LA SINDONE fra storia e devozione

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(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:44

 

Una reliquia insolita e misteriosa, singolarissimo testimone - se accettiamo gli argomenti di tanti scienziati - della Pasqua, della passione, della morte e della risurrezione. Testimone muto, ma nello stesso tempo sorprendemente eloquente!
Giovanni Paolo II
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Premessa

La storia della Sindone di Torino - il più importante reperto studiato e conosciuto al mondo - viene suddivisa, per comodità di esposizione, in due grandi tronconi storici.

Il primo è quello che gli studiosi chiamano il periodo antico, la cui storia fa riferimento ai primi quattordici secoli della vita del sacro Telo.

Questa lontana e misteriosa storia incomincia nel momento in cui il Lenzuolo funebre di Cristo fu trovato, ormai giacente sulla pietra tombale senza più contenere il corpo esanime di Gesù, nel sepolcro gerosolimitano dagli apostoli Pietro e Giovanni. Maria di Magdala recatasi alle prime ore dell’alba in visita alla tomba di Gesù, per ottemperare alle onoranze funebri in vigore in quel tempo, giunta al sepolcro, scorge da lontano la pietra sepolcrale ribaltata e preoccupata per la presunta scomparsa del corpo del Maestro, corre a chiamare in aiuto il principe degli Apostoli e il discepolo amato dal Signore.

Quando questi fatti accaddero, riportati poi fedelmente e storicamente dagli Evangelisti nei loro racconti sacri, era appena incominciata a Gerusalemme una normale mattina di primavera, il 9 aprile del 30 d.C., il giorno successivo alla Grande Pasqua ebraica.

L’oggetto rinvenuto nel sepolcro dai due Apostoli, il telo funerario, è presumibilmente diventato, all’interno della nascente comunità cristiana gerosolimitana, un prezioso ricordo di ciò che era appartenuto alla persona di Gesù, anche se di un momento triste come quello della sua sepoltura.

Crediamo, infatti, che da quel momento il santo Lenzuolo fu conservato gelosamente dalla primitiva comunità apostolica, comprendendo soltanto successivamente l’importanza della reliquia funebre del Messia.

La piccola comunità di Gerusalemme, stretta affettivamente intorno alla madre di Gesù, fu la prima depositaria di una tale fondamentale traccia della avvenuta risurrezione del corpo di Cristo1, il Messia che ha vinto definitivamente, con il suo sacrificio, il peccato e la morte dell’umanità.

Il primo periodo storico, quello che abbiamo definito antico, iniziato il giorno della risurrezione di Gesù, si conclude in tarda età medievale, ovvero nel 13532, data che segna la fine dell’intreccio plurisecolare tra storia, tradizione e leggenda, e contemporaneamente, l’inizio della presenza documentata del Telo - da quel momento in poi rimasto in Europa -, data che fa appunto da cerniera tra i due grandi tronconi storici summenzionati.

Il secondo periodo, chiamato moderno, parte da quella data, il 1353, ed arriva fino ai nostri giorni. Vedremo, durante la trattazione dell’argomento, come la storia della Sindone sia stata oggetto continuo di peripezie e vicissitudini3, ma nonostante tutto il sacro Telo è stato sempre tratto in salvo.

Oggetto di questo capitolo è la storia che riguarda il primo periodo della vita del Telo, quello cioè, che gli studiosi della storia antica della Sindone non hanno tardato a definire oscuro, incerto, non pienamente documentato, proprio per opporlo a quello successivo, il quale, come ben sappiamo, è invece avvalorato da numerose fonti che ne accertano la presenza seppur in vario modo : documenti, pubbliche ostensioni, atti notarili, opere letterarie e iconografiche, testimonianze, e negli ultimi cento anni, anche fotografie4.

La storia antica della Sindone, oltre ad essere più lunga di quella moderna di ben settecento anni - particolare da non sottovalutare - è anche la meno conosciuta e la meno indagata dagli storici stessi: le fonti che la riguardano sono perlopiù quasi tutte da rinvenire, rintracciare e studiare - soprattutto quelle redatte nelle aree siro-palestinese5  e greco-bizantina - e, quelle già note agli storici della Sindone, sono in massima parte ancora da tradurre, interpretare e catalogare.

Il nostro intento infatti, in questo lavoro di comprensione di ciò che ha interessato storicamente il Telo funerario di Cristo nel corso dei secoli, oltre a prendere in esame i vari aspetti legati alla vicenda telo sindonico - quali quello scientifico, filologico ed esegetico - è orientato soprattutto a enumerare e ad evidenziare le eventuali tracce della presenza della Sindone nel periodo antico da un punto di vista euristico.

Si cercherà, quindi, di illustrare quante più fonti possibili per contribuire così a far luce su questo importante periodo di storia del Lenzuolo, che al dire della tradizione cattolica dovrebbe essere il panno funerario che avvolse il santo corpo di Gesù esanime dopo l’avvenuta sepoltura di rito giudaico nel sepolcro gerosolimitano, reperto rimasto per troppi anni trascurato sia dagli studiosi delle materie storiche che dagli stessi esegeti.

Si vuole, quindi, grazie ad una più chiara e ordinata catalogazione dei documenti, collocare le varie tessere - tra loro ancora separate - dell’unico grande mosaico: lo studio delle fonti antiche dimostrerebbe la presenza e il culto della Sindone già nei primi secoli del primo millennio dell’era cristiana, avvalorando la tesi dell’autenticità e l’antichità del Telo, così come ormai molti storici e sindonologi6 affermano da alcuni decenni.

Naturalmente oltre alla catalogazione di quanto già conosciamo, relativamente alla presenza della Sindone in età antica, crediamo sia indispensabile promuovere ulteriori ricerche dedite al rinvenimento delle fonti inedite, sicuramente ancora nascoste tra gli scaffali di antiche e impolverate biblioteche del vicino Oriente7.

Soltanto con il rinvenimento di documenti storici, siano essi liturgici o artistici, gli studiosi e i sindonologi potranno confutare la tesi della contraffazione o del falso medievale, e chiudere definitivamente la polemica sorta negli anni ottanta intorno alla non autenticità della Sindone di Torino.

È stato proprio in conseguenza al risultato radiocarbonico del 1988 che gli studiosi della Sindone si sono visti costretti nonché stimolati ad affrontare la questione dell’esistenza del Telo già nel periodo antico della storia cristiana; è utile ricordare che quell’analisi scientifica, condotta su alcuni filamenti del Telo, datò gli stessi in una età compresa tra il 1260 e il 1390 d.C.: per la prima volta, si dichiarò di trovarsi di fronte ad un manufatto medievale e non di fronte al vero Lenzuolo servito per la sepoltura di Gesù.

Facciamo un passo indietro e torniamo ad occuparci della questione storica della Sindone, lasciando questa delicata questione dell’analisi radiocarbonica, la quale verrà successivamente affrontata quando parleremo dell’indagine scientifica del Telo, oggetto del IV capitolo.

Prima di incominciare l’elencazione e la descrizione delle fonti antiche, credo sia utile suddividere ulteriormente il lungo periodo già ricordato in ulteriori quattro sotto sezioni storiche; così dunque la periodizzazione generalmente proposta dagli storici della Sindone:

- prima tappa: dal I secolo d.C. al 544, anno nel quale si ricorda l’assedio persiano della città di Edessa e il ruolo della Sindone come palladio della città;

- seconda tappa: dal 544 al 944, fase di nodale importanza della storia del Telo in quanto si celebra il trasferimento del Mandylion8 da Edessa a Costantinopoli, l’allora capitale dell’Impero romano d’Oriente;

- terza tappa: dal 944 al 1204, data che ricorda il sacco di Costantinopoli avvenuto durante la IV crociata e il probabile trafugamento della Reliquia dall’Oriente all’Occidente;

- quarta tappa: dal 1204 al 1353, periodo di un ipotetico viaggio della Sindone, durato 150 anni, probabilmente interessato anche dalla permanenza in Grecia e successivamente dell’arrivo nella città di Lirey, città della Francia, ad opera di un cavaliere crociato.

La mappa che si ricava, dalla suddivisione storica appena fatta, viene confermata anche dalla ricerca palinologica che gli studiosi hanno operato sul tessuto sindonico, portando gli stessi a dichiarare che il Telo presente oggi a Torino ha effettivamente toccato i luoghi geografici summenzionati, ovvero l’area siro-palestinese, quella anatolica ed infine la zona alpina italo-francese.

1- Da Gerusalemme ad Edessa

Gerusalemme è certamente il luogo principale e assolutamente primario rispetto a qualsiasi altra località, per attivare la ricerca storica sulla eventuale presenza della Sindone nei documenti antichi in Medio Oriente.

Sappiamo che il Signore fu sepolto a Gerusalemme nel sepolcro di Giuseppe di Arimatea a pochi metri di distanza sia dal luogo della pietra dell’unzione che da quello della crocifissione.

È noto, inoltre, sempre dalla lettura del Nuovo Testamento, che il pio ebreo sinedrita è anche l’autore dell’acquisto della Sindone in oggetto, stoffa acquistata a metro e quindi formata da un pezzo unico, senza cuciture, manufatto, che per la sua particolarità, costava molto.

È da questo lungo pezzo di stoffa che egli avrebbe potuto ricavare - tagliando in più parti il telo -, non solo il lenzuolo funebre per contenerne ed avvolgere il corpo di Gesù, ciò che chiamiamo la Sindone, ma anche il sudario, fazzoletto da porre sul capo esternamente alla Sindone stessa, e le fasce - si pensa che siano almeno tre - utili per annodare e stringere il lenzuolo intorno al corpo ad unzione ultimata9.

Sulle dimensioni della Sindone - al dire di Mons. Ricci, piuttosto eccessive rispetto a quelle in uso in quel tempo -, e sulle diverse misurazioni fatte al sacro reperto in epoca antica10 , ritorneremo successivamente quando prenderemo in considerazione le caratteristiche tecniche del Lenzuolo funerario di Cristo.

Quanto alle testimonianze storiche su tale reperto - ci riferiamo cioè almeno alla Sindone, tralasciando il sudario e le fasce - non possiamo non partire che dai vangeli, i quali descrivono per primi i fatti accaduti intorno al sepolcro quella mattina successiva alla Pasqua ebraica.

Il contenuto dei racconti evangelici sull’argomento in oggetto e la relativa esegesi di tali pericopi saranno trattati nei capitoli V e VI; qui ci limiteremo soltanto a verificare le eventuali tracce del Lenzuolo funebre nei documenti primitivi appartenuti o prodotti dalla comunità cristiana quali segni di una presenza antica della Sindone.

Per quanto riguarda i testi dei vangeli canonici, nessun libro del nuovo testamento, però, mette in evidenza il destino dei teli lasciati da Cristo nel sepolcro dopo l’evento della risurrezione.

Questo aspetto, a prima vista preoccupante ai fini della nostra ricerca, diventa invece interessante se lo si guarda con l’occhio e con la mentalità della comunità giudeo-cristiana appena formata a Gerusalemme, e non con il nostro metro di valutazione, sicuramente astoricizzato e decontestualizzato: si sa infatti che la primitiva comunità cristiana era ancora avvolta, influenzata e giudicata dal giudaismo ufficiale, quindi ancora immersa nella mentalità religiosa e sociale del tempo.

In effetti, per comprendere l’ambiente nel quale i primi cristiani vivevano in Palestina, è sufficiente rilevare che, fino a tutto il IV secolo d.C., i seguaci di Cristo venivano chiamati dai giudei, nazareni e non cristiani, ritenuti cioè, dal giudaismo rabbinico, non una religione autonoma dall’ebraismo, ma una delle tante sette della religione di Israele che proliferavano in quel tempo in tutta l’area palestinese: basti citare i sadducei, gli zeloti, i samaritani, i farisei, gli esseni.

I primi cristiani, quindi, non potevano ostendere il lenzuolo funebre di un condannato a morte, tra l’altro intriso di sangue e quindi ritenuto anche per questo impuro : le rigide norme deuteronomiche e precettistiche del fariseismo giudaico non permettevano tali leggerezze. Il semplice possesso di oggetti appartenuti ai condannati a morte era vietato dalla Legge di Israele11.

Se a questo aggiungiamo che le prime persecuzioni contro gli eretici o minim12, avvennero a Gerusalemme già nell’anno 42 d.C., e che il martirio di Giacomo13, primo vescovo della città santa, si consumò venti anni dopo, nel 6214, il quadro si fa più chiaro quanto ad ostilità da parte della religione ufficiale contro la primitiva esperienza cristiana: la chiesa dell’Apostolo gerosolimitano venne fortemente perseguitata e le comunità giudeo-cristiane della città del Tempio furono costrette a rifugiarsi prima a Qumran15, all’interno nelle grotte sulle rive del Mar Morto, e poi a Pella, nella lontana Decapoli, nel 66 d.C., portando con sé tutto l’armamentario sacro16.

Anche se dalla fonte appena citata non viene fatta una lista dalla quale evincere la presenza della Sindone, non possiamo a priori escluderla dal patrimonio sacro della antica comunità gerosolimitana in fuga.

Infatti durante i lavori del Concilio di Nicea II, il famoso concilio che legiferò contro l’iconoclastia, siamo nell’ottavo secolo d.C., fu letta una lettera, non senza l’approvazione autorevole di san Atanasio, la quale riportava una antica tradizione di una immagine riportante l’intera figura del corpo di Gesù Cristo: "nel biennio che precedette la distruzione di Gerusalemme per opera di Tito Vespasiano, i fedeli furono avvertiti dallo Spirito Santo di lasciare Gerusalemme e di ritirarsi nel regno di Agrippa, rimasto alleato dei romani. Uscendo, dunque, dalla città, trasportarono con sé i loro oggetti più preziosi; è così che le immagini e le altre cose sacre furono portate in Siria ed ivi si trovavano".

Stessa cosa avvenne, questa volta però sotto il dominio musulmano, nel 1006-1007 durante il califfato di El Hakem, quando i cristiani vedendosi minacciati dal governo musulmano, trasportarono nuovamente gli oggetti sacri da Gerusalemme a Costantinopoli, dove infatti gli elenchi delle reliquie conservate nella città anatolica dell’XI secolo riportano tra gli altri, la Sindone17.

Ai fini delle prime documentazioni attestanti la presenza della Sindone e del destino dei teli appartenuti a Gesù Cristo per la sua sepoltura, relativamente agli anni successivi al I secolo, ci vengono in aiuto i vangeli apocrifi, così definiti non perché eretici o occulti, ma semplicemente nascosti o segreti; questi testi infatti erano riservati non a gente semplice, ma per l’istruzione di iniziati e di catecumeni, soprattutto di ambiente gnostico.

I vangeli canonici invece - dal greco kanòn, cioè asta, bastone, regolo per misurare -, sono quelli codificati dalla Chiesa quali normativi per la fede cristiana e quindi validi per tutti18. Appare forte l’influenza della prassi ebraica la quale prima di arrivare al corpus biblico purificò gli scritti ispirati da quelli non ispirati, gli hisonim da quelli messi in disparte nel nascondiglio, i ghenuzim.

Ci limitiamo qui solo a menzionare alcuni degli autori pseudoepigrafici più importanti, tentando una elencazione documentaria in base alla presenza del lemma sindone nei testi apocrifi.

Il Vangelo secondo gli Ebrei, scritto in aramaico intorno al III secolo d.C., comunque anteriore al 250, al passo 1,3-10 così recita: "[In seguito alla risurrezione] il Signore dopo aver consegnato il lenzuolo (sindone) al servo del sacerdote si recò da Giacomo e gli apparve"19.

È evidente l’intenzione, da parte dell’autore, di voler sottolineare la presenza della Sindone e la relativa conservazione del Telo all’interno della primitiva comunità cristiana di Palestina già dal II secolo d. C.; su questa pericope dell’apocrifo citato si sono fatte numerose interpretazioni20. La più importante è quella che fa riferimento alla tradizione secondo la quale Gesù consegnò la veste (il lenzuolo abbandonato dal giovane in Mc 14,52) a Malco, il rappresentante del Sommo Sacerdote - o meglio ancora, come etimologicamente il suo nome sembra suggerirci, al servo del Sommo Sacerdote - come prova che egli era risuscitato.

Il Vangelo secondo gli Ebrei non ci è pervenuto in forma originale; abbiamo diversi autori antichi che lo citano tra cui Eusebio, Filippo, Epifanio, lo Pseudo-Cirillo, Origene e lo stesso Gerolamo, ma tutti in modo frammentario e parziale21.

Il Vangelo di Pietro, quasi certamente siriaco, datato intorno all’inizio del II secolo d.C., nel racconto della crocifissione e della risurrezione al versetto 24 del capitolo VI, così dice: "Giuseppe avendo preso il Signore, lo lavò e lo avvolse in un telo e lo introdusse nella sua tomba".

