LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA nella Tradizione e Magistero

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Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 21:46
[SM=g1740758] nel raccomandarvi la meditazione anche di queso thread nel quale si parla della Dottrina Sociale della Chiesa nel Magistero dei Papi, specialmente da Leone XIII, vi offriamo a seguire:

DOTTRINA SOCIALE CRISTIANA

Di Carlo Carbone – “DOMANI” Editrice Roma - 1957

PREMESSA


Il presente volumetto è il testo per lo studio della Religione da parte degli Uomini dell'Azione Cattolica Italiana durante l'anno sociale 1957-59.
Esso espone la dottrina cattolica intorno ai problemi sociali: terna assai importante e particolarmente attuale. La vita di ogni uomo, in verità, è profondamente influenzata dalla situazione economica, sociale, politica, nazionale e internazionale, nella quale si svolge; l'attività d'ogni singola persona, d'altra parte, reca un suo contributo a modifi­care, in bene o In male, tale situazione. Conoscere il mondo economico-sociale-politico; conoscere la dottrina della Chiesa intorno ai problemi d'ordine morale ch'esso pone; agire perché essi siano risolti nella luce del messaggio evangelico: ecco una meta altissima, ecco l'impegno dei più che trecentomila organizzati dell'Unione Uomini.

Il presente volumetto, necessariamente breve, è stato condotto secondo una traccia concordata - per gli evidenti benefici che ne derivano a tutta l'Orga­nizzazione - dagli Assistenti Ecclesiastici Centrali dell'Azione Cattolica Italiana e sviluppata dall'egregio Mons. Pietro Pavan cui vanno i più sentiti ringraziamenti. Per chi volesse approfondire, consiglio appunto la ben sviluppata «guida», con lo stesso titolo del presente libro, di Mons. P. Pavan (Ed. C.E.N.A.C. - Roma) ; chi volesse vedere, da se stesso più ampiamente, quanto qui è esposto in sintesi, può consultare i miei libri: « Dall'individuo alla società internazionale» (A.V.E. Roma 1945); « Verso un mondo nuovo» (Sales, Roma 1951); « Per una migliore vita sociale» (Domani, Roma 1952); «Questioni attuali sulla famìglia» (ivi, 1954); « Valore dell'uomo» (ivi, 1955); « Uomo e società» (ivi, 1956); « L'uomo e la comunità internazionale» (ivi 1957). CARLO CARBONE


ATTENZIONE: CLICCANDO QUI TROVERAI L'INTERO COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA firmato da Giovanni Paolo II dopo le riforme del Concilio.... le fondamenta dottrinali sono le medesime di ieri....



PARTE PRIMA

L'UOMO E LA SOCIETA’

1. - LA PERSONA UMANA


Troppa gente, oggi, dimentica l'uomo, il singolo uomo. Si parla della classe, dei popoli, dell'umanità; si parla dell'arte e del progresso, della scienza e della ricchezza, della giustizia e della libertà, ecc. Ma poco si parla dell'uomo, dimostrando - almeno coi fatti - di poco stimarlo e servirlo.

E invece l'uomo va considerato come il fondamento, il sog­getto d'azione e lo stesso fine di ogni società: a cominciare dalla famiglia fino alla società internazionale e fino alla società soprannaturale, la Chiesa. È importante assai conoscere l'uomo e la sua altissima di­gnità; è di capitale importanza comprendere come base e coro­namento della vita associata sia precisamenzè la persona umana.



Un essere a sé stante.

Ci sono cose che non hanno un'esistenza a sé stante, ma sono inerenti ad un'altra cosa ad es. il colore di una parete, la bellezze di un quadro, la parola di un uomo. L'uomo, invece, è una realtà. che esiste in se stessa: è ciò che si dice « sostanza ».



Un essere individuo.

Il concetto di « individualità » significa un essere tutt'unito intimamente in sé e diviso dagli altri esseri, anche se simili. È evidente che l'uomo è un individuo. Anche se composto di molte parti -- e così diverse tra loro: il corpo e l'anima; e nel corpo: il cervello, il cuore, l'occhio, ecc. - ogni uomo è, innegabil­mente, una unità. Esso è anche distaccato da ogni altro essere: è in rapporto, sì, con l'aria, con i cibi, con altri uomini, ecc., ma è chiaro che è distinto, diverso, separato da ogni altra cosa.

C'è ancora di più. Come dice il noto proverbio: « in natura non ci sono due foglie uguali »; a maggior ragione è vero che non ci sono due uomini uguali.

L'individuo non è, perciò, soltanto un essere tutt'unito in sé e diviso dagli altri; è anche un essere che ha qualcosa che lo distingue, lo caratterizza, gli è proprio. Ce ne accorgiamo anche solo a guardare il volto di due persone, fossero pure due fratelli; a maggior ragione se consideriamo tutto il complesso delle caratteristiche di una persona.



Un essere ragionevole, libero, figlio di Dio.

L'uomo è « una sostanza, individua, razionale »: ne è venuta fuori, semplicemente, quella che è stata la definizione della « persona » data un giorno dal filosofo Severino Boezio - vis­suto dal 480 al 524 - e seguita poi da quasi tutti i pensatori cri­stiani. La dote della razionalità è quella che caratterizza pro­priamente la persona umana, innalzandola su di un piano asso­lutamente superiore rispetto alle altre realtà individue che sono in natura, come ad es., una pianta o un animale. Dalla raziona­lità vengano il linguaggio, la scienza, il progresso; basti ricor­dare Aristotele, Dante, Michelangelo, Volta, Pasteur, Fleming.

Dalla razionalità sgorga anche l'umana libertà, per cui l'uomo si muove alla conquista delle cose che vuole (v. il cap. XVI). La rivelazione ci dice, poi, che l'uomo è stato chiamato alla dignità di « figlio di Dio ». Il Signore, per sua infinita degnazio­ne, ci ha, infatti, adottati come suoi figli: il Nuovo Testamento è pieno di questa mirabile affermazione, elemento fondamentalis­simo di tutta la vita cristiana.



Un essere chiamato alla felicità eterna.

Ragione e Rivelazione dimostrano che l'anima umana è immortale. Basti ricordare:

a) che essa è spirituale;

b) che Dio è così sapiente e buono che non può distruggere quanto ha fatto imperituro;

c) che Dio è giustizia infinita, e perciò non può non essere, in un'altra vita, il giudice che giudica e che, rispettivamente, premia o condanna chi ha fatto il bene e chi ha fatto il male;

d) che l'uomo si sente fatto per la conquista di una feli­cità che non può avere se non in Dio;

e) che Dio stesso ci ha rivelato che siamo fatti per cono­scerlo e goderlo eternamente nel cielo.

Essere l'uomo, poiché ha un'anima immortale, destinato al Paradiso, non toglie ch'egli debba anche vivere su questa terra. Il cielo è la mèta, la vita terrena è il viaggio; non solo non c'è tra essi opposizione, ma l'una è, proprio, indirizzata all'altra.

Il Cristianesimo non nega nessuno dei valori terreni; afferma, però, che l'uomo è più grande di essi; perciò impone all'uomo di non dimenticare, incantato da essi, il suo ultimo fine; perciò gli ordina di rispettare la gerarchia dei valori sapendo rinun­ziare, nel caso di un contrasto, alle cose terrene per quelle celesti.



Una persona che si sviluppa ed afferma.

L'uomo è, dunque, una persona, un essere, cioè, sostanziale, individuo, razionale, dotato di volontà libera, chiamato a divenire figlio di Dio, con un'anima immortale.

Ma la persona umana non va considerata solo come un fatto, una cosa esistente; essa va considerata anche come una realtà vivente, che si muove, prende sempre più coscienza di sé e delle sue doti, le afferma e sviluppa.

Insomma, si è « persona » sin dal primo momento di vita; ma lo si diventa sempre più e sempre meglio, di giorno in giorno, di momento in momento, mettendo a frutto i talenti che Dio ci ha dati, sviluppando, come si dice, « la propria personalità ». Con l'intelligenza e la volontà, l'uomo:

a) rende sempre maggiore la sua indipendenza dalle cose;

b) precisa le sue caratteristiche individuali, differenzian­dosi dagli altri uomini - fossero anche suoi fratelli gemelli - e realizzando la sua propria vocazione e missione;

c) affina il suo potere di ragionare ed amplia il raggio delle sue conoscenze, della sua cultura;

d) piega un sempre maggior numero di cose al suo domi­nio, riuscendo ad impadronirsi sempre più a fondo dei beni della natura e giungendo a dare alle cose da lui trasformate - si con­sideri specialmente l'arte - l'impronta della sua personalità;

e) vivendo cristianamente cresce come figlio di Dio, giun­gendo a maturità spirituale ed avvicinandosi alla perfezione del Padre celeste;

f) raggiunge con le sue opere buone - assistito e confortato dalla grazia - il premio del Paradiso.


Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 21:48

II. - LA SOCIETA' UMANA

È facile convincersi, con una semplice riflessione, che gli uomini vivono in società, e da tale vita ritraggono innumerevoli e irrecusabili benefici. Il Cristianesimo, da parte sua, con la legge universale della carità, accentua il naturale senso sociale dell'uomo, portandolo ad altezze d'eroismo e di sacrificio eccezionali.

Origine della società.

L'uomo è, per natura, un essere sociale. L'affermazione è subito provata, sol che si rifletta:

a) ai bisogni umani più elementari (difesa della vita, ricerca del cibo, possesso di un vestito o di un'abitazione, ecc.);

b) alle esigenze dello spirito (la tendenza a raggiungere la verità, la cultura, la giustizia, l'arte, ecc.).

In realtà se l'uomo dovesse vivere distaccato dai suoi simili, provvedendosi personalmente di tutto, non riuscirebbe, nella mag­gioranza dei casi, né a soddisfare i suoi elementari bisogni umani, né a soddisfare quelli dello spirito: ciò che invece gli viene mirabilmente facilitato dal vivere in società.

E che la vita in società sia lo stato naturale dell'uomo, è confermato ancora

c) dalla dote della parola, con la quale l'uomo comunica ai suoi simili i suoi pensieri (gli animali, invece, hanno solo l'emissione di suoni istintivi, espressione di sentimenti ele­mentari);

d) dal fatto che non si conosce popolo, di nessun tempo e di nessun luogo, in cui gli uomini non abbiano sempre vissuto in società.

 

Natura della società umana.

a) La società è, anzitutto, unione di molti. È proprio della società unire insieme la molteplicità - gli uomini che la compongono - con l'unità - il fine che tutti vogliono raggiunge­re, un certo legame tra essi, che rende facile il conseguimento del fine.

b) La società è, poi, un'unità organica d'ordine morale. Organica, cioè veramente intima e profonda, come quella di un organismo vivente; morale, perché si realizza sul piano del pensiero e della volontà.

Con ciò la dottrina sociale cristiana si differenzia da due dottrine sociali estremiste: l'indivìdualismo, che considera la società come una somma di individui (e perciò poco insiste sul bene sociale), il collettivismo, che vede nei singoli uomini solo degli elementi funzionali - come le ruote di una macchina - del corpo sociale (e perciò opprime la personalità, e la libertà).

La dottrina sociale cristiana, al contrario, è una concezione originale, la quale si fonda sul concetto dell'uomo creatura da Dio, coi suoi diritti personali, le sue relazioni con i propri fra­telli - e perciò i suoi doveri sociali -, la sua dipendenza da Dio, primo principio ed ultimo fine, e perciò la perfetta armo­nia di tutti gli elementi che la compongono, a cominciare dalle esigenze, insieme, della libertà e della solidarietà.

c) La società umana è soprattutto una convivenza spirituale. Benché, infatti, gli uomini trovino nel vivere in società anche tanti benefici materiali – ad es. il minor costo di un lavoro -, risulta evidente che i doni principali che la società dona agli uomini sono d'ordine spirituale: ad es. la cultura, la scienza, le scoperte, le invenzioni, l'organizzazione giuridica, la difesa della giustizia, lo splendore delle arti, e così via. Anche le cose d'ordine materiale sono, in massima parte, frutto delle doti spi­rituali degli uomini.

d) È Dio il fondamento della società umana. Convivenza principalmente spirituale, la società umana cerca il Vero, il Buono, il Bello, il Giusto e ciò che da essi promana. Ma la Ve­rità, la Bellezza, la Bontà, la Giustizia, hanno in Dio il loro fondamento, sono aspetti attraverso i quali Dio si manifesta agli uomini, e che a Dio non possono se non condurre.

Perciò, come l'uomo viene da Dio e a lui deve tendere, così la società umana trova in Dio il suo fondamento e nell'ideale di un organismo illuminato dalla religione il suo sommo ideale.

 

Il fine della società umana.

Il fine dell'umana società è l'attuazione del bene comune degli uomini. Essa, infatti, nasce precisamente - come si è visto - perché gli uomini da soli non riescono a soddisfare i loro fondamentali bisogni, le loro fondamentali aspirazioni. Al contrario, unendosi ed unendo le proprie forze ed attività, giun­gono, se pur con fatica e mai in modo perfetto, a realizzare un ambiente nel quale è possibile, e relativamente facile, a tutti o quasi, di sviluppare convenientemente, e magari integralmente, la propria personalità.

Va qui messa in rilievo la grande affermazione della socio­logia cristiana, che la società è mezzo e non fine; essa è, cioè, a servizio dell'uomo (e non l'uomo a servizio della società): ciò perché l'uomo è un essere a sé stante, che pensa, vuole libera­mente, è destinato all'eternità, mentre la società, per quanto im­portante, è realtà tutta chiusa nello spazio e nel tempo.




Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 21:52
III. - LA SOCIETA' SOPRANNATURALE: LA CHIESA

Membri della società umana, siamo anche membri di un'al­tra società, umana e divina, terrena e sopraterrena, la società d'ordine soprannaturale che si chiama: la Chiesa. È particolarmente importante considerare le relazioni tra le due società di cui siamo parte, sia per il bene di esse, sia per­ché in ciascuno di noi l'essere membri dell'una e dell'altra si realizzi in una mirabile armonia e con grandi benefici.

La missione della Chiesa.

Della Chiesa, in sintesi, è detto tutto quando si dice che essa è la continuazione chi Cristo e perciò la continuatrice, per tutta la terra e per tutti i secoli, della missione di Cristo.

E come Gesù Cristo è Verità, Via e Vita, così la sua Chiesa è, per gli uomini, la Maestra, la Guida, la Distributrice della vita soprannaturale. Essa ha quindi tre poteri: di Magistero, di Giurisdizione, di Ordine, rispettivamente per insegnare, guidare, santificare.

 

Chiesa e società umana.

a) Le due società sono distinte. Basti pensare che la seconda viene dalla natura, mentre la prima viene direttamente da Dio, per mezzo di Cristo, Dio-Uomo; che la società umana si strut­tura, nei diversi luoghi e tempi, secondo il diverso modo con cui gli uomini interpretano la voce della natura, mentre la Chiesa ha le sue fondamentali strutture ed attività - gli apostoli, il contenuto della dottrina, i mezzi di santificazione, ecc. - pre­cisamente delineate dal suo divin focolare; che la società umana ha per fine il bene comune degli uomini, qui, in terra, mentre la Chiesa ha per fine di generare le anime alla vita soprannatu­rale e condurle alla conquista del cielo.

b) Le due società non vanno separate. Distinguere non vuol dire separare; ai nostri tempi, invece, molti vogliono accentuare talmente la distinzione tra la Chiesa e la società umana da giun­gere alla loro separazione. Ma tale separazione, anzitutto impos­sibile a realizzarsi pienamente, risulterebbe artificiosa e dannosa. La verità si è che gli stessi uomini sono sia membri della società umana che membri della Chiesa;

- che entrambe le società hanno per origine e fonda­mento Iddio;

- che Dio vuole realizzare, con l'attività di tutte e due le società, il bene totale dell'uomo;

- che Chiesa e società umana hanno un terreno di legi­slazione e d'azione in tanti settori comune, sicché la società in­fluenza la Chiesa e la Chiesa influenza la società.

Società e Chiesa debbono, perciò, insieme collaborare.

 

La presenza della Chiesa nell'ordine temporale.

a) Azione illuaninatrice. L'influenza della Chiesa nella. so­cietà umana è anzitutto un'azione illuminatrice. L'uomo ha certo nella sua ragione un altissimo strumento per ricercare la verità e, quindi, programmare il piano di una società sapientemente ordinata e giustamente organizzata; non è ignoto, però, che l'umana ragione ha le sue debolezze, le sue incertezze, le sue possibilità d'errore. Basti ricordare la storia del pensiero, in generale, e quella della filosofia, in particolare. È quindi di som­mo valore il fatto della Rivelazione divina, che dà agli uomini, sui problemi fondamentali della vita, soluzioni vere e certe; è quindi di immensa importanza, nelle questioni dubbie come nei problemi che nuovi s'affacciano alla meditazione dell'uomo, l'in­tervento chiarificatore del magistero della Chiesa, che ha da Cristo proprio la missione di insegnare agli uomini la verità.

b) Azione animatrice. L'attività della società umana tocca molte volte - come s'è detto - il campo religioso-morale; il fatto che la Chiesa sproni i suoi figli ad agire animando tutta la propria attività di spirito cristiano, è di grande importanza e non può non produrre effetti benefici, anche riguardo alle attività temporali in sé indifferenti. I cristiani, infatti, animati da spirito di dedizione al dovere, prontezza al sacrificio, senso di carità, non possono che fare, a parità di condizioni d'ordine na­turale, meglio degli altri.

c) Azione liberatrice, Illuminando ed animando le intelli­genze e le volontà col proclamare, interpretare, adattare a tutto le circostanze il divino messaggio di Cristo, la Chiesa offre alla società umana anche una benefica azione liberatrice. Essa, infatti, la mette in guardia e la salva da tanti possibili errori, da tante rovinose esperienze. Né si dica che le dichiarazioni della Chiesa inceppano il libero cammino; è chiaro, infatti, il contrario, e cioè che la luce della verità offre la possibilità di un cammino sicuro, spedito, veramente libero. «La verità vi farà liberi» è scritto nel Vangelo.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 21:53
IV. - LE VIRTU' SOCIALI

La vita in società comporta certamente dei benefici; essa importa però, anche, dei doveri. Una società non dura, non prospera, non realizza le sue finalità, se coloro che ne fanno parte non sono consapevoli dei propri doveri e non li praticano. Ciò si dica in modo tutto speciale della società umana in generale, che ha scopi così alti e che ha, perciò, bisogno che i suoi membri abbiano grandi virtù. È perciò di eccezionale importanza lo studio delle fondamentalissime virtù sociali.

La fedeltà alla verità.

Alla base della vita associata, come di quella dello stesso individuo, dev'esserci la fedeltà alla verità. Tale virtù importa:

- l'amore della verità;

- la ricerca della verità;

- la volontà di regolarsi secondo i dettami della verità;

- il parlare secondo la verità;

- lo zelo per la diffusione della verità.

L'importanza della verità - oggetto dell'intelligenza - è data dal fatto che l'uomo cerca ciò che conosce, ed è portato naturalmente (salvo a forzare, colpevolmente, la natura) ad agito in corrispondenza al pensiero.

Occorre subito dire che l'uomo può errare, credendo verità ciò che tale, oggettivamente, non è; bisogna però subito aggiun­gere che l'errore non può essergli imputato a colpa; purché però egli ami la verità e faccia ciò che gli è possibile per raggiungerla. Infatti, se è certo un dovere seguire quanto si crede vero, è pure altrettanto doveroso cercare di conoscere la verità oggettiva. «E chi ama la verità viene alla luce » dice il Signore.

La fedeltà alla verità è virtù sociale basilare, - di importanza eccezionale. È proprio sulla verità che si basano con sicurezza la libertà; la giustizia, in una parola: la vita.

 

La giustizia.

Definita « la virtù che inclina l'animo a rendere a ciascuno il suo»; la giustizia è virtù eminentemente sociale, che, regolando i rapporti tra gli uomini e, rispettando l'equivalenza tra i doveri degli uni e i diritti degli altri, contribuisce mirabilmente a creare una convivenza ordinata, pacifica, armonica.

L'uomo ha di « suo » anzitutto il suo corpo e la sua anima, e i diritti loro propri: ad es. il diritto all'integrità corporea, alla libertà, ecc. L'uomo ha anche diritti sopra le cose, in quanto necessarie al suo sostentamento o in quanto legittimamente pos­sedute.

Fondamento della giustizia è l'ordine intrinseco della natura umana, come Dio l'ha creato. Perciò vi sono dei diritti, immediatamente legati alla natura, che sono irrinunciabili: ad es. quello dell'integrità del proprio corpo, della libertà di credere nella vera religione e così via.

Si distinguono tre specie di giustizia:

a) la giustizia commutativa, che si ha quando si scam­biano, tra gli uomini, beni di valore equivalente;

b) la giustizia legale, che si ha quando si ottempera a quel che si deve alla società (ciò che di solito è fissato dalle leggi);

c) la giustizia distributiva, che si ha quando la società distribuisce giustamente onori e incarichi ai cittadini.

In tali aspetti della giustizia rientra quell'aspetto di essa di cui tanto - e con ragione - si parla nel mondo moderno: la giustizia sociale.

 

La carità.

Virtù eminentemente cristiana, la carità è « la virtù per la quale l'uomo ama Dio sopra ogni cosa, per se stesso, e il pros­simo come se stesso, per amor di Dio ».

La carità non è l'elemosina; questa è una delle manifestazioni della carità, ma la carità - che vuol dire amore - si esprime in molti altri modi.

Oggetto della carità sono:

- Dio: che va amato sopra ogni cosa;

- se stessi: amore ordinato che è poi base e misura del­l'amore del prossimo;

- il prossimo, intendendo con tale espressione tutti gli uomini, anche d'altra razza e religione, pure se nemici (si ricordi la parabola evangelica del buon Samaritano).

 

Carità e giustizia.

Oggi si sente spesso dire: « Giustizia, non carità ». Chi asse­risce questo intende polemizzare contro la concezione sociale cri­stiana, quasi che essa intenda, invitando gli uomini ad essere caritatevoli, giustificare o sanare alla buona le loro eventuali in­giustizie. Ma ciò è doppiamente errato:

a) perché la Chiesa predica insieme la giustizia e la carità, e; vuole che la carità non serva per far passare di frodo l'ingiu­stizia, bensì per superarla;

b) perché adempiere perfettamente ai doveri di giustizia è difficile, e gli uomini tenderebbero a ridurre al minimo i diritti dei loro simili se non fossero animati, verso di essi, dalla virtù della carità.

