento, quando è empio e folle il fatto stesso di paragonare Cristo con Zenone o Aristotele, e la sua dottrina con le loro - per parlare educatamente - formulette?

Attribuiscano pure ai capi della loro setta quello che possono o che vogliono: questo è senza dubbio l'unico maestro venuto dal cielo, il solo che abbia potuto, essendo l'eterna sapienza, insegnare certezze; il solo a impartire insegnamenti salvifici, unico autore dell'umana salvezza; il solo ad essere assolutamente coerente con tutto ciò che ha insegnato; il solo che può mantenere tutto ciò che ha promesso. Se ci arriva qualcosa dai Caldei o dagli Egizi, bramiamo ardentemente di conoscerlo proprio perché viene da un mondo a noi estraneo, e l'arrivare da lontano fa parte del suo valore. Spesso sulle fantasie di un poveruomo, per non dire di un impostore, ci tormentiamo ansiosamente, non solo senza alcun frutto, ma con grande spreco di tempo - per non dir di peggio (sebbene sia già gravissimo non ottenere nessun risultato). Ma come mai una curiosità di questo genere non stuzzica l'animo dei Cristiani, che sanno benissimo che la loro dottrina non viene dall'Egitto o dalla Siria, ma dal cielo stesso? Perché non riflettiamo tutti che è necessario sia uno straordinario, mai visto, genere di filosofia quello per predicarci il quale colui che era Dio si è fatto uomo, colui che era immortale si è fatto mortale, colui che era nel cuore del Padre è sceso in terra? È necessario che sia qualcosa di grande, di nient'affatto comune, qualsiasi cosa sia, ciò che è venuto a insegnarci quel maestro tanto ammirevole, dopo tante scuole di filosofi e tanti insigni profeti. Perché, qui, non conosciamo, analizziamo, discutiamo, con pia curiosità, ogni singola cosa? Soprattutto visto che questo genere di sapienza - tanto esimio da rendere una volta per tutte stolta tutta la sapienza di questo mondo - lo si può attingere, come da limpidissime fonti, da questi pochi libri, con fatica di gran lunga minore di quella che costa attingere da tanti volumi spinosi, da tanto immensi e contraddittori commenti di interpreti la dottrina aristotelica - per non aggiungere con quanto maggior frutto. Qui infatti non è necessario avvicinarsi muniti di tante angoscianti dottrine. Il viatico è semplice e accessibile a chiunque, purché si abbia un animo pio e disponibile, e soprattutto dotato di fede semplice e pura. Perché tu sia docile, otterrai grandi risultati in questa filosofia. E lei che ci fornisce lo spirito maestro, che non si offre tanto volentieri quanto agli animi semplici.

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 130-131

Io dissento infatti totalmente da coloro che non vorrebbero che il popolo leggesse le Sacre Scritture tradotte in volgare, come se Cristo avesse insegnato cose cosi astruse da poter essere capite solo da un gruppetto di teologi, o come se la massima sicurezza della religione cristiana consistesse nell'essere ignorata. Può darsi che sia opportuno tenere nascosti i segreti dei re: ma Cristo vuole che i suoi siano divulgati il più possibile. Vorrei che qualsiasi donnetta leggesse il Vangelo, leggesse le epistole di Paolo. E magari questi scritti fossero tradotti nelle lingue di tutti i popoli, in modo da essere letti e capiti non solo dagli Scoti e dagli Iberni, ma anche dai Turchi e dai Saraceni! Il primo passo sta senza dubbio nell’impararli in un modo qualsiasi. Va bene: molti ne rideranno, ma alcuni ne faranno tesoro. Mi piacerebbe che il contadino ne cantasse dei passi mentre guida l’aratro, e il tessitore mentre guida la spola, e che il viandante ingannasse la noia del viaggio con le storie della Scrittura. Tutte le conversazioni di tutti i cristiani dovrebbero basarsi su di essa. Noi siamo infatti quali sono i nostri discorsi quotidiani. Ciascuno capisca ed esprima ciò che può. Chi resta indietro non invidi chi gli sta avanti, e questi dia una mano a chi gli sta dietro, non lo scoraggi. Perché restringiamo a pochi un'attività che è di tutti? E infatti illogico che, mentre sono allo stesso modo comuni a tutti i cristiani il battesimo (prima professione della filosofia cristiana), poi tutti gli altri sacramenti e infine la promessa dell'immortalità, solo i dogmi siano stati relegati nelle mani di un gruppetto di persone, che oggi si chiamano comunemente teologi o monaci, ma che, pur essendo una parte minima del popolo cristiano, vorrei fossero migliori della fama che hanno. Temo infatti che tra i teologi se ne possano trovare di quelli che si discostano molto dal titolo che hanno, e cioè che discutono di cose terrene e non di cose divine. E che fra i monaci non se ne trovino molti che professino la povertà e il disprezzo del mondo insegnatici da Cristo, invece che la morale del mondo. Per me è un vero teologo colui che sappia insegnare - non con sillogismi contorti ad arte, ma con l'atteggiamento, con l’espressione del volto e degli occhi, con la sua stessa vita - che le ricchezze vanno disprezzate; che il cristiano non deve contare sulle sicurezze di questo mondo, ma deve affidarsi al cielo; che l'ingiuria non va restituita; che bisogna benedire chi ci maledice e fare del bene a chi ci fa del male; che i buoni vanno amati e aiutati tutti come le membra dello stesso corpo, e i cattivi tollerati, se non possono essere corretti; che coloro che vengono spogliati dei loro beni, che vengono scacciati dalle loro proprietà, che piangono, sono beati e non spregevoli; che la morte, non essendo altro che il passaggio all'immortalità, è desiderabile anche per le persone pie. Se qualcuno, ispirato da Cristo, predicasse, inculcasse ed esortasse a cose come queste, sarebbe un vero teologo anche se fosse uno zappatore o un tessitore. E se qualcuno le sostenesse con 1'esempio della sua condotta, questi sarebbe un grande Dottore. Su quale sia l'intelletto degli angeli può forse discutere sottilmente anche un non cristiano, ma persuadere gli uomini che in questo mondo dobbiamo condurre una vita angelica, questo è veramente il compito di un teologo cristiano. E se qualcuno strillasse che queste sono affermazioni volgari e sempliciotte, non avrei altro da rispondere se non che queste volgarità le ha insegnate prima di tutto Cristo, che su di esse hanno insistito gli apostoli e che ce le hanno tramandate schiere di autentici cristiani e di insigni martiri. Questa filosofia, che a loro sembra illetterata, ha sottomesso alle proprie leggi i massimi principi della terra ed un ben noto numero di regni e popoli, cosa che non era riuscita a fare né la forza dei tiranni, né la dottrina dei filosofi. Non voglio certamente oppormi, se coloro che hanno raggiunto la perfezione vogliono discutere nei loro circoli di codesta sapienza per pochi. Ma sarà una consolazione per l'umile volgo dei cristiani sapere che tali sottigliezze gli apostoli, ammesso che ne fossero a conoscenza (e questo non intendo stabilirlo io), certo non le insegnarono.

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p.134

Perché preferiamo imparare la sapienza di Cristo dagli scritti degli uomini piuttosto che da Cristo stesso? Lui che ha promesso che sarebbe stato con noi sempre, fino alla fine dei secoli, mantiene la promessa soprattutto con questi scritti, nei quali ancora oggi vive, respira, parla, direi quasi più efficacemente di quando viveva con gli uomini. I Giudei vedevano e udivano meno cose di quelle che tu vedi e ascolti negli scritti evangelici, purché tu ci metta occhi e orecchie tali da poterle distinguere.

Insomma, che storia è questa? La lettera di un amico la conserviamo, la baciamo, ce la portiamo dietro, la leggiamo e rileggiamo: e ci sono migliaia di cristiani che, pur essendo dotti, non hanno mai letto in tutta la loro vita i libri evangelici e apostolici. I maomettani custodiscono gelosamente i loro dogmi, i Giudei ancora oggi studiano Mosè nel testo originario. Perché noi non rendiamo lo stesso onore a Cristo? Coloro che seguono San Benedetto conservano, mandano a mente, si imbevono della sua regola, che pure fu scritta da un uomo, e da un uomo quasi ignorante, per gente ignorante. Gli agostiniani sono ferratissimi sulla regola del loro fondatore. I francescani adorano i poveri insegnamenti del loro Francesco, li accolgono incondizionatamente, in qualsiasi posto del mondo si spingano li portano con sé, e non si sentono sicuri se non hanno in seno quel libretto. Perché essi tributano a una regola scritta da un uomo più di quanto i cristiani in generale tributano alla propria regola, che Cristo ha trasmesso a tutti, a cui tutti egualmente si sono legati col battesimo, e che insomma - per quante tu ne voglia aggiungere - è la più sacra di tutte?