È da far notare subito la contraddizione tra il racconto dell’apocrifo di Pietro e il Telo di Torino il quale, come ben sappiamo, conserva le tracce delle macchie di sangue del cruciaro.

Infatti la Sacra Scrittura e la tradizione letteraria giudaica, in particolare i trattati che si occupano della sepoltura22 , prescrivono che il morto deceduto di morte violenta e con perdita di sangue, sia sepolto non lavato e con il sangue che ha perso, dopo averlo accuratamente raccolto; nella cultura ebraica il sangue, chiamato perciò sangue di vita, è il luogo della presenza dell’anima. Il defunto deve inoltre essere sepolto lo stesso giorno (Dt 21, 22-23).

Il contenuto del documento siriaco è tra l’altro anche in contrasto con la legislazione tuttora vigente presso gli ebrei e cioè il divieto di lavare i corpi dei defunti insanguinati prima della unzione e della sepoltura: questo rafforza ulteriormente quanto detto.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:48
Questo video propone una ricostruzione attendibile delle fasi storiche attraversate dalla Sindone

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:49

Alcuni esegeti hanno affermato che la sepoltura di Cristo con il corpo insanguinato è da ascriversi alla fretta perché sopraggiunta la Pasqua, motivo sufficiente per avvolgere il corpo senza le prescrizioni rituali in uso.

Vedremo nel capitolo dedicato alla sepoltura giudaica come questa tesi sia errata: il tempo che Giuseppe di Arimatea e Nicodemo hanno avuto per onorare la sepoltura di Gesù è stato più che sufficiente.

Infatti la sepoltura che hanno operato sul corpo di Gesù è in perfetta linea con le procedure precettistiche: non dimentichiamo che i due giudei erano componenti del Sinedrio, la massima istituzione presente in Israele quanto ad ortodossia e soprattutto ad ortoprassia.

Questo secondo documento, l’apocrifo di Pietro, non prova dunque la relazione tra il contenuto del testo e la Sindone di Torino, ma è senz’altro una pista importante per rintracciare elementi, sia pur minimi, della presenza dei teli funerari di Cristo all’interno dei racconti, prima orali e poi scritti, delle comunità cristiane primitive.

Il Ciclo di Pilato, redatto in testo greco, è in buona parte una sorta di accusa verso i giudei per la condanna a morte di Gesù e la sollevazione delle responsabilità di Pilato che, in alcuni documenti, lo si fa anche convertire al cristianesimo facendolo divenire addirittura martire e santo23 .

Interessanti sono i racconti riportati nell’apocrifo riguardanti l’interrogatorio del procuratore romano Pilato alle guardie del sepolcro di Cristo e l’arresto di Giuseppe di Arimatea, prima imprigionato dai Giudei per aver dato sepoltura al Signore, e poi liberato dal Cristo risorto e condotto quindi al sepolcro. Qui Giuseppe vede i teli distesi e soltanto allora comprende con chiarezza chi fosse il suo Liberatore24 .

Un altro brano, utile al nostro scopo, è tratto dal Ciclo di Pilato, nel capitolo morte di Pilato al paragrafo 2, nel quale viene riportato il dialogo tra il messo di Tiberio Cesare, l’imperatore e la Veronica: la storia è molto simile a quella che si svilupperà anche in Siria con la leggenda del re Abgar.

Quello che però è importante sottolineare è la risposta della Veronica al messo imperiale Volusiano quando le chiese informazioni su Gesù, il Dottore che guariva la infermità con l’uso della sola parola: "quando il mio Signore andava in giro predicando, poiché io soffrivo troppo a rimanere privata della sua presenza, volli farmene dipingere il ritratto, di modo che, quando fossi priva della sua persona, mi offrisse almeno conforto la vista della sua immagine. Ma mentre portavo una tela ad un pittore, perché la dipingesse, il mio Signore mi venne incontro e mi domandò dove andavo. Io gli confessai il motivo per cui mi ero messa in cammino ed egli allora mi chiese il panno e me lo restituì segnato dall’impronta del suo venerabile volto"25.

Il racconto prosegue con il viaggio della Veronica a Roma e la condanna a morte di Pilato, il quale, sentendo la notizia, ovvero il comando dalla bocca dell’imperatore di morire di morte infamante così come egli aveva fatto con Gesù, si uccise con il suo stesso pugnale.

Questa ulteriore fonte, sia pur fantasiosa, non solo per il racconto in sé, ma anche per i personaggi intervenuti - ricordiamo che la Veronica non è un personaggio ritenuto storico, del resto il suo stesso nome, vera icona, lo fa immaginare - ci fornisce prove in merito a tradizioni di immagini, di teli, di sudari raffiguranti il volto di Cristo che se non hanno dirette implicanze con la Sindone di Torino, fanno però riflettere sulla provenienza di tali tradizioni.

Anche il Vangelo di Gamaliele, apocrifo etiopico del IV-V secolo d.C. parla dei lini sepolcrali di Gesù, ma con un altro epilogo: i teli a motivo del litigio tra Erode e Pilato sono elevati in cielo26.

Il Medio Oriente dunque è l’area geografica dalla quale ci pervengono le prime notizie riguardanti la presenza del telo sindonico in età antica.

Dobbiamo però dire che l’oggetto da noi chiamato almeno da settecento anni con il termine Sindone, nel corso dei secoli ha avuto diversi lemmi: uno di questi è stato senz’altro quello di immagine di Edessa; infatti la città che fa convergere più testimonianze sulla presenza di una immagine non fatta da mano d’uomo, in greco detta achiropita27, è appunto l’antica città anatolica, oggi chiamata Urfa, centro importante della attuale Turchia meridionale.

Importanti storici, tra cui Ian Wilson, hanno sostenuto tale tesi, avvalorata sempre più dal contributo di altre scienze sindonologiche le quali ormai, quasi all’unanimità, si esprimono per l’antichità e l’autenticità del Telo, rafforzando sempre più l’identificazione del Mandylion di Edessa con la Sindone di Torino28.

La Sindone e i teli custoditi inizialmente dagli Apostoli, dai discepoli e dalla primitiva comunità cristiana, dopo l’ultimazione delle persecuzioni da parte di Roma potrebbe essere venuta alla luce insieme ai cristiani stessi usciti anch’essi dalle catacombe.

Naturalmente per le ragioni che vedremo - di natura teologica, storica, linguistica e liturgica -, la sindone ha avuto nel corso dei secoli differenti significati29, sia durante la permanenza in Oriente che in quella d’Occidente: i teli del sepolcro, l’immagine di Edessa, il Mandylion, la Sindone.

Fatta questa doverosa parentesi possiamo ritornare ad occuparci dell’immagine di Edessa: la tradizione dell’immagine non fatta da mano d’uomo, così come fra poco vedremo, è molto antica.

È una tradizione che sintetizza la confluenza di diverse redazioni, sia popolari che storiche, le quali presentano una poliedricità di contenuti, apparentemente in contraddizione tra loro.

È nel corso del II secolo d.C. che l’immagine viene trasferita probabilmente da Gerusalemme alla città di Edessa, ma, per comprendere bene i passaggi di tali spostamenti, è bene far parlare le fonti.

Innanzitutto cominciamo dalla Storia Ecclesiastica scritta da Eusebio di Cesarea nel 325 d.C., nella quale si narra che il re di Edessa dell’epoca di Cristo, Abgar V, detto Oukhama il nero, vissuto tra il 9 a.C. e il 46 d.C., chiese aiuto al Signore perché gravemente malato; egli infatti, avendo saputo dell’esistenza di un certo Gesù di Nazareth, chiamato il Cristo, operatore di miracoli e guarigioni, mandò in Palestina un suo inviato per chiedergli la grazia di visitarlo.

Gesù però, pur declinando l’invito, non rimandò a mani vuote il messo, ma gli diede una lettera da far recapitare al re Abgar. Il contenuto dell’epistola però è trattato da altre fonti, citate successivamente in questo stesso capitolo.

È da evidenziare il fatto che Eusebio non parla di un ritratto, di una immagine, ma di una lettera, forse per la sua nota avversione al culto delle immagini; ma su questo aspetto del problema iconoclastico torneremo ancora.

Anche il vescovo di Gerusalemme Cirillo, in una delle sue Catechesi Mistagogiche, composte nel 355, fa riferimento, in una omelia pasquale, al lenzuolo funebre di Cristo quale fatto probante della avvenuta resurrezione del Signore: "Vera la morte di Cristo, vera la separazione della sua anima dal suo corpo, vera anche la sepoltura del suo santo corpo avvolto in un candido lenzuolo"30.

Ma ancora più efficace è la descrizione che il vescovo gerosolimitano fa durante un’altra omelia, tenuta nel 348 durante una celebrazione eucaristica nella nuova chiesa del Santo Sepolcro, dove concretamente i cristiani appena usciti dalla clandestinità - e per questo potevano ostendere le proprie reliquie compreso il compromettente lenzuolo funerario di Cristo - potevano osservare il luogo del sepolcro e la pietra sepolcrale adagiata lì in mezzo a loro: "Molti sono i testimoni della risurrezione... la roccia del sepolcro, che accolse Cristo, e la pietra che resisterà in faccia ai giudei; questa, infatti, ha visto il Signore, pietra che allora fu rovesciata e rende testimonianza della risurrezione giacendo fino al giorno d’oggi; gli angeli di Dio, presenti, che fecero testimonianza per la risurrezione dell’Unigenito; Pietro, Giovanni e Tommaso, insieme agli altri Apostoli, dei quali alcuni accorsero al sepolcro; i lini della sepoltura, coi quali fu prima avvolto, che videro giacere dopo la risurrezione; altri palparono le sue mani e i suoi piedi e contemplarono i segni dei chiodi; e le fasce sepolcrali e il sudario che lasciò risorgendo... Lo stesso luogo, ancora sotto i nostri occhi, e questa Basilica edificata dall’imperatore Costantino, di felice memoria, spinto dall’amore di Cristo, che ammiri così ornata"31.

Noto è anche il contributo della pellegrina e monaca Eteria, donna che veniva a piedi dall’Occidente, la quale in visita a Edessa nel 384, nel suo famoso Diario, annota che il vescovo della città, facendole visitare i luoghi più importanti, la conduce anche alla porta cosiddetta dei Bastioni, attraverso la quale, secoli prima, secondo la leggenda, era entrato l’archivista del re Hannan con in mano la lettera di Gesù.

Eteria, a differenza di altre fonti - esclusa quella di Eusebio - non fa alcun cenno a immagini, forse per l’impossibilità, da parte delle comunità cristiane, ad ostendere immagini sacre, perché interessate da persecuzioni locali32.

Sant’Epifanio di Salamis o Salaminia (315-403), nel 393, nell’Epistola indirizzata al vescovo di Gerusalemme Giovanni, gli comunica che in un pellegrinaggio verso la località di Bethel, a quindici chilometri a nord della città santa, trovò appesa all’ingresso di una piccola chiesa di Anablathà l’immagine di Cristo su un velo.

Lo stesso san Gerolamo (+ 420) nel De Viris illustribus o anche chiamato De scriptoribus ecclesiasticis, fonte del 428, fa un riferimento esplicito alla Sindone citando il vangelo degli ebrei: "Il Signore avendo dato il telo funebre (sindinem) al servo del sacerdote, andò da Giacomo e gli apparve"33.

Un’altra tradizione è invece fondata sulla Dottrina di Addai, - forse una deformazione del nome dell’apostolo Giuda Taddeo -, la quale sarebbe stata collocata tra la fine del IV secolo e la metà del VI, epoca dell’assedio della città di Edessa per mano del re persiano Cosroe avvenuto nel 544 d.C34.

Il documento, di composizione siriaca, racconta che il re Abgar inviò il suo archivista e pittore Hannan da Gesù; questi fece ritorno ad Edessa con un’immagine del Cristo dipinta da lui stesso e con una lettera nella quale veniva promessa, da parte del Messia, l’incolumità della città contro l’assedio dei nemici, incolumità che manca nel contenuto della lettera riportato da Eusebio di Cesarea e per questo più breve oltre che più antica; lo storico di Cesarea, inoltre, non fa alcun riferimento all’immagine di Gesù.

Durante l’assedio persiano alla città nel 544, fu trovato, da parte dell’esercito di Edessa, un pezzo di stoffa all’interno del muro che sovrasta la porta dei Bastioni, sulla quale era raffigurata un’immagine detta miracolosa e non fatta da mano d’uomo; si pensava fosse il volto di Cristo.

Da qui il potere dato alla stoffa di aver contribuito a respingere gli assalitori persiani: è la tradizione che fa di quest’immagine il palladio della città35.

Nel 525 il fiume Daisan inonda la città di Edessa : a darci memoria di tale sciagura è Procopio di Cesarea (527-565), importante storico bizantino, nell’opera La guerra dei Persiani, nel capitolo II.

Nel racconto però Procopio non fa alcun riferimento all’immagine sacra, pur descrivendo l’avvenuto fallimento dell’assalto da parte del re Cosroe: questo è stato sventato, a suo dire, dietro compenso da parte del governo edesseno al re persiano, ottenendo così anche la relativa promessa di non ri-aggressione; nessun cenno alla difesa della città dato dal potere della stoffa miracolosa.

Questo silenzio sull’immagine del volto di Cristo impressa sulla stoffa in qualità di palladio della città, metterebbe in discussione la veridicità del racconto di Evagrio lo Scolastico, il quale ha riportato, all’incirca mezzo secolo dopo Procopio, lo stesso evento storico; oppure pone le basi per la dimostrazione che il contenuto della lettera sia stato alterato cioè modificato nella seconda parte, quella che riguarda appunto la promessa di incolumità della città.

Come si diceva prima, in occasione dell’aggiunta posteriore fatta alla lettera di Abgar, anche qui è accaduta probabilmente la stessa cosa.

È dunque questa, una leggenda che ha voluto vedere nell’immagine non fatta da mano d’uomo anche una protezione militare per la città cappadoce36.

Molti monumenti furono danneggiati nell’occasione dell’alluvione sopraddetta e Giustiniano (527-565), il futuro imperatore della grande riforma dell’Impero, mise mano alla ristrutturazione e alla ricostruzione della città.

Tra i lavori di ripristino non fu esentata la chiesa di Santa Sofia, la ecclesia maior dei cristiani calcedonesi. È infatti in quella occasione che venne ritrovata l’immagine in oggetto.

A lavori terminati le si diede un posto nell’abside laterale di destra della Basilica, dove fu opportunamente conservata, ma per molti anni celata alla vista dei fedeli37.

Tali testimonianze sono riscontrabili in diverse fonti; ci soffermeremo soltanto su alcune di queste, le due più importanti.

Incominceremo da quella dello storico greco Evagrio lo Scolastico (fine VI secolo), chiamato così in quanto giurista, il primo a documentarci l’esistenza di quest’immagine non fatta da mano d’uomo38 per passare poi all’Inno siriaco che dà per scontata l’esistenza e la conoscenza dell’immagine di Cristo achiropita39.

Evagrio descrive nella sua Storia Ecclesiastica, (IV, 27), l’assedio avvenuto nella città di Edessa nel 544 da parte del re persiano Cosroe I Nirhirvan, sventato però dall’immagine che Cristo aveva inviato ad Abgar.

Notiamo come per Evagrio l’esistenza dell’immagine e del relativo culto è accertata ad Edessa già prima dell’assedio40; la stoffa è chiamata da lui Mandylion, anche se non si trova la parola acheiropoiètos, ma, in sua sostituzione, theoteuctos, cioè opera di Dio, non confermata però da Procopio di Cesarea, nella sua La guerra dei Persiani, II: egli si limita a riportare che la fiducia degli abitanti di Edessa si fondava sulla lettera e più precisamente sulla promessa di incolumità. Dell’immagine non dice nulla, non per questo dobbiamo necessariamente concludere che non era a conoscenza della sua esistenza.

L’Inno liturgico, invece, in un suo noto passo così recita: "Il suo marmo è simile all’immagine che-non da-mani (non fatta da mano d’uomo) e le sue pareti ne sono armoniosamente rivestite. E per il suo splendore tutto pulito e tutto bianco, esso raccoglie in sé la luce"41.

Come si nota immediatamente dalla lettura del canto siamo di fronte alla descrizione della cattedrale di Edessa e tra le bellezze della stessa enumera anche l’immagine non fatta da mano d’uomo.

Dagli scritti di Procopio di Cesarea, di Evagrio lo Scolastico e dell’Inno liturgico si evincono almeno due fatti importanti: nel VI secolo ad Edessa già si conosceva una immagine non fatta da mano d’uomo e la protezione dalla città, dalla lettera era passata all’immagine, cioè al Mandylion42.