Questa, perciò, non solo non va considerata come nemica della giustizia, ma, al contrario, come il fondamento, l'anima e il coronamento di essa.

- Si aggiunga che vi saranno sempre casi di indigenza, fosse anche colpevole, o di urgenza, neï quali non si può aspirare ad interventi immediati di stretta giustizia, ciò che, invece, può sempre essere fatto, stupendamente, per virtù di carità.

Si ricordi la parabola evangelica del figliuol prodigo, nella seconda parte; appare evidente come il figlio ch'era rimasto in casa, fedele a suo padre, ragioni (lagnandosi per l'accoglienza fatta al fratello) in termini di stretta giustizia, mentre il padre aveva operato in termini di carità. Ed è evidentissimo di quanto la carità cristiana superi lo stretto diritto.

 

Dio alla basa di tutto.

Dio, Somma Verità, Somma Giustizia e Sommo Amore, ri­sulta ancora una volta il fondamento supremo di una società ben ordinata e prospera.

Tocca agli uomini, cercando di possedere la fedeltà alla ve­rità, alla giustizia e alla carità, di creare nella vita associata un'atmosfera veramente cristiana, e con essa la capacità di rag­giungere, largamente e speditamente, la realizzazione del bene comune.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 21:54
PARTE SECONDA

LA SOCIETA' FAMILIARE

V. - LA FAMIGLIA

L'argomento della famiglia è sempre tra gli argomenti più attraenti, interessanti, appassionanti; esso, d'altronde, sempre di attualità, lo è in modo tutto particolare ai nostri tempi. Ciò perché la famiglia ha un'importanza fondamentale nella vita del­l'uomo e della società, mentre, d'altra parte, non pochi aspetti della vita contemporanea ne rendono l'esistenza difficile e giun­gono finanche ad insidiarla. Lo studio della famiglia, cristiana­mente intesa, merita perciò ogni attenzione.

Origine della famiglia.

Tra le tante società umane - la famiglia, le società profes­sionali, la società civile, la comunità mondiale, la Chiesa -, la famiglia è la prima e, senza dubbio, la fondamentale. Essa è la cellula delle altre società, perché è in essa che nascono le nuove vite, gli uomini, cioè, che sono destinati ad essere membri delle diverse società.

La famiglia ha origine dalla natura, e perciò da Dio, suo autore.

Per giungere a tale conclusione basti considerare

- il fatto della diversità dei sessi;

- il fatto che l'uomo e la donna si sentono vicendevolmente attratti; ed è dalla loro unione che sboccia la vita di nuovi esseri umani;

- il fatto che i figli, non per breve tempo (come avviene tra gli animali), ma per molti anni sono così sprovveduti che necessitano dell'aiuto dei genitori per poter sopravvivere; aiuto che dev'essere tanto più lungo se si vuole - com'è ragionevole - non solo nutrire il corpo, ma istruire, educare, formare l'intel­ligenza, il cuore, il carattere, e portare la nuova creatura alla rapida acquisizione delle conquiste della civiltà;

- il fatto dell'amore, che lega profondamente i due co­niugi, nonché, tra loro, i genitori e i figli.

Da tutto ciò risulta chiaro come la natura spinga l'uomo e la donna non solo ad una unione passeggera da cui possa nascere una nuova vita, ma ad una unione stabile, in ordine alla ge­nerazione, al mantenimento e all'educazione della prole: è la famiglia.

 

Il matrimonio.

La famiglia è cosa troppo seria ed impegnativa per poter essere lasciata agli umori, più o meno leggeri e capricciosi, di un momento di passione o di una improvvisa simpatia. Perciò presso tutti i popoli, in tutte le epoche, la famiglia s'è costituita con un atto solenne, in genere considerato sacro: il matrimonio: Tra cristiani il matrimonio non è soltanto un contratto, se pur d'altissima dignità, ma è anche uno dei Sacramenti della Nuova Legge.

Il matrimonio ha sue intrinseche leggi, volute dal Signore in ordine ai suoi fini. L'uomo ha libertà di sposarsi o non sposarsi, sposarsi con una persona o con un'altra, sposarsi presto o tardi, in un luogo o in un altro, ma non può, a suo piacere, modificare le leggi del matrimonio: questo è quel che è, come l'ha voluto il Creatore.

Le leggi principali del matrimonio sono due: l'unità e l'in­dissolubilità.

a) L'unità. Essa significa che il matrimono è unione di uno con una. È esclusa, - cioè, ogni forma di poligamia simultanea (non è proibito, invece, di passare a nuove nozze dopo la morte del coniuge). È interessante - a tale proposito - notare come anche tra i musulmani, ai quali da Maometto (che ne diede buon esempio, con 20 mogli) è permessa la poligamia, vada facendosi strada l'idea del matrimonio monogamico: non solo di fatto ma anche di diritto (ad es., appena raggiunta l'indipendenza, la Tunisia abolì la poligamia).

La poligamia si dimostra in contrasto con la legge misteriosa della natura che fa nascere pressoché un numero uguale di uomi­ni e di donne; essa, d'altra parte, offende gravemente la dignità della donna ed è contro ogni sentimento alto ed ideale dell'amore.

b) L'indissolubìlìtà. Essa significa che il matrimonio, una volta che sia validamente contratto, non può sciogliersi. Ciò cor­risponde pienamente a quella stabilità della famiglia, voluta dalla natura, della quale s'è parlato; essa è, inoltre, affermata cate­gorìcamente da Cristo, che disse: « Ciò che Dio ha unito, l'uomo non deve separarlo ».

Il divorzio - annullando il vincolo matrimoniale con facoltà di passare a nuove nozze - non può essere ammesso. Non solo vi s'oppone la legge cristiana, ma lo contrasta la stessa legge naturale.

Il divorzio, infatti - dove si ammette - rende leggeri e instabili i patti matrimoniali; facilmente inasprisce, con la sua prospettiva, gli inevitabili urti della vita coniugale; spinge ad evitare (o a ridurre al minimo) i figli, perché, com'è evidente, in caso di voluto divorzio, essi rappresentano la difficoltà più grave e il maggior rimorso; espone i coniugi al pericolo di facili tentazioni,, pone la donna in un piano d'inferiorità riducendola a uno strumento di piacere che, all'occasione, facilmente si cam­bia; prospetta ai figli una ben triste giovinezza..

Nei casi veramente gravi, è ammessa dalla Chiesa - e dalle leggi dello Stato - la separazione legale.

 

Fini del matrimonio.

Il fine primario del matrimonio è la generazione ed educa­zione della prole. Ciò risulta evidente dalle considerazioni già fatte a proposito della diversità dei sessi, delle caratteristiche del­l'amore, dell'assistenza, materiale e spirituale, dovuta ai figli.

Il matrimonio ha anche, però, due altri fini, secondari ma pur importanti:

- il reciproco aiuto e perfezionamento degli sposi, oggi messo in gran rilievo dagli studi di psicologia e da diffuse e positive esperienze (che però irragionevolmente vuol essere da alcuni elevato a fine primario del matrimonio);

- il contenimento dell'istinto sessuale nell'ambito del le­cito, potendo trovare i coniugi nei loro leciti frequenti rapporti (il matrimonio non è un atto ma è uno stato) quella soddisfazione sensibile che, bene intesa, rafforza l'amore, rende più stabile feconda la famiglia, allontana dalle tentazioni di spezzare la legge della fedeltà.

 

Natura della famiglia.

La famiglia, nelle sue fondamentali strutture, si presenta come:

a) una società naturale, voluta cioè, come s'è visto, dalla natura;

b) una società necessaria, essendo volontà di Dio la pro­pagazione del genere umano;

c) una società non perfetta, nel senso che non riesce da sola a dare all'uomo tutti i mezzi necessari per un completo svi­luppo della sua personalità, e perciò richiede l'esistenza di più auipie forme associative;

d) una società gerarchica, nella quale, cioè, esiste un'auto­rità. Ciò è necessario per il buon andamento della famiglia, come di ogni altra società. Essendo, però, la famiglia basata sull'amo­re, è evidente che l'autorità nella famiglia dovrebbe esercitarsi sempre su di un piano di comprensione e con forme delicate. Rispetto ai figli hanno autorità entrambi i genitori; in caso, però, di insuperabile diversità di vedute, deve ritenersi superiore e decisiva quella del padre. I rapporti tra i coniugi vanno realizzati sulla base di una sostanziale uguaglianza, essendo la donna vera compagna dell'uomo ed autentica regina del focolare domestico; il bene, però, dell'unità familiare impone che, ove vi fossero contrasti che lo scambio d'idee non riesce a superare, si affermi l'autorità del marito, riconosciuto dalle leggi di pressoché tutti i paesi e indicato in modo chiaro dalla natura come capo della famiglia.

 

Aspetti economici della vita familiare.

La vita familiare può incontrare gravi difficoltà al suo nor­male e salutare svolgersi in determinate situazioni economiche; occorre perciò studiare come l'ordine economico possa essere in­fluenzato al fine di favorire l'esistenza, la sanità, la prosperità della famiglia, ciò che, a sua volta, recherà larghi benefici a tutta la comunità sociale.

Principalmente occorrerebbe:

1) che la distribuzione dei redditi seguisse secondo il criterio familiare: il salario familiare, proporzionato (e veramen­te?) al numero dei figli, porterebbe alla famiglia grandi bene­fici, tra l'altro, non obbligando la madre a cercare fuori casa un lavoro redditizio, non spingendo i figli a trovare un'occupazione, magari faticosa, in troppo giovane età, non staccando i genitori dai figli e tutti i componenti della famiglia dal focolare domestico, ecc.;

2) che la famiglia possa avere una casa degna di persone umane, possibilmente propria, comunque con un sufficiente «spa­zio vitale», sul piano igienico come su quello morale;

3) che la famiglia sia protetta, con un efficiente sistema di assicurazioni sociali (cfr. cap. XI);

4) che le imposizioni fiscali non colpiscano quel ragione­vole minimo che è necessario ad una vita sufficientemente deco­rosa, non solo del singolo lavoratore, ma dell'intera sua famiglia.

 

Aspetti sociali-politici.

L'importanza della famiglia è tale che essa dev'essere tenuta in particolare considerazione dalle leggi: tutelata, incoraggiata, aiutata.

In modo particolare, in una società bene ordinata, si richiede: - che lo Stato riconosca la famiglia e non si sostituisca ad essa, bensì cerchi di favorirla nel suo costituirsi e nell'esple­tamento dei suoi compiti;

- che lo Stato non abbia leggi che attentino o insidiino, nemmeno in minima misura, la famiglia;

- che gli istituti dello Stato – ad es. la scuola - non solo non contrastino, ma cooperino con la famiglia all'istruzione ed educazione dei giovani;

-. che sia facilitata alla madre l'assistenza e la formazione dei figli;

- che siano stabilite delle provvidenze per le famiglie con numerosa prole;

- che sia dato ai capi famiglia, se e quando possibile, un particolare riconoscimento giuridico, con diritto a rappresen­tare, in qualche Ente e in qualche modo, l'intera famiglia;

- che, in caso di impossibilità o di evidente inadegua­tezza dei genitori, lo Stato, prudentemente e saggiamente, inter­venga per la tutela e la formazione dei giovani.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 21:55
VI. - L'EDUCAZIONE

Non c'è dubbio che i genitori si preoccupano molto di nu­trire i loro figliuoli, di proteggere la loro salute, di avviarli a un armonico sviluppo corporeo. Molto bene: è un fondamentale dovere. Essi, però, non devono dimenticare che i figliuoli sono anche anime che devono essere nutrite col pane superiore della cultura, della virtù e della grazia.

L'educazione.

Educare significa aiutare l'uomo - corpo e spirito - a raggiungere un integrale ed armonico sviluppo.

Educazione è, dunque, formazione totale, ed importa sia la cura del corpo che l'istruzione della mente, l'educazione della volontà, la formazione del cuore, e, sul piano cristiano, l'inserimento dell'uomo nella vita del Corpo Mistico di Cristo e, in esso, un sano, meritorio e benefico attivismo.

 

Dovere e diritto dei genitori.

Il fine primario del matrimonio è, come s'è visto, la gene­razione e l'educazione della prole. Ne consegue che l'educazione dei figli è, insieme, dovere e diritto dei genitori; dovere fonda­mentalissimo, incedibile - anche se esercitato con l'aiuto di al­tri -; diritto inviolabile ed inalienabile, perché la vita dei figli viene dai genitori, ai quali essi sono legati, sul piano fisiologico, psicologico e morale, in modo straordinario. È perciò gravemente errata, contraria alla natura e ai dettami della fede, ingiusta e tirannica la dottrina che afferma che i figli sono dello Stato e vuol toglierli alle cure e all'amore dei genitori.

 

Diritti della Chiesa nel campo dell'educazione.

Gli uomini sono tutti chiamati ad essere membri della Chie­sa; i battezzati, poi, fanno parte di essa, essendo stati da essa, come da mistica madre, generati alla vita soprannaturale.

La Chiesa ha perciò diritto a formarne dei veri cristiani, a guidarli per il retto cammino che conduce al cielo; l'intervento della Chiesa, per i cristiani, costituisce gran parte dell'azione educatrice.

Chiesa, famiglia e Stato, compiendo ciascuno la propria parte nel campo dell'istruzione ed educazione, devono armonicamente cooperare a formare l'uomo e il cristiano - per quanto possi­bile - perfetto. Per quanto tocca la morale, sia naturale che soprannaturale, è chiaro che, in caso di disaccordo fra le tre autorità, la parola decisiva spetta alla Chiesa, che è stata costi­tuita da Cristo maestra e guida delle anime.

 

La scuola.

I genitori non sono in grado - salvo casi eccezionali - di dare ai figliuoli un'istruzione proporzionata ai bisogni e al pro­gresso dei tempi moderni. Pensa a ciò la scuola, che conduce il giovane fino agli alti studi delle specializzazioni universitarie. La scuola non si pone, però, come sostitutrice né, tanto meno, come contraltare della famiglia, bensì come complemento e com­pletamento della sua azione a beneficio dei giovani: essa deve quindi accordarsi in pieno con i princìpi educativi della famiglia. Qualcuno sostiene una scuola indipendente, ma ciò è grave­mente errato. La scuola, infatti, come ogni vero educatore di tutti i tempi ha riconosciuto, ha una profonda influenza educa­trice. Ciò appare evidente se si considera l'insegnamento della fi­losofia, della storia, della letteratura, dell'arte, del diritto, delle scienze: discipline che incidono profondamente nella formazione dell'intelletto, del cuore, della volontà, nell'orientamento fonda­mentale, insomma, della vita e che toccano da vicino tante essen­ziali verità della religione.

Ne consegue che, in concreto, una scuola indipendente, in­differente, neutra - come si dice - non può realizzarsi, e difatti non è mai esistita. La scuola, perciò, sarà o religiosa o irreligiosa. Ed è chiaro che, invece, in mezzo a un popolo cristiano com'è il nostro, non solo dev'essere religiosa, ma dev'essere cristianamente ispirata. Ogni scuola, si badi, comprese quelle che lo Stato crea e dirige.

Perché ciò avvenga veramente è necessario:

a) che tra le discipline che s'insegnano nei vari ordini di scuole ci sia l'insegnamento della religione, sotto la vigilanza - logicamente - dell'autorità ecclesiastica;

b) che i programmi, gli insegnamenti e i libri di testo siano intonati ad una visione cristiana della realtà, o, quanto meno, non vi contraddicano;

c) che il concreto funzionamento della scuola, per il senso di responsabilità dei docenti e per l'ambiente morale che si viene a creare, facciano della scuola un vero tempio, insieme, del­l'istruzione e dell'educazione.

 

Doveri e diritti dello Stato.

Gli Stati moderni rivendicano a sé come dovere e come diritto di istituire le scuole. Poiché lo Stato deve cercare di realizzare il bene comune, non c'è dubbio che gli spetti di curare l'istru­zione e l'educazione dei giovani, con particolare riguardo alla istruzione tecnico-professionale, ad una sana educazione fisica, ad una formazione sociale e civica.

Lo Stato ha anche il diritto di interessarsi che nelle scuole non proprie siano osservati i principi igienici, sia curata la doverosa educazione civica, sia data un'istruzione corrispondente al grado di civiltà raggiunto dal Paese, specialmente se dette scuole chiedono ed hanno il riconoscimento dei loro titoli come di valore pari a quelli statali.

Lo Stato, però, non può pretendere di avere il monopolio scolastico.

 

Libertà della scuola.

La dottrina sociale cattolica rivendica la libertà della scuola, il diritto, cioè, da parte delle famiglie e della Chiesa - per le ragioni su esposte - di fondare delle scuole, provvedendo diret­tamente all'istruzione ed educazione dei giovani. Ciò perché esse hanno, in tale campo, un inalienabile diritto, le prime d'ordine naturale, l'altra d'ordine soprannaturale.

La ragione si è:

a) che lo Stato non deve fare tutto, ma solo ciò che le famiglie non riescono da sé a realizzare;

b) che una perfetta armonia di tutte le discipline e di tutti gli insegnamenti, ai fini di un'integrale formazione dell'ani­mo dei giovani, si realizza assai difficilmente; essa certo, però, si realizza meno difficilmente quando la scuola è fondata dalla Chiesa e diretta proprio da uomini della Chiesa.

Una vera libertà della scuola si ha quando:

1) le leggi dello Stato riconoscono il diritto della Chiesa e della famiglia a fondare e dirigere scuole;

2) tale attività può realizzarsi senza ostacoli ed ostru­zionismi;

3) lo Stato concede a tali scuole - previa loro accertata rispondenza a determinati requisiti - di conferire titoli equiva­lenti a quelli statali;

4) gli alunni delle scuole libere non si troveranno, agli esa­mi, in condizioni di maggior difficoltà. rispetto agli alunni delle scuole statali;

5) lo Stato sussidia le scuole libere come sussidia le pro­prie. Altrimenti avviene che i genitori che mandano i figli alle scuole statali gravano - e molto! - sullo Stato; mentre quelli che li mandano alle scuole libere si pagano da sè le proprie scuo­le, non gravano sullo Stato per nulla, concorrono, attraverso le imposte indirette, a sostenere le scuole degli altri. Ciò, eviden­temente, non corrisponde ai dettami della giustizia.

 

L'ambiente.

Oggi il giovane non viene formato solo nella famiglia e nella scuola, ma anche - e assai largamente - nell'ambiente in cui vi­ve, intendendo per ambiente tutto quanto lo avvolge e lo influen­za: ad es. stampa, spettacoli, costumi, moda, compagnie, orga­nizzazioni, radio, televisione, ecc.

L'influenza dell'ambiente è evidentissimo; in molti casi ap­pare addirittura determinante. E può esserlo, evidentemente, sia in bene, che in male.

Occorre dunque che i cittadini - specialmente i genitori consapevoli delle loro responsabilità verso i giovani - e le autorità dello Stato prendano tutti i necessari provvedimenti - leggi, applicazione delle leggi, disposizioni, ecc. - per creare nella vita associata, con particolare riguardo a quanto può essere avvicina­to dai giovi, un ambiente veramente sano.

 

L'educazione al senso sociale.

Merita di essere particolarmente sottolineata, nel momento storico attuale, l'importanza di una educazione al senso sociale. Nella famiglia, nella scuola, nelle associazioni, nella Chiesa, il senso sociale va messo in giusto e particolare rilievo. Occorre vincere l'egoismo a cui l'uomo è naturalmente portato; occorre aiutare a sviluppare il sentimento sociale cui ogni uomo è anche naturalmente aperto. E ciò fino ai più larghi orizzonti, fino a far sentire la fraternità dei popoli e il bisogno di una pacifica impostazione delle relazioni tra tutte le nazioni. Ciò coincide in modo specialissimo con i princìpi e le mete del cattolicesimo.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 21:56
PARTE TERZA

L'UOMO NEL MONDO ECONOMICO-PROFESSIONALE

VII. - IL LAVORO

Un fatto universale, che s'impone in modo impressionante all'attenta considerazione degli uomini, è il lavoro. Tale fatto, da tutti conosciuto perché sperimentato, vissuto, merita di essere analizzato ed approfondito alla luce del pensiero cristiano. Questo ha del lavoro una concezione elevatissima e reca, perciò, un contributo di primissimo piano alla creazione, da tutti auspi­cata, di una civiltà nella quale il lavoro umano, in ogni suo aspetto, abbia un posto veramente principe.

Il lavoro.

Poiché i mezzi di sussistenza che la natura offre spontaneamente non sono sufficienti a mantenere la vita umana, l'uomo provvede al suo sostentamento col lavoro. Questo è rivolto ad aumentare, migliorare, scambiare, conservare i beni; e non solo quelli strettamente necessari al sostentamento, ma anche ­quelli che dànno all'uomo benessere, soddisfazione, sicurezza, progresso.

Occorre dire subito che il lavoro, essendo attività dell'uomo, volta al sostegno e al miglioramento della sua esistenza nonché al suo progresso, non può non sottostare alla legge morale, cioè al binario che Dio ha stabilito per regolare le azioni umane.

Spetta, infatti, alla morale dichiarare se un lavoro è lecito o no; spetta ad essa determinare quali siano i bisogni umani sicura­mente da soddisfare e in quale misura e gerarchia.

 

Il lavoro come dovere.

Nella concezione sociale cristiana il lavoro va considerato un dovere. E non solo:

a) per la sua finalità immediatamente evidente, la necessità del sostentamento; ma anche;

b) perché si ha il dovere di trafficare i talenti ricevuti da Dio;

c) perché si devono fuggire l'ozio e i vizi che ad esso facil­mente conseguono;

d) perché è doveroso che ognuno faccia qualcosa per il bene dei fratelli bisognosi e per il progresso di quella società dalla quale ha, certo, tanto ricevuto.

 

Il lavoro come diritto.