5/ La questione teologica al centro. Non le 95 tesi sulle indulgenze, ma le grandi questioni del peccato e della grazia e quella della chiesa e della tradizione

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 57-58

Lutero spedì [le famose 95 Tesi sulle indulgenze] la vigilia della festa di Ognissanti ai vescovi direttamente interessati. Soltanto allorché questi non ebbero risposto affatto o non in maniera soddisfacente, egli volle far recapitare le Tesi – così Lutero sostenne in tutta la sua vita – a persone dotte, dentro e fuori di Wittenberg ( WA 1, 528; WABr 1, 245; WA 51, 540; WA 54, 180; cfr. E. Iserloh, Luther zwischen Reform und Reformation, 41-55; vers. It., Brescia 1970).. Ma non si riesce a conciliare con questi dati, forniti da Lutero, l’affissione delle Tesi sulla chiesa del castello di Wittenberg il 31 ottobre del 1517. Di tale episodio non ci danno notizie né Lutero né alcuna delle molte fonti contemporanee. Solo Melantone, dopo la morte di Lutero – e precisamente nella «Prefazione» al II volume delle opere del riformatore (1546) – parla dell’affissione delle Tesi, prefazione che si rivela inattendibile anche quanto al resto (CR 6, 161 s; H. Boemer, Luthers Romfahrt, Lipsia 1914, 8; H. Volz, Martin Luthers Thesenanschlag, 37).

Prescindendo da molte altre contraddizioni, l’affissione delle Tesi, la vigilia della festa titolare della chiesa del castello, avrebbe avuto il carattere di una scena pubblica, nonostante l’uso della lingua latina, in vista del grande concorso di popolo provocato dalle numerose indulgenze che vi si potevano lucrare. Ma Lutero voleva, come ripetutamente afferma, instaurare un dialogare tra i dotti, a chiarimento della dottrina delle indulgenze, che non era stata ancora ufficialmente definita (WABr 1, 138; 152; WA 1, 311; 528. Cfr. l’intitolazione delle tesi: Quare petit, ut qui non possunt verbis presentes nobiscum disceptare agant id litteris absentes, WA 1, 233.). I colleghi, ai quali Lutero fece recapitare le Tesi dopo il 31 ottobre – ad esempio l’11 novembre del 1517 a Giovanni Lang di Erfurt (WABr 1, 122) – le diffusero. In poche settimane esse ebbero una così rapida e vasta pubblicità, in manoscritti e a stampa, quale nessuno – nemmeno Lutero stesso – avrebbe potuto prevedere (WABr 1, 170; WA 51, 540).

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 10-11

Ci si deve [...] chiedere: questa prassi esteriore aveva per fondamento una sana dottrina teologica e ne era chiarificata e illuminata?

Va qui ricordata, quale sintomo visibile e gravido di conseguenze, l’incertezza teologica. L’area della verità e dell’errore non era tracciata con sufficiente chiarezza. Si supponeva di trovarsi in accordo con la chiesa, mentre da tempo si erano adottate posizioni che contraddicevano al suo insegnamento.
Lutero riteneva di trovarsi ancora nella chiesa quando insultava il papa dandogli dell’anticristo, e Melantone poteva ancora tentare nella Confessio Augustana (1530) di rendere credibile che non esistesse alcun contrasto con la «chiesa romana» nelle rispettive dottrine e che si trattasse soltanto di una opinione diversa quanto ad alcuni abusi. L’insicurezza era particolarmente notevole nei riguardi del concetto di chiesa. A causa dello scisma di occidente – l’ultimo antipapa Felice V, aveva rinunciato appena nel 1449 – non era più molto chiaro se il papato, fondato da Gesù Cristo, fosse essenziale per la chiesa. Incapaci di stabilire chi fosse il papa legittimo, si era spesso cessato di porsi questo problema e ci si era abituati a fare a meno del papa. Diede un forte impulso alla Riforma la circostanza che molti furono dell’opinione che Lutero apportasse soltanto la riforma lungamente maturata, e non si accorsero, o si accorsero soltanto in ritardo, che egli metteva in discussione dottrine essenziali della chiesa.




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Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 18:56

5.1/ La questione della grazia e del libero arbitrio (la giustificazione)

 

da Martin Lutero, Il servo arbitrio. Risposta a Erasmo, Claudiana, Torino, 1993, pp. 78-80 e 416

Per affermazione (tanto per non giocare con le parole) intendo l’aderire costantemente a una dottrina, affermarla, confessarla, difenderla e sostenerla fino in fondo con perseveranza; né, credo, quel termine ha altro significato nei classici latini o nel nostro uso odierno. Inoltre mi riferisco a quelle cose che devono essere affermate, ovvero che ci sono state tramandate per via divina nella Sacra Scrittura. Non c'è del resto bisogno che Erasmo o qualsiasi altro maestro venga a insegnarci che nelle cose dubbie, inutili e non necessarie le affermazioni, le dispute e le contese sono non solo stolte ma addirittura empie; Paolo le condanna infatti in più di un luogo [I Tim. 1,4; II Tim. 2,23; Tito 3,9]. Né, credo, intendi qui riferirti a questo genere di cose, a meno che, come un oratore da strapazzo, tu non voglia alludere a una cosa e trattarne invece un'altra, oppure, per una follia degna di uno scrittore empio, tu ritenga l'articolo del libero arbitrio una questione dubbia o non necessaria.

Si tengano dunque lontano da noi cristiani gli scettici e gli accademici; ci stiano invece vicini coloro che sostengono la fede con un' ostinazione ancora più grande di quella degli stoici. Quante volte, mi chiedo, l'apostolo Paolo sollecita la plerophoría [I Tess. 1,5], cioè la più certa e convinta affermazione della coscienza? Nel capitolo 10 dell'epistola ai Romani la chiama confessione: «Con la bocca si fa confessione per essere salvati» [Rom. 10,10]. E Cristo dice: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io riconoscerò lui davanti al Padre mio» [Mt. 10,32]. Pietro comanda di rendere ragione della speranza che è in noi [I Pie. 3,15]. Che bisogno c'è di molte parole? Nulla per i cristiani è più noto e familiare dell'affermazione. Togli le affermazioni e hai tolto il cristianesimo. Lo Spirito Santo è dato ai cristiani dal cielo affinché glorifichi Cristo [Giov. 16,14] e lo annunzi fino alla morte; e cos’altro vuol dire fare affermazioni se non morire per la confessione e l'affermazione? Lo Spirito infine fa affermazioni soprattutto per irrompere nel mondo intero e convincerlo del peccato [Giov. 16,8], quasi sfidandolo a battaglia. E Paolo comanda a Timoteo di riprendere e di insistere anche fuor di tempo [II Tim. 4,2]. Che bello spettacolo darà invece quel predicatore che non creda con certezza né affermi con tenacia tutto ciò per cui ammonisce gli altri! Naturalmente lo manderei ad Anticira.

Ma il più stolto di tutti sono di gran lunga io, che perdo tempo e parole in una questione più chiara del sole. Quale cristiano può mai sopportare che le affermazioni siano disprezzate? Questo non significherebbe altro che negare in un sol colpo l'intera religione e pietà, oppure affermare che la religione, la pietà e tutti i dogmi non sono nulla. Come puoi dunque affermare di non aver gusto per le affermazioni e di preferire questa disposizione d’animo a quella opposta? [...]

Ora, essendo un uomo, è facile che tu non intenda correttamente e non esamini con la dovuta attenzione le Scritture o i detti dei padri, sotto la cui guida credi di aver raggiunto la meta. Ciò è ben chiaro quando scrivi di non voler affermare nulla, ma di aver fatto soltanto dei confronti. Chi penetra fino in fondo una questione e la intende correttamente non scrive in questo modo. Io invece in questo libro NON HO FATTO DEI CONFRONTI, MA HO AFFERMATO E AFFERMO; e non voglio lasciare a nessuno il compito di esprimere un giudizio, ma consiglio a tutti di prestare obbedienza. Voglia il Signore, del quale tratta questa discussione, illuminarti e fare di te un vaso a suo onore e gloria. Amen.

dalla relazione tenuta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nella tavola rotonda tenutasi presso la Evangelisch-luterische Christuskirche di Roma il 19 ottobre 1998, pubblicata in Evangelisch-luterische Christuskirche Rom, Roma, 2010, pp. 39-43.