Del VI secolo è anche il prezioso documento intitolato Acta Thaddei, un rifacimento della Dottrina di Addai, più antica di almeno due secoli: il messaggero del re Abgar doveva ritrarre il volto del Cristo in modo perfetto, ma non ci riuscì. Il Signore allora decise di aiutarlo asciugandosi il volto su di un telo: "...Anania partì e dopo aver dato la lettera guardava attentamente Cristo e non riusciva a coglierlo. Ma lui che conosce i cuori se ne accorse e chiese il necessario per lavarsi; gli fu dato un telo piegato quattro volte. Dopo essersi lavato si asciugò il volto. Poiché la sua immagine si era impressa sul telo (sindon), lo diede ad Anania incaricandolo di portare un messaggio orale al suo padrone. Questi ricevendo il proprio inviato si prosternò e venerò l’immagine; egli fu guarito allora dalla sua malattia"43.

Parte da qui la tradizione dell’immagine avvenuta mediante l’applicazione del telo sul viso.

La stoffa che ha impresso l’immagine del volto di Cristo è stata chiamata tetradiplon, cioè piegata quattro volte doppio, ma anche Mandylion, cioè fazzoletto o asciugamani in lingua greca, ma etimologicamente proveniente dall’area semita.

La formazione degli Atti di Taddeo  viene collocata tra il VII e l’VIII secolo, nel periodo cioè compreso tra l’invasione persiana e l’inizio della famosa controversia sul culto delle immagini al tempo dell’imperatore romano d’Oriente, Leone III44.

Gli Atti di Taddeo sono una fonte importante per comprendere le relazioni tra quanto descritto e la Sindone di Torino: il re Abgar incarica il messo Hannan a ritrarre l’aspetto di Cristo, la sua statura (elikìa), la capigliatura, e tutto il resto "tutte le sue membra". Quando Anania cominciò a ritrarre il volto di Gesù, questi chiese di lavarsi e gli fu dato un tetràdiplon. Quando si fu lavato, Gesù asciugò la sua persona e consegnò ad Anania l’immagine impressa sulla Sindone (en tei sindòni)45.

Taddeo l’apostolo arrivò nella città di Edessa solo dopo l’Ascensione di Gesù, dove predicò e organizzò la comunità ecclesiale. La sua permanenza nella città anatolica durò cinque anni dopo i quali partì per Beyrouth dove qualche tempo dopo morì.

È importante dire che soltanto in questo documento appare la parola greca tetràdiplon, almeno in forma non derivata.

Nelle Cronache di Agapios si fa riferimento all’immagine dipinta su una tavoletta quadrata; forte è la relazione tra il termine greco tetràdiplon e quello semita del lemma quattro o quadrato: mrb (merebà). Infatti lo stesso Pseudo-Costantino parla di Abgar che aveva fatto fissare l’immagine sopra una tavola ornata d’oro46.

Si descrive un grande rettangolo in mezzo al quale si vede la sola testa del Cristo47; il restante rettangolo invece è coperto da una griglia di losanghe, mentre ai bordi dell’immagine appaiono delle frange di tessuto. Il tessuto era quindi piegato in più parti, precisamente in otto, da qui il termine tetradiplon.

Altro elemento da mettere in evidenza continuando l’analisi della fonte greca, è quello relativo al fatto che non si parla di un dipinto, dunque dell’utilizzo di colori per produrre l’immagine impressasi sul telo, ma di un volto impresso sulla stoffa con una sostanza liquida; si pensa sia il sudore come dicono del resto anche gli Atti di Taddeo.

Altra fonte, questa volta siriaca, certamente di non secondaria importanza, è il Tractatus, del II-III secolo d.C., tradotto in latino nell’aprile del 769 dall’archiatra48 Smira in occasione del sinodo lateranense, convocato da Stefano III, Papa dal 768 al 772.

Il testo è conservato nell’Università di Leiden in Olanda, catalogato come Vossianus Latinus, un manoscritto latino del X secolo.

Secondo il Tractatus, l’impronta dell’uomo sul Mandylion è totale, frontale e dorsale: "porta impresso, oltre al viso, tutto il corpo...perché si distese sul lenzuolo".

La fonte siriaca descrive inoltre la metamorfosi dell’immagine della figura di Cristo durante l’arco della giornata di Pasqua: questa si trasformava con il mutare delle ore: "prima il Cristo appariva come infante, poi bambino, quindi adolescente ed infine adulto, nella pienezza dell’età in cui il Figlio di Dio, venendo alla Passione, sopportò il terribile supplizio della croce per il peso dei nostri peccati. Questo racconto è spesse volte messo in relazione, dagli studiosi del vangelo apocrifo Atti di Giovanni; il documento, redatto nel II secolo, descrive che il Signore appare agli Apostoli ora anziano e ora bambino"49.

Ultima fonte di questo periodo è l’Epistola del sinodo di Gerusalemme50, anch’essa di provenienza siriaca, ma di ambiente religioso melkita, è redatta in Gerusalemme durante il santo sinodo della Pasqua dell’anno 836.

La fonte gerosolimitana fornisce importanti elementi quanto alla identificazione del Mandylion qui descritto con la Sindone di Torino: "ma lo stesso Signore e Salvatore dell’universo, quando ancora conversava sulla terra, impresse su un sudario l’impronta della sua santa effige (morphè). Quando vi deterse con le sue stesse mani il sudore (hidòta) del suo volto immacolato, subito vi rimase impressa, per la sua divina potenza, l’impronta (charakter) della sua santa effige, cioè tutti i suoi tratti distintivi come mediante colori (hos en chròmasi tisi) in virtù del suo divino potere, conservando somigliantissimo il suo divino sembiante col prodigio operato sul sudario. Ciò poté avvenire per la bontà del nostro Salvatore Gesù Cristo il quale apparve in terra e conversò con gli uomini. Questo sudario, venerato e figurato, il Signore stesso Nostro Salvatore lo ha inviato per mano del santo Taddeo apostolo ad un certo Abgar, toparca della città di Edessa. Questi, come se mediante questo, fissasse al presente come in uno specchio (hos enoptrizòmenos) colui che glielo aveva inviato, compreso da estatico stupore riceve, con fede inconcussa, il santo battesimo"51.

Il documento mette in evidenza un aspetto importantissimo ed originalissimo rispetto agli altri finora qui elencati: la descrizione dell’immagine come se questa fosse in uno specchio, cioè, come diremmo noi oggi, impressa come un negativo fotografico: il verbo greco usato, enoptrìzomai, tradotto in latino intueor velut in speculo, indica una inversione dell’immagine, dal positivo al negativo.

Anche in quest’ultimo caso la relazione con l’impronta sindonica, anch’essa impressionata in negativo, credo sia evidentissima; il proiettare il nostro sguardo sul telo e vedere Cristo come se fosse in uno specchio è il segno più evidente che ci si trova davanti ad una descrizione speciale.

Il linguaggio di quel tempo poteva soltanto così definire l’effetto al negativo altrimenti indescrivibile.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:49
Questo video cerca di ricostruire con obiettività tutte le TORTURE a cui è stato sottoposto l'uomo della Sindone.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:50

2- Da Edessa a Costantinopoli

Dalla redazione dagli Atti di Taddeo ha avuto inizio, come abbiamo più volte affermato, la tradizione secondo cui l’immagine di Gesù sulla stoffa è stata impressa mediante l’applicazione di un telo sul suo viso; l’operazione, al dire dei documenti, è stata fatta da lui stesso.

Questo racconto viene riportato in due codici greci: il Vindobonensis del X secolo e il Parisinus del secolo XI. Il primo fa precisi riferimenti relativi alla traslazione del Mandylion da Edessa a Costantinopoli nell’anno 94452.

Ci siamo addentrati così nel X secolo, momento storico carico di eventi importanti per le vicende del sacro Telo.

Infatti famoso è il discorso dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito (912-959) quando, in qualità di esperto in pittura, impegnato a descrivere il lenzuolo funebre conservato in Costantinopoli e che la tradizione già faceva risalire ai panni sepolcrali del Cristo, così esordisce in una sua omelia: "E dunque riguardo all’impronta della forma teandrica di questo Verbo divino, che si è impressa senza tinta nel tessuto che l’ha ricevuta per la volontà meravigliosa del suo autore, che fu mandata allora da Abgar per la sua guarigione e che adesso per una provvidenza assolutamente divina, è stata portata da Edessa a questa regina delle città, per sua salute e salvaguardia, affinché sia manifesto che essa non manca di nulla, perché essa ha il diritto di prevalere su tutte in ogni cosa.....Quanto alla causa per cui, grazie ad una secrezione liquida senza materia colorante né arte pittorica, l’aspetto del viso si è formato sul tessuto di lino e in che modo ciò che è venuto da una materia così corruttibile, non abbia subìto nel tempo alcuna corruzione, e che tutti gli altri argomenti che ama ricercare accuratamente colui che si applica alle realtà come fisico, bisogna lasciarli all’inaccessibile saggezza di Dio".

Subito dopo, l’omelia prende a descrivere la formazione dell’immagine teandrica: "Riguardo al punto principale dell’argomento tutti sono d’accordo e convengono che la forma è stata impressa in maniera meravigliosa nel tessuto dal volto del Signore. Ma riguardo a un particolare della cosa, cioè al momento, essi differiscono, cosa che non nuoce in alcun modo alla verità, che ciò sia accaduto prima o più tardi. Ecco dunque l’altra tradizione. Quando Cristo si avvicinava alla sua passione volontaria, quando mostrò l’umana debolezza e lo si vide nell’agonia pregare, quando il suo sudore colò come gocce di sangue, secondo la parola del vangelo, allora, egli ebbe da uno dei suoi discepoli questo pezzo di tessuto che ora vediamo e con esso si asciugò l’effusione dei suoi sudori. E subito si impresse quest’impronta visibile dei suoi tratti divini"53.

Appaiono evidentissimi almeno due particolari che mettono in forte relazione il Mandylion descritto dall’imperatore con la Sindone conservata nel Duomo di Torino: in primo luogo Costantino riferisce che l’immagine di Cristo si è impressa sul telo in modo misterioso quindi senza l’uso di pigmenti o colorazioni varie; in secondo luogo indica la presenza sul tessuto di tracce di sangue, causate dall’agonia di Gesù nel Getsemani54 quando prese a sudare sangue dalla fronte (Lc 22,44).

Sia quest’ultima descrizione che quella fatta da Symeon Magister55, sempre nel X secolo, contenuta nella Narratio de Imagine Edessena, fanno pensare che la stessa si riferisse più alla Sindone che ad un dipinto.

La cronaca racconta delle due differenti descrizioni che i figli dell’imperatore Romano I Lacapeno (920-944) e il giovane co-imperatore Costantino VII fanno del Mandylion, quando la reliquia viene presentata alla famiglia imperiale: i due figli Stefano e Cristoforo dicevano di non vedere nient’altro che un volto, e Costantino, il genero di Romano, diceva invece di vedere sia gli occhi che le orecchie del Santo Volto: "Pochi giorni prima, (della deposizione di Romano ad opera dei suoi due figli) mentre tutti esaminavano l’impronta senza contaminazione del santo asciugatoio del Figlio di Dio, i figli dell’imperatore dicevano di non vedere nient’altro che un volto. Ma il genero Costantino Porfirogenito diceva di vedere occhi e orecchie. Il venerabile Sergio disse loro: "Avete visto bene in ambedue i casi". Essi risposero: "E che significa la differenza tra l’uno a l’altro?" Egli rispose: "Non sono io, ma il profeta Davide a dire: gli occhi del Signore si volgono verso i giusti e le sue orecchie verso la loro preghiera. Ma il volto del Signore si volge verso i malvagi per sterminare dalla terra il loro ricordo (Sal 33,16). A queste parole essi furono pieni di collera e complottarono contro di lui"56.

Ciò che ci interessa della descrizione fatta differentemente dai tre è l’evanescenza dell’immagine impressa sul Mandylion tale da far dare interpretazioni diverse a chiunque la guardasse.

Questi due documenti hanno fatto dire allo storico Ian Wilson che il Mandylion e la Sindone di Torino sono la stessa cosa: si ipotizza cioè la perfetta identificazione tra i due oggetti presi in esame nelle fonti medioevali, dimostrandone, come abbiamo fatto, le correlazioni57.

L’immagine edessena dunque, quella cioè che fa vedere soltanto il volto di Cristo, non è altro che la Sindone piegata in otto parti: un ottavo di Sindone esposto alla vista dei fedeli è la parte del solo Volto; la restante parte del rettangolo veniva coperta da una griglia di losanghe, così descritta da più fonti.

Medioevali sono anche la Storia Universale di Agapios, anch’essa del X secolo, e la Cronaca di Michele il Siro, del secolo XII58.

Le due autorevoli fonti parlano sia della lettera di Gesù che della relativa promessa di incolumità della città, oltre che della presenza di un’immagine.

Anche se opere tardive, sono però ritenute "sicure", perché null’altro che rielaborazioni dei documenti più antichi, e cioè di quelli sopra descritti: la Dottrina di Addai e la posizione di Eusebio di Cesarea.

Dalle ulteriori fonti medioevali prodotte, laddove non fossero ancora sufficienti quelle antiche, è verosimile affermare che ad Edessa ci conservava una immagine non fatta da mano d’uomo, cioè achiropita, già nei primi secoli dopo la morte di Cristo; la sua scoperta definitiva, però, come abbiamo visto, verrà fatta soltanto nel corso del VI secolo.

L’immagine arriva a Costantinopoli nel 944, dopo una battaglia combattuta dall’esercito bizantino contro il sultano di Edessa. Da quel momento il 15 agosto59, giorno nel quale si festeggia la Dormizione della Madre di Dio in Oriente e dell’Assunta in Occidente, diviene momento di ricordo di tale avvenimento60.

Così infatti canta l’Inno liturgico, composto in occasione dell’accoglienza trionfale fatta alla Reliquia al suo arrivo nella capitale orientale: "Le parole del Cantico si sono adempiute in maniera intelligibile nella festa presente. Incarnato per noi, il nostro Dio dapprima ci ha fatto sentire la voce nei santi vangeli. Ora Egli mostra il suo volto, che ha disegnato asciugandolo, accreditando in questi due modi la meraviglia della sua ineffabile Incarnazione"61.

Si può leggere in questa fonte liturgica la costante e progressiva presenza di Dio nella storia dell’uomo: come la rivelazione antica parte dalla esperienza che Abramo fa nel deserto quando sente la voce di Dio che lo interpella e questa trova il suo massimo compimento in Cristo, il figlio di Dio e Dio stesso, il Logos, il quale si incarna, nella rivelazione nuova, per incontrare l’uomo e dirgli definitivamente la verità tutta intera, così il vangelo, la buona novella, trova la sua ulteriore presenza di Cristo tra gli uomini non solo nella Parola annunciata, ma anche nell’immagine impressa sul telo. È l’ostinato desiderio di Dio a voler dimorare in mezzo agli uomini62.

Il passo veterotestamentario che L’Inno liturgico riporta è la pericope di Ct 2,14: "O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro".

Il rapporto voce-volto è ben messo in evidenza in questo brano il quale sintetizza ciò che la liturgia cattolica celebra durante il mistero della Santa Messa, la proclamazione della Parola prima e la Presenza di Cristo nella Eucaristia dopo.

La fonte più importante che attesta la presenza della Sindone a Costantinopoli è l’Omelia di Gregorio Referendario, funzionario della corte imperiale nel X secolo.

L’Omelia, tenuta dall’arcidiacono in occasione dell’arrivo della Reliquia in Santa Sofia il 16 agosto, presenta, rispetto alle altre fonti, almeno due elementi di novità: afferma, innanzitutto che l’immagine di Edessa non è stata prodotta nel corso del ministero pubblico di Gesù per soddisfare il desiderio di guarigione di Abgar, ma durante l’agonia del Getsemani, come già l’omelia di Costantino VII Porfirogenito aveva timidamente detto; essa si è formata quindi non con l’acqua con cui Cristo si sarebbe inumidito la faccia, ma col sudore di sangue. In secondo luogo, che l’immagine impressa sul telo non riporta solamente il volto, ma il corpo e le macchie di sangue e acqua63.

Questa la descrizione fatta da Gregorio a proposito della misteriosa immagine: "Il fulgore (dell’immagine) è stato impresso dai soli sudori dell’agonia del volto dell’Autore della Vita, che sono stati colati come grumi di sangue, e dal Dito di Dio. Sono essi (i sudori) gli ornamenti che hanno colorato la vera impronta di Cristo. E, dopo che essi sono colati, è stata abbellita dalle gocce del proprio costato"64.

Un’opera liturgica importante che testimonia ulteriormente la presenza della Sindone in Costantinopoli è quella di Cristoforo di Militene (1000-1050): "Su una Sindone, perché vivente, hai impresso le tue sembianze; perché morto, vestisti, ultima, la Sindone".