Oltreché un dovere, il lavoro è anche un diritto; e ciò sotto due aspetti.

a) Diritto a lavorare: l'uomo, cioè, ha il diritto di chiedere alle pubbliche autorità di fare ogni sforzo per procurargli il lavoro, qualora egli personalmente, o per mezzo delle libere or­ganizzazioni, non riesca a procurarselo. Lo Stato, però, si noti, non deve avocare a sé la distribuzione del lavoro, sostituendosi alla libera attività e al doveroso interessamento delle singole persone, bensì solamente intervenire ad aiutarle quando esse non riescono.

b) Diritto di lavorare: l'uomo ha, cioè, la libertà di sce­gliere il lavoro che più appare confacente alla sua personalità; la libertà di cambiare professione; la libertà di esercitare la professione con intelligenza e libertà (naturalmente nel rispetto delle leggi proprie di ogni determinato lavoro e delle leggi stabi­lite dallo Stato per il bene comune); la libertà di stabilire con­sensualmente i patti di lavoro, cui poi, evidentemente, restando le cose com'erano, deve mantenersi fedele.

 

Valore del lavoro.

Il lavoro umano - ogni lavoro - ha una sua intrinseca ed altissima dignità. Ciò perché:

a) è effetto di una causa intelligente e libera, la persona umana;

b) collabora all'opera creatrice di Dio, trasformando e sfruttando le materie e le energie che Dio ha posto, in gran parte in uno stato grezzo e latente, nell'universo;

c) serve a conservare nell'esistenza quella persona umana che, perciò, potrà darsi al pensiero, all'arte, alla contemplazione;

d) esprime la grandezza dell'uomo, creatura di Dio, e realizza il progresso dell'umana società;

e) serve - perché è anche fatica - ad espiazione del pec­cato e - poiché è anche imitazione di Cristo, divino lavoratore - ad assimilare sempre più l'uomo al modello sublime del­l'Uomo-Dio.

 

Dignità d'ogni lavoro.

Si distinguono, ordinariamente, lavori manuali e lavori in­tellettuali. La distinzione, a rigor di termini, non è esatta, per­ché non v'è alcun lavoro che non richieda una certa applicazione della mente e un certo sforzo fisico. Essa è valida, però, in linea di massima.

Ciò posto, va notato:

a) che il lavoro intellettuale è più alto, ma il lavoro ma­nuale è spesso più urgente e necessario;

b) che il lavoro intelletuale non sarebbe possibile se non ci fossero quelli che si dedicano al lavoro materiale anche per gli intellettuali;

c) che il lavoro manuale merita tanta maggior stima quanto più costa fatica e dà minori soddisfazioni;

d) che il lavoro intellettuale serve moltissimo a rendere più produttivo e meno faticoso, umiliante, pericoloso, quello manuale;

e) che dei risultati del lavoro intellettuale - si pensi, ad es. alla scoperta della radio e della penicillina - tutti be­neficiano;

f) che anche il lavoro puramente spirituale - studio, pre­ghiera, apostolato - è autentico lavoro e va riconosciuto, in una società bene ordinata e cristiana, nella sua libertà e negli indubbi benefici, diretti o indiretti, naturali e soprannaturali, ch'esso reca.

 

Il lavoro della donna.

Quanto è stato detto, in genere, del lavoro vale anche, natu­ralmente, per il lavoro della donna.

Questo merita, in più, alcune considerazioni.

1) Non è lavoro economicamente redditizio solo quello che la donna svolge fuori casa (ufficio, officina, campo, professione), ma anche il lavoro domestico;

2) nel lavoro che la donna fa a casa va particolarmente sottolineato il risparmio ch'essa riesce ad ottenere;

3) il lavoro casalingo è certamente il più appropriato per la donna, sia in ordine alle mansioni di massaia che a quelle di educatrice dei figli;

4) in caso di lavoro extra-domestico della donna, non va considerato solo l'apporto che viene alla famiglia dal suo gua­dagno, ma vanno anche valutate e detratte le maggiori spese della donna stessa (trasporti, abbigliamento) e del nucleo fami­liare (cibo, vestiti, ecc.);

5) prima di accettare che una madre di famiglia vada a lavorare fuori casa vanno considerati gli eventuali pericoli per la sua salute di determinati lavori, di dati ambienti per la sua vita morale, della società in genere per il possibile aumento della disoccupazione maschile, il conseguente aumento delle imposte ai fini assistenziali, ecc.;

6) salva la necessaria prudenza, per le ragioni suaccen­nate, si può guardare con maggior favore al lavoro extra-do­mestico delle donne nubili piuttosto che di quelle sposate; e, tra i diversi lavori, con maggior simpatia alle professioni più adatte alla donna - che spesso ne fa una vera missione, assai benefica - ad es. quella di maestra, assistente sociale, medico per donne e bambini, sarta, bibliotecaria;

7) stando attenti ad evitare un possibile super lavoro, e magari in condizioni poco igieniche, va vista con simpatia la possibilità di un lavoro particolarmente redditizio della donna a casa con l'aiuto di piccole macchine, a mano o elettriche, che oggi si vanno diffondendo.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 21:59
VIII. - LA RIMUNERAZIONE DEL LAVORO

Se c'è una questione che attira immediatamente l'interesse del lavoratore - dall'operaio al professionista - è quello della retribuzione del lavoro. Infatti si lavora principalmente, nella maggioranza dei casi (non esclusivamente ma principalmente), per ottenere quella retribuzione che permette di soddisfare ai bisogni ed eventualmente ai desideri. Va subito detto che la dot­trina sociale cristiana considera doverosa la retribuzione del la­voro, e non secondo un rigido sistema puramente economico, bensì sul piano superiore della virtù della. giustizia.

Il lavoro non è uno merce.

Nella classica dottrina liberale il lavoro veniva considerato come una merce, offerta dal lavoratore, e, come quello di una merce, il suo prezzo veniva considerato stabilito dal libero giuoco della domanda e dell'offerta. Più domanda, e il prezzo cresce; più offerta, e il prezzo diminuisce. S'arriva così, facilmente, a dei salari di fame e a delle condizioni, per i lavoratori, veramente inumane.

Contro tale criterio il pensiero cristiano si è opposto - e ormai con discreto successo ovunque - affermando che nella determinazione della retribuzione del lavoro deve intervenire il concetto di giustizia. Ciò perché il lavoro umano non è in tutto paragonabile ad una merce, essendo il risultato dell'attività d'una persona intelligente e libera, che ha, anche solo come tale, suoi non violabili diritti.

 

Una giusta retribuzione.

Secondo la dottrina sociale della Chiesa - espressa mira­bilmente nei documenti degli ultimi Pontefici, particolarmente nella « Rerum Novarum » di Leone XIII e nella « Quadragesimo Anno » di Pio XI -, perché una retribuzione possa essere con­siderata giusta, occorre:

1) che sia sufficiente a mantenere il lavoratore « in una certa agiatezza » (Leone XIII), « in maniera degna di una persona umana » (Pio XII): ad es. orari di lavoro limitati, ferie pagate, onesti svaghi, possibilità. di mantenere i figliuoli volenterosi e capaci agli studi;

2) che renda possibile al lavoratore di formarsi una fami­glia e, quindi, di mantenerla (sistema degli assegni familiari, che dovrebbero però essere, in genere, più proporzionati agli obiettivi bisogni);

3) che abbia una evidente proporzione - anche se non facile, in pratica, a definirsi - con il rendimento del lavoro (se l'azienda guadagna di più, il reddito dei lavoratori deve aumen­tare; se l'azienda guadagna di meno, deve diminuire, non però al di sotto dei minimi stabiliti dai contratti collettivi o imposti da esigenze umane elementari di vita);

4) che dia la possibilità al lavoratore - o per risparmio personale e per personale senso di provvidenza e previdenza con un sistema di concordate e generalizzate provvidenze so­ciali - di affrontare serenamente l'eventualità della disoccupa­zione, della malattia, dell'invalidità, della vecchiaia e - con relativa sicurezza economica della famiglia - di una morte precoce;

5) che, oltre tutto ciò, offra la possibilità, al lavoratore ben costumato, di un risparmio che lo possa fare uscire dallo stato di proletario facendolo accedere ad una, sia pur modesta, proprietà.

 

Necessarie considerazioni.

Nella determinazione della giusta retribuzione vanno anche tenute presenti

a) le possibilità di resistenza, e possibilmente di sviluppo, dell'azienda (retribuzioni troppo alte, ad es., potrebbero portare in breve l'impresa al fallimento, con danno di tutti);

b) le esigenze del bene comune (guadagni troppo alti po­trebbero portare i prodotti a un prezzo poco accessibile, assai gravoso, prima, per la massa dei consumatori, e, poi, rovinoso

per le steese aziende che non troverebbero compratori della loro merce);

c) una certa proporzione tra i guadagni dei lavoratori di una data categoria in diverse aziende e località, nonché dei lavo­ratori di diversi settori (ad es. industria e agricoltura): altri­menti si verificheranno esodi in massa verso una data regione e un dato settore di lavoro, con larghe possibilità, com'è facile capire, di gravi danni, vicini o lontani, nell'economia generale della nazione;

d) l'esigenza di un contemperamento in vista dei prezzi dei prodotti nel mercato internazionale, così che, da un lato i lavoratori di un'azienda non siano costretti alla disoccupazione, dall'altro tutti i consumatori di una nazione non siano per anni ed anni costretti a pagare prezzi esosi e, tutto sommato, artificiali.

 

La rimunerazione del lavoro reso dalla donna.

Trattandosi di rimunerazione del lavoro secondo giustizia, è evidente che i criteri esposti debbano valere per qualsiasi persona umana, e perciò sia uomo che donna.

Poiché, però, si è spesso usato di retribuire meno la prestazione d'opera femminile che quella maschile, occorre dire:

a) a parità di lavoro, di tempo, di rendimento, non vi può essere alcuna giustificazione, d'ordine economico o d'ordine mo­rale, ad una diversa retribuzione;

b) qualora, per una ragione o per l'altra, il rendimento di un lavoro sia minore è giusto che, nel rispetto dei limiti detti sopra, la rimunerazione sia minore;

c) di fatto, in molti settori il lavoro maschile appare più redditizio; ma non mancano settori nei quali la donna non solo eguaglia ma anche supera l'uomo (particolarmente nei lavori che richiedono attenzione, ordine, pulizia, metodicità, pazienza, generosità, costanza);

d) gli assegni familiari, nel caso lavorino sia il marito che la moglie, vanno dati al marito: e perch'egli è il capo della famiglia, e perché, guadagnando egli di più, è più facile che la donna ami considerare l'ipotesi di restare a casa, dedicandosi alle cure più proprie di una madre di famiglia.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:00
XI. - IL DIRITTO DI PROPRIETA'

Il senso della proprietà è connaturale all'uomo. Basta os­servare come agisce un bambino di pochi anni o come si regola, ordinariamente, una persona d'età, anche se quel che possiede è ben poca cosa. In realtà la proprietà è, come si vedrà, in netta relazione con le caratteristiche dell'uomo: essere razionale e libero. Attorno alla proprietà si sono però riuniti, nei secoli, troppi egoismi; e contro di essa si sono manifestati, nei tempi moderni, troppi atteggiamenti rivoluzionari. Una conoscenza ed una pratica attuazione dei princìpi cristiani in proposito porte­rebbe la vita associata su di un piano, veramente auspicabile, di sicurezza, utilità personale, solidarietà sociale, fraternità e pace.

L'oggetto del diritto di proprietà.

Quando si parla di proprietà si intende non solo quella dei beni che si consumano, usandoli, ma anche di quelli non destinati al consumo; non solo, cioè, i beni d'uso ma anche quelli di produzione.

In realtà per i beni di consumo non esiste alcuna seria controversia; invece la proprietà dei beni di produzione è negata dal social-comunismo.

 

La proprietà è un diritto.

« La proprietà privata dei beni - dice la "Rerum Nova­rum" - è diritto naturale dell'uomo; e l'esercitare questo di­ritto è, specialmente nella vita sociale, non soltanto lecito, ma assolutamente necessario ».

Le ragioni che impongono di riconoscere il diritto di proprietà si possono ridurre alle seguenti

1) Il fondamento della società è - come s'è dimostrato nei primi capitoli - l'uomo, e il bene comune degli uomini è il fine della stessa società. Dato questo primato dell'uomo rispetto allo Stato, è evidente che i diritti rispetto ai beni economici (tanto importanti per la vita umana!) debbono, prima e più che allo Stato, spettare ai singoli uomini.

2) L'uomo è un essere ragionevole e, perché tale, previ­dente. Prevedendo i bisogni futuri, e prevedendo che non sempre vi saranno sufficienti beni di consumo a sua disposizione, è por­tato naturalmente a conservare per l'avvenire i beni prodotti in eccedenza nel presente e ad assicurarsi, col possesso di mezzi di produzione, la possibilità di produrli nel futuro.

3) La dipendenza economica si unisce facilmente a un certo grado di soggezione spirituale. Al contrario, l'uomo che è padrone di una quantità sufficiente di beni risulta più libero nel suo pensiero, nella sua attività, nelle sue possibilità di darsi, senza esagerate preoccupazioni, ad ideali di cultura e di pro­gresso.

4) La proprietà si costituisce normalmente col frutto del lavoro risparmiato. Il pensiero di poter possedere sprona al lavoro ed incita ad un tenore di vita parco, al risparmio, all'in­vestimento di esso in beni produttivi, con i benefici che è facile comprendere sia per i singoli proprietari che per la società. L'impossibilità di acquisire una proprietà porterebbe la grande maggioranza degli uomini o a ridurre il lavoro al meno possibile o a sperperare tutto quel che guadagnano.

5) L'uomo tende naturalmente a formarsi una famiglia, e s'accorge d'aver bisogno di beni da destinare alla sposa e ai figli, anche in caso di sua premorienza: la proprietà, evidente­mente, favorisce in modo particolare la formazione e la vita serena delle famiglie.

6) In una società che riconosce la proprietà privata e cerca di favorirvi l'accesso al maggior numero possibile di cittadini, è naturale che ci sia un miglior ordine sociale, una più attenta conservazione, da parte di ciascuno, dei beni, un più pacifico sviluppo della vita delle singole nazioni e dei rapporti interna­zionali.

7) Si aggiungano due conferme:

a) la Rivelazione, proibendo il furto, afferma il diritto di proprietà;

b) la storia dimostra che la proprietà, esistendo pressoché sempre e dovunque, è un diritto naturale; essa dimostra ancora che, quando essa è stata negata, gli uomini si sono ritrovati pressoché schiavi dei potenti o, ai tempi moderni, dello Stato.

 

Diritto alla proprietà.

Dato che la proprietà è intimamente connessa con la dignità e la libertà della persona umana, è evidente che si deve affermare il diritto dell'uomo alla proprietà. Perciò, contrariamente al principio marxista « tutti proletari e proprietario solo lo Stato », il pensiero sociale cristiano vuole « tutti proprietari ». Per giungere a ciò occorre:

a) che chi non ha non sia impedito nel suo sforzo di giungere alla proprietà;

b) che lo Stato, per ragioni di giustizia sociale, favorisca l'accesso alla proprietà, a cominciare dai suoi aspetti fondamen­tali, come la casa, il podere, il possesso dei piccoli strumenti di lavoro;

c) che coloro che possiedono molto comprendano che oc­corre giungere, come più volte i Sommi Pontefici hanno procla­mato, « ad una più ragionevole ed equa distribuzione della ricchezza » - e ciò sia detto tanto per i singoli uomini che per i popoli -_;

d) che coloro che non hanno ricordino e pratichino il mo­nito di Pio XII: « Non nella rivoluzione, ma in una evoluzione concorde sta la salvezza e la giustizia. La violenza non ha mai fatto altro che abbattere... Solo un'evoluzione progressiva e pru­dente, coraggiosa e consentanea alla natura, illuminata e guidata dalle sante norme cristiane di giustizia e di equità, può condurre al compimento dei desideri e dei bisogni onesti dell'operaio » (Pentecoste del 1943).

 

Uso della proprietà.

Occorre bene distinguere il principio della proprietà dal problema del suo uso. La Chiesa afferma il diritto di proprietà privata, anzi la vuole, come s'è visto, estesa, gradualmente, a tutti. Passando, però, al problema del suo uso, essa non ammette che il proprietario ne usi o ne abusi a suo capriccio.

1) Perché i beni della terra sono essenzialmente di Dio, supremo e assoluto proprietario di ogni cosa;

2) perché Dio ha destinato i beni terreni, in generale, al bene degli uomini;

3) i singoli proprietari debbono ricordare che la proprietà deve avere due funzioni:

a) una, individuale, a servizio, cioè, di chi possiede;

b) l'altra, sociale, volta, cioè, al bene della società.

È un grave errore dire - come fa qualcuno - che la pro­prietà è una funzione sociale; bisogna però affermare nettamente che la proprietà ha, anche, una funzione sociale. I modi per soddisfare a tale seconda funzione sono diversi; principalmente: il non lasciare la proprietà improduttiva; l'offrire, nella mag­gior misura possibile, lavoro; il prestare i capitali, ad interesse non esoso, per gli investimenti produttivi; il pagare senza frodi, anzi con senso sociale di soddisfazione, le imposte; il sussidiare generosamente le opere di bene; l'essere misericordioso, in effet­tiva proporzione con le proprie possibilità, con i bisognosi.

A tale proposito si noti che secondo i principi cristiani:

- ci sono i doveri di stretta giustizia;

- c'è « il dovere gravissimo della carità » (Leone XIII nella « Rerum Novarum »);

- c'è la carità libera, la cui misura è lasciata alla gene­rosità di ogni cristiano.

 

Limiti alla proprietà.

La proprietà privata - come s'è visto - è istituto di diritto naturale; esso va distinto, però, dalle forme nelle quali storica­mente si realizza nei vari luoghi e tempi, forme che sono mute­voli e di fatto sono spesso mutate.

Va riconosciuto, tra l'altro, che le leggi dello Stato possono stabilire dei limiti:

a) al genere di proprietà (ad es. avocando allo Stato quella dei generi di monopolio - sale, tabacchi - e il possesso e l'eser­cizio di determinate categorie di beni e servizi, fondamentali per la popolazione - ad es. principali ferrovie, centrali elettriche -);

b) alla quantità della proprietà (sia aumentando con forte progressione le imposte sui redditi veramente alti; sia precisa­mente limitando l'entità del possesso, ad es. terriero).

La pubblica autorità, però, non può usare arbitrariamente di un tale potere: essa deve costantemente tenere presenti i di­ritti anteriori ed intangibili dell'individuo, della famiglia, delle società minori, nonché il suo fine, « il bene comune »: contro quei diritti e al di là di questo fine lo Stato non può legittima­mente andare. Spinto, però, dal dovere di perseguire il bene comune, esso deve tener presente la grande mèta di favorire, con pacifica gradualità, l'accesso alla proprietà a tutti i cittadini.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:02
X. - L'IMPRESA

Il mondo economico è dominato dall'impresa, l'organismo, semplice o complesso, piccolo o grande, che presiede alla pro­duzione della ricchezza. Dell'impresa oggi tutti sentono parlare e, giustamente, s'interessano; in un'impresa, di ridotte o di straordinarie dimensioni, una gran parte dell'umanità esercita la sua attività di lavoro. È perciò utilissimo, anzi necessario, ave­re una visione cristiana dell'impresa.

Bontà dell'impresa.

L'impresa - detta un tempo anche intrapresa, parola che, dal verbo « intraprendere », metteva in rilievo il senso attivi­stico che essa ha va anzitutto riconosciuta nella sua insostitui­bilità e nel suo valore.

Essa può essere definita (secondo le conclusioni della XXV Settimana sociale dei Cattolici Italiani: 1953): « l'armonica com­binazione dei fattori della produzione - attività imprenditrice, capitale, lavoro - in vista della più efficiente attuazione ed espansione dell'economia sul piano della convivenza sociale ». Una tale armonica combinazione dei fattori della produzione è, evidentemente, utilissima, anzi necessaria.

Un organismo tendente a produrre i beni, a produrli in gran numero e col minimo sforzo, ad armonizzare i fattori della produzione, non può che essere considerato, in sé, come buono; naturalmente, se ha dei difetti, questi vanno individuati e corretti.

 

L'impresa artigianale.

Una prima considerazione va data all'impresa artigianale, nella quale lavora, un maestro artigiano, eventualmente con qualche collaboratore e apprendista.

Si pensava che il progresso tecnico avrebbe distrutto l'arti­gianato; esso però sopravvive, e spesso assai bene:

a) perché l'artigianato, con la sua inventiva, il suo senso artistico e la sua abilità fa cose che la produzione in serie non può realizzare;

b) perché molti uomini amano gli oggetti che, hanno una originalità e rivelano una personalità;

c) perché in certe regioni determinate tradizioni sono pro­fondamente radicate;

d) perché molti lavoratori amano in modo speciale il la­voro libero, costruttivo, personale, della bottega artigiana. L'artigianato è utile ed è benemerito della società: esso va rispettato, incoraggiato, aiutato. Particolarmente:

1) favorendo l'apprendistato;

2) rendendo facili i piccoli crediti e l'accesso alle neces­sarie materie prime;

3) favorendo il commercio all'interno e l'esportazione dei prodotti artigiani.

 

L'impresa agricolo familiare.

Altra piccola impresa è quella agricola a dimensioni fami­liari. Essa è particolarmente diffusa e corrisponde profondamente alle possibilità e alla psicologia di larghi strati della popolazione. Anch'essa sopravvive, nonostante l'avvento delle macchine e della grande impresa agricola; ciò particolarmente:

-- per la situazione caratteristica di determinati appezza­menti di terra (specie nella nostra Italia, così montuosa);

- per l'attaccamento di molte famiglie alla terra propria;

- per il contributo intelligente, tempestivo, interessato, che un nucleo familiare dà al podere.

Una famiglia può lavorare in un podere: proprio, o in fitto, o in mezzadria, o solo dando lavoratori braccianti. Ognuna di queste forme può avere la sua giustificazione storica e, qua e là, la sua necessità. Il pensiero sociale cristiano vuole che la condi­zione dei semplici braccianti sia oggetto di specialissime prov­videnze e tenda a sparire. La mezzadria e il fitto, ben regolati, sono forme d'azienda certamente buone. L'ideale, evidentemente, è che ogni famiglia contadina possa giungere al possesso d'una parte, almeno, della terra che lavora.

Perché oggi l'impresa agricola familiare possa conveniente­mente affermarsi, è necessario:

a) che sia in grado di fornire le possibilità di una vita sufficientemente decorosa alla famiglia;

b) che il coltivatore diretto sia sufficientemente istruito, con i necessari aggiornamenti intorno alle conquiste della scienza e della tecnica;

c) che le famiglie coltivatrici abbiano un sistema di assi­curazioni sociali.