Per Lutero, l’esperienza di essere peccatore, la miseria di essere peccatore, di non essere riconciliato con Dio, e l’esperienza che Dio stesso ha dato la riconciliazione, sono state il grande dramma della vita. La prima lo sconvolgeva nell’intimo, l’altra era la reale esperienza della redenzione, sicché egli non sapeva solo attraverso le teorie e i libri di testo teologici che cosa significasse essere redento, essere riconciliato, ma lo sapeva attraverso l’incontro con la Parola di Dio che gli andava incontro.

Per quanto oggi possiamo interpretare bene questi testi dal punto di vista storico, non dobbiamo forse ammettere che siamo molto lontani da una simile esperienza e che è questa la miseria che ci opprime entrambi [cattolici e luterani] e che forse potrebbe avvicinarci ancora di più della valutazione del peso dei singoli termini, che è importante, ma che può anche allontanarsi dalla realtà?

In altre parole: per chi di noi, in realtà, il peccato è miseria della propria vita, per chi il fatto di non essere riconciliato con Dio è la cosa che lo turba di più e con più urgenza? Inversamente, chi considera il messaggio che Dio dona la riconciliazione ciò che dà alla sua vita un nuovo fondamento e un nuovo cammino? Ho l’impressione che tutti noi dobbiamo ammettere una grande mancanza, ammettere che ciò che ci preoccupa e ci muove è di natura completamente diversa.

La nostra preoccupazione e la nostra paura derivano dalla preoccupazione per la conservazione del creato, dal timore dinanzi alla crescente ondata di violenza che non può essere arginata; dallo sgomento per l’incapacità alla pace presente negli uomini, dalla loro incapacità di creare giustizia e di distribuire i beni della terra in modo tale che venga sconfitto il bisogno che sconvolge interi continenti, e che venga superata la sproporzione tra l’abbondanza del ricco Epulone e la miseria del povero Lazzaro che giace davanti alla porta. Sono certamente questioni pressanti, che devono toccarci nel profondo.

Ma se non erro, in realtà abbiamo la sensazione che dobbiamo fare da soli e prendere tutto in mano noi. E mi pare che nella nostra anima sia penetrata, in misura non lieve, una concezione teistica di Dio. Non solo pensiamo, a partire dalle scienze naturali, che Dio ha dato al mondo le sue leggi e ora ne rispetta la dignità – non sarebbe degno di Lui interferire – ma crediamo lo stesso anche riguardo all’uomo. Dio ci ha consegnati a noi stessi e quindi non interviene; in realtà è difficile per noi anche solo immaginare in che modo potrebbe intervenire. Per questo non ci disturba il nostro rapporto insufficiente con Lui, mentre invece ci disturba l’insufficienza del nostro agire.

Questo, a sua volta, se non erro ha come conseguenza che nel messaggio della Chiesa, da entrambe le parti prevale il moralismo e in realtà si parla molto poco di ciò che fa Dio. Entrambe le Chiese, per quanto mi è dato vedere, propongono spiegazioni significative e importanti riguardo ai bisogni dell’umanità, ma in fondo si tratta sempre di appelli morali, rivolti all’attività dell’uomo. Ciò è bene e necessario, ma se lanciamo solo degli appelli morali, per quanto ben ponderati, prima o poi stanchiamo le persone, che potrebbero pensare che quelle cose le saprebbero dire anche altri, talvolta con maggiore competenza. Anche se non se ne rendono conto, nell’intimo esse si aspettano dalla Chiesa una certa vicinanza.

E hanno ragione ad aspettarsi di più, poiché non abbiamo da trasmettere solo l’appello al nostro fare, non solo la chiamata al nostro lavoro, ma anche il messaggio che Dio oggi è attivo e presente nella storia come soggetto, e che le cose possono aggiustarsi davvero solo se lo lasciamo agire. Vorrei spiegarlo meglio citando un verso del quinto capitolo della Seconda Lettera di San Paolo ai Corinzi che continua a colpirmi, quando l’apostolo dice: “In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori [...]. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v. 20).

A questo proposito forse potremmo negare di non essere riconciliati con Dio, potremmo affermare di non fare nulla di particolarmente cattivo, dire che Dio sa come siamo, che la Bibbia dice che Lui sa che siamo carne e dunque non può aspettarsi più di tanto da noi, che in realtà non occorrerebbe che ci riconciliamo con Lui, poiché sa come siamo e per tutto il resto, se necessario, ci pensa Lui. Ma c’è comunque una sorta di non essere conciliati, e questa è proprio la nostra indifferenza, il nostro ritenere che non abbiamo bisogno di Lui, della riconciliazione.

Vorrei brevemente – e con questo ritorno alla dottrina della giustificazione – illustrarlo ricorrendo a tre esempi. Il primo è: non abbiamo tempo per Dio! C’è talmente tanto da fare nel mondo che siamo costretti a rimandare la cosa di Dio. Ma se davvero dobbiamo fare tutto, in realtà non basta nemmeno tutto il tempo. Per questo, più vogliamo utilizzare il tempo solo per noi, più velocemente esso fugge.

Solo se accettiamo nuovamente che il grande evento che Dio ha tempo per noi è entrato nel tempo e non esiste solo racchiuso nell’eternità, che Cristo è il tempo che Dio ha per noi, che in Lui Dio ha tempo, se, quindi, accettiamo che possiamo entrare in questo co-tempo di Dio, in questa co-temporaneità, Dio con noi che ha operato in Cristo, allora il tempo diventa strumento e quindi si apre nuovamente al fatto che in esso può avvenire la pace di Dio. E inversamente, ci accorgiamo che, quando questa relazione fondamentale languisce, tutto il resto diventa poco e vuoto e che il nostro moralismo diventa violento e distrugge più di quanto non costruisca.

Per il secondo esempio attingo da Sant’Agostino: in realtà viviamo con il viso rivolto lontano da Dio, crediamo di non dovere guardare in quella direzione, guardare verso il mondo e lontano da Lui. Ma lui ha girato il suo volto verso di noi e ci chiama, affinché noi giriamo il nostro verso di Lui.

E qui, ritengo, dal punto di vista storico emerge chiaramente una cosa: nell’età moderna l’uomo ha distolto sempre più lo sguardo dal volto di Dio, come Adamo, che non voleva essere visto da Lui. Non vuole essere visto perché ritiene di non aver bisogno di un sorvegliante, e non va bene se tutto è sotto gli occhi di Dio, perciò questi occhi non devono proprio esistere.

E infatti, poiché l’uomo è peccatore, può temere lo sguardo di Dio e volerlo allontanare. Ma proprio qui sta la novità portata dal messaggio della giustificazione, che è cristologia applicata in modo semplice: possiamo collocarci sotto gli occhi di Cristo, poiché non sono occhi che ci annientano, come sarebbe giusto, bensì occhi di bontà, che ci accettano e ci trasformano, bontà nella quale il nostro essere imperfetto viene trasformato e nella quale nasce in virtù dell’essere giusto. Penso che sia proprio questo l’aspetto autenticamente cristiano: i temuti occhi di Dio sono diventati occhi che ci lasciano vivere e che ci accolgono nella bontà, senza la quale non potremmo esistere.

Ed ecco il terzo esempio, quello di Pietro che cammina sul mare e sprofonda fintanto che non guarda a Cristo, ma a se stesso. È evidente che se vede solo se stesso, vale solo la sua forza di gravità. Solo quando guarda a Cristo sopravviene l’altra forza di gravità, che lo regge e lo solleva, e che gli dà la capacità di attraversare il mare. Ed è a partire da ciò che comprendo qual è il significato corretto di “simul iustus et peccator”. Con la nostra forza di gravità, inevitabilmente sprofondiamo, cediamo al peccato. E, se ci affidiamo solo a questa forza di gravità, affondiamo. Ma c’è l’altra forza di gravità, e se ci facciamo trascinare da lei, allora siamo salvi, siamo giusti.