Il sinassario del monaco Simeone Metafrastata (+1000) completa le fonti eucologiche: qui è narrata la vicenda del Mandylion di Edessa.

Si ottiene così una lunga sequenza storica nella quale le testimonianze relative a un’immagine non fatta da mano d’uomo, sono tra loro legate in maniera quasi sorprendente a quelle che parlano dei panni sepolcrali di Cristo, conservati a Costantinopoli tra le reliquie della Passione65.

Una miniatura che rappresenta il trasferimento del Mandylion da Edessa a Costantinopoli è quella che va sotto il nome di codice Skylitezè, il cronografo bizantino Giovanni, all’epoca dell’imperatore Alessio I Comneno (1081-1118); nel disegno è raffigurato l’imperatore Romano I Lacapeno (920-944) che riceve la Reliquia dalle mani di un sacerdote e con una scritta in calce alla miniatura stessa: To hagion Mandylion, il Santo Mandylion66.

Nel monastero di Santa Caterina sul Sinai, fondato dall’imperatore bizantino Giustiniano, si trova una icona che riproduce molto similmente le raffigurazioni della miniatura del codice Skylitezè; l’unica importante variante è che il personaggio ricevente il dipinto dall’apostolo Taddeo è il re Abgar. Il re di Edessa ha sulle ginocchia un velo, guarnito di frange, sul quale è chiaramente visibile il capo del Salvatore.

È evidente il parallelismo che questa icona vuol fare tra il re Abgar e l’imperatore bizantino Costantino Porfirogenito da una parte e tra la protezione concessa alla città di Edessa ora passata all’Impero.

Sarà il cronista crociato Robert de Clary, cavaliere di Piccardia, nella sua opera La Conquête de Constantinople del 1204, a parlare di una Sindone, esposta ogni venerdì nella chiesa di Santa Maria di Blacherne in Costantinopoli67, e a riferire che sul telo in oggetto fosse chiaramente visibile la figura del Cristo; il cavaliere francese, nella stessa opera, la Storia di quelli che conquistarono Costantinopoli, ha enumerato le reliquie che la chiesa conservava in quell’anno e le bellezze delle costruzioni della capitale dell’impero.

Così dunque l’importante descrizione, riportata nel capitolo XVII della fonte, della figura vista, crediamo personalmente, dal Clary prima che la Nuova Roma cadesse nella mani dei latini: "E fra queste altre chiese, ce n’è un’altra che si chiama Signora Santa Maria delle Blacherne, dove si trova la sindone in cui Nostro Signore fu accolto, che ogni venerdì si esponeva in tutta la sua altezza, tanto che vi si poteva ben vedere la figura di Nostro Signore. Né alcuno seppe, né Greco, né Francese, che ne avvenne di questa sindone quando la città fu conquistata".

Se il cronista ha volutamente espresso la descrizione dell’impronta sindonica con il termine figura e non con quella solita di volto è perché evidentemente egli vedeva l’intera raffigurazione del corpo del Signore; ma il cavaliere d’oltralpe ci lascia anche un altro indizio importante da evidenziare: nessuno seppe cosa accadde alla Reliquia dopo il sacco del 12 aprile del 1204.

Una data però sembra certa: nel 1247 la Sindone era ancora in Costantinopoli; in quell’anno Baldovino II ne inviò al cugino, Luigi IX di Francia, una parte di tessuto "partem sudarii"68.

Si sa inoltre dai discorsi di Nicola Mesarites che la chiesetta di Santa Maria del Faro, il luogo della conservazione delle reliquie prima che passassero nella chiesa di Santa Maria delle Blacherne, conteneva ben dieci resti dei racconti della vita di Gesù: il decalogo fu più volte imposto alle orecchie di quanti organizzavano rivolte e profanazioni, una per tutte quella di Giovanni Comneno il quale voleva ribaltare il seggio imperiale.

La fonte descrive la stoffa come molto pregiata, ancora profumata e, particolare interessante ai fini della comparazione con il Lenzuolo di Torino, il corpo di Cristo è nudo; ciò che per Clary era tratto a figura intera, qui diventa nudo.

Molte altre testimonianze potremmo ancora citare, ma si potrebbe rischiare di appesantire la lettura; ci basta affermare che in Oriente il culto di una immagine non fatta da mano d’uomo, di difficile descrizione e rappresentante un uomo in tutta la sua figura, per di più nudo, non era una cosa estranea69.

Dopo quasi 150 anni, nel 1353, la Sindone appare a Lirey in Francia; il possessore è Geoffroy de Charny, cavaliere crociato e omonimo del templare arso vivo cinquanta anni prima.

È l’ultimo anello della catena che chiude la storia orientale e apre quella occidentale, oggetto di esposizione del capitolo successivo.

                       

Note del I Capitolo

1 Sappiamo che le prove della risurrezione di Gesù Cristo sono tutte da accreditarsi alle diverse apparizioni del Risorto ai più stretti suoi seguaci e agli Apostoli stessi. Quella del Telo più che una prova della avvenuta resurrezione era compresa, dalla primitiva comunità di Gerusalemme, come un ricordo personale di ciò che era appartenuto al Maestro.

 

2 Da questo momento la Sindone risulta in possesso di Geoffroy di Charny, un cavaliere crociato, il quale la consegna ai canonici di Lirey, piccola cittadina della Francia.

3 Ricordiamo soltanto i vari incendi e gli spostamenti che il Telo ha fatto da Gerusalemme a Chambéry per giungere poi finalmente a Torino; i contrasti tra le curie locali; il trasporto segreto della Sindone nel Santuario di Montevergine (Avellino) per sfuggire ai bombardamenti della seconda guerra mondiale.

4 È infatti dallo sviluppo della prima fotografia scattata al telo sindonico nel maggio del 1898 dall’avvocato Secondo Pia che la Scienza ha potuto dare inizio alla ricerca: i numerosi particolari emersi dal negativo fotografico non sono visibili ad occhio nudo.

5 Marlene Eordegian, una studiosa armena della Hebrew University di Gerusalemme, sta conducendo una ricerca su manoscritti inediti i quali attesterebbero la presenza della Sindone, sia in campo liturgico che storico-letterario, nella chiesa orientale dei primi secoli. Cfr la relazione tenuta al convegno di Asti il 2 maggio 1998, organizzato dall’ENEC (Europe-Near East Centre) e dal Centro Culturale P. Frassati, dal tema: "La Sindone. Tra Oriente ed Occidente".

6 Sono così definiti gli studiosi della Sindone che pur appartenendo a differenti scienze, se ne contano almeno trenta, ne formano una nuova: la sindonologia.

7 La Conferenza Episcopale Italiana, ha affidato all’ENEC (Europe-Near East Centre), un progetto di ricerca relativo al rinvenimento di eventuali manoscritti inediti riguardanti la Sindone di Torino in età antica. Le piste che si stanno battendo riguardano le fonti greche, armene, siriache ed arabe. Il Fondo costituito ha dato così la possibilità di avviare alcune delle ricerche summenzionate con risultati, ci auguriamo, interessanti ai fini di un maggior contributo relativo alla presenza e al culto della Sacra Sindone in Oriente già nei primi secoli dell’era cristiana.

8 Termine greco che traduce il lemma fazzolettone o asciugamano. La tradizione fa del Mandylion la stoffa sulla quale si sarebbe impresso il volto di Cristo in modo misterioso e che fa riferimento ai racconti del re Abgar e delle vicende della sua città, per questo chiamato il Mandylion di Edessa; nel paragrafo successivo si tratterà della complessa questione circa l’identificazione del Mandylion con la Sindone di Torino.

9 Per la distinzione dei teli funerari e delle caratteristiche peculiari degli stessi, il V e il VI capitolo affronteranno diffusamente l’argomento. Del Sudario conservato dal IX secolo ad Oviedo, nella Cattedrale, dobbiamo subito dire che le macchie di sangue presenti sul telo spagnolo sono dello stesso gruppo sanguigno riscontrato sia sulla Sindone di Torino che nel più importante miracolo eucaristico del mondo: il miracolo di Lanciano (cfr ns. nota 96).

10 Le diverse misurazioni fatte sulla Sindone sono attestate da fonti autorevoli quali la misurazione di Arculfo, pellegrino nel 670 in Gerusalemme, e dall’imperatore Giustiniano (527-565), al punto da ricavare una unità di misura valida in tutto Oriente, chiamata per questo mensura Christi.

11 È altrettanto evidente la situazione di disagio che la primitiva comunità cristiana viveva in quel tempo a Gerusalemme, in Palestina e nell’intera Ecumene: il cristianesimo, come è noto, è stato perseguitato in tutto l’Impero romano fino agli inizi del IV secolo d.C.

12 I cristiani già all’inizio del II secolo vennero apostrofati eretici dai giudei, in ebraico minim; cfr la Dodicesima Birkàt ha-mmìnìm della Tefillàh o Amidàh giudaica, in NICOLA BUX, La Liturgia degli Orientali, p 23, Bari 1996, (Quaderni di O’ Odigos, 1/1996).

13 Il fratello del Signore fu ucciso per invidia dal Gran Sacerdote Anania, suocero di Caifa; quest’ultimo era il vero Sommo Sacerdote facente funzioni al tempo del processo di Gesù.

14 L’apostolo Giacomo viene fatto precipitare dal pinnacolo del Tempio sul quale il diavolo aveva trasportato Gesù per tentarlo (Mt 4,5).

15 Località desertica a venti chilometri dalla capitale della Giudea, conosciuta anche come il luogo di ritiro del monachesimo ebraico: gli esseni.

16 Cfr EUSEBIO di CESAREA, Storia Ecclesiastica, III 5,3.

17 Cfr GIULIO RICCI, La Sindone Santa, p XXII ; XXXIV, Roma 1976.

18 Di Origene è la famosa frase che sancì definitivamente i vangeli apocrifi non canonici: Ecclesia quattuor habet evangelia, haeresis plurima.

19 Vangelo degli ebrei, in I Vangeli apocrifi, a cura di MARCELLO CRAVERI, p 275-277, Torino 1990.

20 Sulla Sindone come simbolo della trasmissione di un potere sacerdotale e non come Reliquia, cfr. Carlo Papini, Il Vangelo dei Giudeo-cristiani e la Sindone di Gesù, <Approfondimento Sindone>, p. 21-26, Anno I, vol. II (1997).

21 GIROLAMO, De Viris illustribus, 2 (PL 23, 641, n. 831); Apocrifi del Nuovo Testamento, I, a cura di LUIGI MORALDI, p. 376, Torino 1971.

22 Cfr Kitzur Shulchan Aruk, in BONNIE B. LAVOIE, <Sindon> 1981, q. 30; cfr ABRAHAM COHEN, Il Talmud, Bari 1999.

23 La moglie di Pilato Claudia Procula (o Procla) è per la chiesa greca, santa; è festeggiata il 27 ottobre nel calendario liturgico. Cfr VITTORIO MESSORI, Patì sotto Ponzio Pilato. Un’indagine sulla passione e morte di Gesù, p 87, Torino 1992.

24 Cfr Dichiarazione di Giuseppe di Arimatea, in I Vangeli apocrifi, p 401-409.

25 Per i testi dei vangeli apocrifi consultare I Vangeli apocrifi, a cura di M. CRAVERI.

26 Cfr L. MORALDI, Apocrifi del Nuovo Testamento, Torino 1971.

27 Le immagini achiropite nel mondo iconografico sono diverse; si tratta sostanzialmente di immagini impresse su teli, delle quali però non se ne conosce la natura e la causa.

28 Di diverso parere è lo studioso ANTONIO LOMBATTI, cfr Impossibile identificare la Sindone con il Mandylion: ulteriori conferme di 3 codici latini, <Approfondimento Sindone>, Anno II, vol. 2 (1998), p. 1-30; interessante è la risposta al prof. Lombatti da parte dello storico americano DANIEL SCAVONE, sostenitore dell’identificazione della Sindone di Torino con il Mandylion, cfr Comments on the article of A. Lombatti, <Approfondimento Sindone>, Anno III, vol. I (1999), p. 53-66.

29 Sindòn, telo, veste, mantello, panno, othòne, lenzuolo, tela, abito, drappo, tessuto, etc.

30 Cfr CIRILLO di GERUSALEMME, Le Catechesi: ventesima Catechesi o seconda catechesi mistagogica 7,13, in Collana di Testi Patristici a cura di ANTONIO QUACQUARELLI, Roma 1993.

31 CIRILLO di GERUSALEMME, Catechesi Mistagogica XIV,12.

32 Cfr ETERIA, Diario di viaggio, traduzione di C. ZOPPOLA, Roma 1979.

33 GEROLAMO, De viris illustribus, c 2 ; PL 23, p 612-613.

34 A confutare la tesi che la fonte siriaca in oggetto sia la "prova" dell’esistenza della Sindone oggi conservata a Torino già nel V secolo d.C. è lo studioso PIER ANGELO GRAMAGLIA; cfr dell’autore, La Sindone di Torino: alcuni problemi storici, <Rivista di Storia e Letteratura Religiosa>, 24 (1988) n. 3, p. 526-531; cfr anche I cimeli cristiani di Edessa, <Approfondimento Sindone>, Anno III, vol. I (1999), p. 1-51.

35 Cfr A.M. DUBARLE, O.P., Storia antica della Sindone di Torino, p 113-125, Roma 1989.

36 Ivi, 101.

37 Il divieto di vedere le reliquie è una prassi molto presente nella Chiesa cattolica e non solo. L’interdetto è stato in parte moderato soltanto negli ultimi anni, e cioè dopo il Concilio Vaticano II.

38 In questa fonte non compare il termine acheiropoiètos, ma la parola theoteuctos, opera di Dio, cfr DUBARLE, op cit, nota 1, p. 99.

39 Cfr DUBARLE, Storia antica, p. 99-111.

40 Per il prof. GRAMAGLIA la fonte bizantina è una rielaborazione e una manipolazione di Evagrio che integra nel 593 i racconti di Eusebio di Cesarea e quelli di Procopio. Cfr dell’autore, La Sindone di Torino, p. 538-539.

41 Strofa IX, traduzione Dupont-Sommer. A tal proposito è interessante confrontare il passo con Dn 2,34: "Mentre stavi guardando, una pietra si staccò dal monte, ma non per mano di uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che era di ferro e di argilla, e li frantumò". Cfr DUBARLE, Storia antica della Sindone di Torino, nota 12, cap V, p 103, Roma 1986.

42 La trasposizione della protezione, dalla lettera all’immagine, è stata influenzata e contaminata dalla esperienza della vicenda legata all’immagine di Kamuliana, un paese della Cappadocia, che possedeva un’immagine non fatta da mano d’uomo, la prima ad essere definita in tal modo, utilizzata dall’esercito dell’imperatore contro la lotta ai persiani. Cfr DUBARLE, Storia antica, p 107.

43 Ibidem, p 109.

44 GINO ZANINOTTO, La Sindone di Torino e l’immagine di Edessa. Nuovi contributi, in <Sindon>, p 3, (3/1996).

45 Ivi, p 4.

46 PG 113,437 A.

47 Non bisogna dimenticare che nell’antichità esisteva il timore del sacro e che il Lenzuolo portava i segni della Passione di Cristo, motivo sufficiente per celare ai fedeli la cruenta morte del Signore oltre che la nudità del suo santo corpo.

48 Nome dato fino ai secoli scorsi al medico privato e a volte segreto del Sommo Pontefice; oggi questo appellativo è caduto in disuso.

49 L. MORALDI, Apocrifi del Nuovo Testamento, p. 1178-1179, Torino 1971.

50 Sarà Gregorio Referendario a fare esplicito riferimento all’epistola gerosolimitana: egli prende in esame sia gli elementi narrativi che il nome dell’autore della traslazione del Mandylion, da Edessa a Costantinopoli. Il capitolo successivo affronterà nel particolare la fonte in oggetto.

51 Cfr GINO ZANINOTTO, La sindone e l’immagine di Edessa, in <Sindon>, 1996.

52 Ivi, p. 3.

53 DUBARLE, Storia antica , p. 72-73.

54 Il termine Getsemani in ebraico significa frantoio per l’olio; è il luogo situato nella valle del Cedron, ai piedi del monte degli Ulivi. È interessante mettere in relazione i due eventi: dalle olive, opportunamente pressate, esce olio; dal capo di Cristo esce sangue.

55 Cfr DUBARLE, Storia antica, p. 75.

56 Ib, p. 76.

57 Cfr IAN WILSON, The Turin Shroud, London 1978.

58 Cfr DUBARLE, Storia antica, p. 115-116.

59 In questa data il reliquiario che conteneva il Telo di Cristo arriva a Costantinopoli. La Sindone fu deposta in primo luogo presso l’oratorio della chiesa delle Blacherne; venne quindi trasferita nella chiesetta del Faro nel complesso imperiale del Boucoleon. Il giorno seguente, la santa processione proseguì lungo la costa della città, vi rientrò dalla Porta d’Oro e si condusse verso la basilica di S. Sofia. La Reliquia ripartì per il palazzo imperiale e fu deposta sul trono dell’imperatore. Il santo percorso, taumaturgico e protettivo, si concluse nella chiesa del Faro.