Particolarmente utili saranno ancora

1) una buona organizzazione sindacale;

2) il ricorso, in parecchi casi, alle forme cooperative.

 

L'impresa cooperativa.

Mediatrice tra l'impresa familiare e la grande impresa, si presenta l'impresa a forma cooperativa. In essa coloro che ne fanno parte sono, insieme, possessori del capitale, imprenditori e lavoratori; hanno gli stessi interessi; uniscono le proprie forze. In tale modo è facile mantenere i pregi dell'azienda familiare con l'aggiunta di alcune delle possibilità dell'azienda di grande dimensione. Si pensi, ad es.:

- alla possibilità di avere delle macchine;

- alla facilità di conservare bene i prodotti;

- alla organizzazione non tanto dispendiosa della propaganda;

- ad una migliore impostazione della distribuzione del prodotto;

- all'interesse particolare che ciascun cooperatore porta alla cooperativa;

- alla minima incidenza delle spese di direzione e ge­stione, ecc.

Naturalmente i benefici variano a seconda che si tratti di cooperative di lavoro, dai produzione, di consumo, di credito, o di carattere mutualistico, e a seconda dei luoghi, dei generi, dell'entità dell'impresa: essi, comunque, sono, in genere, no­tevoli.

Per il suo rispetto della personalità dell'uomo e del nucleo familiare, nonché per la sua anima di cooperazione e fraternità, l'impresa cooperativa gode tutte le simpatie del pensiero sociale cristiano e va, dovunque si prospetti possibile ed utile, inco­raggiata.

 

La grande impresa.

Caratteristica del mondo economico moderno, sia in agri­coltura che, specialmente, nell'industria, è la grande impresa. Essa apporta tanti benefici cui non è minimamente possibile ri­nunciare; occorre solo sforzarsi di eliminarne gli inconvenienti. L'impresa a grandi dimensioni dà lavoro a numerosi lavora­tori, produce molti beni e a basso costo, va incontro alle neces­sità, alle comodità, ai desideri di enormi masse di popolazione. Essa è caratterizzata dal fatto che i fattori della produzione si trovano in persone diverse: i fornitori dei capitali, gli impren­ditori, i dirigenti, gli operai.

Sorge il problema: a quale principio ci si deve ispirare nel regolare i loro rapporti?

Tra il principio della libera concorrenza, asserito dall'ideo­logia libéral-capitalista e quello della lotta di classe, affermato dall'ideologia social-comunista, la dottrina sociale cristiana af­ferma il principio della solidarietà e della collaborazione.

Tale principio deriva

a) dalla natura dell'impresa, nella quale, per il raggiun­gimento dei suoi fini, capitale, attività imprenditrice e lavoro, direttivo o esecutivo, devono essere intimamente coordinati.

Il lavoro, infatti, senza capitale, può fare ben poco; il ca­pitale senza lavoro è improduttivo; il lavoro materiale senza chi organizza e dirige non può aspirare a grandi realizzazioni;

b) dalla società umana, che si rivela anche, e in modo importantissimo, nelle imprese economiche. Perciò Leone XIII dichiara « uno sconcio » il « supporre l'una classe sociale ne­mica naturalmente dell'altra » (« Rerum Novarum »);

c) dal comune interesse, di tutti coloro che fanno parte dell'azienda, alla sua vitalità, al pacifico svolgersi del suo lavoro, al miglior rendimento;

d) dall'interesse dei capitalisti e degli imprenditori al fatto che le grandi masse sociali siano fornite di mezzi finanziari tali che permettano loro non solo di procurarsi il necessario per vi­vere ma anche per potersi comprare le cose non strettamente ne­cessarie e che l'industria tende a produrre sempre più: ad es. l'automobile, la radio, la televisione, la macchina da cucire, la macchina da scrivere, il frigorifero.

Motivi di urto e diversità d'interessi ci sono, senza dubbio, tra i rappresentanti dei diversi fattori della grande impresa; ma la convergenza degli interessi e, quindi, la necessità della coope­razione sono di gran lunga più importanti.

 

Salari e stipendi.

Nella grande impresa moderna ha larghissima applicazione il regime della retribuzione fissa: il salario degli operai, lo sti­pendio degli impiegati, l'interesse degli obbligazionisti.

Il sistema del guadagno prefissato non è immorale; esso si basa su tre grandi ragioni:

a) l'incertezza del guadagno e del « quanto » del guadagno dell'azienda;

b) l'impossibilità per la quasi totalità dei lavoratori - operai ed impiegati - di partecipare ai rischi (sia pure con la prospettiva di maggiori guadagni) dell'impresa;

e) il bisogno di operai e di impiegati di avere subito - ogni settimana o ogni mese - la retribuzione del lavoro.

Ove, perciò, nello stabilire la retribuzione si tengano pre­senti le condizioni che la fanno giusta - esposte nel cap. VIII - la retribuzione fissa non è immorale. Essa è spesso, poi, l'unica praticamente possibile; essa è, in molti casi, la più ricercata. Valga per tutti il fatto delle obbligazioni. Perché molte persone che hanno capitali non comprano « azioni » - che li farebbero comproprietari delle aziende e partecipi, proporzionalmente, dei loro guadagni - e comprano, invece, « obbligazioni »? Perché queste non danno rischio - o quasi - e assicurano un reddito fisso (in genere dal 5 al 6,5 per cento).

 

Il principio della compartecipazione.

Affermata la liceità e, spesso, la convenienza del reddito fisso e assicurato, la dottrina sociale cristiana vede però con simpatia un più intimo inserimento degli operai nella vita e nella strut­tura delle aziende. « Nelle odierne condizioni - scriveva già Pio XI nella « Quadragesimo Anno » del 1931 - stimiamo sia cosa prudente che, per quanto è possibile, il contratto di lavoro venga temperato alquanto col contratto di società, come già si è cominciato a fare in diverse maniere con non poco vantaggio de­gli operai stessi e dei padroni. Così gli operai divengono cointe­ressati o nella proprietà o nella amministrazione, e compartecipi, in certa misura, dei guadagni percepiti ».

In concreto una più intima partecipazione degli operai alla vita dell'azienda si può realizzare in varie forme; esse non man­cano, tuttavia, d'incontrare varie difficoltà, per cui trovano negli stessi ambienti, sostenitori entusiasti, uomini dubbiosi, avversari tenaci. Sarà bene comunque, con spirito solidaristico, continuare nella via delle esperienze e degli studi. In modo particolare vanno tenuti presenti

a) il conferimento di premi di produzione e di incremento dell'azienda;

b) la vera e propria compartecipazione agli utili;

c) il favore degli imprenditori e dei dirigenti ai consigli degli, operai (per lo snellimento del lavoro, il miglioramento della produzione, le condizioni igieniche dell'ambiente, i dispo­sitivi di sicurezza, ecc.), con proporzionate ricompense;

d) l'accesso degli operai alle « azioni » della « Società » presso cui lavorano;

e) la partecipazione alla stessa gestione dell'azienda. L'impresa comunità di lavoro.

Tutto quanto è stato detto a proposito della impresa - dalla bottega artigiana alla cooperativa e alla grande azienda sarà utile e porterà, anzi, benefici. d'eccezione, solo se si guarderà all'impresa come ad una « comunità di lavoro ». Ciò è imposto dall'umana ragione, per motivi di dovere come per motivi di interesse; ciò è soprattutto imposto da una visione cristiana della realtà e della vita.

Solo realizzando una tale solidarietà, anzi un'autentica fra­ternità fra tutti gli uomini che operano in un'azienda, e, poi, in tutta la vita associata, si otterrà un sicuro progresso ed una vera e durevole pace sociale.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:03
XI. - LA DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA

Se il problema di produrre ricchezza è, oggettivamente, il più importante, quello della distribuzione della ricchezza pro­dotta è il più importante soggettivamente: interessa cioè in modo specialissimo tutti coloro che hanno contribuito a produrla. E non è raro il caso che, per non sapersi mettere d'accordo sulla distribuzione, la ricchezza non si produce o si produce in mi­nima parte; ed è pure avvenuto che, nel contrasto tra i diversi interessati alla distribuzione, la ricchezza prodotta s'è distrutta o deteriorata. Appare, perciò, di basilare importanza che gli uomini sappiano stabilire una giusta distribuzione della ricchezza o che, comunque, attuino metodi ed istituti giuridici tali che giungano, con la massima equità possibile e senza danni, a superare le controversie.

Panorama generale.

La distribuzione della ricchezza avviene, nella moderna eco­nomia, con:

- la remunerazione del lavoro (salario, stipendio, coin­teressenza, di cui già s'è parlato);

- il profitto dell'imprenditore;

- la remunerazione del capitale prestato, interesse;

- i contributi versati per le assicurazioni;

- le imposte, esatte dallo Stato per le sue spese generali (ciò di cui si parlerà nel cap. seguente).

 

Il profitto.

È classicamente chiamato così il guadagno dell'imprendito­re. Esso appare nettamente legittimo, anzi risulta evidente che esso deve essere relativamente notevole. Ciò perché:

- l'attività imprenditoriale è un lavoro;

- essa è il lavoro preminente nella ideazione e creazione, come nello svolgimento e nell'affermarsi dell'azienda;

- il rischio dell'imprenditore è grande, specialmente poi se è lui stesso a finanziare l'azienda.

Riconosciuta facilmente la legittimità del profitto, riesce difficile, invece, stabilirne la misura; ad essa si arriverà tenendo conto dell'influsso del suo lavoro nell'azienda, del suo grado di responsabilità, della mole di lavoro e del reddito generale, del rischio di eventuali suoi capitali.

Il profitto qualche volta diventa extraprofitto, in seguito a circostanze fortuite o, comunque, non conseguenti all'attività im­prenditoriale: in tale caso è evidente che I'imprenditore ha, per detta quota, maggiori doveri sociali, come lo Stato ha mag­giori diritti, anche per imposizioni fiscali straordinarie.

Come s'è detto per la proprietà, così bisogna dire per il profitto, e cioè che deve adempiere, oltre che una funzione indi­viduale, anche una funzione sociale. A tale proposito devono essere tenuti presenti:

- il possibile ingrandimento dell'azienda;

- l'ammodernamento degli impianti e dei macchinari;

- il miglioramento, specialmente igienico, degli stabi­limenti;

- la restituzione, totale o parziale, dei prestiti, per ren­dere l'azienda autosufficiente;

- l'aumento delle unità lavorative, particolarmente im. portante se nel paese v'è disoccupazione;

- la concessione di premi agli impiegati e agli operai, l'eventuale diminuzione, a parità di retribuzione, della giornata lavorativa, l'aumento delle retribuzioni o, comunque, dei benefici.

Senza poter scendere qui a maggiori precisazioni, è certo che al lavoro, direttivo ed esecutivo, deve, in genere, concedersi ancora più di quanto è, comunemente, dato; gli imprenditori, da parte loro, debbono, generalmente parlando, diminuire i loro profitti - che pur resteranno sempre ragionevolmente laghi -, realizzandosi così tra tutti i partecipi dell'azienda non un'impossibile, ingiusta ed antieconomica equiparazione, ma un equo raccorciamento delle distanze.

 

L'interesse.

La quota di guadagno spettante a chi presta il capitale è denominata interesse. Essa è lecita:

- perché aiuta veramente a produrre nuova ricchezza, beneficio per chi riceve il prestito come per la società in generale;

- perché rappresenta un sacrificio;

- perché rappresenta un rischio;

- perché l'interesse sprona al risparmio, e, quindi, alla disponibilità di capitali.

Il capitale ha due fonti, in sé eccellenti, il lavoro e il ri­sparmio; esso, se investito, ha molti effetti benefici, tra cui la moltiplicazione del lavoro, la moltiplicazione della ricchezza, l'accelerazione del progresso. Per tutto ciò esso merita un equo interesse.

Anche qui non è facile determinare quando un interesse è equo: ciò dipende dalla quantità della somma che si offre in prestito, dalla durata di esso, dal grado di gravità del rischio, dal guadagno che rende possibile, dalle condizioni di chi chiede, se per bisogno o per piccola o grande industria, ecc.

Tre cose, in tale materia, si possono dire certe:

1) che la Chiesa ha sempre combattuto con la massima energia i prestiti a condizioni usuraie;

2) che lo Stato, enti e privati dovrebbero andare incontro ai bisognosi, nei limiti di modeste necessità, con prestiti ad inte­resse veramente minimo (ad es. perché ogni famiglia possa pos­sedere una modesta abitazione o perché un artigiano possa procurarsi le necessarie, materie prime);

3) che per prestiti poco o nulla rischiosi - come avviene per i Buoni del Tesoro statali e le Obbligazioni societarie garan­tite dallo Stato - un interesse del 5, 6, 6, 5 per cento all'anno, appare lecitissimo; che per prestiti rischiosi la misura va aumen­tata a seconda che aumenta il rischio.

 

Assicurazioni e sicurezza sociale.

Oggi parte del guadagno di un'azienda, in tutte le nazioni progredite, viene destinata ai fondi delle assicurazioni sociali; l'apporto viene prelevato in misura relativamente minima - in Italia - dalle retribuzioni del lavoratore e, in misura assai più ampia, dal reddito generale dell'azienda.

Al lavoratore riesce, in genere, ostico pagare anche una minima quota per le assicurazioni sociali obbligatorie, ma a poco a poco ci si abitua e, col tempo, ne riconosce i benefici, che vera­mente sono notevoli. Esse proteggono dall'incertezza e assicu­rano, dal punto di vista economico, l'avvenire. Disoccupazione, malattia, invalidità, vecchiaia, la stessa morte di un capo famiglia appaiono oggi, col sistema quasi generalizzato delle assicurazioni, prospettive ben meno gravi che in passato.

In varie nazioni si tende addirittura alla « sicurezza sociale » per tutti i cittadini, per ogni genere di rischio, dalla culla alla tomba. Così, ad esempio, è oggi in Inghilterra. Tale mèta ap­pare, evidentemente, buona. Occorre però stare attenti che una tale sicurezza:

a) non incoraggi l'inattività;

b) non crei pretese esagerate e fuori luogo;

c) non distrugga il senso di libertà, responsabilità, perso­nalità, interesse individuale di ciascuno alle proprie cose e a se stesso;

d) non gravi troppo, fino magari a comprometterla, sulla economia di una nazione.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:04
XII. - L'ORGANIZZAZIONE PROFESSIONALE

È insegnamento dell'esperienza universale, sancito da un antichissimo proverbio, che l'unione fa la forza. È su tale prin­cipio, precisamente, che si basa la naturale tendenza dell'uomo all'associazione; gli uomini uniti sono, in ogni settore, più ef­ficienti: nella difesa, nel rendimento, nel progresso. Ma, a parte la società generale, che, organizzata, prende il nome di Stato, gli uomini comprendono l'importanza di associarsi per scopi par­ticolari, in modo speciale per rendere migliori le condizioni del loro lavoro. E, giustamente, rivendicano il diritto di costi­tuire tali associazioni.

La professione.

Il mondo, appena giunto ad un certo progresso, ha visto subito la divisione del lavoro e, con essa, la nascita delle diverse professioni, dei differenti mestieri. I benefici di tale impostazione dell'attività delle varie persone sono evidenti. Ciò avviene in modo straordinario nel mondo moderno, quando una tecnica ultra-pro­gredita ha creato specializzazioni su specializzazioni.

I singoli componenti di ogni professione hanno molti interessi comuni, spesso in parziale contrasto, apparente ed immediato al­meno, con quelli di altre professioni: perciò tendono a formare delle associazioni. Un tempo dette consorterie, corporazioni, arti, nel mondo contemporaneo sono detti, più generalmente, sindacati.

 

Diritto e dovere d'associazione.

La dottrina cattolica rivendica all'uomo, essere sociale, il diritto d'associarsi, e nega allo Stato (si veda Leone XIII nella « Re­rum Novarum ») il potere d'impedire la libertà d'associazione. Anzi, quando le circostanze dimostrano che i membri d'una data categoria sociale non possono efficacemente difendere i propri legittimi interessi se non unendosi, essa afferma che il far parte delle associazioni professionali è un dovere. Ciò specialmente, poi, quando, altrimenti, tali associazioni sarebbero create e governate dai nemici della religione e di una società ben ordinata.

Al diritto di associazione si unisce quello di auto-organizzarsi e di auto-governarsi.

 

Dai sindacati alle confederazioni.

Nel mondo moderno, occidentale, i membri della maggior parte delle categorie operaie si sono riuniti in sindacati; così anche, in genere, salvo diversità di nomi, i dirigenti d'azienda e gl'imprenditori. Dall'unione di più sindacati vengono le federa­zioni, e da quelle di più federazioni le confederazioni.

Queste, nelle diverse nazioni, sono una o più a seconda le leggi, gli orientamenti economici, gli indirizzi politici.

 

L'azione sindacale.

Nelle mete e nei metodi d'azione che i sindacati si prefiggo­no e rivendicano, ci sono molte cose che meritano d'essere considerate al lume della religione.

a) Bontà dei sindacati. Avendo già affermato che il costituire un sindacato è un diritto e, in certe circostanze, è un dove­re, s'è già detto, implicitamente, che l'organizzazione sindacale è, in sé, buona.

Quando i cattolici possono dar vita ad efficienti organizzazioni dichiaratamente cristiane, è meglio.

Dove le circostanze fanno prudentemente ritenere meglio la creazione di sindacati neutri - a giudizio che dev'esser dato dai Vescovi del luogo - i cattolici possono entrarvi, purché

1) non si richieda ad essi nulla che sia contro la religione e la morale cattolica;

2) non ci sia rischio, frequentando compagni d'altra religione o di nessuna religione, per la fede ed i costumi;

3) siano istituite per i lavoratori cattolici delle organizza­zioni loro proprie, ai fini di curare la loro formazione e di orien­tarli ad agire secondo i princìpi cristiani nel sindacato.

 

Il principio regolatore base: la collaborazione.

Come già è stato detto parlando degli elementi componenti dell'impresa

- ragioni morali,

- ragioni sociali,

- ragioni economiche,

impongono non la lotta ma la collaborazione tra imprenditori, dirigenti, operai. I motivi di convergenza sono superiori a quelli di divergenza: il bene dei lavoratori tutti di un'azienda, come quello della società e di tutta la comunità mondiale impongono che le divergenze siano superate, con mezzi giuridici o, comun­que, leciti e pacifici, con volontà di cooperazione e spirito soli­daristico. Molto può, a tale proposito, l'importante categoria dei dirigenti d'azienda che vanno assumendo qua e là una pre­ziosa funzione, quasi mediatrice tra imprenditori ed operai.

 

Il contratto collettivo.

Il contratto di lavoro dev'essere, evidentemente, conforme a giustizia: esso deve perciò offrire al lavoratore condizioni di lavoro - orario, ambiente, sicurezza, retribuzione - corrispondenti alla sua dignità di persona umana e giuste.

A raggiungere tali scopi è particolarmente adatto il principio - diffuso ormai nelle nazioni più progredite - del contratto col­lettivo. Esso tende a stabilire una disciplina unitaria nella regola dei rapporti di lavoro tra imprenditori ed operai: ciò per otte­nere a questi le migliori condizioni possibili e per evitare dannose concorrenze tra gli stessi operai o tra gli imprenditori.

Il contratto collettivo può essere su scala aziendale, come su scala regionale o nazionale; esso riguarda, in genere, i lavo­ratori di un determinato settore; ma, se è ben fatto, non manca, per un giusto senso di solidarietà generale, di tener d'occhio anche il bene di tutti i lavoratori, anche d'altre categorie, e quello, totale, di tutti i cittadini. Il contratto collettivo va con­siderato come un'ottima conquista del mondo del lavoro.

 

Lo sciopero.

L'astensione collettiva dal lavoro di un numero rilevante di lavoratori, fatta di comune accordo, ai fini di ottenere migliori condizioni di lavoro, è lo sciopero.

Esso viene considerato lecito nell'attuale stadio d'organizzazione della società, ma solo a determinate condizioni:

1) che si tratti di motivi economici e non d'altro genere, ad es. politici, che non hanno a che vedere con le relazioni di lavoro tra imprenditori e dipendenti;

2) che le condizioni del momento siano profondamente mutate rispetto a quelle nelle quali furono liberamente sotto­scritti i patti di lavoro;

3) che non ci siano motivi specialissimi di non astenersi dal lavoro (ad es. il raccolto delle messi, che altrimenti andreb­bero perdute);

4) che non si tratti di categorie di lavoratori la cui asten­sione dal lavoro danneggerebbe gravemente il corpo sociale: ad es. magistrati, carcerieri, agenti di pubblica sicurezza, soldati, ministri, parlamentari, medici condotti, ecc.;

5) che il ricorso allo sciopero sia l'estremo tentativo, dopo aver esperito tutte le possibilità di soluzione discussa e. con­cordata;

6) che lo sciopero non comporti azioni delittuose, come sabotaggi, danni alle cose, violenze alle persone;

7) che chi intende scioperare non violenti la libertà di coloro che non intendono farlo.

In una società sufficientemente bene organizzata lo sciopero dovrebbe essere permesso solo in casi limiti e chiaramente rego­lato dalle leggi. A molti appare ragionevole - data la pro­fonda interdipendenza che nel nostro tempo si ha tra i vari settori della vita sociale - che per numerose categorie esso non venga ammesso, compresi, magari, tutti gli impiegati dello Stato e gli addetti ai servizi pubblici di prima necessità. È anzi augu­rabile che, in una futura, migliore organizzazione della società, la soluzione delle controversie di lavoro non venga affidata allo sciopero, che è sempre un atto di forza, ma a precise e sagge procedure giuridiche, cioè agli strumenti di legge, scaturiti dalla normale attività parlamentare, la cui applicazione può essere causa della più efficace regolazione delle vertenze di natura eco­nomica.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:05
XIII. - PRESENZA DELLO STATO IN CAMPO ECONOMICO

Uno svolgersi ordinato ed armonico della vita economica ap­pare cosa assai complessa, non facile a raggiungersi. Viene spontaneamente il pensiero di un ricorso all'intervento dello Stato, il cui fine è di realizzare il bene comune dei cittadini. Appare subito, naturalmente, che tale importante ed efficace presenza dev'essere di aiuto all'uomo e non deve, al contrario, schiacciar­ne la personalità e distruggerne la libertà.

L'intervento dello Stato.