5.2/ Calvino: la doppia predestinazione

da Hans Urs von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma, 1981, pp. 15-18;21-22
Ci sono concetti cristiani fondamentali che, a dire il vero, sono sempre stati presenti alla coscienza della cristianità e che tuttavia, in una determinata epoca della sua storia, emergono alla luce in maniera tale da essere scoperti come per la prima volta. Nella Chiesa dell’epoca moderna si sono succeduti tre momenti a mettere in nuova luce il senso della vocazione cristiana secondo la Rivelazione.
1. Nei secoli successivi a Tommaso si sviluppa un senso elementare della libertà di Dio, dal cui beneplacito dipende ogni essere mondano: l’immagine veterotestamentaria di Dio, il Signore che elegge e rigetta, diviene determinante, in una specie di effetto retroattivo, persino per il rapporto del Dio della creazione con il suo mondo. Questa immagine di Dio comunque appare storicamente ancora troppo legata alla dottrina agostiniana della predestinazione (che continua ad avere effetto soprattutto nella Riforma) per poter dar vita, presa in sé, ad una soddisfacente dottrina della vocazione. Essa rimane a far da sfondo a ciò che segue.
2. Ignazio di Loyola – di fronte alla «parola» (biblica) della Riforma come realtà della rivelazione di Dio – porrà il venire salvifico di Dio nella carne interamente sotto il concetto di «chiamata». Per chiarire la natura del Vangelo nella sua essenza, egli fa precedere tutte le meditazioni sulla vita di Gesù da una parabola di chiamata (chiamata di un re ai suoi sudditi ad andare in guerra con lui contro i non credenti) dalla quale, in crescendo, e con l’uso di termini centrali del Nuovo Testamento, viene spiegata la missione di Cristo: se abbiamo preso in considerazione tale chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto sarà più degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Gesù Nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l’universo che Egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: «È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria. (Eserc. 95». In questo brano risulta evidente:
-che il Vangelo viene inteso come «proclama» per una azione che deve ancora accadere, alla quale sono invitati fin da principio mondo e uomo;
-che qui non si parla della Chiesa, ma da una parte di «tutto l’universo» e dall’altra di «ogni singolo» così che la realtà della chiamata e della vocazione viene a trovarsi in qualche luogo anteriore alla chiesa organizzata;
-che con ciò colui che ascolta questa chiamata e vi risponde (in grande opposizione all’ascoltare–la–parola in Lutero, per il quale la giustificazione compiuta è solo da ascoltare e da credere) viene invitato all’evento della salvezza stessa.
3. Il terzo momento, - quantunque già formulato in Ignazio, ma non ancora messo in rilievo in maniera riflessa dalla Controriforma -, emerge là dove viene rispecchiato il faccia a faccia fra «tutto l’universo» e il «singolo» e soltanto con ciò viene recuperato il senso fondamentale della vocazione biblica.
La vocazione del «singolo» si verifica, secondo il proclama del re eterno, a favore di tutto il mondo, poiché la volontà del re è «conquistare tutto il mondo e tutti i nemici e così – attraverso croce, discesa agli inferi, resurrezione – entrare nella gloria del Padre mio».
Per liberare il senso di questa affermazione dalla ferrea morsa della teologia dell’elezione o della predestinazione agostiniano-calvinistico-giansenista era necessaria la coscienza universale dell’umanità e del mondo propria dell’epoca moderna la quale però, soltanto così, è approdata ad una comprensione della salvezza come, nel concludere la Bibbia, la sviluppano Paolo e Giovanni e, sulle loro orme, i padri greci.

Con l’ingresso definitivo nel campo visivo del piano universale di Dio tanto per la creazione quanto per la sua redenzione, diventa impossibile interpretare la dottrina dell’elezione dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la loro chiara preferenza di un singolo rispetto agli altri, se non come un momento all’interno di questo piano universale. Paolo stesso l’ha così intesa, dal momento che ha visto solo tipicamente la dottrina dell’elezione individuale (Rom 9) in base all’elezione d’Israele tra i popoli, e questa a sua volta, nella dialettica di Romani 11, in maniera funzionale per la totalità dei popoli.
Israele è chiamato a favore dei pagani e questa vocazione di Israele diviene modello per una vocazione (chiamare–fuori–da) della Chiesa, la quale avviene a favore del mondo e con ciò diviene anche modello per ogni vocazione personale all’interno della Chiesa, vocazione che mostra, senza eccezioni, la stessa forma ecclesiale: vocazione a favore di coloro che per il momento non sono ancora chiamati.
Questa comprensione biblico-patristica e di nuovo moderna supera definitivamente ogni teologia della predestinazione individuale (la cui forma più consequenziale era la dottrina della doppia predestinazione), secondo la quale l’eletto è principalmente eletto proprio per se stesso, a tal punto che deve arrestarsi rigidamente e con orrore davanti al mistero della mancata elezione (forse persino del rifiuto) degli altri – e siano pure questi altri molti o pochi.
Si può e si deve formulare molto semplicemente: ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. Questo è vero in maniera centrale per Gesù Cristo che è predestinato e con ciò chiamato (Rom 1,4) a morire e risorgere, prendendo il loro posto, per tutti i condannati. E in Gesù Cristo è al tempo stesso visibile che il Padre proprio per questo lo ama con un amore di predilezione, poiché egli si è fatto funzione della universale volontà salvifica paterna.



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Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 19:02

5.3/ La grande questione della Chiesa e della Tradizione

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, p. 79

Io sono in grande angoscia, per il fatto che non dubito quasi più che il papa sia il vero e proprio anticristo, che secondo l’opinione generale il mondo si attende (WABr 2, 48 s).

da Martin Lutero, Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, sulla riforma dell’ordine cristiano in E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, p. 79

I cristiani tutti appartengono allo stato ecclesiastico; né esiste tra di loro differenza alcuna, se non quello dell’ufficio (o ministero), e ciò avviene perché tutti abbiamo un solo battesimo, un solo vangelo, una sola fede... che ci fa tutti chierici e tutti popolo di Dio... Ciò infatti che si riceve dal battesimo ben si può vantare che valga come essere consacrati sacerdoti, vescovi o papi, sebbene non a ciascuno si addica di esercitare tali uffici (WA 6,407, Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, sulla riforma dell’ordine cristiano, p. 130-132).

Se il papa e i vescovi hanno mancato, è compito delle categorie cosiddette terrene porvi rimedio: «Pertanto, ove necessità lo imponga e il papa sia di scandalo alla cristianità, il primo che lo può, come membro fedele dell’intero corpo, deve far sì che si tenga un concilio davvero libero; ma ciò nessuno può farlo bene quanto la spada secolare, in special modo perché essa è pure parte della cristianità, sacerdote come noi, spirituale come noi, con uguale potestà in tutte le cose, e perché il suo ufficio e l’opera sua, che da Dio le sono dati sopra chiunque, devono procedere liberi là dove sia utile e necessario procedere» (WA 6, 413; Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, sulla riforma dell’ordine cristiano, 140-141). «...Orsù, svegliamoci, miei cari Tedeschi, e temiamo più Dio che gli uomini, acciocché non veniamo a far parte di tutte quelle povera anime, che così miseramente vennero perdute a cagione dello scandaloso e diabolico regime dei romani...» (WA 6, 415; Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, sulla riforma dell’ordine cristiano, 143).

-un’immagine chiave: Crocifissione di Lucas Cranach, dipinta per la chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Weimar (1555)

da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pp. 9-16

Alla Chiesa appartiene essenzialmente l’elemento del “ricevere”, così come la fede deriva dall’ascolto e non è prodotto delle proprie decisioni o riflessioni. La fede infatti è incontro con ciò che io non posso escogitare o produrre con i miei sforzi, ma che mi deve invece venire incontro. Questa struttura del ricevere, dell’incontrare, la chiamiamo “Sacramento”. E appunto per questo rientra ancora nella forma fondamentale del Sacramento il fatto che esso viene ricevuto e che nessuno se lo può conferire da solo. Nessuno si può battezzare da sé; nessuno può attribuirsi da sé l’ordinazione sacerdotale; nessuno può, da sé, assolversi dai propri peccati.
Da questa struttura di incontro dipende anche il fatto che un pentimento perfetto, per sua stessa essenza, non può restare interiore, ma urge verso la forma di incontro del Sacramento. Perciò non è semplicemente un’infrazione contro prescrizioni esteriori del diritto canonico se ci si porge da sé l’Eucarestia e la si prende da sé, ma è una ferita della più intima struttura del Sacramento. Il fatto che in quest’unico Sacramento il prete possa egli stesso somministrarsi il Sacro Dono rinvia al “mysterium tremendum” al quale è esposto nell’Eucarestia; agire “in persona Christi” e così, nello stesso tempo, rappresentarlo ed essere un uomo peccatore, che vive completamente dall’accogliere il suo Dono.