60 Cfr Archimandrita GEORGES GHARIB, La festa del Santo Mandylion nella chiesa bizantina, <Atti del II Congresso Internazionale di Sindonologia>, 1978.

61 DUBARLE, Storia antica, p. 79.

62 Cfr LUIGI NEGRI, Un dono del Signore, <Collegamento pro-Sindone>, p. 19-24, 5/6 (1998).

63 Cfr A.M. DUBARLE O.P., Novità della storia antica della Sindone di Torino, in <Sindon>, p. 1-2, (4/1990).

64 Cfr GINO ZANINOTTO, Codices Vaticani Graeci, t. II, 1937, n. 511; fogli 143-150, in <Collegamento pro-Sindone>, p. 16-25, (3-4/1988); Cfr DUBARLE, Novità della storia.

65 Si fa risalire il rinvenimento delle reliquie di Terra Santa all’imperatrice Elena e a Costantino nel 326 d.C. Cfr NICOLA BUX - FRANCO CARDINI, L’anno prossimo a Gerusalemme. La storia. Le guerre e le religioni nella città più amata e più contesa, p. 36-40, Milano 1997.

66 Di differente parere è P. A. GRAMAGLIA, cfr Ancora la Sindone di Torino, <Rivista di Storia e Letteratura religiosa>, Anno XXVII, (1991) n. 1, p. 99-101.

67 Si sa infatti che in Oriente le reliquie, specialmente quelle achiropite, cioè non fatte da mani d’uomo, hanno svolto la funzione di palladio della città e delle sorti dell’impero soprattutto a difesa delle guerre contro le popolazioni persiane ed arabe successivamente. L’esposizione regolare della santa Reliquia a Costantinopoli in quei giorni, a cavallo tra le due prese delle truppe crociate, aveva l’unico scopo di proteggere la città dall’assedio dei veneziani e dei franchi.

68 G. RICCI, La Sindone Santa, p. XXXVI.

69 Non riporto volutamente, per motivi di spazio, le fonti iconografiche, le cause artistiche e liturgiche della nascita delle icone, degli epitafioi e delle imago pietatis nonché delle immagini achiropite impresse su creta, il famoso laterizio; la bibliografia, in calce al testo, rimanderà a queste importanti ed ulteriori fonti le quali avallerebbero, al dire di molti studiosi, sia l’antichità che l’autenticità della Sindone di Torino.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:52
Un video decisivo per comprendere che la radiodatazione è stata fuorviata dalla riparazione del telo proprio nel punto in cui è stato prelevato il pezzo per essere datato. Di estremo interesse perchè affossa definitivamente la datazione a cui tanti purtroppo continuano ancora a dare credito.


(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:53
 

La storia moderna della Sindone

1- La Sindone in Europa

Il secondo troncone storico, cioè la parte documentata della storia della Sindone, comincia dalla prima metà del XIV secolo: improvvisamente in Francia, e più precisamente a Lirey, cittadina della Champagne, il Telo sindonico appare nelle mani del nobile cavaliere francese Geoffroy de Charny.

Il crociato franco fu testimone diretto della caduta della città di Smirne avvenuta durante una spedizione crociata nel 1346: egli era conte di Lirey, e le fonti ci dicono che il possesso del Telo gli fu dato da Guillame de Toucy, un canonico cantore della chiesa di Reims, a battaglia terminata, così come più tardi affermeranno suo figlio, Geoffroy II e la nipote Margherita70.

Nell’estate del 1353 Geoffroy I dona la Sindone al capitolo dei canonici di Lirey, collegiata che si trovava nella diocesi di Troyes, dove fece successivamente costruire una chiesa come sede della custodia del Santo Lenzuolo.

Il modo con cui il cavaliere crociato sia venuto in possesso del Sacro Telo è però tuttora un mistero nonostante le notizie riportate dalle fonti appena citate.

A tal proposito, diverse sono state le ipotesi fatte dagli studiosi: alcuni parlano dell’impossibilità di esporre la Reliquia perché, come è noto, il sacco di Costantinopoli del 1204, avvenuto nel corso della IV crociata, scatenò l’ira del pontefice e la relativa scomunica contro quanti vi fecero parte.

Infatti il silenzio assoluto sulla pur minima traccia del destino della Sindone, durato circa 150 anni, dal 1204 al 1357, fa immaginare un voluto oscuramento sulla situazione creatasi intorno al Telo da parte del possessore - o dei possessori - del Lenzuolo funebre di Gesù.

Altra ipotesi che giustificherebbe il misterioso silenzio è sempre relativa ad un comando disatteso, questa volta di natura militare e non religiosa, in quanto l’ordine impartito dalle corone d’Europa era quello di portare a massa i tesori saccheggiati dalle relative conquiste durante la Crociata.

Chi ha recuperato la Sindone non ha obbedito all’ordine di guerra, motivo sufficiente per indurlo a occultare il reperto per un congruo periodo di tempo71.

Sappiamo però che nel 1205, il 1 agosto, Teodoro Angelo Comneno, fratello di Michele III, invia una supplica a Papa Innocenzo III nella quale si chiede il rilascio delle reliquie depredate dal sacco dell’anno precedente; il riferimento alla Sindone è preciso: il Lenzuolo funerario di Cristo si trova, secondo il bizantino, ad Atene72.

Rimane comunque un passo oscuro la permanenza della Sindone a Costantinopoli a cavallo tra il 944 e il 1204: conviene perciò citare alcune testimonianze che parlano della presenza del Sacro Telo nella capitale bizantina.

A darne notizia sono soprattutto le liste delle reliquie presenti nella capitale datate intorno ai secoli XI e XII: la prima è del 1092 quando l’imperatore Alessio si raccomanda di non perdere la città santa di Costantinopoli perché luogo della conservazione delle reliquie e tra queste i lenzuoli che gli Apostoli trovarono nel sepolcro dopo l’avvenuta risurrezione di Gesù; la seconda, non meno importante della prima, descrive l’incontro di Ludovico VII re di Francia con il Lino di Gesù in Costantinopoli nel 1147.

Segue poi, tra i documenti che testimoniano la presenza della Sindone in Costantinopoli, l’elenco delle cose sacre venerate in quel tempo a Costantinopoli, datato 1157: l’abate di Thingeyrar, Nikolas Samudarson compila la lista citando espressamente le fasce, la Sindone e il sangue di Cristo; ancora, il re di Gerusalemme Amauri nel 1171 incontrò Emanuele Comneno il quale facendo gli onori di casa mostra la Sindone.

La più famosa fonte di questo periodo è il racconto di Robert de Clary che nel 1203 vede il Telo di Cristo esposto ogni venerdì nella Basilica di santa Maria delle Blacherne in Costantinopoli73.

Torniamo alla storia occidentale della Sindone: le prime ostensioni - le pubbliche visioni del Telo perché i fedeli potessero venerarlo - furono dunque organizzate in Francia dal 1357 al 1370, e il pellegrinaggio divenne sempre più intenso e noto ai cattolici, non solo di Francia.

Una traccia di questi importanti momenti è impressa in una placca di piombo a forma rettangolare, raffigurante l’immagine del corpo di Cristo impresso sul lenzuolo, a figura umana intera, frontale e dorsale, così come è riprodotta sul Telo di Torino: è la prima raffigurazione su metallo che si conosca della Sacra Sindone.

Questo importante oggetto è stato trovato sotto uno dei ponti di Parigi, nelle acque della Senna, appena nel 1855; è attualmente conservato presso il museo di Cluny74.

Tornando alla storia della Sindone  riprendiamo il cammino dal figlio di Geoffroy, il cavaliere crociato possessore del Telo. Il militare sposa Marguerite de Poitiers, la nipote di un vescovo che forse, per motivi di gelosia, visto il grande pellegrinaggio che si era creato intorno alla Sindone, sospese le ostensioni del Telo.

Dobbiamo aspettare l’antipapa Clemente VII, nel 1389, per far riprendere le pubbliche ostensioni della Sindone a Lirey, ma questa autorizzazione papale, a discapito dell’autorità locale del vescovo, non piacque al porporato di Troyes, al punto che questi si scagliò addirittura contro l’autenticità del lenzuolo. Infatti, non contento, Pierre d’Arcis, il vescovo invidioso, si rivolse al re di Francia Carlo VI, e ottenne l’ufficiale proibizione delle ostensioni75.

A causa della Guerra dei Cent’anni i canonici della città pensarono di affidare temporaneamente il Sacro Lino alla famiglia di Marguerite de Charny76, nipote di Geoffroy, la quale era sposata con il conte e signore di Lirey. 

A guerra ultimata la contessa, rimasta vedova nel frattempo, si rifiutò di consegnare la Sindone ai legittimi proprietari, anche perché, fonte di guadagno per se stessa, rimasta sola e senza mezzi finanziari.

Seguì un periodo travagliato per la nobildonna : processi in tribunale, condanne pecuniarie e persino la scomunica, ma ella continuava a girare indifferentemente per l’Europa e a far ostendere la Sindone ovunque andasse77.

Nel marzo 1453 il Telo viene ceduto, dietro compenso, dalla contessa Marguerite al duca Ludovico di Savoia, marito di Anna di Lusignano, con regolare atto notarile. Nell’accordo generale era previsto anche l’usufrutto del castello di Mirabel visto che la contessa non possedeva neanche una casa.

Da quel momento in poi, la Sindone farà parte del patrimonio sabaudo per oltre cinque secoli, fino al 1983 quando Umberto II, nelle sue volontà testamentarie, volle che il Telo divenisse di proprietà del Papa: il primo documento che ne attesta la proprietà è del 1464. Ludovico II versa al capitolo la somma di cinquanta franchi d’oro ogni anno.

Il 22 marzo del 1453 il Lenzuolo viene trasferito da Lirey a Chambery e qui rimase fino al 1578: il Saint Suaire, così veniva chiamata in Francia la Sindone, verrà conservato nella Sainte Chapelle di Chambéry, al punto che dal 1502 la chiesa prese il nome di Cappella del Santo Sudario.

Ma nell’incendio del 1532, nella notte fra il 3 e il 4 dicembre, festa di santa Barbara, la Sindone rischiò di andare bruciata del tutto.

L’incendio interessò anche l’armadio che conteneva il reliquiario: il metallo delle cerniere, di lega povera, a causa del surriscaldamento cominciò a fondersi e il metallo liquefatto penetrò all’interno del cofanetto d’argento, carbonizzando un lato della reliquia e procurando specularmente le bruciature78 che ancora oggi sono palesemente visibili sul Telo.

Due anni dopo le clarisse del luogo restaurarono la Sindone; il rattoppo riguardò ben ventidue zone del tessuto sindonico79; questo poi venne rinforzato interamente attraverso la cucitura di un’altra stoffa, della stessa dimensione della Sindone, in tela d’Olanda, dalla parte del retro del Telo.

Il lavoro fu molto scrupoloso, al punto che le suore riuscirono anche a redigere una descrizione minuziosa del Lenzuolo e dell’immagine stessa, documento servito successivamente agli studiosi per la conferma di alcune tesi scientifiche.

Siamo giunti ormai all’importante data del 4 maggio 1506, quando papa Giulio II approva la Messa e l’Ufficio proprio della Sindone; da questo momento è naturalmente permessa anche la pubblica venerazione.

Nel frattempo la città di Torino diviene capitale della Savoia ed Emanuele Filiberto decide di trasferirvi la Sindone; l’occasione gli viene data dal pellegrinaggio di Carlo Borromeo, il santo vescovo di Milano, il quale si stava recando a piedi nella città di Chambéry per venerare il Telo.

Pare che il viaggio del santo milanese fosse un voto da sciogliere per la cessazione della peste che interessò in quel momento la Milano di manzoniana memoria. Il duca volle così abbreviare il percorso del vescovo milanese trasferendo la Sindone, nel 1578, e da quel momento in poi, dalla Francia a Torino.

Sappiamo inoltre che il trasferimento del Telo nella città italiana, nella chiesa di San Lorenzo, corrispondeva anche ad una esigenza di sicurezza viste le incertezze dei Savoia in terra francese.

Nel giugno del 1694, su disegno dell’architetto Guarino Guarini, presbitero dell’ordine dei Teatini, viene edificata in onore della Sindone una cappella situata dietro l’altare del Duomo, detta da quel momento Cappella della Sacra Sindone.

2- La storia contemporanea della Sindone

Il Telo è stato esposto, almeno fino all’inizio del XX secolo, una ventina di volte, sempre con il solo uso delle mani80 da parte dei vescovi o sacerdoti, e quasi sempre sul sagrato della cattedrale torinese; pare che tra i tanti che abbiano aiutato a ostendere il Telo, ci sia stato anche san Francesco di Sales81.

La storia della Reliquia più importante del mondo ormai si fa recente: nel maggio 1898, l’avvocato Secondo Pia, valente fotografo astigiano, scatta la prima fotografia al telo sindonico.

Dal risultato sorprendente che il negativo mostrò, fu dato ufficialmente inizio alla ricerca scientifica sulla Sindone82: il terzo e il quarto capitolo tratteranno delle questioni messe in luce a partire dallo studio del negativo fotografico grazie al quale molti particolari si sono resi visibili83.

Nel 1931, in occasione di uno dei matrimoni dei Savoia, e successivamente nel 1933, per ricordare l’anniversario plurisecolare della morte di Cristo - anche se ormai si sa con certezza che la data di morte di Nostro Signore è il 7 aprile dell’anno 30 - si ebbero due ostensioni importanti, durante le quali furono scattate altre fotografie, ovviamente con mezzi più sofisticati e con risultati più nitidi di quelle scattate dal Pia trent’anni prima.

È il fotografo Giuseppe Enrie che consegnerà all’umanità i negativi del volto dell’Uomo della Sindone, i quali faranno il giro del mondo su tutti i rotocalchi dell’epoca.

Durante la seconda guerra mondiale il Lenzuolo viene segretamente trasferito nel monastero di Montevergine in Avellino; l’indicazione campana fu provvidenziale: il primo luogo che fu indicato per il trasferimento della Sindone in un luogo al sicuro dai bombardamenti bellici era l’abbazia di Montecassino, che come ben sappiamo fu tristemente distrutta dai fuochi della guerra.

Il 1950 rappresentò invece un punto di sintesi dei numerosi studi che avevano interessato la Sindone fino a quel momento: si tenne infatti il primo congresso sindonologico internazionale, nel quale si confrontarono le tesi dei primi sessant’anni di ricerca scientifica.

Seguirono poi le fotografie, per la prima volta a colori, di Gianbattista Judica Cordiglia, scattate nel 1969, l’ostensione televisiva nel 1973, le prime ricerche del palinologo prof. Max Frei, la costituzione dello STURP (Shroud of Turin Research Project), e l’ostensione del 1978 alla quale, come ben sappiamo, è seguita la "triste" vicenda dell’esame al radiocarbonio: i risultati furono pubblicati sulla rivista <Nature> nel febbraio 1989.

In conseguenza alle questioni sollevate da molti ricercatori, dall’89 ad oggi, si sono tenuti vari simposi, nei quali gli studiosi si sono potuti confrontare apertamente sulle questioni scientifiche a favore e contro l’autenticità e l’antichità della Sindone: Bologna e Parigi 1989, Cagliari 1990, St. Louis 1991, Roma 1993, Nizza 1997, Torino 1998, Richmond e Rio de Janeiro 1999.

La storia della Sindone da questo momento in poi si fa cronaca, se soltanto ricordiamo le immagini televisive dell’incendio della cappella del Guarini, andata quasi completamente distrutta nella notte tra l’11 e il 12 aprile del 1997; si sono impresse, non senza sofferenza, le sequenze del salvataggio del reliquiario d’argento, oggi conservato presso il Museo della Sindone a Torino.

A un anno da quel triste evento, la Sindone è stata esposta nel Duomo di Torino dall’11 aprile al 14 giugno 1998; viene ripresentata ancora alla venerazione della cristianità mondiale dal 26 agosto al 22 ottobre del 2000, anno santo e giubilare di inizio del terzo millennio cristiano.

Note del II Capitolo

70 Cfr RICCI, La Santa Sindone, documenti n° 8 e 9 in appendice.

71 Tesi sostenuta dal prof. Pasquale Corsi, storico e docente dell’Università di Bari, al convegno organizzato dall’ENEC (Europe-Near East Centre) e dal Centro Culturale P. Frassati, tenutosi ad Asti il 2 maggio 1998, dal tema: "La Sindone. Tra Oriente ed Occidente".