Negato dal liberalismo classico ed affermato in modo esasperato ed oppressivo dal totalitarismo, in genere, e da quello marxi­sta, in specie, l'intervento dello Stato in campo economico va rivendicato, ma in limiti ben definiti, sempre come integrazione di ciò che le singole persone e le società minori non riescono a realizzare, e come tutela - negli stretti limiti necessari - del bene comune.

Nel mondo moderno tale presenza dello Stato si realizza:

- con le imposizioni tributarie;

- con leggi e disposizioni che investono il settore eco­nomico;

- con un'azione diretta sull'economia nazionale.

 

Le imposizioni tributarie.

Lo Stato rende ai cittadini numerosi servizi - di cui essi raramente si rendono conto - basti pensare alla difesa, alla magistratura, all'ordine pubblico, alla sanità, all'istruzione, al. l'assistenza, ai lavori pubblici d'importanza nazionale, ecc.

Naturalmente tutto ciò costa; e lo Stato provvede a tali spese con l'imposizione dei tributi. Imporre i tributi è dunque indiscutibile diritto dello Stato; pagarli, conseguentemente, in­dispensabile dovere dei cittadini.

Emerge subito la necessità che l'imposizione dei tributi sia fatta secondo giustizia.

Su tale difficilissimo campo, non si possono qui affermare che. alcuni principi generali. E precisamente:

a) i cittadini che hanno solo il sufficiente ad una vita ap­pena dignitosa, devono essere esentati dalle imposte;

b) il reddito minimo imponibile dev'essere conveniente­mente aumentato se il cittadino ha oneri familiari;

c) i generi di prima necessità e di largo consumo dovreb­bero essere esenti da imposte o, eventualmente, colpiti da im­poste di minime entità; queste dovrebbero, invece, crescere man mano che i generi diventano di lusso;

d) è equo che chi ha maggiori redditi contribuisca mag­giormente ai bisogni della comunità; lo Stato deve, perciò, gra­vare di imposte tanto più alte quanto maggiori sono i redditi, e ciò in proporzione sempre crescente. Tale sistema raggiunge an­che il beneficio di una equa redistribuzione della ricchezza e del freno all'accentuarsi esagerato delle distanze sociali;

e) le imposte vanno dosate in modo da non compromet­tere, o addirittura rovinare, la vita economica d'una nazione.

 

Azione giuridica in campo economico.

Lo Stato è tenuto ad intervenire con leggi e disposizioni a regolare, con precisione, tanti aspetti della vita associata che han­no solo delle direttive d'ordine generale nel diritto naturale: ad es. fissare le norme che regolano i passaggi d'eredità, le forma­lità dei contratti, gli eventuali limiti qualitativi e quantitativi della proprietà. A tale proposito valgono alcuni princìpi generali:

- garantire la normalità della vita economica con leggi, per quanto possibile, non esageratamente numerose, ma preci­se, chiare;

- facilitare l'attività economica;

- affiancare la ripartizione della ricchezza con speciali facilitazioni e provvidenze a favore dei meno abbienti;

- mirare a che le leggi non inceppino, ma, al contrario aiutino, la libera iniziativa e il senso della responsabilità; contribuire all'efficienza produttiva dell'intero sistema economico.

 

Azione diretta sull'economia.

Non si può negare che si presentino casi nei quali il bene comune esige l'intervento diretto dello Stato in campo economico. Ben lungi dai due inaccettabili estremismi del liberismo e dello statalismo, la dottrina sociale della Chiesa contempera mirabil­mente i diritti dell'individuo con le esigenze della solidarietà. I presupposti basilari dell'azione diretta dello Stato sulla economia sono i seguenti

a) l'esigenza del bene comune dei cittadini;

b) una presenza con chiaro carattere integrativo (lo Stato, cioè, non si sostituisce agli individui e alle società minori, ma li affianca, li aiuta, li supplisce se, quando e finché essi dimostrano delle deficienze);

c) una visione realistica delle necessità e possibilità dei diversi momenti storici (che può richiedere un maggiore o un minore intervento statale);

d) la limitazione nel tempo degli interventi statali diretti sulla vita economica;

e) la mira a una difesa della proprietà che renda insieme possibile, anzi facile, l'accesso di tutti i meritevoli alla pro­prietà;

f) la promozione del maggior reddito nazionale e, parti­colarmente, del « pieno impiego - il superamento, cioè, del triste fenomeno della disoccupazione -;

g) la preparazione tecnico-professionale dei lavoratori;

h) una sufficiente, basilare almeno, stabilità monetaria;

i) una graduale espansione della vita economica con una apertura, insieme prudente e coraggiosa, verso forme di coope­razione economica internazionale e mondiale.

 


Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:07
PARTE QUARTA

L'UOMO NELLA COMUNITA' POLITICA

XIV. - LO STATO

Dopo aver considerato la persona umana e la società in ge­nerale, la società familiare in particolare, la vita economica e professionale, bisogna considerare l'uomo nella comunità politi­ca. Tale studio - che completa questa breve esposizione della dottrina sociale cristiana - considererà successivamente i se­guenti arghmenti: lo Stato, l'Autorità politica, la libertà, lo Stato democratico, i diritti e i doveri dei cittadini, la Comunità mondiale, la Chiesa e gli Stati. Argomenti, com'è chiaro, tutti di grande importanza e di palpitante attualità.

Origine dello Stato.

E’ un fatto che l'umanità, per quanto storicamente la cono­sciamo, è sempre stata politicamente organizzata, pur manife­standosi successivamente tali organizzazioni diverse nella loro estensione, nelle loro strutture, nella loro azione.

La società politicamente organizzata è lo Stato.

Sull'origine dello Stato non possono essere accettate né la teoria contrattualistica né quella assolutistica.

a) La prima afferma che lo Stato nasce dalla libera volontà degli uomini per un patto arbitrario. Una volta ammessa una tale dottrina, non si sa come si possa vietare agli uomini di cam­biare continuamente un tale patto o addirittura di abolirlo.

È ben facile cadere nell'anarchia.

b) La dottrina assolutistica mette in rilievo la necessità del l'ordine sociale in modo tale da affermare la dittatura: un tempo di un monarca, oggi dello Stata (rappresentato da un uomo o da un gruppo di uomini). Ma essa è viziata da un duplice errore:

- fa dello Stato, e di chi lo rappresenta, un « assoluto », la fonte stessa del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto;

- sacrifica allo Stato la persona umana.

Bisogna, tuttavia, giustamente distinguere il « totalitarismo » moderno (che può essere la peggiore forma della oligarchia), dall'« assolutismo monarchico » tanto frequente nei secoli passati e ohe, come esperienza storica, non è tutto condan­nabile.

Distinguendosi bene da entrambi gli errori la dottrina cat­tolica sostiene che l'origine dello Stato va ritrovata nella stessa natura sociale dell'uomo, per le ragioni già esposte nel cap. II.

Lo Stato non è, quindi, il risultato di un contratto arbitrario. bensì è voluto dalla natura dell'uomo. Da qui la sua stabilità, quali che siano le forme del suo ordinamento. Poiché, d'altra parte, la natura ha le leggi che le ha dato il "Creatore, uno Stato che - come deve - le riconosca e le rispetti non cadrà mai nell'assolutismo.

 

Fine, poteri, limiti dello Stato.

a) Il fine dello Stato è di promuovere e tutelare il bene co­mune, ciò che porterà, in genere, tutti i cittadini a più elevate condizioni di vita, in ogni senso.

Il bene comune è in riferimento all'uomo, a suo servizio, per lo sviluppo e l'affermazione della sua personalità - con particolare riguardo ai suoi elementi spirituali e allo stesso rag­giungimento del suo eterno destino -. Questo primato della per­sona umana nella società è già stato dimostrato; meritava però - tanta è la sua importanza - d'essere qui ricordato.

b) Per poter realizzare il suo fine lo Stato non può non avere dei diritti, che affermerà e rivendicherà coi suoi poteri; ad essi corrispondono i doveri dei cittadini, i quali, peraltro, hanno, ri­guardo allo Stato, anche un complesso di diritti (si vedano i capp. XV e XVIII).

c) I poteri dello Stato hanno i limiti nella legge di Dio - cui tutto è sottoposto - e per fine, quel bene comune che - per dirla con la « Rerum Novarum » - « non è solo la legge su­prema, ma è l'unica e totale ragione della pubblica autorità ».

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:10
XV. - L'AUTORITA' POLITICA

Elemento principalissimo dello Stato è l'Autorità. È per l'azione di essa che lo Stato può realizzare i suoi fini. È anche facile - come storicamente è tante volte avvenuto - che l'autorità sia tirannica o inetta, pecchi cioè, per dirla con Dante, "o per troppo o per manco di vigore". Appare perciò partico­larmente importante conoscere il pensiero cristiano intorno al­l'autorità politica, sulla quale, del resto, i Farisei già interro­garono precisamente, quasi venti secoli or sono, lo stesso Gesù.

Origine dell'Autorità.

Una società ordinata, efficiente, durevole, non si può avere se tra gli uomini, che si sono uniti per realizzare, con mezzi proporzionati, un fine, non c'è una autorità.

È precisamente l'autorità che riesce ad unire individui che, perché tali, hanno continuamente, su cento problemi, diversità di vedute.

Ciò è tanto più importante trattandosi della autorità della società politica. Essenziale alla società, l'autorità viene da Dio, come da Dio, autore della natura, viene la società.

Essa, proprio perché viene da Dio, può, benché imperso­nata in uomini

a) avere potere su altri uomini;

b) fare appello alla loro coscienza, per l'obbligo che tutti i cittadini hanno di cooperare al bene comune;

c) attingere, in molti casi, dalla stessa coscienza, ciò che è proprio di Dio. Perciò - dice Leone XIII nell'Enc. « Diutur­reum » -, « quelli che esercitano tale potestà è necessario che la esercitino come loro comunicata da Dio ».

 

Soggetto dell'autorità politica.

L'autorità è nell'essenza della società, e questa viene, come s'è visto, dalla natura sociale dell'uomo. Si può quindi affermare col pensatore gesuita Suarez che l'autorità proviene, sì, da Dio, ma risiede nel popolo, il quale poi, nei diversi luoghi, nei diversi tempi e con diverse forme, la conferisce. « Soggetto originario del potere civile, derivante da Dio, è il popolo » ha affermato Pio XII. È ad esso, particolarmente negli Stati democratici mo­derni, che tocca eleggere, direttamente o indirettamente, le auto­rità che lo governeranno; nelle repubbliche, poi, è il popolo che elegge, direttamente o indirettamente, lo stesso Capo dello Stato.

 

Fine, limiti, poteri dell'Autorità.

Sono gli stessi fini, limiti e poteri dello Stato, di cui s'è parlato nel cap. precedente.

Va particolarmente considerato il caso di una legge, ema­nata dalla legittima autorità, che sia evidentemente contraria al diritto naturale o, per i cristiani, al diritto positivo divino.

Premesso che un tale caso, in pratica, è assai raro e che, finché non è evidente il contrario, si deve sempre presumere lecito e doveroso quanto è comandato dalle leggi, va nettamente affermato che, nell'eventuale urto tra la legge di Dio e la legge degli uomini, deve necessariamente prevalere la legge divina. « Dobbiamo obbedire piuttosto a Dio che agli uomini » dissero un giorno gli apostoli ai sinedristi; e Leone XIII dice che gli uomini devono rifiutarsi di obbedire « quando si comandano cose che violano la legge di natura e la volontà di Dio », perché in tal caso « è ugualmente iniquità tanto il comandarle quanto l'eseguirle » (Encicl. « Diuturnum »).

L'autorità, infine, si noti, deve esercitare il suo potere a vantaggio non di singoli o di gruppi, bensì di tutta la collettività; essa deve inoltre comandare, a esseri ragionevoli, ragionevol­mente, e cioè - come dice la stessa Enciclica - « prendendo esempio da Dio, da cui l'autorità proviene... e presiedendo al popolo con equità, fede ed unendo, alla paterna severità neces­saria, la carità ».

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:11
XVI. - LA LIBERTA'

Dio ha creato l'anima dell'uomo libera, cioè autonoma nella scelta dei mezzi per l'attuazione del bene: Uomo libero, in questo senso, equivale ad uomo responsabile delle sue azioni, tanto davanti. agli altri uomini quanto davanti a Dio.

Il libero arbitrio.

La volontà dell'uomo è libera, è, cioè, padrona dei propri atti, che compie senza essere costretta a compierli da alcuna forza fisica necessitante.

Che l'uomo sia libero è dogma della fede cattolica, definito dal Concilio di Trento; è anche verità dimostrata sicuramente dalla ragione. Basti qui accennare:

a) alla testimonianza della coscienza;

b) alla convinzione universale;

c) al fatto del rimorso, che l'uomo sente quando ha com­messo, appunto liberamente, il male; d) all'impossibilità di distinguere il bene dal male, il santo dal delinquente e, conseguentemente, di costruire una vita morale, se non ci fosse la libertà e, quindi, la responsabilità;

e) al fatto che, conoscendo l'uomo l'Infinito, nessuna cosa limitata può muovere, di necessità, il suo volere.

 

La regola della libertà.

L'essere padrone dei propri atti non comporta che l'uomo possa fare, senza alcuna legge, ciò che vuole. Importa invece ch'egli è responsabile delle proprie azioni e deve compiere so­lamente quelle che s'accordano con la sua caratteristica fonda­mentale di essere razionale. La ragione, infatti, gli rivela - e ne è immediata, evidentissima voce, la coscienza - che Dio ha stabilito una legge, con dei comandi e delle proibizioni, e che tale legge va rispettata. L'uomo ha sì, dunque, il potere di fare ciò che vuole, ma non gli è lecito ciò che è contrario alla legge morale.

 

Libertà e autorità.

Libertà ed autorità sono i termini del rapporto che regola, fondamentalmente, tutta la vita dell'uomo. Egli ha necessità di comporre insieme, dentro di sé, in armonia, l'una e l'altra, la li­bertà propria e l'autorità di Dio; lo stesso si dica nella vita familiare, professionale e politica, per la libertà d'ogni persona e l'autorità, rispettivamente, dei genitori, dei capi, dei governanti.

Fuori del pensiero cristiano è quasi impossibile giungere ad una ragionevole e convincente armonizzazione; ciò, invece, si tatua in pieno nella luce della retta ragione e della fede. Per esse la libertà umana è diritto solo nel binario della legge divina; l'autorità, d'altra parte, viene da Dio e non può contraddire alla sua legge: è nella legge divina che la libertà e l'autorità di questa terra s'incontrano e si accordano. Nel rispetto della legge, poi, libertà ed autorità, come la Rivelazione ci insegna, si per­fezionano; e Gesù, Salvatore, è essenzialmente colui che, redimendoci dal male, ci dona la vera libertà dei figli di Dio.

Anche sul piano politico il Cristianesimo raggiunge il per­fetto superamento del dissidio: perché « non c'è autorità se non da Dio» e « obbedire a Dio è regnare ».

 

Libertà e autorità nella storia.

Nel mondo antico solo in rari casi veniva riconosciuto, qua e là, ai singoli uomini un qualche inviolabile diritto, più, però, come membri dell'organizzazione sociale (e ad essa pienamente soggetti) che come persone umane. Il Cristianesimo portò al mon­do un nuovo concetto dell'uomo, della sua libertà e dei suoi di­ritti (anche dei barbari, delle donne, dei fanciulli, degli schiavi), validi pure di fronte allo Stato.

Il concetto cristiano di libertà s'è largamente affermato nel­la storia; esso non ha distrutto l'autorità, ma ne ha precisato mirabilmente i motivi, la natura e i confini, creando tra le due necessarie esigenze una mirabile e feconda armonia.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:12
XVII. - LO STATO DEMOCRATICO

Poche parole sono così attuali come questa: Democrazia. Ma poche altre sono così incomprese, malintese, piegate da ciascu­no a significare e difendere le proprie ideologie e gli interessi propri e del proprio gruppo politico. Democrazia non cessa, cio­nonostante, di essere una bellissima parola, di un altissimo con­tenuto, che va inteso, rispettato, praticato.

Pluralità di forme statali.

Nella storia, come anche al tempo d'oggi, si sono date e si danno numerose forme d'organizzazione e reggimento degli Stati. E purché esse non violino i diritti naturali e cerchino di realizzare il fine della società, il bene comune, hanno pieno diritto di cittadinanza, salvo la libertà, per i singoli cittadini, di avere, ciascuno, le proprie preferenze. Pio XII riporta e fa sua, a tal proposito, la frase di Leone XII nell'Euciclica. « Libertas » : « La Chiesa non riprova nessuna delle varie forme di governo, purché adatte per sé a procurare il bene dei cittadini ». Quando però un popolo ha raggiunto un dato grado di maturità - se pur non facilmente valutabile -, è più consono, evidentemente, al­l'umana dignità e al senso del progresso ch'esso si governi con sistema democratico. È certo, comunque, che nella vita sociale l'uomo, come tale, lungi dall'esserne l'oggetto e un elemento passivo, ne è invece, e deve esserne e rimanerne, il soggetto, il fondomento, il fine » (Pio XII, Radiomessaggio Natale 1944).

 

Elementi essenziali dello Stato democratico.

Lo Stato democratico - che qua e là, a seconda dei tempi, costumi e aspirazioni dei vari popoli, ha aspetti diversi - è caratterizzato da alcuni elementi essenziali, che possono ridursi ai seguenti

a) il riconoscimento ai cittadini dei diritti politici, ciò che permette loro di partecipare attivamente, anche se indirettamen­te, all'esercizio dei poteri statali;

b) la tutela dei diritti naturali dei cittadini;

c) la distinzione dei tre « poteri », il legislativo (Parla­mento), l'esecutivo (Governo), il giudiziario (Magistratura), pur convenientemente coordinati ed armonizzati tra loro;

d) il metodo democratico, che respinge le soluzioni di forza ed afferma il sistema delle libere discussioni e delle libere vo­tazioni, con il diritto alla maggioranza di governare e, alla mino­ranza, quello di controllare, criticare e cercare, con mezzi leciti, di divenire maggioranza a sua volta.

Va notato che il criterio della maggioranza non può appli­carsi agli imperativi della legge morale, ma solo alle cose opi­nabili; si aggiunga che esso obbliga ad un rispetto esteriore, ma non ad aderire in coscienza ad una tesi che non si condivide.

 

Democrazia e Cristianesimo.

Tra democrazia e Cristianesimo non solo non v'è contrasto. ma, a bene approfondire le cose, profonda convergenza. Infatti:

a) la democrazia vuole la partecipazione dei cittadini alla vita della nazione; ciò è in perfetta corrispondenza con quanto il Cristianesimo proclama intorno alla dignità dell'uomo, in genere, e di ogni uomo, in particolare;

b) la democrazia è una forma di organizzazione politica essenzialmente pluralistica, che ammette, cioè, vari soggetti di diritto: gli individui, le famiglie, società diverse. Pluralistica è anche, come tutti sanno - e perciò aliena da ogni dittatura e da ogni forma di statalismo - la concezione sociale cristiana;

c) la democrazia non può durare, né, tanto meno, prospe­rare, dove non c'è maturità intellettuale e saggezza morale. Il Cristianesimo, con le sue verità e le sue norme di vita superiori può essere considerato base, anima e coronamento della vita po­litica democratica. « Se l'avvenire apparterrà alla democrazia - dice Pio XII nel citato Radiomessaggio del Natale 1944 - una parte essenziale del suo compimento dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa »;

d) di fatto la Chiesa guarda all'autentica democrazia con chiara simpatia; « al tempo nostro la forma democratica di go­verno apparisce a molti come un postulato naturale - dice, sen­za avanzare alcuna riserva, Pio X11 -, imposto dalla stessa ra­gione » (ivi).

 

Estensione dello democrazia.

La democrazia deve essere considerata e realizzata nel senso più vasto: deve perciò estendersi dal campo politico a quello so­ciale, culturale, economico, ecc. Essa deve tendere, tra l'altro:

a) a diffondere tra tutti i cittadini il grande bene della cul­tura, dando a tutti i capaci e volenterosi le possibilità d'ascesa ai più alti studi;

b) a realizzare un diffuso benessere in ogni categoria so­ciale, superando, anzitutto, con un'azione energica, il triste fe­nomeno della miseria;

c) ad estendere, per quanto possibile, ad ogni famiglia la proprietà privata, garanzia di sicurezza, base di libertà, segno di dignità;

d) a formare i cittadini al senso sociale, allo spirito di tolleranza, all'esigenza della collaborazione, alla coscienza della responsabilità, all'attivismo della intraprendenza, ad un costume di vita profondamente retto.

 

Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:13
XVIII. - DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

Non c'è, quasi, cittadino, uomo o donna, che non si interessi oggi - ma discutendo le notizie lette sul giornale o ascol­tate alla radio - dei problemi della sua nazione e del mondo. Molto bene. Il male comincia però quando - ed è costume, pur­troppo, - assai diffuso - il cittadino si contenta di fare, intorno ai problemi sociali, le sue « chiacchiere », senza intervenire, poi, in alcun modo, a collaborare al bene della società. Spesso non conosce nemmeno i suoi diritti o, comunque, trascura di esercitarli, magari perché gli costano qualche scomodità; non si parli, poi, di doveri. È evideatte quanto questo modo d'agire sia irragione­vole, ingiustificabile, dannoso.

Diritti e doveri.

È diffusa oggi la convinzione, in molti, d'avere solo dei diritti - rispetto agli altri e rispetto allo Stato - e non dei doveri. Un tal modo di pensare e d'agire è evidentemente irragionevole e rovinoso, frutto d'egoismo e di prepotenza, nonché di cortezza di vedute: perché la riflessione dimostra (e la storia l'ha sempre provato) che, a lungo andare, il rivendicare solo i diritti, senza riconoscere e praticare i doveri, conduce gli uomini e i popoli alla rovina.

Il cittadino, perciò - come l'uomo - deve, insieme, cono­scere diritti e doveri, e rivendicare i primi, mentre adempie i secondi.

 

I diritti.

I diritti d'un cittadino sono anzitutto quelli che gli vengo­no, perché uomo, dal diritto naturale; essi sono fondamentali, irrinunziabili, inviolabili, base di tutti gli altri diritti, e devono, esplicitamente o implicitamente, essergli riconosciuti dallo Stato. Ciò premesso, ecco i fondamentali diritti del cittadino.

a) Diritti civili. Essi affermano, chiariscono, sviluppano, quelli naturali. Fra i principali diritti civili vanno ricordati i seguenti: libertà di coscienza, di culto, di manifestazione del pensiero, di scelta dello stato e della professione, di movimento; diritto di proprietà, di scelta del domicilio, di segreto epistolare; diritto alla difesa attiva, nei termini consentiti dalla legge, di sé e dei propri diritti.