La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è già, da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo Corpo che attraversa la storia. Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa, che ci aiuta a comprendere questo difficile termine “comunità conformi al diritto”: Cristo è dovunque intero. Questa è la prima importantissima cosa che il Concilio ha formulato, in unità coi fratelli ortodossi. Ma egli è dovunque anche uno solo, e perciò io posso avere l’unico Signore solo nell’unità che egli stesso è, nell’unità con gli altri che sono anche essi il suo Corpo e che, nell’Eucarestia, lo devono sempre di nuovo diventare.

da Joseph Ratzinger, Chiesa universale e Chiesa locale. Il compito del vescovo, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pp. 55-74

Questo “noi” [della Chiesa] non va inteso solo in senso sincronico, ma anche in senso diacronico. Il che significa che nella Chiesa nessuna generazione è isolata. Nel corpo di Cristo il limite della morte non conta più; in lui passato, presente e futuro si compenetrano. Il vescovo non rappresenta mai solo se stesso, né ciò che predica è il suo proprio pensiero; il vescovo è un inviato, e in quanto tale un ambasciatore di Gesù Cristo. L’indicatore della strada che introduce nel messaggio è per lui il “noi” della Chiesa, e precisamente il “noi” della Chiesa di tutti i tempi. Se da qualche parte venisse a formarsi una maggioranza contro la fede della Chiesa di altri tempi, non sarebbe affatto maggioranza: nella Chiesa la vera maggioranza è diacronica, abbraccia tutte le epoche, e solo se si ascolta questa totale maggioranza si rimane nel “noi” apostolico.

da A. Sabetta, Sacramento e parola in Lutero, apparso  in “Rassegna di teologia” 51 (2010), pp. 583-606

La Confessio augustana (CA) definisce la chiesa «l'assemblea dei santi nella quale si insegna il Vangelo nella sua purezza e si amministrano correttamente i sacramenti» (VII), Parola e Sacramenti che, «in virtù della disposizione e dell'ordine di Cristo, sono efficaci anche se sono amministrati da malvagi» (VIII)[1].

Nell'Apologia della CA, redatta da F. Melantone, la Parola e i riti-sacramenti vengono accomunati e presentati come due forme dell'agire di Dio nel cuore dell'uomo perché si generi nei cuori la fede. Dunque, il sacramento e la Parola sembrerebbero inseparabili, in quanto hanno la stessa origine, Dio, e producono lo stesso effetto; nell'Apologia viene usata questa immagine: «come la Parola penetra nell'orecchio, per toccare il cuore, così il rito colpisce gli occhi, per agire sul cuore. La Parola e il rito producono un identico effetto, come dice magnificamente Agostino: il sacramento è il Verbo visibile»[2].

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Colpisce, perciò, quello che all'inizio del sec. XX scriveva A. von Harnack. Nel suo Lehrbuch der Dogmengeschichte, egli giudicava la presenza e la riflessione luterana sui sacramenti come una ricaduta nel Medio Evo e un punto debole della riforma la cui originalità, invece, sarebbe consistita esattamente in una sorta di “desacramentalizzazione”[3].

Bisogna, tuttavia, riconoscere, allo stesso tempo, che è diventata opinione condivisa, tra gli studiosi di Lutero, l'insostenibilità di questa posizione che ridimensiona il senso dei sacramenti rispetto al primato della Parola. È vero, come leggiamo nell'Apologia della CA, che sussiste un'asimmetria tra Parola e sacramento[4]: «mentre infatti può accadere, e di fatto accade frequentemente, che la Parola biblica risuoni senza che vi sia celebrazione del sacramento, non può darsi il caso contrario. La Parola biblica è costitutiva anche del gesto della grazia, almeno nella forma delle parole evangeliche alle quali la chiesa si riferisce quando li celebra»[5].

Piuttosto è nella posizione di altri riformatori (Zwingli e Calvino) che il primato della parola predicata confina i sacramenti ad una funzione complementare. Sappiamo, però, quanto Lutero abbia polemizzato con una simile posizione difendendo il carattere esterno e oggettivo della Parola, tanto nella predicazione quanto nei sacramenti. È anche vero che la coordinazione fra Parola e sacramento, tipica di Lutero, si attenua nella tradizione riformata, tanto che per Ebeling se l'abolizione dei sacramenti comprometterebbe l'essenza stessa della Chiesa cattolica, non ne uscirebbe snaturata quella della Chiesa evangelica[6], pur ripetendo che il sacramento non comunica «doni diversi da quelli che ci comunica la parola orale, anche se in modo diverso»[7].

Direi, invece, che la questione dei sacramenti ha focalizzato ed è rimasta centrale nella teologia di Lutero, se si considera che tutto il decennio 1519-1528 è fortemente attraversato da una riflessione sulla tematica sacramentale, volta non solo a determinare la natura del sacramento e i suoi elementi costitutivi, ma anche ad analizzare i due sacramenti della fede, cioè il battesimo e la santa cena. [...]

Per concludere, in aggiunta alle considerazioni svolte durante il testo circa il rapporto parola-segno, centralità della parola ed ineliminabilità del segno, possiamo affermare che la tematica dei sacramenti in Lutero per essere adeguatamente compresa va inserita nel più ampio processo della giustificazione.

La riflessione del riformatore appare segnata dal confronto e dall'opposizione a due prospettive, quella cattolica, rea di ridurre la giustificazione a questione di opere e non di fede, e quella riconducibile al fronte spiritualista e radicale della riforma, che tendeva a minimizzare la rilevanza della parola esterna e del segno nel processo della giustificazione e della vita cristiana.

Così Lutero da un lato sviluppa una dottrina dei sacramenti come segni esterni della promessa di Dio (verbum promissionis), a cui l'uomo risponde accogliendoli con una fede fiduciale che deve fondarsi solo sulla Parola di Dio, poiché, ripetendo Agostino, non sacramentum sed fides sacramenti justificat; dall'altro, discutendo con alcuni riformatori, enfatizza il fatto che la salvezza, come dono gratuito dall’esterno (ab extra), è portata alla persona attraverso segni esterni veri e reali dati da Dio, la Parola e il sacramento, come leggiamo negli articoli di Smalcalda: «ci incombe il dovere e l'obbligo di tener fermo questo punto: Dio non vuole entrare in rapporto con noi uomini se non per mezzo della sua Parola esterna e dei sacramenti»[8]. E allora l'obbedienza alla volontà di Dio diventa l'argomento per l'esistenza, l'uso e l'irrinunciabilità dei sacramenti secondo l’ermeneutica letterale delle parole della Scrittura.

Parola e sacramento sono le forme dell'agire di Dio sui cuori, poiché è mediante la parola e i sacramenti che Dio si manifesta e viene incontro all'uomo, il quale si salva in forza dell'affidarsi a delle realtà a lui esteriori. In questo modo è bandito ogni soggettivismo o spiritualismo, poiché la fede si dà di fronte a realtà oggettive che rappresentano le mediazioni scelte da Dio.

La grazia di Dio, come leggiamo negli articoli di Smalcalda, si manifesta a noi in modi diversi: il Vangelo, infatti, viene in nostro aiuto anzitutto tramite la parola orale «mediante la quale il perdono dei peccati viene predicato nel mondo intero - ed è questa la funzione specifica del Vangelo. In secondo luogo, tramite il battesimo. In terzo luogo, tramite il sacramento dell'altare. In quarto luogo, tramite il potere delle chiavi e anche tramite il colloquio e la reciproca consolazione dei fratelli»[9].



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Caterina63
00giovedì 16 agosto 2012 18:17

La " Riforma " protestante : 'inizio della decadenza dell'Europa ( parte prima )

Riceviamo e volentieri pubblichiamo uno studio per il nostro blog sullo stato spirituale dell'Europa. 
 Autore è  un imprenditore cattolico  di area "tradizionale". 
Lo ringraziamo di cuore.
A.C. 
 
Prima parte . 
 
L'inizio della decadenza dell'Europa possiamo farlo risalire alla Riforma protestante, figlia dell'Umanesimo, con l'esaltazione del rapporto personale tra l'uomo e Dio e con l'affermazione del "libero pensiero" in materia di religione, elevando la ragione al di sopra della fede, finendo per divinizzare (come oggi si può constatare) lo stesso uomo, considerato l'unico arbitro di ciò che è vero, un dio che non sbaglia mai. 
Il primo effetto di quel movimento religioso fu quello di sovvertire l'ordine naturale della società. 
Si trattò di una vera e propria rivoluzione, madre della serie di sconvolgimenti che hanno attraversato la civiltà occidentale passando dalla rivoluzione francese alla rivoluzione di Ottobre in Russia fino alla rivoluzione sessantottina dove lo scardinamento dei valori è arrivato a livello di massa. 

Il conte De Maistre (1753-1821) imputava alla riforma protestante "l'introduzione del germe dell'individualismo portatore di disordine e conflitto e origine della successiva deriva illuminista che, attraverso l'esaltazione del valore irriducibile del singolo individuo, portò al prevalere della "ragione individuale sulla ragione universale".