72 Cfr PIERLUIGI BAIMA BOLLONE, Sindone: la prova, p. 212, Milano 1998.

73 Le fonti della permanenza della Sindone in Costantinopoli nei secoli XI e XII sono riportate nei documenti 4, 5 e 6 del testo citato di Mons. Ricci.

74 Cfr VICTOR SAXER, La Sindone di Torino e la storia, <Rivista di Storia della Chiesa in Italia>, Anno XLIII, I, 1989, p. 61.

75 Cfr ANDRÉ MARION - ANNE-LAURE COURAGE, La Sacra Sindone. Nuove scoperte, p. 43-45, Vicenza 1998.

76 La causa dell’affidamento è da ricercarsi nelle intenzioni di salvaguardare il Sacro reperto dalla guerra in atto.

77 Cfr EMANUELA MARINELLI, La Sindone. Un’immagine "impossibile", p. 97-102, Milano 1996.

78 Studi recenti hanno dimostrato che le bruciature e le imbruniture che sono state riscontrate sulla Sindone di Torino possono essere state causate anche dal solo contatto del Telo con la lamina d’argento surriscaldata senza per questo necessariamente essere state interessate dal fuoco.

79 Le toppe di lino che le suore applicarono per il restauro del Telo nelle zone bruciate dall’incendio, sono quei grossi triangoli, ben visibili a chi guarda la Sindone anche ad occhio nudo; questo incendio è la causa maggiore dell’arricchimento di carbonio trovato sui campioni del Telo durante l’esame del 1988 che ha contribuito a falsare la datazione: il IV capitolo entrerà nel merito della questione.

80 Vedremo, nel paragrafo dedicato all’esame al radiocarbonio, come queste continue artigianali manipolazioni abbiano influito negativamente sulla datazione della Sindone.

81 Cfr MARION-COURAGE, La Sacra Sindone, p. 53-54.

82 L’Ostensione del 1998 ricorda diversi avvenimenti legati sia alla chiesa di Torino che alla Sindone stessa: 500° della consacrazione della Cattedrale di Torino, 1° centenario della prima fotografia scattata al Telo, 1600° del Concilio Provinciale dei vescovi della Gallia ospitato a Torino da san Massimo, 400° dell’istituzione della Confraternita del Santo Sudario e 20° dell’ultima Ostensione del 1978.

83 Cfr V. SAXER, La Sindone di Torino, p. 70-78

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:54
Come si è formata l'immagine dell'Uomo della Sindone resta ancora avvolto nel mistero ma i ricercatori non si arrendono e con i più sofisticati mezzi formulano le ipotesi più singolari.
Tra queste ipotesi molte lasciano intravvedere che la formazione della immagine non si possa essere prodotta in modo solo ordinario.


(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:55
 Il telo sindonico

 

Il termine Sindone deriva dalla parola ebraica sodàr, la quale indica il lenzuolo funebre in uso nel rito giudaico per la sepoltura dei corpi; in aramaico o in siriaco troviamo la parola soudara per indicare un taglio di stoffa di grandi dimensioni, per esempio il mantello nel quale si avvolge Ruth per andare a unirsi a Booz sull’aia per vagliare il grano (Rut 3,15 nel Targum)84.

Nel nuovo testamento il termine ebraico è tradotto in greco sindòn, cioè tela di lino, lenzuolo.

La Sindone di Torino, molto probabilmente quella stessa che Giuseppe di Arimatea, il ricco sinedrita, andò frettolosamente a comprare quel pomeriggio 7 aprile del 30 d.C., dopo aver chiesto coraggiosamente il corpo esanime di Gesù a Pilato, misura 436 cm di lunghezza e 110 di larghezza; lo spessore del telo è pari a 33 centesimi di millimetro e il suo peso si aggira intorno ai due chili e mezzo.

Le misure del Telo a noi occidentali del XX secolo non dicono nulla che ci aiuti a comprendere qualcosa in più dei tanti misteri che la Sindone racchiude criptamente in sé da secoli; sembrano infatti soltanto numeri apparentemente disordinati e senza relazioni con niente e nessuno.

Se invece provassimo a tradurre, ovvero a trasformare, le dimensioni del Sacro Telo nell’unità di misura in uso al tempo della sua produzione, presumibilmente il I secolo dopo Cristo, ci renderemmo conto che non siamo di fronte ad una numerazione casuale, ma ordinata ed esatta: se infatti trasformiamo i cm in cubiti giudaici o siriani, ci accorgiamo che qualcosa cambia85. 

Il Telo misurerebbe così 8 cubiti nella sua lunghezza e 2 cubiti di larghezza; il cubito giudaico, o ‘ammah in ebraico, è una unità di misura dell’antico Oriente, ricavata dalla lunghezza che intercorre, in un uomo di normale statura, tra la punta del dito medio della mano a palmo aperto, e il gomito del braccio stesso.

La dimensione che si ricava mediamente è di 52-55 cm, dunque, unità di misura che sta due volte nel telo sindonico nella sua larghezza, e otto volte nella sua lunghezza86.

È bastato soltanto trasformare le misure occidentali in quelle giudaiche del I secolo d.C. per guardare la Sindone in modo diverso: questa nuova misurazione, come appare evidente, è una ulteriore tesi sostenuta da quanti ritengano che la Sindone sia il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Cristo nel sepolcro di Gerusalemme, quindi avvalorata dai sostenitori dell’antichità e dell’autenticità del sacro reperto.

A questo proposito, dobbiamo dire che durante l’antichità si sono presentate due occasioni che ci permettono oggi di mettere in relazione la Sindone di Torino con le reliquie che la tradizione cristiana primitiva faceva risalire ai teli sepolcrali di Cristo: l’oggetto delle fonti riguarda sempre la misurazione del Telo.

Gerusalemme nel 670 viene visitata dal vescovo Arculfo in pellegrinaggio: egli nella sua opera De locis sanctis ci descrive l’esistenza di una chiesa nella città santa nella quale si conserva e si venera il santo Sudario di Cristo, conservato gelosamente in un reliquiario e che eccezionalmente fu testimone oculare di una ostensione.

Il racconto, tramandatoci dal monaco benedettino Adamnano, prosegue dicendo che in quella importante occasione il vescovo baciò il Lenzuolo e lo misurò.

La misura che egli riportò fu pari a 8 piedi di lunghezza: il piede romano misurava 29 cm. Cioè 232 cm che moltiplicati per due (la misurazione si riferiva alla sola immagine frontale) abbiamo una lunghezza di 464 cm, circa un piede in più rispetto alla attuale lunghezza.

Cosa è accaduto? Sono errate le misure o la Sindone ha subito una mutilazione?

Sappiamo, dal carteggio che si è rinvenuto tra l’imperatore Baldovino II (1228-1261) e suo cugino Luigi IX, che il primo ha donato al secondo un pezzo di Sindone quando si recò in visita a Costantinopoli: infatti la bolla che accompagnava il santo dono non indicava la normale dicitura di ex-Sindone, ma di partem Syndonis.

Non si trattava quindi di una piccola reliquia, ma di una considerevole parte della stessa: 28-29 cm. circa di tessuto, giusto quelli che mancano alla comparazione della misurazione tra la misurazione di Arculfo e la Sindone di Torino.

Ancora un’altra fonte ci conferma la misurazione e la relativa antichità del Telo sindonico: è la nota unità di misura al tempo dell’imperatore romano Giustiniano (metà VI secolo): la mensura Christi o anche detta crux mensuralis. Si tratta di una croce di argento dorato che l’imperatore ha fatto costruire e che riportasse la stessa misura dell’altezza dell’impronta lasciata sul lino della figura umana di Gesù Cristo.

L’unità di misura che si ricava è pari a 180 cm., la stessa che riscontriamo sulla Sindone di Torino.

A datare il Telo, sia pur con strumenti scientifici indiretti, viene in aiuto la merceologia: se osserviamo la Sindone con più attenzione, metteremo meglio a fuoco alcuni particolari riferiti alla natura del tessuto.

La tessitura è visibilmente a spina di pesce, lavorazione particolare rispetto alla semplice trama ed ordito, ossia a tela ortogonale, in quanto più resistente.

Questo è stato senz’altro un motivo, tra gli altri, della capacità del tessuto di arrivare fino ai nostri giorni in buone condizioni.

È noto infatti che i teli funerari dovevano resistere al peso del corpo del defunto durante il trasporto dello stesso, a volte anche a mano, dal luogo della morte al sepolcro o alle fossi comuni. 

Nello stesso tempo i lenzuoli funebri dovevano assicurare, per quanto più tempo possibile, la conservazione del cadavere che nel frattempo andava in decomposizione causando ovviamente anche la macerazione del telo: la qualità della lavorazione del tessuto incideva quanto a resistenza contro la putrefazione e indicava naturalmente anche la posizione socio-economica del defunto.

Gesù infatti, un poverello di Nazareth, figlio di un falegname, non poteva permettersi né una sindone così lavorata e senza cuciture, né il sepolcro nuovo e monoposto, cose riservate alla sepoltura dei ricchi quale era Giuseppe di Arimatea che con molta devozione donò tutto questo al Signore.

L’elemento sicuramente più caratterizzante, da un punto di vista della particolare lavorazione del tessuto, è la torcitura delle fibrille, almeno 100 per formarne un filo: in questo caso abbiamo la rotazione dei filamenti in senso orario87, da sinistra verso destra.

È interessante far notare a questo proposito che il profeta Isaia al capitolo 38, versetto 12b, così recita: "come un tessitore hai arrotolato la mia vita"; superando le questioni teologiche ed esegetiche, in questo contesto ci interessa mettere a fuoco la suggestiva immagine che il profeta ci descrive del rapporto tra Dio e l’uomo: il tessitore (Dio) arrotola (la vita) i fili (degli uomini); la vita, la storia, il tempo, vengono raffigurati graficamente come semirette che vanno da sinistra verso destra; così infatti i tessitori giudei torcevano le fibrille per produrre filamenti.

È infatti questo particolare, a differenza dell’altro sistema e cioè della torcitura in senso antiorario - tipica delle culture egiziana e romana - a collocare la Sindone in un’area di fabbricazione siro-palestinese - probabilmente presso un importante centro di tessitura in Galilea, Arbeel, dove la lavorazione a spina di pesce era molto comune - e a datare questa specifica lavorazione nel I secolo d.C.

Altro elemento che merita di essere evidenziato è quello relativo alla purezza del Telo stesso: la preoccupazione, tutta giudaica e di nessun’altra cultura, romana o greca che fosse, di separare e quindi distinguere, nella lavorazione dei tessuti i telai per la "lana" da quelli per il "lino", proviene dalle prescrizioni mosaiche prima, e precettistiche dopo, di un noto passo del Deuteronomio.

Il capitolo 22, versetto 11, così recita: "Non ti vestirai con un tessuto misto, fatto di lana e di lino insieme".

È chiara la volontà di non confondere la lana, prodotta dal pelo di animali, e il lino, ricavato invece dalle piante, per non intercorrere nella fabbricazione di un prodotto impuro: non dimentichiamo che il lenzuolo funebre insieme agli unguenti e ai profumi servivano per purificare il corpo del defunto il quale è impuro per definizione.

Per questo il corpo viene posto per terra e soltanto il primogenito può chiudergli gli occhi e contrarre di conseguenza l’impurità.

Dalle analisi accurate sulla composizione del materiale del tessuto sindonico non sono state riscontrate tracce di lana; questo invece accade, anche se con presenza infinitesimale, in tutti gli altri tessuti, fabbricati da altri popoli i quali utilizzavano indiscriminatamente un unico telaio per entrambe le materie prime.

2- Cosa si legge sulla Sindone?

Almeno tre elementi importanti e degni di sottolineatura compaiono visibilmente e vistosamente sul Telo di Torino anche ad occhio nudo:

a- l’immagine che raffigura un uomo, posizionato lungo il Telo, frontalmente e dorsalmente, testa contro testa, di colore giallo, più intenso di quello del tessuto;

b- macchie di sangue lungo tutto il corpo dell’uomo, di colorazione più scura del Telo e dell’immagine stessa;

c- segni delle bruciature e di probabili strappi che il tempo e le molte vicissitudini hanno provocato al Lenzuolo.

a - L’immagine

L’immagine impressa dell’Uomo della Sindone - chiameremo così colui che per molti invece è inconfondibilmente l’uomo Gesù - si è trasferita sul Telo in modo inspiegabile; nonostante i molti tentativi di riproduzione in nessun caso l’effetto finale è almeno simile a quello esistente sulla Sindone88.

Attualmente la scienza è in grado di affermare solo che l’immagine impressa sul tessuto è dovuta ad un processo di disidratazione del lino, grazie al quale è visibile l’immagine stessa dell’Uomo; sulle cause di questo fenomeno, però, il mistero è fitto.

I contorni dell’immagine non sono netti e decisi, ma sfumati; infatti è visibile soltanto ad almeno quattro metri di distanza.

Questo aspetto, legato cioè alla visibilità dell’immagine soltanto ad una certa distanza, fa cadere definitivamente l’ipotesi che l’immagine sia il risultato di un dipinto: si coglie subito l’impossibilità a definire e a disegnare una immagine che risulterebbe invisibile alla distanza del viso dal proprio braccio.

È stato grazie alle lastre del Pia, il primo fotografo della Sindone, e successivamente a quelle di Enrie, che lo studio scientifico ha potuto progredire nell’analisi dettagliata dei particolari, altrimenti invisibili ad occhio nudo: soltanto dallo studio del negativo fotografico è stato possibile cogliere particolari necessari all’osservazione e all’approfondimento scientifico del Telo stesso.

Infatti sulle lastre si possono notare le molteplici sfumature di diversa intensità dell’immagine sindonica le quali creano una tridimensionalità della figura del corpo, altro elemento rimasto ancora inspiegato dalla scienza e ancor più chiaramente visibile con una semplice rielaborazione digitale al computer.

Lo spessore tridimensionale dell’immagine fa di questa, non solo formalmente ma anche sostanzialmente, la raffigurazione di un corpo appartenuto ad un uomo realmente vissuto: l’ipotesi che l’immagine sia un dipinto è stata ampiamente confutata da coloro che non ritengono la Sindone opera di un falsario medievale89.

Uno studio sulle probabilità che questo sia il lino che ha avvolto il corpo di Cristo, è stato compiuto dall’ing. Paul De Gail e ripreso dal prof. Bruno Barberis, dell’Università di Torino. Dai calcoli risulta che le probabilità a sfavore sono di uno su 200 miliardi di ipotetici crocifissi.

Infatti le sette tesi90  che inquadrano le vicende legate a Cristo e riprodotte puntualmente nella Sindone fanno di essa il panno funebre di Gesù di Nazareth91.

Ad un risultato simile, ma con una maggiore elaborazione, sono arrivati gli studiosi Giulio Fanti, docente del Dipartimento di Ingegneria Meccanica dell’Università di Padova e Emanuela Marinelli nota sindonologa romana: nell’ambito del III Congresso Internazionale di Studi sulla Sindone, tenutosi a Torino dal 5 al 7 giugno 1998, hanno divulgato i risultati di un modello probabilistico il quale dimostra l’autenticità del Telo, nonché l’antichità, con un errore di falsità pari a 10 alla meno ottantatré92.

La relazione viene conclusa in questo modo: "Ciò equivale ad affermare che è più probabile fare uscire per 52 volte consecutive uno stesso numero al gioco della roulette piuttosto che affermare che la Sindone non sia autentica".

L’immagine sindonica dunque è debole, superficiale ma al tempo stesso indelebile; se si considera lo spessore del tessuto sindonico come simile allo spessore di un braccio umano, l’immagine, in proporzione, avrebbe la medesima profondità dell’epidermide dell’arto stesso.

L’immagine cioè non passa da parte a parte, non è visibile dal retro del tessuto. Ciò nonostante, diversi solventi di laboratorio non sono riusciti a cancellarla.

Le ipotesi sulle cause della avvenuta impressione sono ormai quasi tutte orientate verso un fenomeno definito ad alta emissione di luce e calore, da molti sindonologi fatto coincidere con quello che teologicamente si definisce risurrezione93.

Ma qui usciamo dal campo scientifico e, a tal proposito, in occasione della ostensione della Sindone a Torino, il cardinale Giacomo Biffi si è così pronunciato a proposito del rapporto Sindone-fede: "Il credente sa che di fronte a questo misterioso lenzuolo non gli vengono imposte posizioni aprioristiche: può identificarlo o no con il lino della sepoltura di Cristo, senza che siano chiamati in causa i suoi convincimenti più sacri e la sua coerenza interiore. Egli è dunque un indagatore spregiudicato, che non ha condizionamenti di principio"94.