Come i diritti umani sono limitati, perché sottoposti alla leg­ge morale, così i diritti civili, riconosciuti dallo Stato, sono limi­tati dal dovere di rispettare e promuovere il bene comune, non­ohé dall'esistenza dei correlativi diritti degli altri cittadini.

b) Diritti politici. Sono i diritti che conferiscono al cittadi­no la facoltà di prendere parte all'amministrazione del proprio Paese, e, conseguentemente, alla vita pubblica, da quella del co­mune a quella della nazione e a quella internazionale.

Il principale diritto politico è il voto, attivo (eleggere) e pas­sivo (essere eletto), libero e segreto. Si aggiungano quelli di poter fondare partiti politici, iscriversi e militare in essi, nonché di svolgere attività critica ed anche opposizione al governo, nei li­miti e nei modi consentiti dal diritto naturale e dalla legge.

c) Diritti di difesa. Sono i diritti - provenienti dalla legge naturale come dalla legge dello Stato - che danno al cittadino la facoltà di resistere al male, passivamente o attivamente, di ricorrere a determinate autorità contro ogni forma d'ingiustizia, di applicarsi per una migliore organizzazione della società.

Va qui ricordato che le leggi si presumono sufficientemente giuste ed il cittadino è tenuto ad osservarle; in caso, però, di legge evidentemente ingiusta, il cittadino non ha tale obbligo, anzi, in determinati casi, ha il dovere di non ubbidire.

 

I doveri.

Ai diritti corrispondono, come s'è osservato, i doveri. Ecco quelli fondamentali, che comprendono tutti gli altri.

a) Obbedire alle giuste leggi della comunità sociale. Ciò per le ragioni e nei limiti già detti.

b) Partecipare alla vita della comunità politica. La realizza­zione del bene comune deve essere raggiunta con la coopera­zione, in qualche modo, di tutti. Ciò, a più forte ragione, in uno Stato democratico. La principale forma di partecipazione alla vita politica è l'esercizio del diritto di voto (elezioni sindacali, amministrative, politiche). Ciò è sempre un dovere; esso è grave e può essere gravissimo in circostanze particolarmente impe­gnative - come sono, certo, le attuali condizioni in cui si svolge la vita politica italiana -.

A tale proposito occorre

1) impedire che si facciano brogli nelle compilazioni del­le liste elettorali nonché nelle operazioni di voto e di scrutinio;

2) zelare l'iscrizione propria e. dei familiari aventi diritto al voto; prestarsi a fungere da membri dei seggi;

3) cooperare - nei giorni di elezione - affinché nessuna violenza, fisica o morale, tolga la libertà e la segretezza del voto;

4) recarsi a votare ed invitare gli altri ad adempiere a così alto dovere civico;

5) votare secondo coscienza, e cioè dare il voto a liste e ad uomini che diano sicuro affidamento di voler realizzare il vero bene, materiale e spirituale, della comunità (categoria professio­nale, comune, nazione), nella luce dei princìpi sociali cristiani.

c) Corrispondere i tributi, data la necessità, per lo Stato, di imporli (cfr. cap. XIII).

La possibilità che le imposte siano mal distribuite o esage­rate non annulla la realtà fondamentale ch'esse sono necessarie è che, perciò, devono essere pagate; se poi fondati motivi convin­cono, in particolari casi, di una loro ingiustizia, la coscienza e il consiglio dei pastori di anime - maestri qualificati della vita morale -. dirà come regolarsi.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:14
[SM=g1740758]  XIX. - LA COMUNITA' MONDIALE

Oggi è divenuto di moda dire: « Il mondo è piccolo ». La verità si è che sulla terra - sempre tanto, tanto grande - i pro­gressi della tecnica moderna rendono assai facili gli incontri, le conoscenze, gli scambi, le vicendevoli influenze. Di fronte alla marcia della tecnica sembra che le barriere cadono. Essa, a dir vero, aiuta a superarle; tale suparamento però è cosa eminen­temente spirituale dev'essere il frutto del pensiero e della volontà: il pensiero, che dimostra gli uomini fratelli; la volontà che li spinge ad amarsi.

Dall'individuo alla comunità mondiale.

La concezione sociale cristiana - come s'è visto - è essenzialmente pluralistica, riconosce, cioè, diversi soggetti della vita associata: le singole persone, le famiglie, le diverse associazioni, gli Stati.

Essa però, logicamente, non si ferma allo Stato, ma afferma l'esistenza della società internazionale e, infine, della comunità mondiale.

Questa non .toglie i possibili rapporti speciali tra gruppi di nazioni; questi, a loro volta, non distruggono i singoli Stati, co­me questi non annullano le società minori, le famiglie, gli indi­vidui. Tutto dev'essere riconosciuto; tutto deve anche, però, es­sere armonizzato.

Dall'individuo alla comunità mondiale è tutta una mirabile ascesa, un meraviglioso insieme di rapporti, di diritti e di doveri, una feconda apertura a sempre più vasti orizzonti, con la mèta finale d'una organizzazione giuridica comprendente tutte le na­zioni e d'una reale fraternità di tutti gli uomini della terra.

 

La famiglia umana.

Come la famiglia non impedisce di amare la Patria, così l'amore di questa non deve impedire di vedere, comprendere, amare le altre nazioni, l'intera umanità.

Lingua, situazioni geografiche, costumi, tradizioni, sono, cer­to, realtà che differenziano i popoli e, per certi aspetti, li tengono lontani. Tutto ciò, però, non rappresenta un ostacolo insu­perabile all'idea dell'umana fraternità.

a) Lo dimostra la storia, che tante volte ha visto legarsi durevolmente Stati e popoli che, magari, s'erano per secoli com­battuti;

b) lo afferma il Cristianesimo, che proclama gli uomini tutti ugualmente figli di Dio, fratelli tra loro, chiamati ad essere membri dello stesso « Corpo Mistico di Cristo », obbligati a vi­vere tra loro osservando la legge dell'amore;

c) lo conferma la stessa natura, dimostrando che gli uo­mini hanno la stessa origine e lo stesso fine, che formano una sola famiglia umana, che sono organizzati in popoli che, tutti uniti, formano la « naturale società delle genti »;

d) lo impongono l'interesse comune, il progresso tecnico, la diffusione della cultura e dell'arte, la necessità d'una dure­vole pace, le esigenze della giustizia.

 

Società internazionale e comunità mondiale.

Le nazioni debbono, per le ragioni suddette, conoscersi, av­vicinarsi, accordarsi tra loro. È ciò che a poco a poco sta avve­nendo; occorre che, in un un tempo relativamente breve, " gli accordi tra nazioni o gruppi di nazioni conducano ad un'organizzazione giuridica di tutta la comunità mondiale delle nazioni. Al principio di ogni accordo devono stare la verità cristiana della fraternità e l'imperativo cristiano dell'amore; alla base, poi, deve stare la regola: « occorre esser fedeli ai patti » (Fatta sunt servavula).

La teoria che dà allo Stato un potere assoluto e supremo dev'essere scartata; occorre affermare l'esistenza anche del di­ritto naturale delle genti e, conseguentemente, del dovere di rispettarlo e di ispirarsi ad esso nello stipulare i trattati interna­zionali e nel metterli in pratica.

 

Le principali norme dell'ordine internazionale.

Esse - ripetutamente proclamate dai Papi degli ultimi tem­pi - possono ridursi schematicamente alle seguenti:

1) diritto di ogni nazione, grande o piccola, debole o potente, all'esistenza;

2) diritto dei diversi gruppi etnici incorporati ad uno Stato al rispetto delle loro speciali caratteristiche;

3) possibilità per ogni nazione di partecipare ai beni della terra e particolarmente di accedere alle materie prime;

4) diritto e dovere di dirimere le eventuali controversie sempre « colla forza del diritto » e mai « col diritto della forza »;

5) esistenza di istituzioni internazionali atte a dirimere le possibili controversie;

6) istituzione dell'arbitrato obbligatorio con collegate for­ze di sufficiente polizia internazionale;

7) libertà dei mari e progressiva liberalizzazione dell'economia;

8) equa composizione delle diversità di vedute riguardo all'integrità territoriale, ai diritti politici ed economici, ecc.

9) disarmo materiale - se pur realizzato gradualmente e con effettive garanzie;

10) disarmo morale, che superi gli odi, i desideri di vendetta e di rivalsa, le inimicizie tra i popoli.

Assai importanti - benché cose non perfette - sono la creazione, in questi ultimi anni, dell'Organizzazione delle Na­zioni Unite (O.N.U.), della Conuutità Europea Carbone Acciaio del Mercato Comune Europeo e dell'Euratom, nonché l'approvazione (10 dicembre 1945) della Dichiarazione Uni­versale dei diritti dell'uomo.

 

La religione cattolica.

Come ripetutamente ha messo in rilievo il Papa Pio XII, a nel campo di un nuovo ordinamento (internazionale) fondato sui principi morali non v'è posto per la persecuzione della religione e della Chiesa. È proprio, invece, dall'influenza che la religione - in modo tutto particolare il Cristianesimo cattolico - potrà avere sulla società e sugli ordinamenti internazionali che dipenderà in gran parte una pace giusta e durevole e la costruzione di una autentica civiltà.

 
Caterina63
00giovedì 4 luglio 2013 22:15
XX. - LA CHIESA E GLI STATI

Al termine di questo studio sulla dottrina sociale cristiana, dopo aver considerato tutte le organizzazioni sociali - fino alla comunità mondiale delle nazioni -, è necessario fissare l'atten­zione sulla grande società umano-divina, naturale-soprannaturale, che è la Chiesa di Gesù Cristo. Essa ha con l'individuo come con gli Stati e con la comunità dei popoli. intimissimi rapporti; essa può avere sopra di essi un'influeniza benefica assolutamente eccezionale.

Chiesa e Stato.

Sia la Chiesa che lo Stato vengono da Dio; il secondo, attra­verso la natura umana, da Lui creata intrinsecamente sociale; la prima, perché fondata da Cristo Uomo-Dio.

La natura delle due società, i loro fini, i mezzi per raggiun­gerli sono assai diversi e rivolti

- per gli Stati, a realizzare il bene comune degli uomini in terra;

- per la Chiesa, a realizzare quaggiù il Regno di Dio e, conseguentemente, condurre a salvezza eterna le anime.

La Chiesa riconosce lo Stato, nel suo ordine, come società perfetta, libera, sovrana, concretamente affermando l'evangelico « Cesare quel che è di Cesare »; essa esige però - e non - fare altrimenti - che lo Stato la riconosca ugualmente, nel suo ordine, società perfetta, libera e sovrana, mettendo in pra­tica l'evangelico « Date a Dio quel che è di Dio ».

« La Chiesa - come dice Leone XIII (Encicl. "Immortale Dei.") -, a causa del fine cui mira e dei mezzi che adopera per conseguirlo, ha carattere soprannaturale e spirituale, e perciò va distinta ed è diversa dalla società civile e, quel ch'è più, è società nel suo genere giuridicamente perfetta, avendo in sé e per se stessa, per volontà e grazia del suo fondatore, tutto ciò ch'è necessario al suo essere e al suo operare ». In conseguenza, tutte le volte che gli Stati non hanno voluto riconoscere alla Chiesa tali caratteri e ne hanno negate o insidiate l'indipenden­za e la libertà d'azione, la Chiesa stessa ha vigorosamente e net­tamente riaffermato i diritti che le derivano dalla sua origine e natura.

 

Necessaria e benefica collaborazione.

Lo Stato, nella presente situazione storica delle nazioni cri­stiane, non può non avere con la Chiesa dei rapporti.

Questi non possono essere, evidentemente, di persecuzione o di assorbimento; essi devono, invece, essere di collaborazione. Ciò perché:

a) la società - che è formata da credenti e che ha origine da Dio - non può non riconoscere l'istituzione voluta da Dio per il bene delle anime;

b) Chiesa e Stato presiedono, se pur sotto diversi aspetti e in diversi modi, agli stessi individui, fedeli per l'una, citta­dini per l'altro;

c) vi sono molte materie di dominio misto, nelle quali en­trano sia la Chiesa che lo Stato (ad es. matrimonio, famiglia, educazione): occorre perciò un loro accordo. A questo nei tem­pi nostri si giunge, ordinariamente, coi Concordati. I rapporti tra Chiesa e Stato in Italia - come conferma l'articolo 7 della Costituzione - sono regolati dai Fatti Lateranensi (11 febbraio 1929).

Dal comune riconoscimento, dall'armoniosa convivenza e dal­la sincera collaborazione tra la Chiesa e lo Stato vengono certamente, ad entrambi, grandi benefici. Nel caso comunque - che non dovrebbe esserci, ma che certo è possibile - di un qualche insuperabile contrasto tra le direttive della Chiesa e quelle dello Stato, dev'essere applicata la norma già espressa dagli apostoli dinanzi alle ingiuste proibizioni del Sinedrio: « Bisogna obbe­dire piuttosto a Dio che agli uomini ». Il fine della Chiesa è, infatti, superiore a quello dello Stato; questo, d'altra parte, do­vendo realizzare il bene comune, non può non tener conto delle direttive della Chiesa in campo religioso-morale, dalle quali ri­caverà grandi benefizi.

 

La Chiesa e gli Stati.

Assai importanti sono, infine, i rapporti della Chiesa con la comunità degli Stati, sia considerata come realtà naturale, sia come organizzazione di diritto positivo. S'è già visto come i po­poli, per motivi di cultura, sviluppo, benessere, pace, tendano sempre più ad una organizzazione giuridica dei loro rapporti, anzi ad una vera e propria armonizzazione della propria attività e ad una certa cooperazione ed unione.

Nessuno, quanto i cattolici, può rallegrarsi di tale tendenza dei popoli; nessuna dottrina è atta, quanto quella della Chiesa cattolica, a promuovere la collaborazione e la fraternità dei popoli; nessun messaggio di pace e di sicuro progresso e risuo­nato ai nostri tempi più alto, più disinteressato; più sicuro, più fecondo per un autentico ordine internazionale di quello. espres. so, in numerosi e fondamentali discorsi, dal Sommo Pontefice Pio XII.

La dottrina della Chiesa cattolica e la sua presenza attiva nel campo delle relazioni internazionali hanno recato al mon­do, quando sono state riconosciute o, almeno, non ostacolate, im­mensi benefici; ancora e di gran lunga maggiori il mondo d'oggi - che ne ha tanto bisogno - ne attende.

Particolarmente va messo in rilievo il fatto che il Sommo Pontefice - specialmente dopo la perdita del potere temporale - si trova in una posizione unica al mondo per poter dire una parola non solo superiore, ma anche evidentemente disinteres­sata, nei contrasti tra le nazioni; la mediazione e l'arbitrato del Papa dovrebbero entrare più spesso nella prassi e nel diritto internazionale, sicuri portatori di giustizia, di pace, di fraternità.


  [SM=g1740771]   F I N E

Caterina63
00venerdì 21 novembre 2014 14:58

VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
PER LA IV EDIZIONE DEL FESTIVAL DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
(Verona, 20-23 novembre 2014)

[Multimedia]


 

Carissimi,

un cordiale saluto a tutti voi che partecipate alla quarta edizione del Festival della dottrina sociale della Chiesa che quest'anno ha come tema: "Oltre i luoghi dentro il tempo". Questo titolo mi suggerisce alcune riflessioni.

La prima riguarda l'andare oltre. La situazione di crisi sociale ed economica nella quale ci troviamo può spaventarci, disorientarci o farci pensare che la situazione è così pesante da concludere che noi non possiamo farci niente. La grande tentazione è fermarsi a curare le proprie ferite e trovare in questo una scusa per non sentire il grido dei poveri e la sofferenza di chi ha perso la dignità di portare a casa il pane perché ha perso il lavoro. E quelli che cercano soltanto di curare le proprie ferite, finiscono truccandosi. Questa è la trappola. Il rischio è che l'indifferenza ci renda ciechi, sordi e muti, presenti solo a noi stessi, con lo specchio davanti, per cui tutto avviene nella nostra estraneità. Uomini e donne chiusi in sé stessi. C’era qualcuno così che si chiamava Narciso… Quella strada, no.

Noi siamo chiamati ad andare oltre e rispondere ai bisogni reali. E' urgente abbandonare i luoghi comuni, che sono ritenuti sicuri e garantiti, per liberare le molte energie nascoste o non conosciute che sono presenti e operano molto concretamente. L'etica cristiana non è una dogana alla pluralità di espressioni con le quali si manifesta il bene e la cura del prossimo. Andare oltre vuol dire allargare e non restringere, creare spazi e non limitarsi al loro controllo. Sarebbe bellissimo se i molteplici rivoli del bene andassero a creare un fiume grande la cui acqua vince l'aridità e porta nuova fecondità, facendo risplendere e rendere bella e amabile questa vita e questo tempo. Andare oltre significa liberare il bene e goderne i frutti.

Per andare oltre è necessario prendere l'iniziativa. So che al Festival è dedicato un ampio spazio all'economia, agli imprenditori, alle imprese e alla cooperazione. Oggi anche in ambito economico è urgente prendere l'iniziativa, perché il sistema tende ad omologare tutto e il denaro la fa da padrone. Il sistema ti porta a questa globalizzazione non buona che omologa tutto. E il padrone di questa omologazione chi è? E’ il denaro. Prendere l'iniziativa in questi ambiti significa avere il coraggio di non lasciarsi imprigionare dal denaro e dai risultati a breve termine diventandone schiavi. Occorre un modo nuovo di vedere le cose! Vi faccio un esempio.
Oggi si dice che tante cose non si possono fare perché manca il denaro. Eppure il denaro c'è sempre per fare alcune cose e manca per farne altre. Ad esempio il denaro per acquistare armi si trova, per fare le guerre, per operazioni finanziarie senza scrupoli, si trova. Di questo solitamente si tace; si sottolineano molto i soldi che mancano per creare lavoro, per investire in conoscenza, nei talenti, per progettare un nuovo welfare, per salvaguardare l'ambiente. Il vero problema non sono i soldi, ma le persone: non possiamo chiedere ai soldi quello che solo le persone possono fare o creare. I soldi da soli non creano sviluppo, per creare sviluppo occorrono persone che hanno il coraggio di prendere l'iniziativa.

Prendere l'iniziativa significa sviluppare un'impresa capace di innovazione non solo tecnologica; occorre rinnovare anche le relazioni di lavoro sperimentando nuove forme di partecipazione e di responsabilità dei lavoratori, inventando nuove formule di ingresso nel mondo del lavoro, creando un rapporto solidale tra impresa e territorio.
Prendere l'iniziativa significa superare l'assistenzialismo. Vivere questo tempo intensamente porta a scommettere su un futuro diverso e su un diverso modo di risolvere i problemi.
Anche qui vorrei portarvi un esempio. Mi hanno raccontato di un papà che ha un figlio down. Per questo figlio il padre ha fatto tutto ed ha usufruito dei servizi che sono messi a disposizione dagli enti pubblici per l'istruzione, la cura, la vita sociale. Ma non si è accontentato. Per suo figlio voleva pensare qualcosa che gli desse più dignità e più autonomia. Si è inventato una cooperativa costituita da ragazzi down, ha studiato un lavoro adatto a loro, ha fatto una convenzione con un'azienda profit per la vendita dei loro prodotti...; insomma, ha creato le premesse lavorative con le quali suo figlio può costruirsi il suo futuro e la sua sana autonomia. E' un esempio di andare oltre. Fermarsi significa chiedere ancora e sempre allo Stato o a qualche ente di assistenza, muoversi significa creare nuovi processi. E qui è il segreto: creare nuovi processi e non chiedere che ci diano nuovi spazi. Questi nuovi processi non sono il risultato di interventi tecnici, sono i risultati di un amore, che, sollecitato dalle situazioni, non è contento finché non inventa qualcosa e diventa risposta.

Prendere l'iniziativa significa anche considerare l'amore come la vera forza per il cambiamento. Amare il proprio lavoro, essere presenti nelle difficoltà, sentirsi coinvolti e rispondere responsabilmente è attivare quell'amore che ciascuno di noi ha nel cuore, perché lo Spirito ce l'ha donato. Prendere l'iniziativa è la risposta a quel di più che è tipico dell'amore. Se noi stiamo dentro il tempo con questo di più, questo di più dell'amore, avvieremo sicuramente qualcosa di nuovo che favorirà la crescita del bene. Con questa visione della realtà diventa quasi naturale promuovere e sviluppare i talenti. Agevolare l'espressione e la crescita dei talenti è ciò che siamo chiamati a fare e per far ciò è necessario aprire spazi. Non controllare spazi, aprirne. Si tratta di far circolare le capacità, l'intelligenza, le abilità di cui le persone sono state dotate. Liberare i talenti è l'inizio del cambiamento; questa azione fa superare invidie, gelosie, rivalità, contrapposizioni, chiusure, quelle chiusure preconcette, e apre ad una gioia, alla gioia del nuovo. Evidentemente parlando di talenti si sottintende che il discorso riguarda in particolare i giovani. Se vogliamo andare oltre dobbiamo investire decisamente su di loro e dare loro molta fiducia. Ma mi domando: qual è la percentuale di giovani, oggi, disoccupati e senza lavoro? Questo significa andare oltre, o andare indietro?

Per cambiare bisogna andare avanti insieme e nella stessa direzione. Qualcuno potrebbe chiedersi: "Andare oltre, prendere iniziative, liberare spazi, attivarsi non potrebbe creare confusione?". Troviamo la risposta nell'idea di tempo che ci trasmette la Bibbia. Il tempo è grazia e pienezza. Andare oltre i luoghi non è il risultato della casualità individuale ma della condivisione di un fine: la storia è un percorso verso il compimento. Se ci muoviamo come popolo, se andiamo avanti insieme, la nostra esistenza evidenzierà questo significato e questa pienezza. Concludo inviando un saluto di cuore a ciascuno. Colgo l'occasione per ringraziare il Vescovo di Verona che ospita questa bella iniziativa, ed esprimo il mio grazie sincero a Don Vincenzi per aver organizzato anche quest'anno il Festival della dottrina sociale, e auguro di proseguire in questo impegno di formare una nuova coscienza sociale. E per favore vi chiedo di pregare per me. Vi benedico di cuore.