William Cobbett (1763-1835) arriva a dire che la rivoluzione francese è stata la "Quinta Riforma", perchè a suo dire la prima fu quella luterana, la seconda quella puritana di Oliver Cromwell, la terza, la rivoluzione inglese (1688-1689) di Guglielmo d' Orange, la quarta la rivoluzione americana. 
Tutti questi avvenimenti, secondo Cobbett, sono riconducibili direttamente alla prima riforma, quella protestante. 
E noi, col senno del poi possiamo aggiungere la sesta e la settima: la rivoluzione di Ottobre in Russia e quella sessantottina.
Secondo molti studiosi la riforma protestante fu quella che seminò lo spirito del dubbio, il liberalismo religioso (oggi cattolicesimo adulto) , il libero esame (in particolare nella Sacra Scrittura), l'origine della rivolta contro l'autorità ecclesiastica, incarnata nella rivolta contro il Papato. 
Non pochi documenti della Chiesa cattolica riconobbero il nesso tra la Riforma protestante, la rivoluzione francese e i successivi sviluppi del pensiero che portarono fino all'ateismo. 

Leone XIII nella "Vigesimo quinto anno" denuncia il filosofismo orgoglioso e beffardo del secolo XVIII da dove uscirono i funesti sistemi del razionalismo e panteismo, del naturalismo e materialismo che non sono altro, sotto nuovi modi, che errori antichi già confutati vittoriosamente dai Padri della Chiesa nei primi quattro, cinque secoli. Pio X con la "Pascendi Dominici grecis" denuncia gli errori del modernismo (oggi diffuso tra gli stessi religiosi in modo preponderante) che conducono all'ateismo e alla distruzione di ogni religione. 

Secondo questo Pontefice "l'errore dei protestanti diede il primo passo in questo sentiero; il secondo, è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l'ateismo". 
Pio XII, nel 1952, parlando all'Azione Cattolica denunciava il pericolo di queste ideologie nemiche divenute sempre più concrete, le quali proclamavano: Cristo si, la Chiesa no. 
Poi: Dio si, Cristo no. 
Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi Dio non è mai stato. 
Da qui il tentativo di edificare la struttura del mondo senza fondamenti, che non esitava ad additare come uno dei principali responsabili della minaccia che incombe sull'umanità: una economia senza Dio, (il risultato è quello che sta sotto i nostri occhi) un diritto senza Dio, (un nuovo diritto, il quale non solo era sconosciuto in precedenza, ma per di più di un aspetto si distacca sia dal diritto cristiano, sia dallo stesso diritto naturale) una politica senza Dio (basterebbe contare le decine se non le centinaia di milioni di morti ammazzati dalle varie ideologie del ventesimo secolo per convincersene). 

Nel saggio "L'Europa e la fede" lo scrittore inglese Hilaire Belloc (1870-1953) intravvide il più nefasto effetto della Riforma nel concetto da lui definito come "l'isolamento dell'anima". Applicato alla vita sociale, spiega lo scrittore inglese, risveglia nella società un nuovo, furioso aumento di forza e la rottura di ogni equilibrio stabile, nel mondo fisico come nella vita sociale, libera una prodigiosa riserva di energie potenziali: la forza che teneva unite insieme le parti del tutto si trasforma in un'altra che le separa violentemente; è l'effetto di un'esplosione. 

Anche per questo è vero che la Riforma ha dato spinta a tutta una serie di progressi materiali, ma si è trattato di una "spinta caotica", su linee divergenti che potrebbero solo concludersi in un disastro. 
E' attraverso questa analisi che Belloc identifica nella Riforma la "radice unica del razionalismo del XVII secolo, continuato dal materialismo del secolo XIX. Tutti movimenti, continua Belloc, che scaturirono dal bisogno dell'anima senza appoggio di crearsi da sola un sistema traendolo dal proprio intimo". 
Con la Riforma nasce la visione assolutistica dello Stato moderno, di una deflagrante prospettiva di rottura rispetto alla respubblica christiana medievale, tanto che Belloc ci ricorda che un altro effetto della Riforma fu "l'adorazione dell'autorità civile", una sorta di "deificazione dello Stato e della Legge", di "adorazione dell'esecutivo", cui si sottomisero "i grandi corpi delle società umane, intossicati dagli splendori e dagli effetti vivificanti del comando". 
Infatti un altro effetto della Riforma è la ricerca del lusso.

La sua prospettiva individualista contribuisce in maniera sostanziale anche allo sviluppo e alla diffusione del concetto di lusso, che nel medioevo, aldilà dell'agiata opulenza dei signori medievali, il lusso non era appannaggio di privati cittadini, ma era perlopiù riservato al culto, ai palazzi pubblici e nelle pompe dei magistrati.
E' la rivoluzione luterana che accentua un approccio egoistico nella gestione dei beni terreni, sviluppando la tendenza alla loro ostentazione. 
Furono tre le dottrine protestanti che ebbero un effetto devastante nei rapporti sociali: quella della Sola Scriptura, quella della Sola Grazia e quella della Sola Fide. 

Con la prima si stabilisce che solo la Bibbia è l'unica vera ed autorevole guida del cristiano, il quale entra in personale e diretto rapporto con Dio, senza mediazioni ecclesiali. 
Con la seconda e la terza dottrina si nega il libero arbitrio, fondamento di ogni responsabilità morale, e si proclama il principio secondo cui alla salvezza dell'anima basta la fede o la grazia divina, senza la necessità di compiere buone opere. 
Queste tre teorie furono poste a giustificazione di un irrefrenabile egoismo per tutto il corso della modernità e saranno all'origine della logica del puro profitto capitalista e dello sfruttamento dei lavoratori, duramente condannati dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica. 

Lo scrittore cattolico Iginio Giordani (1894-1980) nel suo messaggio sociale del cristianesimo ha elaborato un' attenta analisi degli effetti sociali dell'individualismo protestante: "Il principio del tutti per uno e uno per tutti si sostituiva con ognuno per se e Dio per tutti. La cristianità era divisa e gli uomini non si sentivano più saldati l'uno all'altro come organismo umano-divino, ma giustapposti: ciascuno la sua Bibbia, ciascuno prete a se stesso, regolandosi come la coscienza individuale gli dettasse". 
Non più famiglia , con capi il Papa e l’Imperatore, ma gruppi chiusi e Stati indipendenti.
F.V.
 
( Fine prima parte )
 
Foto : Rieti, Basilica Cattedrale, Conferenza dell'Onorevole Fausto Bertinotti; Presidente emerito della Camera dei Deputati. 
Cattedrale concessa dal Vescovo Diocesano S.E.R. Mons. Delio Lucarelli ( già Rettoredal 1972 al 1988 - del Pontificio Seminario Regionale Marchigiano Pio XI ). A.M.D.G.



[SM=g1740771]

Caterina63
00martedì 18 dicembre 2012 23:41

Martin Lutero: Riformatore o Rivoluzionario?



Recensione al nuovo libro di Angela Pellicciari


di Nicola Rosetti

SAN BENEDETTO DEL TRONTO, lunedì, 17 dicembre 2012 (ZENIT.org/Àncora Online).- Angela Pellicciari si è resa nota al pubblico, e in particolare a quello cattolico, per le sue pubblicazioni sul Risorgimento nelle quali ha messo in luce gli aspetti meno noti di questo periodo della storia italiana, dando particolare risalto alle contraddizioni di diversi Padri della Patria.

L’autrice ha sempre portato avanti le sue tesi storiografiche fondandosi su documenti dell’epoca e, se si può essere in disaccordo col suo pensiero, difficilmente la si può accusare di non sostenere i suoi convincimenti su solide basi.

Il Risorgimento è figlio della Rivoluzione Francese che a sua volta affonda le radici nella Rivoluzione Protestante, fenomeno che la Pellicciari ha voluto studiare nella sua ultima fatica intitolata Martin Lutero, edita da Cantagalli.

L’autrice è d’accordo con il pensiero di Pio XII che vede un filo rosso che lega la Rivoluzione Protestante, quella Francese e quella Comunista e cita una frase di Papa Pacelli: “Si è partiti col dire Cristo sì, Chiesa no (protestantesimo ndr). Poi Dio sì e Cristo no (illuminismo ndr). Finalmente il grido empio: Dio è morto, anzi, Dio non è mail esistito (comunismo ndr)” (p. 78).

La Chiesa era brutta e cattiva, perseguitava ferocemente chi non era in linea col suo credo ed è per questo che si levò contro di essa la voce del paladino della libertà e della libera opinione Martin Lutero. Questa, in modo molto semplicistico, è la favola che ci hanno spesso insegnato a scuola e che l’autrice smonta partendo sempre dalle fonti, in primo luogo dagli scritti dello stesso Lutero.

Il lettore tuttavia si accosterà al testo ben distinguendo la figura di Lutero dai Luterani di oggi essendo in ciò guidato da quanto affermato dal decreto conciliare Unitatis Redintegratio che al numero 3, fra l’altro, afferma: “Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità, non possono essere accusati di peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li circonda di fraterno rispetto e di amore”.