Dunque piena libertà da parte del credente sulla questione della autenticità della Sindone o meno, senza che questo sia un elemento che giochi a sostegno o a sfavore dalla propria fede, la quale, come è noto, è edificata su ben altri elementi.

Sul rapporto tra ragione e fede il pontefice ha recentemente emanato un’enciclica che risolve credo definitivamente l’errato contrasto tra le due forme di conoscenza  che per troppo tempo sono state invece messe dagli uomini in opposizione e in concorrenza tra loro.

Così infatti il santo padre apre l’enciclica: "La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere Lui perché conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso"95.

Tornando all’analisi del Telo, potremmo accennare a qualche curiosità a proposito della descrizione dell’uomo in oggetto: la sua altezza è di 178-180 cm, il peso si aggira intorno ai 79-80 chili, e la sua età è compresa tra i 30 e i 35 anni; è naturalmente di sesso maschile e il sangue analizzato appartiene al gruppo sanguigno AB, tra l’altro lo stesso riscontrato dall’analisi ematica del miracolo eucaristico di Lanciano96 e delle macchie di sangue impresse sul Sudario conservato ad Oviedo97.

Dallo studio antropologico fatto sull’uomo si evince che questi è appartenuto sicuramente alla etnia semitica; infatti i tratti caratteristici di tale appartenenza sono almeno quattro: gli occhi vicini alla radice nasale, il naso di forma aquilina, il labbro inferiore più pronunciato rispetto a quello superiore e i capelli ondulati.

b - Le tracce di sangue

Prendiamo ora in considerazione il secondo elemento visibile ad occhio nudo sulla Sindone di Torino: stiamo parlando delle tracce di sangue impressesi sul Telo attraverso il decalco delle ferite, nel quale è stato avvolto l’uomo, per espletare la sepoltura di rito giudaico.

Dobbiamo subito dire che non c’è zona del corpo del suppliziato che non sia interessata da ferite, ecchimosi, lacerazioni e, di conseguenza, da rivoli di sangue. L’unica parte del corpo che è stata risparmiata dai flagellatori romani, chiamati anche tortores, è la zona toracica nelle vicinanze del cuore: i carnefici sapevano molto bene che gli eventuali colpi di flagello del tipo flagrum romanum in quella parte del corpo poteva significare la morte del flagellato98.

Colgo l’occasione per sottolineare che nella concezione romana della punizione per flagellazione, cioè della punizione più cruenta del tempo, era esclusa la successiva messa a morte del flagellato: delle due una era la condanna, o si veniva abbondantemente flagellati o si metteva direttamente in croce il suppliziato dopo una modesta flagellazione.

Infatti Gesù fu prima flagellato e poi crocifisso non perché il rito lo prevedesse, ma perché mentre Pilato voleva dargli solo una buona lezione, i giudei non contenti pretesero successivamente anche la morte dello stesso.

Le ferite che sono state contate sul corpo dell’Uomo della Sindone, escluse le ferite dei chiodi, della lancia e quelle presenti intorno alla zona del volto e della nuca, sono oltre 720: queste sono state prodotte dall’uso del flagrum romanum.

Il flagrum è uno strumento di tortura usato dai flagellatori dell’impero romano e veniva spesso utilizzato da due tortores, uno a destra del condannato e l’altro a sinistra. Solitamente il torturato veniva legato ad una colonna per evitare che si muovesse o che addirittura scappasse.

Lo strumento usato per la flagellazione dell’Uomo della Sindone ha sei pezzetti di osso acuminati. Dallo studio delle ferite del corpo si è riscontrato che i colpi di flagrum sono stati 120, dati appunto da due flagellatori, i quali hanno provocato le 720 ferite.

La legge ebraica però prevedeva al massimo 39 colpi di frusta; perché allora l’Uomo della Sindone ne ha avuti tre volte di più?

L’ipotesi che si fa, soffermandosi su alcuni particolari narrati nei vangeli e che spesse volte vengono dimenticati, è quella che Pilato più volte ha voluto evitare l’uccisione di Gesù.

Il procuratore romano volle così dargli una buona lezione, aumentando oltremodo il numero delle frustate, per poi liberarlo. Il suo ulteriore tentativo fu esteso anche all’episodio di Barabba, ma anche in quel caso non ci fu ascolto da parte dei giudei per le buone intenzioni del marito di Procla.

Come si diceva prima, i condannati alla morte di croce non venivano anche frustati abbondantemente perché risultava inutile tale provvedimento; nel caso di Gesù, invece, non solo egli venne frustato esageratamente, ma fu poi anche condannato alla morte di croce. Questi episodi della Passione di Cristo sono riprodotti fedelmente sul lenzuolo di Torino, sempre "testimone muto, ma sorprendentemente eloquente".

Tornare a parlare delle ferite presenti sul corpo dell’Uomo della Sindone significa non poter non fare riferimento ai numerosi passi veterotestamentari del profeta Isaia e dei Salmi a proposito della prefigurazione della Passione di Nostro Signore.

Le coincidenze tra i racconti biblici e le tracce presenti sulla Sindone sono a dir poco impressionanti. Non potendo citare tutte le pericopi sindoniche, ne citeremo solo alcune: Isaia 53,5: "Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostri iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti".

Isaia 50,5-6: "Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho posto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi".

Isaia 1,6: "Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è in esso una parte illesa, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate, né curate con olio".

Passando al salterio invece: Salmo 15,10: "Perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione".

Il corpo dell’Uomo della Sindone è stato sottratto alla corruzione; qui si apre la polemica dell’eventuale furto di cadavere dal sepolcro ad opera dei discepoli per dire poi che Gesù per davvero è risorto dai morti (cfr Lc 24,34).

Nel capitolo V verranno analizzati momento dopo momento i tre giorni nei quali il corpo di Gesù è stato sepolto nel sepolcro di Giuseppe di Arimatea.

Vedremo in quella occasione se è possibile parlare di furto di cadavere o di avvenuta reale resurrezione. In questo contesto ci è sufficiente dire che le tracce di sangue ritrovate sul Telo non presentano sbavature e effrazioni, motivo sufficiente, da un punto di vista scientifico, per affermare che il corpo e i lini sepolcrali non sono stati toccati da nessuno durante i tre giorni della sepoltura.

Non sono state perciò rinvenute tracce di carne umana decomposta dall’analisi col microscopio elettronico del tessuto.

Il corpo infatti è rimasto avvolto nella Sindone soltanto circa 36 ore, il tempo necessario ad avere quel tipo e solo quel tipo di tracce di sangue impressosi sul tessuto sindonico e che va sotto il nome di fibrinolisi, cioè il riscioglimento dei coaguli di sangue dovuto al contatto delle ferite con la soluzione di aloe e mirra, tipica delle misture appartenenti al rito funerario giudaico del tempo.

Un tempo maggiore o minore delle 36 ore, non avrebbe causato il decalco che oggi è visibile sul Telo di Torino; quanto alla motivazione per la quale il corpo si è sottratto al processo di corruzione e di putrefazione, tale da fare arrivare il lenzuolo funebre fino ai nostri giorni, è l’ipotesi della avvenuta risurrezione.

Il corpo di Cristo ha lasciato il Telo semplicemente attraversandolo dal di dentro ed uscendone fuori. Da qual momento in poi Gesù verrà riconosciuto dalle donne e dagli Apostoli con un corpo glorificato.

Molti sono i passi evangelici delle apparizioni e dei fatti straordinari legati alle stesse.

Si potrebbe continuare ancora a lungo, ma vorrei ultimare i riferimenti biblici dell’antico testamento con un altro passo abbastanza noto, che meglio degli altri prefigura la Passione di Cristo così fedelmente e straordinariamente riprodotta sul Telo.

Il libro di Isaia al capitolo 52 versetti 13-15 così recita: "Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato. Come molti si stupirono di lui - tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo - così si meraviglieranno di lui molte genti"99 .

Anche il Nuovo Testamento a ben guardare presenta pericopi per così dire sindoniche. L’apostolo Giovanni al passo 19,37 così dice dopo che ha visto il soldato romano che per accertarsi della avvenuta morte di Gesù gli colpisce il fianco con una lancia; e un altro passo della Scrittura dice ancora: "Volgeranno la sguardo a colui che hanno trafitto".

La scrittura citata è il noto passo del profeta Zaccaria che al capitolo 12, versetto 10 dice: "guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito".

Ancora, a proposito della formazione dell’immagine impressasi in modo negativo cioè al contrario di quella al positivo: 1 Cor 13,12: "Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente". 2 Cor 4,6: "E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori per far splendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo".

Gli studi sulle tracce di sangue presenti sul reperto hanno aperto molte questioni di estrema importanza ai fini della conoscenza integrale del telo sindonico: l’esame fatto dai carbonisti100 datò il tessuto del Telo di Torino in una età compresa tra il 1260 e il 1390, dunque in epoca medioevale, facendo di conseguenza immaginare che la Sindone fosse stata l’opera artistica di un falsario dello stesso periodo della presunta fabbricazione del tessuto.

Questa tesi invece, dopo poco tempo dalla data della pubblicazione degli esami, è caduta, non solo per gli errori riscontrati da un punto di vista metodologico nell’esame stesso, ma anche grazie all’analisi delle cause della morte e delle diverse tipologie di sangue presenti sul Lenzuolo: sangue intero, sangue e siero separati, sangue venoso ed arterioso.

L’eventuale falsario non avrebbe posto sul capo del suppliziato un casco di spine dato che su tutte le raffigurazioni pittoriche il Cristo è raffigurato con un serto o corona di spine. Il casco di spine, forse ricavato dal calco di un elmetto militare romano, ha creato decine di micro-lesioni sul capo, le quali hanno causato le famose gocce di sangue visibili nella zona frontale e occipitale della figura.

La distinzione tra sangue venoso e sangue arterioso non era una conoscenza del Medioevo, ma sicuramente successiva al XVI secolo101.

L’astuto ed erudito falsario medievale non avrebbe inoltre posto i chiodi della crocifissione al polso, ed esattamente nel punto cosiddetto di Destot, dal momento che le opere artistiche, crocifissi e quadri, avevano da sempre raffigurato il Crocifisso con i chiodi nei palmi.

Uno studio ha dimostrato che un’eventuale crocifissione di un uomo di soltanto 40 chili di peso se inchiodato ai palmi delle mani, nel giro di appena dieci minuti vedrebbe strapparsi i tessuti dell’arto determinando la caduta del corpo dalla croce.

I Romani, profondi conoscitori delle tecniche di crocifissione, sapevano molto bene dove porre i chiodi per rendere possibile una crocifissione lunga e dolorosa.

Perché dunque il falsario avrebbe disatteso ciò che a quel tempo era dato per scontato e pubblicamente condiviso? Perché il falsario avrebbe dovuto posizionare il piede sinistro inchiodato su quello destro, se tutte le immagini riproducevano e riproducono invece il contrario?

Sono soltanto alcune delle domande che gli studiosi dell’arte si sono posti in riferimento all’accusa di un ipotetica riproduzione artistica della Sindone.

Stessa considerazione, di anacronistica conoscenza, la si può fare per quanto riguarda la posizione del pollice dopo che il chiodo viene conficcato nel polso: la lesione del nervo mediano fa ritrarre il pollice internamente alla mano stessa, cioè verso il dito mignolo, nascondendo così visivamente il pollice dal lato del dorso della mano.

L’immagine impressa sulla Sindone non riporta infatti, come per le altre dita, il pollice della mano sinistra: il pollice della mano destra, invece, non è visibile comunque perché occultato dalla sovrapposizione della mano sinistra sulla destra.

Questo interessante particolare, l’occultamento alla vista del pollice, è di fondamentale importanza se facciamo riferimento ad almeno due considerazioni: la prima è che ovviamente l’ipotetico falsario non poteva essere a conoscenza di simili questioni, studiate invece poi dalla medicina moderna, come abbiamo visto nel caso della circolazione sanguigna venosa e arteriosa, scoperta soltanto nel XVI secolo.

La seconda considerazione, più interessante anche da un punto di vista iconografico, è che un manoscritto datato intorno al 1192-95102, in una sua miniatura a due finestre, una superiore e l’altra inferiore, fa vedere con chiarezza che il Cristo, sul quale avviene l’unzione funeraria ad opera di Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, nella parte superiore ha le braccia incrociate sul proprio corpo, appoggiate sulla zona pubica, la mano destra su quella sinistra e i pollici di tutte e due le mani, nascosti103.

L’elemento di certezza che si tratti di una miniatura copiata dalla Sindone di Torino è dato dalla seconda raffigurazione, quella inferiore, della miniatura stessa, la quale mostra l’angelo indicante il telo di Cristo ormai vuoto alle tre Marie andate in visita presso il sepolcro con unguenti e profumi.

Il lenzuolo funebre è fabbricato, sempre a guardare la miniatura, a spina di pesce - il riferimento alla stessa lavorazione del Telo di Torino è evidente - e mostra quattro cerchietti disposti a "elle" o a "squadro", in rapporto cioè di tre fori in orizzontale e uno in verticale, anch’essi riscontrabili sul Telo.

Queste piccole bruciature sono state causate, prima dell’incendio di Chambéry avvenuto nel 1532, probabilmente da un turibolo.

Dobbiamo sempre ricordare che la Sindone per molti secoli è stata utilizzata durante le celebrazioni liturgiche, ovviamente piegata in due o quattro parti, probabilmente anche come copertura dell’altare: in Oriente l’altare simboleggia il sepolcro di Cristo, motivo per il quale gli altari sono alti cioè alte are; in Occidente, soprattutto dopo la riforma liturgica del Vaticano II, ha assunto sempre più la simbologia della mensa divenendo quindi più grande e più basso.

Il piccolo incendio - chiameremo così l’incendio che ha causato specularmente le quattro elle, probabilmente il primo - è precedente quindi alla data del 1192, anno della datazione del manoscritto Pray, tra l’altro precedente alla stessa datazione ricavata dall’esame al radiorcarbonio del 1988; per alcuni sindonologi l’incendio potrebbe risalire addirittura al periodo edesseno, cioè in un intervallo di tempo compreso dal VI al X secolo, dal 544 al 944.

Ma il punto centrale della "questione sangue" è la ferita del costato dell’Uomo della Sindone; nell’immagine al positivo, è visibile una grossa ferita vicino all’emitorace destro dell’uomo, con una copiosa fuoriuscita di sangue a fiotto e siero separato.

Il colpo di lancia è stato inferto dal soldato romano a morte avvenuta; la pressione con la quale il sangue è fuoriuscito è da ascriversi a quel processo che i medici legali chiamano emopericardio: la rottura del cuore dovuta ad un infarto, seguita da una cospicua raccolta di sangue nel pericardio, fuoriuscito poi con forte pressione e grande quantità di liquido104.

Il sangue ed acqua che vide l’apostolo Giovanni uscire dal costato destro di Cristo, quando con Maria stava sotto la croce, è ciò che noi oggi chiameremmo, in termini più scientifici, sangue e siero separato; prima uscì il sangue e poi, perché separato e più leggero, il siero appunto, di colorazione chiara.

Alcuni esegeti ipotizzano che il processo infartuale sia cominciato non già sulla croce, ma quella sera di agonia e sofferenza di Cristo nel Getsemani, quando, preso da forte stress, cominciò a sudare sangue; il fenomeno, sia pur molto raro, non è però impossibile da verificarsi.

Dal momento dell’infarto accompagnato da sudorazione, il giovedì sera, alla trafittura del costato, avvenuta il venerdì pomeriggio, passano all’incirca 16-18 ore, poche per affermare, da un punto di vista medico-legale, che si tratti di un emopericardio, per il quale sono necessarie almeno 46 ore.

Sappiamo però che le tradizioni sul giorno della avvenuta ultima cena fatta da Nostro Signore con gli Apostoli sono almeno due: quella del giovedì, la più nota e commemorata nella liturgia ufficiale di tutta la Chiesa, e quella che fa riferimento al calendario solare, nel quale il Sèder scel Pesàh, ossia l’Ordine di Pasqua, il rituale pasquale ebraico, è celebrato il martedì allo spuntare della terza stella dopo il tramonto.

Il computo delle ore, secondo questa seconda tradizione, sale a 46, se calcoliamo il tempo che va dal nuovo momento - quello cioè dell’agonia avvenuta nel Getsemani - alla crocifissione.

Il calendario solare era in uso soprattutto presso la comunità degli esseni, comunità che viveva nei paraggi delle famose grotte di Qumran presso il Mar Morto, molto influente sul giudaismo dell’epoca e vicina alla città di Gerusalemme; dista infatti non più di venti chilometri dal centro politico e cultuale di Israele105.