 


Caterina63
00mercoledì 26 novembre 2014 13:33


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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
AI RAPPRESENTATI DELLA CONFEDERAZIONE COOPERATIVE ITALIANE

Aula Paolo VI 
Sabato, 28 febbraio 2015

[Multimedia]


 

Fratelli e sorelle, buongiorno!

Quest’ultima [si riferisce al coro] è stata la “cooperativa” più melodiosa! Complimenti!

Grazie per questo incontro con voi e con la realtà che voi rappresentate, quella della cooperazione. Le cooperative sfidano tutto, sfidano anche la matematica, perché in cooperativa uno più uno fa tre! E in cooperativa, un fallimento è mezzo fallimento. Questo è il bello delle cooperative!

Voi siete innanzitutto la memoria viva di un grande tesoro della Chiesa italiana. Infatti, sappiamo che all’origine del movimento cooperativistico italiano, molte cooperative agricole e di credito, già nell’Ottocento, furono saggiamente fondate e promosse da sacerdoti e da parroci. Tuttora, in diverse diocesi italiane, si ricorre ancora alla cooperazione come rimedio efficace al problema della disoccupazione e alle diverse forme di disagio sociale. Oggi è una regola, non dico normale, abituale… ma tanto spesso si vede: “Tu cerchi lavoro? Vieni, vieni in questa ditta”. 11 ore, 10 ore di lavoro, 600 euro. “Ti piace? No? Vattene a casa”. Che fare in questo mondo che funziona così? Perché c’è la coda, la fila di gente che cerca lavoro: se a te non piace, a quell’altro piacerà. E’ la fame, la fame ci fa accettare quello che ci danno, il lavoro in nero... Io potrei chiedere, per fare un esempio, sul personale domestico: quanti uomini e donne che lavorano nel personale domestico hanno il risparmio sociale per la pensione?

Tutto questo è assai noto. La Chiesa ha sempre riconosciuto, apprezzato e incoraggiato l’esperienza cooperativa. Lo leggiamo nei documenti del Magistero. Ricordiamo il grido lanciato nel 1891, con la Rerum Novarum, da Papa Leone XIII: “tutti proprietari e non tutti proletari”. E vi sono certamente note anche le pagine dell’Enciclica Caritas in Veritate, dove Benedetto XVI si esprime a favore della cooperazione nel credito e nel consumo (cfr nn. 65-66), sottolineando l’importanza dell’economia di comunione e del settorenon profit (cfr n. 41), per affermare che il dio-profitto non è affatto una divinità, ma è solo una bussola e un metro di valutazione dell’attività imprenditoriale. Ci ha spiegato, sempre Papa Benedetto, come il nostro mondo abbia bisogno di un’economia del dono (cfr nn. 34-39), cioè di un’economia capace di dar vita a imprese ispirate al principio della solidarietà e capaci di “creare socialità”. Risuona, quindi, attraverso di voi, l’esclamazione che Leone XIII pronunciò, benedicendo gli inizi del movimento cooperativo cattolico italiano, quando disse che, per fare questo, «il Cristianesimo ha ricchezza di forza meravigliosa» (Enc. Rerum novarum, 15).

Queste, e molte altre affermazioni di riconoscimento e di incoraggiamento rivolte ai cooperatori da parte della Chiesa sono valide e attuali. Penso anche allo straordinario magistero sociale del beato Paolo VI. Tali affermazioni le possiamo confermare e rafforzare. Non è necessario perciò ripeterle o richiamarle per esteso.

Oggi, vorrei che il nostro dialogo non guardi solo al passato, ma si rivolga soprattutto in avanti: alle nuove prospettive, alle nuove responsabilità, alle nuove forme di iniziativa delle imprese cooperative. E’ una vera missione che ci chiede fantasia creativa per trovare forme, metodi, atteggiamenti e strumenti, per combattere la “cultura dello scarto”, quella che oggi viviamo, la “cultura dello scarto” coltivata dai poteri che reggono le politiche economico-finanziarie del mondo globalizzato, dove al centro c’è il dio denaro.

Globalizzare la solidarietà - questo si deve globalizzare, la solidarietà! - oggi significa pensare all’aumento vertiginoso dei disoccupati, alle lacrime incessanti dei poveri, alla necessità di riprendere uno sviluppo che sia un vero progresso integrale della persona che ha bisogno certamente di reddito, ma non soltanto del reddito! Pensiamo ai bisogni della salute, che i sistemi diwelfare tradizionale non riescono più a soddisfare; alle esigenze pressanti della solidarietà, ponendo di nuovo, al centro dell’economia mondiale, la dignità della persona umana, come è stato detto da voi. Come direbbe ancora oggi il Papa Leone XIII: per globalizzare la solidarietà “il Cristianesimo ha ricchezza di forza meravigliosa!”.

Quindi non fermatevi a guardare soltanto quello che avete saputo realizzare. Continuate a perfezionare, a rafforzare e ad aggiornare le buone e solide realtà che avete già costruito. Però abbiate anche il coraggio di uscire da esse, carichi di esperienza e di buoni metodi, per portare la cooperazione sulle nuove frontiere del cambiamento, fino alle periferie esistenziali dove la speranza ha bisogno di emergere e dove, purtroppo, il sistema socio-politico attuale sembra invece fatalmente destinato a soffocare la speranza, a rubare la speranza, incrementando rischi e minacce.

Questo grande balzo in avanti che ci proponiamo di far compiere alla cooperazione, vi darà conferma che tutto quello che già avete fatto non solo è positivo e vitale, ma continua anche ad essere profetico. Per questo dovete continuare a inventare - questa è la parola: inventare - nuove forme di cooperazione, perché anche per le cooperative vale il monito: quando l’albero mette nuovi rami, le radici sono vive e il tronco è forte!

Qui, oggi, voi rappresentate valide esperienze in molteplici settori: dalla valorizzazione dell’agricoltura, alla promozione dell’edilizia di nuove case per chi non ha casa, dalle cooperative sociali fino al credito cooperativo, qui largamente rappresentato, dalla pesca all’industria, alle imprese, alle comunità, al consumo, alla distribuzione e a molti altri tipi di servizio. So bene che questo elenco è incompleto, ma è abbastanza utile per comprendere quanto sia prezioso il metodo cooperativo, che deve andare avanti, creativo. Si è rivelato tale di fronte a molte sfide. E lo sarà ancora! Ogni apprezzamento e ogni incoraggiamento rischiano però di rimanere generici. Voglio offrirvi, invece, alcuni incoraggiamenti concreti.

Il primo è questo: le cooperative devono continuare ad essere il motore che solleva e sviluppa la parte più debole delle nostre comunità locali e della società civile. Di questo non è capace il sentimento. Per questo occorre mettere al primo posto la fondazione di nuove imprese cooperative, insieme allo sviluppo ulteriore di quelle esistenti, in modo da creare soprattutto nuove possibilità di lavoro che oggi non ci sono.

Il pensiero corre innanzitutto ai giovani, perché sappiamo che la disoccupazione giovanile, drammaticamente elevata – pensiamo, in alcuni Paesi d’Europa, il 40, 50 per cento – distrugge in loro la speranza. Ma pensiamo anche alle tante donne che hanno bisogno e volontà di inserirsi nel mondo del lavoro. Non trascuriamo gli adulti che spesso rimangono prematuramente senza lavoro. “Tu che cosa sei?” - “Sono ingegnere” – “Ah, che bello, che bello. Quanti anni ha?” – “49”- “Non serve, vattene”. Questo accade tutti i giorni. Oltre alle nuove imprese, guardiamo anche alle aziende che sono in difficoltà, a quelle che ai vecchi padroni conviene lasciar morire e che invece possono rivivere con le iniziative che voi chiamate “Workers buy out”, “empresas recuperadas”, nella mia lingua, aziende salvate. E io, come ho detto ai loro rappresentanti, sono un tifoso delle empresas recuperadas!

Un secondo incoraggiamento - non per importanza - è quello di attivarvi come protagonisti per realizzare nuove soluzioni di Welfare, in particolare nel campo della sanità, un campo delicato dove tanta gente povera non trova più risposte adeguate ai propri bisogni. Conosco che cosa fate da anni con cuore e con passione, nelle periferie delle città e della nostra società, per le famiglie, i bambini, gli anziani, i malati e le persone svantaggiate e in difficoltà per ragioni diverse, portando nelle case cuore e assistenza. La carità è un dono! Non è un semplice gesto per tranquillizzare il cuore, è un dono! Io quando faccio la carità dono me stesso! Se non sono capace di donarmi quella non è carità. Un dono senza il quale non si può entrare nella casa di chi soffre. Nel linguaggio della dottrina sociale della Chiesa questo significa fare leva sulla sussidiarietà con forza e coerenza: significa mettere insieme le forze!

Come sarebbe bello se, partendo da Roma, tra le cooperative, alle parrocchie e agli ospedali, penso al “Bambin Gesù” in particolare, potesse nascere una rete efficace di assistenza e di solidarietà. E la gente, a partire dai più bisognosi, venisse posta al centro di tutto questo movimento solidale: la gente al centro, i più bisognosi al centro. Questa è la missione che ci proponiamo! A voi sta il compito di inventare soluzioni pratiche, di far funzionare questa rete nelle situazioni concrete delle vostre comunità locali, partendo proprio dalla vostra storia, con il vostro patrimonio di conoscenze per coniugare l’essere impresa e allo stesso tempo non dimenticare che al centro di tutto c’è la persona.

Tanto avete fatto, e ancora tanto c’è da fare! Andiamo avanti!

Il terzo incoraggiamento riguarda l’economia, il suo rapporto con la giustizia sociale, con la dignità e il valore delle persone. E’ noto che un certo liberismo crede che sia necessario prima produrre ricchezza, e non importa come, per poi promuovere qualche politica redistributiva da parte dello Stato. Prima riempire il bicchiere e poi dare agli altri. Altri pensano che sia la stessa impresa a dover elargire le briciole della ricchezza accumulata, assolvendo così alla propria cosiddetta “responsabilità sociale”. Si corre il rischio di illudersi di fare del bene mentre, purtroppo, si continua soltanto a fare marketing, senza uscire dal circuito fatale dell’egoismo delle persone e delle aziende che hanno al centro il dio denaro.

Invece noi sappiamo che realizzando una qualità nuova di economia, si crea la capacità di far crescere le persone in tutte le loro potenzialità. Ad esempio: il socio della cooperativa non deve essere solo un fornitore, un lavoratore, un utente ben trattato, dev’essere sempre il protagonista, deve crescere, attraverso la cooperativa, crescere come persona, socialmente e professionalmente, nella responsabilità, nel concretizzare la speranza, nel fare insieme. Non dico che non si debba crescere nel reddito, ma ciò non basta: occorre che l’impresa gestita dalla cooperativa cresca davvero in modo cooperativo, cioè coinvolgendo tutti. Uno più uno tre! Questa è la logica.

Cooperari”, nell’etimologia latina, significa operare insieme, cooperare, e quindi lavorare, aiutare, contribuire a raggiungere un fine.Non accontentatevi mai della parola “cooperativa” senza avere la consapevolezza della vera sostanza e dell’anima della cooperazione.

Il quarto suggerimento è questo: se ci guardiamo attorno non accade mai che l’economia si rinnovi in una società che invecchia, invece di crescere. Il movimento cooperativo può esercitare un ruolo importante per sostenere, facilitare e anche incoraggiare la vita delle famiglie. Realizzare la conciliazione, o forse meglio l’armonizzazione tra lavoro e famiglia, è un compito che avete già avviato e che dovete realizzare sempre di più. Fare questo significa anche aiutare le donne a realizzarsi pienamente nella propria vocazione e nel mettere a frutto i propri talenti. Donne libere di essere sempre più protagoniste, sia nelle imprese sia nelle famiglie! So bene che le cooperative propongono già tanti servizi e tante formule organizzative, come quella mutualistica, che vanno incontro alle esigenze di tutti, dei bambini e degli anziani in particolare, dagli asili nido fino all’assistenza domiciliare. Questo è il nostro modo di gestire i beni comuni, quei beni che non devono essere solo la proprietà di pochi e non devono perseguire scopi speculativi.

Il quinto incoraggiamento forse vi sorprenderà! Per fare tutte queste cose ci vuole denaro! Le cooperative in genere non sono state fondate da grandi capitalisti, anzi si dice spesso che esse siano strutturalmente sottocapitalizzate. Invece, il Papa vi dice:dovete investire, e dovete investire bene! In Italia certamente, ma non solo, è difficile ottenere denaro pubblico per colmare la scarsità delle risorse. La soluzione che vi propongo è questa: mettete insieme con determinazione i mezzi buoni per realizzare opere buone. Collaborate di più tra cooperative bancarie e imprese, organizzate le risorse per far vivere con dignità e serenità le famiglie; pagate giusti salari ai lavoratori, investendo soprattutto per le iniziative che siano veramente necessarie.

Non è facile parlare di denaro. Diceva Basilio di Cesarea, Padre della Chiesa del IV secolo, ripreso poi da san Francesco d’Assisi, che “il denaro è lo sterco del diavolo”. Lo ripete ora anche il Papa: “il denaro è lo sterco del diavolo”! Quando il denaro diventa un idolo, comanda le scelte dell’uomo. E allora rovina l’uomo e lo condanna. Lo rende un servo. Il denaro a servizio della vita può essere gestito nel modo giusto dalla cooperativa, se però è una cooperativa autentica, vera, dove non comanda il capitale sugli uomini ma gli uomini sul capitale.

Per questo vi dico che fate bene – e vi dico anche di farlo sempre più – a contrastare e combattere le false cooperative, quelle che prostituiscono il proprio nome di cooperativa, cioè di una realtà assai buona, per ingannare la gente con scopi di lucro contrari a quelli della vera e autentica cooperazione. Fate bene, vi dico, perché, nel campo in cui operate, assumere una facciata onorata e perseguire invece finalità disonorevoli e immorali, spesso rivolte allo sfruttamento del lavoro, oppure alle manipolazioni di mercato, e persino a scandalosi traffici di corruzione, è una vergognosa e gravissima menzogna che non si può assolutamente accettare. Lottate contro questo! Ma come lottare? Con le parole, solo? Con le idee? Lottate con la cooperazione giusta, quella vera, quella che sempre vince.

L’economia cooperativa, se è autentica, se vuole svolgere una funzione sociale forte, se vuole essere protagonista del futuro di una nazione e di ciascuna comunità locale, deve perseguire finalità trasparenti e limpide. Deve promuovere l’economia dell’onestà!Un’economia risanatrice nel mare insidioso dell’economia globale. Una vera economia promossa da persone che hanno nel cuore e nella mente soltanto il bene comune.

Le cooperative hanno una tradizione internazionale forte. Anche in questo siete stati dei veri pionieri! Le vostre associazioni internazionali sono nate con grande anticipo su quelle che le altre imprese hanno creato in tempi molto successivi. Ora c’è la nuova grande globalizzazione, che riduce alcuni squilibri ma ne crea molti altri. Il movimento cooperativo, pertanto, non può rimanere estraneo alla globalizzazione economica e sociale, i cui effetti arrivano in ogni paese, e persino dentro le nostre case.

Ma le cooperative partecipano alla globalizzazione come le altre imprese? Esiste un modo originale che permetta alle cooperative di affrontare le nuove sfide del mercato globale? Come possono le cooperative partecipare allo sviluppo della cooperazione salvaguardando i principi della solidarietà e della giustizia? Lo dico a voi per dirlo a tutte le cooperative del mondo: le cooperative non possono rimanere chiuse in casa, ma nemmeno uscire di casa come se non fossero cooperative. E’ questo il duplice principio: non possono rimanere chiusi in casa ma nemmeno uscire di casa come se non fossero cooperative. No, non si può pensare una cooperativa a doppia faccia. Occorre avere il coraggio e la fantasia di costruire la strada giusta per integrare, nel mondo, lo sviluppo, la giustizia e la pace.

Infine, non lasciate che viva solo nella memoria la collaborazione del movimento cooperativo con le vostre parrocchie e con le vostre diocesi. Le forme della collaborazione devono essere diverse, rispetto a quelle delle origini, ma il cammino deve essere sempre lo stesso! Dove ci sono le vecchie e nuove periferie esistenziali, dove ci sono persone svantaggiate, dove ci sono persone sole e scartate, dove ci sono persone non rispettate, tendete loro la mano! Collaborate tra di voi, nel rispetto dell’identità vocazionale di ognuno, tenendovi per mano!

So che da alcuni anni voi state collaborando con altre associazioni cooperativistiche – anche se non legate alla nostra storia e alle nostre tradizioni – per creare un’Alleanza delle cooperative e dei cooperatori italiani. Per ora è un’Alleanza in divenire, ma voi confidate di giungere ad una Associazione unica, ad un’Alleanza sempre più vasta fra cooperatori e cooperative. Il movimento cooperativo italiano ha una grande tradizione, rispettata nel mondo cooperativistico internazionale. La missione cooperativa in Italia è stata molto legata fin dalle origini alle identità, ai valori e alle forze sociali presenti nel paese. Questa identità, per favore, rispettatela! Tuttavia, spesso le scelte che distinguevano e dividevano sono state a lungo più forti delle scelte che, invece, accomunavano e univano gli sforzi di tutti. Ora voi pensate di poter mettere al primo posto ciò che invece vi unisce. E proprio intorno a quello che vi unisce, che è la parte più autentica, più profonda e più vitale delle cooperative italiane, volete costruire la vostra nuova forma associativa.

Fate bene a progettare così, e così fate un passo avanti! Certo, vi sono cooperative cattoliche e cooperative non cattoliche. Ma la fede si salva rimanendo chiusi in se stessi? Domando: la fede si salva rimanendo chiusi in se stessi? Rimanendo solo tra di noi? Vivete la vostra Alleanza da cristiani, come risposta alla vostra fede e alla vostra identità senza paura! Fede e identità sono la base. Andate avanti, dunque, e camminate insieme con tutte le persone di buona volontà! E questa anche è una chiamata cristiana, una chiamata cristiana a tutti. I valori cristiani non sono soltanto per noi, sono per condividerli! E condividerli con gli altri, con quelli che non pensano come noi ma vogliono le stesse cose che noi vogliamo. Andate avanti, coraggio! Siate creatori, “poeti”, avanti!

   





 

Caterina63
00mercoledì 29 marzo 2017 12:33
IL LIBRO

Il libro

 



Poveri, periferie, migranti: parole chiave nel pontificato di Papa Francesco. Ma siamo sicuri di avere trovato definitivamente il modo giusto per portare loro aiuto?
Il libro a più mani Dottrina sociale cattolica ed economia di mercato (che sarà presentato domani a Roma) aiuta a trovare gli errori dell'assistenzialismo e a correggerli.

di Stefano Magni

Poveri, periferie, migranti: parole chiave nel pontificato di Papa Francesco, che sono risuonate più volte anche nella sua visita in terra ambrosiana sabato scorso. Ma siamo sicuri di avere trovato definitivamente il modo giusto per emancipare i poveri, non abbandonare le periferie e accogliere i migranti dai paesi più poveri? A questo proposito, l’editore Liberilibri di Macerata ha pubblicato il libro a più mani Dottrina sociale cattolica ed economia di mercato, curato dall'economista britannico Philip Booth. Verrà presentato a Roma, domani, su iniziativa dei think tank Acton Institute e Istituto Bruno Leoni. Come leggiamo dalla prefazione del vaticanista della Rai Aldo Maria Valli, “Caro lettore, se ti piace crogiolarti nei luoghi comuni del politically correct, se ami i rassicuranti dogmi dello statalismo, se pensi che l’assistenzialismo pubblico sia la soluzione ai problemi della disuguaglianza e che la carità vada fatta con i fondi pubblici, questo libro non è per te”. E’ un’avvertenza chiara: ci troviamo di fronte a un testo sicuramente cattolico (e ricchissimo di ampie citazioni dalle encicliche sociali), ma completamente fuori dal coro pauperista e assistenzialista che monopolizza il dibattito mediatico.

“Non è in discussione che l’obbligo di provvedere a chi ha bisogno sia una parte integrante non solo della fede cristiana ma anche della moderna idea di ciò che significa vivere in una società buona – premette padre Robert Sirico nel primo dei saggi del libro, dedicato alla questione del Welfare State – Sia che la nozione si basi su una nozione di giustizia secolare, sia che essa si fondi sull’amore cristiano, nessuna delle due giungerebbe mai a sostenere che il povero debba essere ignorato, il disabile trascurato, l’anziano dimenticato”. Tuttavia, mentre la maggioranza dei governi dell’Europa occidentale è giunta alla conclusione che “l’unica via per assicurare la fioritura di tali sostegni sia quella di un complesso apparato statale”, la cui amministrazione, ormai, monopolizza l’attenzione di tutti i partiti, Sirico fa notare che esiste una via molto più efficace e meno rischiosa. Ed è quella della sussidiarietà. La Dottrina sociale la pone fra i principi fondamentali, ma politici e amministratori tendono a dimenticarla a favore della solidarietà (come se quest'ultima fosse un principio sostitutivo e non complementare). La sussidiarietà implica che lo Stato e la sua burocrazia intervengano solo in ultima istanza, ma ad affrontare i bisogni concreti degli esclusi siano i privati, il volontariato, le comunità locali e la Chiesa.

Come sottolinea Sirico, la presunzione di monopolizzare l’aiuto ai poveri e ai bisognosi ha finito per distruggere la carità e la responsabilità. I genitori sono meno responsabili e più portati a comportamenti distruttivi nei confronti della famiglia, se c’è uno Stato-mamma che provvede a soddisfare i bisogni dell’individuo dalla culla alla tomba. La burocrazia statale, proprio per le sue dimensioni, è spersonalizzata e spersonalizzante, “non può fare le debite distinzioni fra legittime aspirazioni e illegittime richieste”. E finisce per nutrire prima di tutto se stessa, prima che i suoi beneficiari. Lo Stato sociale non riesce a risolvere la piaga della povertà, ma punta alla redistribuzione, al livellamento, alimentando una mentalità distruttiva di invidia sociale. La soluzione alternativa, lasciar libere le forze del mercato, può provocare mal di testa e capogiri ai molti, ma, come ricorda Sirico: “Risulta interessante come alcuni cristiani non riescano a vedere che la libera economia promuove la formazione di associazioni cooperative, marchi commerciali, scambio cooperativo, iniziative e istituzioni caritatevoli, famiglie e associazioni civili e come incoraggi anche la partecipazione di ciascuno nel formare istituzioni politiche coerenti con la dignità della persona”.