Inoltre, leggere una pagina di storia, non è come leggere una pagina della Sacra Scrittura. Mentre quest’ultima può essere letta su due livelli, quello del testo in sé (RACCONTO) e quello del testo per me (SIGNIFICATO), una pagina di storia, specialmente quella che racconta fatti accaduti parecchi secoli fa, è chiusa nel passato e nel passato è anche incatenato il giudizio che di quel periodo storico possiamo dare.

Se da una parte è vero che la storia è maestra di vita, dall’altra è anche vero che fra i fatti narrati e valutati dall’autrice e l’uomo di oggi sono trascorsi parecchi secoli nei quali c’è stato uno sviluppo spirituale e culturale. Perciò potremo trarre giovamento dalla lettura di questo testo solo se pienamente contestualizzato.

Fatte queste opportune premesse, vediamo allora alcuni interessanti spunti per la riflessione che emergono dal testo.

Rompe con la millenaria tradizione ecclesiastica e porta avanti la sua battaglia a suon di versetti biblici. Il protestantesimo infatti si basa sul principio che può essere oggetto di fede solo ciò che è fondato nella Sacra Scrittura. Non tutto però nella Bibbia soddisfa il pensiero di Lutero e dunque il “riformatore” non esita a definire una “ lettera di paglia” la Lettera di Giacomo che esalta il valore delle opera a scapito del principio della “sola fede” sostenuto da Lutero! (p. 67).

Con ciò l’autrice mette in evidenza l’approccio “ideologico” alla Scrittura di Lutero. Egli non fa parlare la Sacra Pagina, ma espunge da essa i versetti che più si confanno al suo pensiero religioso.

La stessa cosa si può dire per quanto riguarda l’interpretazione del testo sacro. Per Lutero infatti ogni fedele deve leggere la Sacra Scrittura da solo senza la mediazione della Chiesa. Questo è il suo pensiero, eppure nella stessa Bibbia si legge: “Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu mai creata una profezia, ma mossa da Dio” (cfr 2 Pt 1,20-21) (p. 72).

Quando poi ognuno inevitabilmente inizia a leggere a modo suo le Sacre Scritture, iniziano a sorgere altre comunità cristiane oltre a quella luterana. Non avevano forse ragione i latini nel dire “tot capita tot sententiae”!?

Come reagisce Lutero a questo pullulare di nuove comunità cristiane? Nel 1531 afferma: “Non è permesso che un Tizio qualunque venga fuori di sua testa, crei una sua propria dottrina, si spacci per un maestro Pallottola e voglia farla da maestro e biasimar chi gli piaccia”! (p. 65).

Ma non si era egli stesso analogamente opposto all’autorità del Papa qualche anno prima vestendo i panni di quel Tizio che ora biasiama?!

E questa sorta di intolleranza non si arresta alle sole parole: per placare la rivolta dei contadini di Munster che avevano dato vita ad una chiesa separata da quella luterana, Lutero non si fa troppi scrupoli e infiamma l’animo dei principi tedeschi che reprimeranno i dissidenti con la forza provocando la morte di circa 100.000 di essi.

Sono proprio i principi tedeschi che diventano le nuove guide della cristianità riformata da Lutero dopo che il riformatore ha di fatto abolito l’autorità ecclesiastica. È nel pensiero di Lutero che si deve vedere la genesi dello stato moderno, quella forma di comunità politica che si pone sopra ogni uomo e sopra ogni altra istituzione senza alcun vincolo.

Con Lutero la fede da pubblica diventa fatto privato, intimistico, che riguarda solo ed esclusivamente la coscienza. Anche il culto risente di questa visione e Lutero ne abolisce ogni esteriorità e visibilità. La Pellicciari arriva a definire, non a torto, Lutero come il primo iconoclasta moderno (p. 89).

Il libro dunque ha l’indubbio pregio di poterci far riflettere su una pagina di storia spesso mal raccontata e può aiutarci a diradare le ombre dei luoghi comuni che si sono annidate nei nostri “cassettini della memoria”.

Il contributo dell’autrice aiuterà sicuramente a riconoscere nell’opera di Lutero una rivoluzione ecclesiale e non una riforma come troppo spesso viene ancora definita in linea con quanto già affermato dallo storico della Chiesa Jedin.

Una riforma che ha finito per spaccare in due l’Europa come ci ricorda anche l’immagine scelta dalla Pellicciari per la copertina.

(Articolo tratta da Àncora Online, il settimanale della Diocesi di San Benedetto del Tronto)

[SM=g1740733]

 

 

 

martin luterodi Francesco Agnoli

L’antefatto della Riforma di Lutero è la crisi della Chiesa tra Trecento e Quattrocento.

La Chiesa dell’epoca, dunque, versava in pessime condizioni. Non stupisca: ha anch’essa, nella sua componente umana, i suoi giorni e le sue notti.

La crisi era dovuta a motivi interni, rilassatezza dei costumi, ai vescovi che pensavano a viaggiare e alla bella vita, all’incuria di molti sacerdoti, alla mentalità rinascimentale e cortigiana penetrata nel tempio di Dio…, e, soprattutto, a motivi esterni: in molti paesi d’Europa, in quegli anni, vescovi ed abati non erano scelti dal papa di Roma, ma dai sovrani, che volevano controllare tutto e aggiungere al potere politico quello spirituale. Erano quindi più che uomini di Chiesa, uomini di potere.

Ci sarebbe dunque voluto, sicuramente, un riformatore. Come lo era stato Francesco d’Assisi, per esempio, o come sant’Ignazio di Loyola.

Riformatore è colui che riconosce il male che vive nella Chiesa, e si adopera non contro di Essa, ma perché Essa sia più fedele al suo compito, alla sua costituzione divina. Il riformatore cattolico non inventa una nuova dottrina, non propone una ricetta sua, ma lucida e rispolvera il senso profondo del Vangelo e della Tradizione, nella fedeltà alla Chiesa di sempre. Con umiltà.

Lutero, invece, fece tutt’altro: non fu un riformatore, ma un rivoluzionario. Non cercò di eliminare i guasti, le aberrazioni, gli errori, ma propose una religione nuova, una nuova teologia ed una nuova antropologia. Indicò non Cristo, ma le sue personali opinioni.

Ricordiamolo brevemente i fatti: la sua stessa vocazione era stata incerta, poco spontanea, e la vita religiosa, abbracciata senza adeguata consapevolezza, si rivelò, per lui, insopportabile. Lutero infatti entrò in convento in seguito ad un voto: o, come dicono i più, in seguito alla paura di essere colpito da un fulmine (“prometto di entrare in convento se avrò salva la vita…”) , oppure, come sembra ad altri storici, dopo un duello in cui aveva ucciso lo sfidante, per non finire sotto i rigori della legge. In ogni caso una vocazione poco autentica.

Inoltre Lutero era uomo passionale, irascibile, impetuoso: cercò, certamente, di cambiarsi, di farsi violenza, con penitenze e preghiera; forse con troppe penitenze e preghiere, ma con pochi risultati. Lutero infatti, non riusciva ad accettare la sua limitatezza, la sua miseria, tipica della condizione umana. Ha scritto di lui J. Maritain: “Si appoggiava, per giungere alla virtù, alle sue sole forze, fidandosi dei propri sforzi, delle sue penitenze, delle opere della sua volontà, molto più che della grazia. Praticava così quel pelagianesimo di cui accuserà i cattolici, e da cui in realtà lui stesso non riuscirà ad affrancarsi. Praticamente egli era, nella vita spirituale un fariseo che conta nelle sue opere, come fa fede il suo raggrinzimento di scrupoloso. Si rimproverava come peccato ogni involontaria impressione della sensibilità, e si studiava di acquistare una santità da cui fosse esclusa la minima traccia della debolezza umana” (“I tre riformatori”).

L’insuccesso, dunque, vissuto con orgoglio, scatenò la sua ribellione e generò la sua nuova antropologia: io non riesco a fare il bene, l’uomo non riesce a fare il bene, ogni uomo è solo cattivo. Questo è il caposaldo del pensiero luterano: il pessimismo antropologico. Lo stesso concetto sostenuto, nello stesso periodo, da Niccolò Machiavelli.

Ma se l’uomo non è capace di opere di bene, allora, come può salvarsi?

Se le opere buone non contano nulla, concluse Lutero, l’unica cosa che ci può salvare è la Fede, la misericordia di Dio (la sola Fides, in contrapposizione con il pensiero di san Giacomo fides sine operibus morta est).