La stessa logica è applicabile anche nella sfera internazionale. Oggi va di moda vedere nell’immigrazione di massa dall’Africa una conseguenza dello “sfruttamento” dei paesi poveri ai paesi ricchi. Questa visione del mondo presuppone che il divario debba essere colmato con gli aiuti allo sviluppo, incoraggiati da tutte le encicliche papali dalla Populorum Progressio in avanti. Philip Booth, autore del saggio su “Aiuti, governance e sviluppo”, mette in discussione alcune premesse: siamo sicuri, come si ripete spesso, che “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri”? La risposta, dati alla mano, è un secco: no. I poveri sono sempre meno poveri nei paesi in via di sviluppo. Restano poveri solo negli Stati “falliti”, che si sono auto-esclusi dalla globalizzazione. Gli aiuti allo sviluppo non hanno mai emancipato i poveri del mondo. Anche qui, dati alla mano, Booth dimostra sinteticamente che la differenza fra lo sviluppo e il sottosviluppo la fa il governo locale, la legge locale, il sistema locale. Dove una classe dirigente corrotta ruba i soldi dei cittadini e degli aiuti internazionale, i soldi della cooperazione internazionale non solo non aiutano, ma danneggiano lo sviluppo, impoveriscono ulteriormente la popolazione. Anche nel caso in cui i politici locali del paese beneficiario di aiuti siano in perfetta buona fede, la pioggia di denaro pubblico e la dipendenza da esso, induce la classe dirigente ad essere più responsabile di fronte al creditore internazionale che non al suo stesso popolo.

Anche qui la soluzione è nella carità, nella sussidiarietà. Non nel sistema di redistribuzione, ma nell’atto privato, volontario. Nell’investitore che apre attività in loco, nell’associazione caritatevole che aiuta direttamente chi ha bisogno. E spetta alle istituzioni beneficiarie fornire tutte le garanzie che soldi e lavoro non vadano sprecate. Anche qui una prospettiva “cattiva”, che ricorda a noi cattolici che il Buon Samaritano non era un assistente sociale. Ha assistito un uomo ferito, straniero, con i propri soldi, volontariamente e affidandolo a un oste di professione. Questa è carità, non può essere sostituita da alcun sistema redistributivo. 




Caterina63
00giovedì 4 maggio 2017 22:52

  Aiutare gli stranieri più dei compatrioti è immorale?

San Tommaso d’Aquino sul dovere di aiutare i vicini


30 aprile 2017, Santa Caterina da Siena


Santa Elisabetta d'Ungheria aiuta i vicini



Nell’articolo pubblicato nei mesi scorsi (Immigrazione e ordine nella carità, l’“accoglienza” indiscriminata è la negazione dell’amore di Dio) abbiamo affrontato la questione dell’ordine nell’esercizio della carità, con particolare riferimento al problema dell’immigrazione, compresa quella islamica, specialmente in rapporto al bene comune della società naturale e soprannaturale. Il presente articolo, che è in stretta relazione col precedente di cui è uno sviluppo, vuole offrire alcuni commenti di quei passaggi che in San Tommaso descrivono l’esercizio della carità soprattutto relativamente al problema se sia giusto o meno occuparsi prima e di più dei propri connazionali che non degli stranieri. Quando un membro della nostra famiglia, un compatriota o un commilitone viene trattato allo stesso modo dello straniero, ci può essere materia di peccato ed anche di peccato grave? Vedremo la risposta di San Tommaso d’Aquino, rimanendo nel solco della questione 26 della Secunda Secundae della Summa Theologiae

San Tommaso inquadra il problema con un argomento tratto da S. Agostino e che già contiene in nuce la risposta che poi svilupperà. Da un lato infatti sembrerebbe che si debbano aiutare tutti gli uomini in maniera uguale, ma è anche vero che non è possibile aiutare tutti e che bisogna tener conto del fatto che ad alcuni siamo uniti per circostanze di luogo e tempo o per qualsiasi altro motivo che ad essi ci stringe quasi ci fossero dati “in sorte” dall’Alto, dice l’Ipponense[1]

Da una parte è vero infatti che la ragione di tale amore verso gli uomini essendo Dio, essa ha uguale natura per tutti ed è anche vero che il bene che desideriamo per ogni uomo è quello supremo della vita eterna, la cui natura è la stessa per tutti. Ma non per questo consegue che ciascuno di noi debba amare ugualmente tutti, poiché l’esercizio della carità va ordinato anche in relazione alla situazione specifica e concreta di ciascuno di noi. Dobbiamo quindi avere verso tutti indistintamente quello che San Tommaso chiama “amore di benevolenza”, che alla lettera vuol dire volere il bene per tutti gli uomini, ma non potendo fare del bene a tutti dovremo essere ineguali nell’ “amore di beneficenza” (parola da prendere nel senso più ampio del termine di bene facere)[2]. Ovvero, senza escludere positivamente nessuno dal nostro amore di benevolenza per cui desideriamo per ciascuno il bene supremo ed eterno, dobbiamo amare in maniera differenziata il prossimo quanto alla beneficenza, che avrà diversa intensità a seconda che il prossimo sia più o meno legato a noi nelle diverse circostanze. 

San Tommaso dice con chiarezza che pecca molto più gravemente colui che rifiuta il suo amore ad una persona a lui oggettivamente più vicina e che invece dovrebbe amare, che non colui che rifiuta il proprio amore ad una persona lontana. Ed a supporto e spiegazione di tale asserto porta le parole del Levitico “chiunque maledirà suo padre e sua madre, sia messo a morte”[3]. Pena di morte che non è prevista per chi maledice altri che il padre e la madre. E’ molto più grave per un figlio provare odio per i propri genitori, che provare odio per una persona qualsiasi. Ne consegue evidentemente che dobbiamo amare di più alcuni nostri prossimi piuttosto che altri, in ragione del legame oggettivo ed ineguale che ad essi ci unisce, legame che non può essere stabilito né dal nostro arbitrio né dall’egalitarismo alla moda. 

San Tommaso specifica quindi che, se è vero che in quanto alla natura del bene soprannaturale che vogliamo per tutti non c’è differenza, per tutti infatti dobbiamo volere l’eterna beatitudine, è anche vero che c’è un’intensità diversa nell’amore di carità e nei benefici che dobbiamo prodigare al prossimo, questa diversa intensità nasce dalla maggiore o minore vicinanza alla persona da amare. San Paolo dice che se qualcuno non si prende cura dei propri familiari è peggiore dell’infedele (1 Tim 5, 8). L’affetto interno della carità, con quanto di esteriore essa comporta, si deve esercitare primariamente verso chi ci è più vicino[4]. Ciascuno di noi deve “proporzionare” l’affetto di carità a ciò che egli è, alla situazione in cui la Provvidenza l’ha messo, alla famiglia in cui Dio l’ha fatto nascere, alla patria in cui è cresciuto. Di qui il dovere primario di amare di carità più intensa quelli che ci sono più vicini; se a tutti dobbiamo l’amore di carità in maniera indistinta, ad alcuni, in ragione di un altro amore d’amicizia (nel senso più ampio del termine) che ad essi ci lega, dobbiamo un amore di carità maggiore[5]. Ed è così che l’ordine stesso della carità ci “comanda” di amare maggiormente dapprima i nostri consanguinei, poi colui cui siamo legati per altre ragioni e San Tommaso cita, subito dopo i parenti, i concittadini[6]

Si potrebbe dire che sui vicini, sui familiari, sui concittadini abbiamo in certo modo un “mandato divino d’amore”, quasi una responsabilità su di loro, che ci viene dall’ordine voluto da Dio Creatore, sul quale l’ordine soprannaturale si innesta. 

“Quelli che sono a noi più congiunti, sono da amare maggiormente secondo la carità, sia perché sono amati più intensamente, sia perché sono amati sotto più aspetti”[7], San Tommaso sta spiegando che a seconda del tipo di legame che ci unisce siamo tenuti ad una dilezione particolare ed ordinata nei confronti di qualcuno prima che di qualcun altro. Ad esempio in ciò che riguarda la nostra origine naturale dobbiamo amare principalmente i consanguinei, in ciò che riguarda lo scambio civile dobbiamo amare principalmente i concittadini e in ciò che riguarda l’azione bellica la nostra dilezione deve andare prima ai nostri compagni d’arme[8]. Nella distribuzione delle risorse familiari ad esempio, dice il Santo Dottore commentando Sant’Ambrogio, un padre è tenuto a nutrire i propri figli naturali piuttosto che eventuali figli spirituali[9]. E’ l’ordine delle cose, che l’ordine soprannaturale non va a scardinare, ma a perfezionare. Analogamente quindi deve dirsi del dovere dei cittadini e dei Governanti, che in primis debbono occuparsi dei concittadini della propria Civitas prima che di quelli d’altre città. E tale amore di carità deve rivolgersi più intensamente ai concittadini proprio relativamente a quelle cose che riguardano la vita civile, dice San Tommaso, ovvero il sostegno derivante dall’intervento pubblico, per esempio, deve rispettare questa maggiore intensità che comporta diseguaglianza d’amore e di trattamento fra i connazionali e gli stranieri. Solo così l’intervento civico potrà essere veramente giusto e soprattutto veramente caritatevole. 

Alla luce dell’insegnamento di San Tommaso d’Aquino non appare conforme alla dottrina cattolica sulla carità affermare che gli stranieri vadano amati e beneficiati in maniera uguale rispetto ai concittadini. Elevare alla dignità di principio che si debbano trattare in maniera egalitaria tanto nell’ambito familiare che in quello della Civitas, i figli propri e i figli degli altri, i propri concittadini e gli stranieri, i figli della Chiesa e gli infedeli musulmani, non solo non è conforme al diritto naturale, ma appare anche in contrasto con la Divina Rivelazione e la Tradizione cattolica che ci insegnano la carità ordinata. 


Don Stefano Carusi


P. S. Un’ultima considerazione offre San Tommaso nella citata questione 26 sulla carità, a proposito della beneficenza troppo facile e del rapporto fra benefattore e beneficiato: “amiamo maggiormente quelle cose in cui ci sforziamo (per ottenerle), quelle invece che a noi provengono facilmente in certo modo le disprezziamo”[10]. Se ne potrebbe trarre un ultimo ammonimento indiretto dell’Aquinate in materia di carità ordinata : i benefici eccessivi, completamente gratuiti e per giunta spesso sommamente ingiusti, perché dati togliendo il dovuto ai propri figli o ai propri concittadini a vantaggio dei lontani o dello straniero, talvolta anche apertamente ostile alla nazione ospitante, possono generare anche il disprezzo di colui che riceve i benefici e ritorcersi gravemente contro le società che hanno rinnegato, oltre la giustizia, anche l’ordine che ci offrono la fede e la carità. 


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[1] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., IIa IIae, q. 26, a. 6, arg. 1: “Dicit enim Augustinus, in I de Doct. Christ., omnes homines aeque diligendi sunt. Sed cum omnibus prodesse non possis, his potissimum consulendum est qui pro locorum et temporum vel quarumlibet rerum opportunitatibus, constrictius tibi quasi quadam sorte iunguntur”


[2] Ibidem, ad 1: “Ad primum ergo dicendum quod dilectio potest esse inaequalis dupliciter. Uno modo, ex parte eius boni quod amico optamus. Et quantum ad hoc, omnes homines aeque diligimus ex caritate, quia omnibus optamus bonum idem in genere, scilicet beatitudinem aeternam. Alio modo dicitur maior dilectio propter intensiorem actum dilectionis. Et sic non oportet omnes aeque diligere. Vel aliter dicendum quod dilectio inaequaliter potest ad aliquos haberi dupliciter. Uno modo, ex eo quod quidam diliguntur et alii non diliguntur. Et hanc inaequalitatem oportet servare in beneficentia, quia non possumus omnibus prodesse, sed in benevolentia dilectionis talis inaequalitas haberi non debet. Alia vero est inaequalitas dilectionis ex hoc quod quidam plus aliis diliguntur. Augustinus ergo non intendit hanc excludere inaequalitatem, sed primam, ut patet ex his quae de beneficentia dicit”.

[3] Ibidem, s.c.: “Sed contra est quod tanto unusquisque magis debet diligi, quanto gravius peccat qui contra eius dilectionem operatur. Sed gravius peccat qui agit contra dilectionem aliquorum proximorum quam qui agit contra dilectionem aliorum, unde Levit. XX praecipitur quod qui maledixerit patri aut matri, morte moriatur, quod non praecipitur de his qui alios homines maledicunt. Ergo quosdam proximorum magis debemus diligere quam alios


[4] Ibidem, a. 7, s.c.: “Sed contra est quod dicitur I ad Tim. V, si quis suorum, et maxime domesticorum curam non habet, fidem negavit et est infideli deterior. Sed interior caritatis affectio debet respondere exteriori effectui. Ergo caritas magis debet haberi ad propinquiores quam ad meliores”. Ibidem, corpus. 

[5] Ibidem, corpus: “Sed intensio dilectionis est attendenda per comparationem ad ipsum hominem qui diligit. Et secundum hoc illos qui sunt sibi propinquiores intensiori affectu diligit homo ad illud bonum ad quod eos diligit, quam meliores ad maius bonum. Est etiam ibi et alia differentia attendenda. Nam aliqui proximi sunt propinqui nobis secundum naturalem originem, a qua discedere non possunt, quia secundum eam sunt id quod sunt”


[6] Ibidem, corpus: “Et sic hoc ipsum quod est diligere aliquem quia consanguineus vel quia coniunctus est vel concivis, vel propter quodcumque huiusmodi aliud licitum ordinabile in finem caritatis, potest a caritate imperari. Et ita ex caritate eliciente cum imperante pluribus modis diligimus magis nobis coniunctos


[7] Ibidem, a. 8, corpus. 

[8] Ibidem“Sic igitur dicendum est quod amicitia consanguineorum fundatur in coniunctione naturalis originis; amicitia autem concivium in communicatione civili; et amicitia commilitantium in communicatione bellica. Et ideo in his quae pertinent ad naturam plus debemus diligere consanguineos; in his autem quae pertinent ad civilem conversationem plus debemus diligere concives; et in bellicis plus commilitones”

[9] Ibidem, ad 2. 


[10] Ibidem, a. 12, corpus.

Pubblicato da Disputationes Theologicae 




VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA 48ª SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI SUL TEMA 
IL LAVORO CHE VOGLIAMO. LIBERO, CREATIVO, PARTECIPATIVO E SOLIDALE

[Cagliari, 26-29 ottobre 2017]

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Cari fratelli e sorelle,

saluto cordialmente tutti voi che partecipate alla 48ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, convocata a Cagliari. Rivolgo il mio saluto fraterno al Cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ai Vescovi presenti, all'Arcivescovo Filippo Santoro, ai membri del Comitato Scientifico e Organizzatore, ai delegati delle diocesi italiane, ai rappresentanti dei movimenti e delle associazioni legate al lavoro e a tutti gli invitati.

Vi riunite sotto la protezione e con l'esempio del Beato Giuseppe Toniolo, che nel 1907 promosse le Settimane Sociali in Italia. La sua testimonianza di laico è stata vissuta in tutte le dimensioni della vita: spirituale, familiare, professionale, sociale e politica. Per ispirare i vostri lavori, vi propongo un suo insegnamento. «Noi credenti – scriveva – sentiamo, nel fondo dell'anima, [...] che chi definitivamente recherà a salvamento la società presente non sarà un diplomatico, un dotto, un eroe, bensì un santo, anzi una società di santi» (Dal saggio Indirizzi e concetti sociali). Fate vostra questa “memoria fondativa”: ci si santifica lavorando per gli altri, prolungando così nella storia l'atto creatore di Dio.

Nelle Scritture troviamo molti personaggi definiti dal loro lavoro: il seminatore, il mietitore, i vignaioli, gli amministratori, i pescatori, i pastori, i carpentieri, come San Giuseppe. Dalla Parola di Dio emerge un mondo in cui si lavora. Il Verbo stesso di Dio, Gesù, non si è incarnato in un imperatore o in un re ma «spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2,7) per condividere la nostra vicenda umana, inclusi i sacrifici che il lavoro richiede, al punto da essere noto come falegname o figlio del falegname (cfr Mc 6,3; Mt 13,55). Ma c'è di più. Il Signore chiama mentre si lavora, come è avvenuto per i pescatori che Egli invita per farli diventare pescatori di uomini (cfr Mc 1,16-18; Mt 4,18-20). Anche i talenti ricevuti, possiamo leggerli come doni e competenze da spendere nel mondo del lavoro per costruire comunità, comunità solidali e per aiutare chi non ce la fa.

Il tema di questa Settimana Sociale è «Il lavoro che vogliamo:libero, creativo, partecipativo e solidale». Così nell'Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho voluto definire il lavoro umano (n. 192). Grazie per avere scelto il tema del lavoro. «Senza lavoro non c'è dignità»: lo ripeto spesso, ricordo proprio a Cagliari nel 2013, e lo scorso maggio a Genova. Ma non tutti i lavori sono "lavori degni". Ci sono lavori che umiliano la dignità delle persone, quelli che nutrono le guerre con la costruzione di armi, che svendono il valore del corpo con il traffico della prostituzione e che sfruttano i minori. Offendono la dignità del lavoratore anche il lavoro in nero, quello gestito dal caporalato, i lavori che discriminano la donna e non includono chi porta una disabilità. Anche il lavoro precario è una ferita aperta per molti lavoratori, che vivono nel timore di perdere la propria occupazione. Io ho sentito tante volte questa angoscia: l’angoscia di poter perdere la propria occupazione; l’angoscia di quella persona che ha un lavoro da settembre a giugno e non sa se lo avrà nel prossimo settembre. Precarietà totale. Questo è immorale. Questo uccide: uccide la dignità, uccide la salute, uccide la famiglia, uccide la società. Il lavoro in nero e il lavoro precario uccidono. Rimane poi la preoccupazione per i lavori pericolosi e malsani, che ogni anno causano in Italia centinaia di morti e di invalidi.

La dignità del lavoro è la condizione per creare lavoro buono: bisogna perciò difenderla e promuoverla. Con l’Enciclica Rerum novarum (1891) di Papa Leone XIII, la Dottrina sociale della Chiesa nasce per difendere i lavoratori dipendenti dallo sfruttamento, per combattere il lavoro minorile, le giornate lavorative di 12 ore, le insufficienti condizioni igieniche delle fabbriche.

Il mio pensiero va anche ai disoccupati che cercano lavoro e non lo trovano, agli scoraggiati che non hanno più la forza di cercarlo, e ai sottoccupati, che lavorano solo qualche ora al mese senza riuscire a superare la soglia di povertà. A loro dico: non perdete la fiducia. Lo dico anche a chi vive nelle aree del Sud d'Italia più in difficoltà. La Chiesa opera per un’economia al servizio della persona, che riduce le disuguaglianze e ha come fine il lavoro per tutti.

La crisi economica mondiale è iniziata come crisi della finanza, poi si è trasformata in crisi economica e occupazionale. La crisi del lavoro è una crisi ambientale e sociale insieme (cfr Ene. Laudato si', 13). Il sistema economico mira ai consumi, senza preoccuparsi della dignità del lavoro e della tutela dell'ambiente. Ma cosi è un po’ come andare su una bicicletta con la ruota sgonfia: è pericoloso! La dignità e le tutele sono mortificate quando il lavoratore è considerato una riga di costo del bilancio, quando il grido degli scartati resta ignorato. A questa logica non sfuggono le pubbliche amministrazioni, quando indicono appalti con il criterio del massimo ribasso senza tenere in conto la dignità del lavoro come pure la responsabilità ambientale e fiscale delle imprese. Credendo di ottenere risparmi ed efficienza, finiscono per tradire la loro stessa missione sociale al servizio della comunità.

Tra tante difficoltà non mancano tuttavia segni di speranza. Le tante buone pratiche che avete raccolto sono come la foresta che cresce senza fare rumore, e ci insegnano due virtù: servire le persone che hanno bisogno; e formare comunità in cui la comunione prevale sulla competizione. Competizione: qui c’è la malattia della meritocrazia… E’ bello vedere che l’innovazione sociale nasce anche dall’incontro e dalle relazioni e che non tutti i beni sono merci: ad esempio la fiducia, la stima, l’amicizia, l’amore.

Nulla si anteponga al bene della persona e alla cura della casa comune, spesso deturpata da un modello di sviluppo che ha prodotto un grave debito ecologico. L’innovazione tecnologica va guidata dalla coscienza e dai principi di sussidiarietà e di solidarietà. Il robot deve rimanere un mezzo e non diventare l’idolo di una economia nelle mani dei potenti; dovrà servire la persona e i suoi bisogni umani.

Il Vangelo ci insegna che il Signore è giusto anche con i lavoratori dell’ultima ora, senza essere lesivo di ciò che è «il giusto» per i lavoratori della prima ora (cfr Mt 20,1-16). La diversità tra i primi e gli ultimi lavoratori non intacca il compenso a tutti necessario per vivere. È, questo, il “principio di bontà” in grado anche oggi di non far mancare nulla a nessuno e di fecondare i processi lavorativi, la vita delle aziende, le comunità dei lavoratori. Compito dell'imprenditore è affidare i talenti ai suoi collaboratori, a loro volta chiamati non a sotterrare quanto ricevuto, ma a farlo fruttare al servizio degli altri. Nel mondo del lavoro, la comunione deve vincere sulla competizione!

Voglio augurarvi di essere un “lievito sociale” per la società italiana e di vivere una forte esperienza sinodale. Vedo con interesse che toccherete problemi molto rilevanti, come il superamento della distanza tra sistema scolastico e mondo del lavoro, la questione del lavoro femminile, il cosiddetto lavoro di cura, il lavoro dei portatori di disabilità e il lavoro dei migranti, che saranno veramente accolti quando potranno integrarsi in attività lavorative. Le vostre riflessioni e il confronto possano tradursi in fatti e in un rinnovato impegno al servizio della società italiana.

Alla grande assemblea della Settimana Sociale di Cagliari assicuro il mio ricordo nella preghiera e, mentre chiedo di pregare anche per me e per il mio servizio alla Chiesa, invio di cuore a tutti voi la Benedizione Apostolica.



 

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