Di qui la sua celebre proposizione luterana: “Pecca fortiter sed crede fermius”, cioè “pecca pure fortemente, ma credi più fermamente”. Di qui la sua critica alle indulgenze: non solo alla corruzione, ma alla possibilità stessa che ad una azione buona (ad esempio un’elemosina per costruire una chiesa o un ospedale, come spesso si faceva) corrispondesse un perdono dei peccati. Di qui la seconda parte della sua vita: non più rigore e penitenza eccessivi, ma, come ammetteva lui stesso, e come testimoniano disegni e ritratti dell’epoca, gozzoviglie, dissolutezza, vino… Scriveva: “Cerca subito la compagnia dei tuoi simili, mettiti a bere, giocare, racconta sconcezze, cerca di divertirti. Bisogna…pure talvolta fare un peccato in odio e disprezzo al diavolo, per non lasciargli l’occasione di creare in noi degli scrupoli per dei nonnulla: se si ha troppa paura di peccare, si è perduti..ah! se potessi alfine trovare qualche buon peccato per schernire il diavolo” . Così colui che in passato si è esaurito nelle veglie e nei digiuni, si dà poi alle gozzoviglie, abbandona l’abito sacerdotale, sposa una ex monaca, Caterina von Bora, da cui avrà sei figli e dispensa, chi lo circonda – lui che dalla legge si era sentito schiacciato, perché non ne aveva compreso lo spirito-, dalla legge stessa: invita sacerdoti e suore ad abbandonare il celibato e autorizza il suo protettore, il principe Filippo d’Assia, a prendersi un seconda moglie, oltre a quella legittima e vivente, per togliergli ogni scrupolo di coscienza.

Ridotto l’uomo a peccatore senza possibilità alcuna di bene, appeso solo al filo della fede, Lutero si rese ben conto di aver così ucciso la libertà. E lo scrisse apertamente nel suo “De servo arbitrio”: “Quanto a me, io lo confesso: se la cosa fosse possibile, non vorrei che mi fosse dato il libero arbitrio o che a mia disposizione fosse lasciato alcunché, con cui poter tendere alla salvezza, non solo perché non avrei la capacità di resistere e conservarlo fra tante avversità e pericoli e fra tanti assalti diabolici, poiché, essendo un solo demonio piú forte di tutti gli uomini, nessuno degli uomini si salverebbe, ma perché, anche se non ci fossero pericoli, avversità, demoni, io sarei costretto a travagliarmi continuamente nell’incertezza e a dare pugni nell’aria: infatti la mia coscienza, anche se vivessi e operassi eternamente, mai potrebbe conseguire una tranquilla certezza di quanto dovesse fare per soddisfare Dio. E, qualunque opera avessi compiuto, sussisterebbe sempre lo scrupolo se ciò piacesse a Dio, o se Egli richiedesse qualcosa di piú, cosí come prova l’esperienza di tutti coloro che si sono dati alle opere e come io ho dovuto apprendere in tanti anni con grave mia sofferenza. Ma ora, poiché Dio ha avocato a sé la mia salvazione, escludendola dal mio arbitrio, e ha promesso di salvarmi non a motivo delle mie opere e del corso della mia vita, ma per la sua grazia e misericordia, io sono tranquillo e sicuro che Egli mi sarà fedele e non mi mentirà, e inoltre cosí possente e grande, che nessun demonio, nessuna avversità potranno piegarlo o strapparmi a Lui” (Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1964, vol. VIII, pagg. 1145-1146).

Da questa concezione, ne derivava un’altra, sebbene non ancora così esplicita come sarebbe accaduto con Calvino: non contando nulla le buone opere, o meglio non essendo possibile che un uomo faccia qualcosa di buono, ne consegue che l’uomo è predestinato, alla salvezza o alla dannazione, indipendentemente dalla sua stessa vita, per giudizio insindacabile di Dio.

Un altro concetto fondamentale introdotto da Lutero per abbattere la necessità della Chiesa, fu la riduzione dei sacramenti a due, e la proclamazione del libero esame: ogni uomo può leggere e interpretare liberamente la Bibbia, senza mediazione alcuna. Un tale principio si rivelò, però, devastante: se ogni uomo può leggere come vuole le Sacre Scritture, infatti, è giocoforza che nascano infinite interpretazioni ed infinite sette. Così nel tempo sorsero calvinisti, socianiani, evangelici, battisti, anabattisti, episcopaliani… mormoni, avventisti, testimoni di Geova… Ovunque sedicenti profeti si alzarono per dire di aver compreso il vero senso della Bibbia (nascosto sino ad allora, sino ad almeno 15 secoli dopo la venuta di Cristo), ed iniziarono, in base al libero esame, a proporre la data per la fine del mondo, a distruggere dogmi e a crearne altri…

In verità Lutero sosteneva che ognuno poteva leggere la Bibbia personalmente, senza papa e senza Chiesa, ma poi propose la sua lettura come l’unica possibile: “Io non ammetto, scrive nel giugno del 1522, che la mia dottrina possa essere giudicata da alcuno, neanche dagli angeli. Chi non riceve la mia dottrina non può giungere alla salvezza” . Chi lo contraddiceva veniva attaccato violentemente, come i teologi di Lovanio, definiti “asini grossolani, delle scrofe maledette, dei sacchi di bestemmie, dei porci epicurei, eretici e idolatri, delle pozze marcie, la brodaglia maledetta dell’inferno”.

A tutto ciò si aggiunga il carattere durissimo di Lutero: per lui il papa era l’Anticristo e i cattolici i suoi “servi” (“maledetto, dannato, vituperato sia il nome dei papisti”); i contadini ribelli andavano trattati con ferocia: “Verso i contadini testardi, caparbi, e accecati, che non vogliono sentir ragione, nessuno abbia un po’ di compassione, ma percuota, ferisca, sgozzi, uccida come fossero cani arrabbiati...” (“Scritti politici”, Utet, Torino 1978, p. 515); quanto agli ebrei: “In primo luogo bisogna dare fuoco alle loro sinagoghe o scuole; e ciò che non vuole bruciare deve essere ricoperto di terra e sepolto, in modo che nessuno possa mai più vederne un sasso o un resto”; inoltre occorre “allo stesso modo distruggere e smantellare anche le loro case, perché essi vi praticano le stesse cose che fanno nelle loro sinagoghe. Perciò li si metta sotto una tettoia o una stalla, come gli zingari” (“Degli ebrei e delle loro menzogne”, Torino 2000, pp. 188-190); quanto alla ragione, essa viene definita più volte “la prostituta del diavolo” ed è dichiarata contraria, opposta alla fede; le streghe “bisogna ammazzarle tutte” ; Copernico è “un astrologo da quattro soldi” e “un insensato”.

Nei suoi “Discorsi a tavola”, Lutero racconta che un giorno gli era stato mostrato un bambino minorato mentale. Egli propose subito di sopprimerlo: gli appariva un essere inutile, “che non faceva nient’altro che mangiare, e mangiava come quattro contadini o braccianti”. Era, a suo modo di vedere, “solo una massa di carne, nella quale non albergava alcuna anima, se non forse, il diavolo. Ai principi presenti al suo discorso, Lutero disse: “Se io fossi il principe o il signore qui, annegherei di persona il bambino nel fiume”.

Perché allora Lutero ebbe tanto successo? Sicuramente perché seppe utilizzare il pretesto della corruzione della Chiesa, per la sua rivoluzione, ma soprattutto perché seppe arruolare i principi tedeschi prima e altri sovrani poi. Alcuni signori tedeschi prima, infatti, poi i re di Svezia, Danimarca, Inghilterra… furono coloro che permisero al protestantesimo di decollare, schierandosi dalla sua parte, con uno scopo ben preciso: diventare protestanti significava abolire la Chiesa cattolica dalle proprie terre, incamerarne i beni, sommare nella propria figura il potere temporale e quello spirituale!

Se dunque nel campo religioso Lutero portò l’anarchia e l’individualismo, in campo politico generò le Chiese di Stato e le chiese nazionali. Fuori dalle chiese, in Inghilterra, vi è ancora oggi una scritta: “Church of England”. Inconcepibile per il pensiero cattolico…

Fu la divisione dell’Europa, la fine del sogno imperiale, di unire popoli diversi per lingua, cultura e tradizioni, ma fondati sulla stessa fede.

Si potrebbe dire molto altro, ma manca lo spazio. Urge dunque una conclusione. Il protestantesimo oggi è in crisi totale. Dove sopravvive davvero, come negli Usa, è molto cambiato, e si è riavvicinato moltissimo al cattolicesimo (rinnegando il servo arbitrio, rivalutando l’importanza delle opere, la sacralità di ogni vita…).

Fonte: www.libertaepersona.org


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