L’implicanza della comunità essena con la Sindone è di una certa importanza: infatti, in una delle sue conferenze sulla storia antica del Telo, il sindonologo, esegeta e storico Gino Zaninotto, ha ipotizzato la permanenza della Sindone in una di quelle grotte nel periodo compreso tra la prima persecuzione del 42 d.C. e la ulteriore fuga dei giudei-cristiani nella città di Pella del 66 d.C.

Rimanendo in tema di influenze tra la comunità di Qumran e il calendario solare, non possiamo non dire che la comunità essena assunse il calendario tradizionale, quello del tempo dei Seleucidi, importato a sua volta dai greci. L’anno incominciava in primavera, aveva un numero costante di settimane e iniziava sempre di mercoledì.

La Pasqua quindi cadeva sempre il 15 di Nisan (primo mese dell’anno giudaico), e era sempre di mercoledì; la Preparazione dunque si festeggiava il martedì.

Anche alcune fonti cristiane antiche fanno coincidere la cena pasquale di Gesù con il martedì: la Didascalia, Vittoriano e Epifanio.

La datazione lunga della Settimana Santa fa accomodare meglio i fatti che altrimenti per motivi di tempo e soprattutto giuridico-legali non sarebbero stati possibili: il Sinedrio non si riunisce la notte, tanto meno durante le festività.

Gesù quindi fu arrestato dopo aver cenato il martedì sera; fu condotto al Sinedrio il mercoledì mattina e la sera messo nella prigione giudaica.

Il giorno dopo, il giovedì, andò da Pilato e rinchiuso, di notte, nella prigione romana; il venerdì mattina venne interrogato per la seconda volta, poi flagellato e quindi crocifisso.

È una ipotesi, questa, che si fa sempre più spazio tra gli studiosi della Passione di Nostro Signore106.

c - Le bruciature

Terzo ed ultimo elemento visibile sulla Sindone sono le bruciature, dovute agli incendi subiti dal Telo: in parte abbiamo già accennato al primo incendio, quello creato probabilmente dal materiale incandescente fuoriuscito da un turibolo precedentemente al 1192, perché i fori prodotti sono fedelmente riportati su di una miniatura del Codice Pray.

A questo contributo, sia pur indiretto, utile per determinare la reale datazione della Sindone, dobbiamo aggiungere un’ulteriore prova, che ci viene fornita sempre dall’arte, questa volta moderna e non medioevale: è una copia della Sindone riprodotta su un altro telo ad opera del Dürer, datata 1516. Si notano sulla copia i segni del piccolo incendio, in quanto l’artista, immaginando che si trattasse di calchi di sangue, li ha colorati di rosso.

La data presa in considerazione è precedente al grande incendio, motivo per il quale non compaiono i grandi triangoli, le toppe cucite dalle clarisse, per riparare il Lenzuolo di Cristo. La copia del Dürer mostra i fori "a elle" presenti sulla Sindone precedentemente all’incendio del 1532, altrimenti indimostrabile.

Ed eccoci alla notte di santa Barbara del 1532. La sacrestia della Saint-Chapelle prende fuoco insieme a quanto vi è all’interno: l’armadio che conservava il reliquiario d’argento, contenente la Sindone piegata in 48 parti, si brucia. La fusione del metallo delle cerniere, fatte da una lega povera, fa colare il liquido ormai fuso all’interno del reliquiario, cadendo sul lenzuolo.

Il contatto tra il metallo fuso e il lenzuolo crea quelle grosse bruciature a forma di triangolo, 24 per la precisione, ben visibili sul Lino: a bruciare è soltanto una parte del tessuto perché la cassetta viene provvidenzialmente immersa in una vasca piena d’acqua, creando degli aloni piuttosto visibili sul Telo.

Sarà la cura e l’amore delle clarisse a rattoppare i buchi creati dalle bruciature con del lino nuovo. L’incendio ha anche creato quella specie di "binario ferroviario" che incornicia l’Uomo della Sindone percorrendo tutto il Lenzuolo.

Di estrema importanza, a proposito di rammendi, è evidenziare una cucitura che si trova nella parte superiore della Sindone e unisce a questa una striscia di stoffa alta 8 centimetri e lunga quasi quanto l’intero Telo.

Sembra che il Lino sia stato strappato dal basso verso l’alto dalla furia del vescovo Epifanio di Cipro, quando, vedendolo esposto verticalmente in chiesa, lo lacerò, perché rappresentava, secondo la mentalità del tempo, un’idolatria107 ; poi, fortunatamente, la parte di tela strappata fu ricucita.

Note del III Capitolo

84 DUBARLE, Storia antica, p. 148.

85 Cfr REBECCA JACKSON, Jewish Burial Procedures at the time OC Christ. A Jewish Cultural Approach, Actas del I Congreso Internacional sobre El Sudario de Oviedo, Oviedo 29-31 ottobre 1994, p. 309-322; Hasadeen Hakadosh: The Holy Shroud in Hebrew, in Actes du Symposium Scientifique International, Rome 1993, p. 27-33.

86 Cfr R.DE VAUX O.P., Le Istituzioni dell’Antico Testamento, p. 202-205, Torino 1964.

87 Nella particolare realtà giudaica abbiamo notato che le forme manuali sono sinistrorse: i giudei scrivono e leggono da destra verso sinistra, quando colpiscono con un pugno lo fanno con l’arto sinistro, etc.

88 Cfr VITTORIO PESCE DELFINO, E l’uomo creò la Sindone, Bari 1982.

89 Da analisi fatte sul Telo si è in grado di affermare che non ci sono tracce di pigmenti tali da poter ipotizzare che si tratti di un dipinto: mancano completamente anche le direzioni dell’eventuale pennello. Nessuna epoca pittorica è inoltre riconducibile allo stile dell’immagine sindonica. In riferimento poi alla tesi che la Sindone sia un dipinto di Leonardo da Vinci, è sufficiente affermare che il grande artista è nato un secolo dopo (1452) le oggettive prove della presenza del Telo in Occidente.

90 Provo a sintetizzarne i contenuti: 1- l’Uomo dopo la morte è stato avvolto nel lenzuolo funebre, sepoltura non riservata in genere ai crocifissi. 2- Ha portato in testa un casco di spine, elemento estraneo alla crocifissione di qualsiasi cultura. 3- Ha trasportato il patibulum. 4 - È stato inchiodato alla croce e non legato. 5 - Gli è stato inferto un colpo di lancia nel costato destro, a morte avvenuta, e non gli è stato spezzato alcun osso delle gambe. 6 - Non è stata effettuata alcuna lavanda del corpo insanguinato; è stato quindi avvolto nel lenzuolo subito dopo la deposizione dalla croce. 7 - Sul tessuto non sono state trovate tracce di decomposizione: il calco del sangue si è creato quindi nel giro di 30-36 ore, tempo intercorso tra un ipotetico venerdì sera e l’alba della domenica successiva.

91 Cfr GINO MORETTO, Sindone. La guida, p. 58, Torino 1996.

92 Cfr GIULIO FANTI - EMANUELA MARINELLI, Cento prove sulla Sindone. Un giudizio probabilistico sull’autenticità, Padova 1999.

93 Cfr Sebastiano Rodante, La scienza convalida la Sindone, Milano 1997.

94 Cfr <Avvenire>, 10 maggio 1998.

95 GIOVANNI PAOLO II, Fides et Ratio, Città del Vaticano 1998.

96 Nell’ottavo secolo avvenne il Miracolo Eucaristico che ancora oggi si conserva nella chiesa di san Francesco. Lo straordinario prodigio consiste in questo: tutta l’Ostia si è trasformata in Carne e tutto il vino si è mutato in Sangue. Gli accertamenti sono stati condotti dal prof. Odoardo Linoli nel 1970 e nel 1981: la Carne è un tessuto miocardico umano completo nella sua struttura essenziale. La Carne e il Sangue hanno lo stesso gruppo sanguigno: AB (identico a quello che il prof. Baima Bollone ha riscontrato sulla Sindone di Torino). La conservazione delle Specie, lasciate allo stato naturale per secoli ed esposte all’azione di agenti atmosferici e biologici, rimane un fenomeno inspiegabile scientificamente.

97 Cfr MORETTO, Sindone, p. 56.

98 Cfr GIULIO RICCI, L’uomo della Sindone è Gesù, Milano 1985.

99 I testi sono stati tratti dalla Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1995.

100 Termine che indica gli scienziati che operano esami di datazioni di reperti attraverso il metodo del radiocarbonio o anche detto C 14.

101 Il primo documento che parla della distinzione tra sangue venoso ed arterioso è stato scritto dall’italiano Andrea Cesalpino nel 1593, ma soltanto nel 1628 l’inglese William Harvey lo fece conoscere al mondo scientifico del tempo.

102 Codice conservato attualmente nella Biblioteca Nazionale di Budapest e indicato come Codice Pray.

103 Forse i copisti non avevano capito che l’immagine impressa sulla Sindone è un negativo: ciò che sembra appartenere alla sinistra è invece di destra e viceversa. Sull’occultamento dei pollici è chiaro il riferimento all’immagine impressa sulla Sindone.

104 Cfr MARINELLI, La Sindone, p. 49-50.

105 Cfr Ivi, p. 51-52.

106 Cfr ENCICLOPEDIA DELLA BIBBIA, alla voce CENA, Data dell’ultima, col 254-259, Asti 1970.

107 Il Telo era custodito, verso la fine del IV secolo, presso la città di Anablatha. Le immagini delle divinità che avevano mani e piedi erano considerate idoli; forse fu il gesto di Epifanio a far ridimensionare successivamente piegando la Sindone, dal Telo al solo Volto, quello che poi sarà, nel VI secolo, il Mandylion di Edessa. Cfr GINO ZANINOTTO, Il "cammino" della Sindone: il percorso da Gerusalemme a Edessa, in <Eteria>, p. 38, 3/4 (1998).

 

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:56
Avinoam Danin, botanico ebreo, ha rilevato alcuni tipi di polline appartenenti a piante che crescono solo intorno a Gerusalemme.


(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 15:57
L’indagine scientifica

Il Sacro Telo è studiato da più di trenta discipline scientifiche da ormai un secolo.

Grazie alla prima fotografia scattata al Lenzuolo nel maggio 1898 si è potuta avviare la ricerca epistemologica e sistematica sul Sacro Lino: il negativo fotografico ha messo in evidenza particolari interessanti che ad occhio nudo non sarebbero stati altrimenti visibili.

Non esiste reperto al mondo che abbia suscitato l’interesse di tanti scienziati, tale da metterli tutti insieme, anche di diverse religioni, intorno ad un tavolo.

Della Sindone si occupano studiosi di merceologia, storia, medicina, chimica, fisica, biologia, geografia, numismatica, palinologia, anatomia, arte, tanatologia (giudaica e legale), esegesi, filologia, informatica, fotografia, matematica, ecc.

Tratteremo, in questo paragrafo, soltanto alcuni degli aspetti che riguardano le problematiche più importanti da un punto di vista scientifico, e in particolare ci soffermeremo sull’analisi al radiocarbonio fatta sui tre campioni di tessuto sindonico prelevati nel 1988; sulla presen-za dei pollini e del terriccio rinvenuti sulla Sindone; e sulle probabili scritte che a una lettura digitale, soprattutto intorno alla zona del volto, rileverebbero dati importanti ai fini dell’antichità e dell’autenticità del Lenzuolo di Torino.

1- L’esame al radiocarbonio

Il 14 ottobre 1988, presso il British Museum, i carbonisti Edward Hall, Michael Tite e Robert Hedges, danno lettura dei risultati dell’esame al radiocarbonio, ottenuti da tre laboratori (Oxford, Zurigo e Tucson): l’esito scientifico assegna alla Sindone una data compresa tra il 1260 e il 1390 d.C. Il giorno precedente, a Torino, era stato lo stesso Custode della Sindone, cardinale Anastasio Ballestrero, a dare l’annuncio ai giornalisti.

È comprensibile la costernazione che si sollevò in tutto il mondo; in definitiva si affermava, seppure indirettamente, che la Sindone conservata a Torino, con tutta la storia legata alla sua tradizione plurisecolare, fosse un reperto medievale.

Tuttavia, in quella occasione, non venne chiaramente spiegato, da parte degli scienziati, se si trattasse quindi di un’opera d’arte, o dell’immagine di un uomo realmente assassinato.

Il giornalista cattolico Vittorio Messori, in una intervista, così si è espresso a proposito del dilemma icona o reliquia che da quel momento in poi divenne l’argomento centrale e prioritario a qualsiasi altro: "O la Sindone è davvero il lenzuolo che avvolse il corpo di Cristo, e quindi un segno misterioso da venerare, oppure è un oggetto prodotto da un criminale, e quindi da esorcizzare. Su questo tutta la scienza è concorde: quel lenzuolo non è un dipinto, e non è neppure il risultato di un "calco" su un bassorilievo riscaldato. Quindi, se non è il lino funerario di Cristo, l’unica possibilità (per quanto remota) è che un falsario abbia preso un uomo molto somigliante a Gesù, gli abbia inflitto le stesse torture descritte nei racconti evangelici della Passione, l’abbia ucciso, l’abbia poi avvolto in un lenzuolo e, in un modo che nessuno scienziato ha ancora potuto comprendere, sia infine riuscito a ottenere quest’impronta misteriosa. Insomma se non è autentico, è il ricordo di un crimine simoniaco. Una truffa omicida, altro che icona veneranda108.

Una sola scienza dunque, quella dell’esame al radiocarbonio, contro tutte le altre che con argomentazioni, dirette e indirette, datano la Sindone di Torino intorno al I secolo d.C. e geograficamente la collocano, come tipo di lavorazione del telo, per le caratteristiche antropologiche dell’uomo, per le monete rinvenute di epoca tiberiana e altre diverse testimonianze, come quelle dei pollini, nell’area siro-palestinese.

Dopo alcuni anni, infatti, la datazione medievale prodotta dai carbonisti è stata confutata: ci si è resi conto, dopo studi approfonditi, che il calcolo del carbonio radioattivo, fatto sui campioni della Sindone, è esatto da un punto di vista del merito, ma errato da quello del metodo.

Il calcolo del carbonio radioattivo su reperti organici è relativamente semplice, ma non per questo privo di problematiche, soprattutto se non vengono rispettate alcune elementari precauzioni109; nel reperto organico deve essersi interrotto l’equilibrio che esiste fra il radiocarbonio che decade e quello che si acquisisce: l’organismo deve cioè essere morto e isolato da successive probabili aggiunte di radiocarbonio; di contro, l’ulteriore carica di radiocarbonio ringiovanirebbe ovviamente il reperto110.

Questo inconveniente è accaduto alla Sindone di Torino: il carbonio radioattivo si è aggiunto attraverso vari passaggi, falsando, naturalmente, la datazione dell’esame stesso, quindi la probabile età del tessuto.

Il primo indizio dell’irregolarità di procedura è da ricercarsi nel peso stesso dei campioni dati ai laboratori perché li analizzassero: questi pesavano quasi il doppio rispetto ad un normale campione dalle stesse caratteristiche e dimensioni.

L’esame al microscopio elettronico ha messo in evidenza la causa dell’aumento del peso riscontrato sulla bilancia e perlopiù sottaciuto: i fili del lino sindonico si presentano al microscopio appesantiti da spore, batteri, ife di funghi e muffe, i quali hanno contribuito a ringiovanire la datazione delle fibrille del tessuto sindonico perchè non furono rimossi con il sistema di pulizia usato.

Si pone quindi un problema di pulitura del tessuto esaminato: lo stesso poteva essere sottoposto all’esame soltanto dopo un massiccio attacco enzimatico che avrebbe scrostato i filamenti dagli agenti estranei al lino.

Ancora altre sono le cause dell’errata datazione fatta al Telo dai tre laboratori: il Lenzuolo di Torino, come ben sappiamo, non è stato isolato o sigillato in modo definitivo all’interno di un’urna una volta per tutte, ma esposto a continui attacchi nel corso dei secoli.

Abbiamo descritto l’incendio precedente al 1192 che ha interessato i quattro gruppi di cerchietti disposti "a elle" sul Lino, poi quello più importante del 1532 (quello che ha creato più danni di tutti in termini di arricchimento di carbonio), la presenza dei fumi delle candele che hanno accompagnato il Lenzuolo per centinaia di celebrazioni liturgiche, - soprattutto quando era in Oriente -, il contatto ormai secolare della tela d’Olanda che le clarisse hanno cucito sul retro del tessuto per rinforzarlo dopo il grande incendio, e i continui rammendi delle parti logorate in prossimità del punto di Raes111, angolo del Lino tra i più esposti alle contaminazioni.

Sono questi, appena elencati, tutti elementi che hanno alterato, ovvero aumentato, la presenza di radiocarbonio sulle parti esaminate dai laboratori, e che hanno notevolmente contribuito a falsare la datazione della Sindone di Torino.

Per chiudere definitivamente la questione datazione, è sufficiente richiamare l’attenzione su un esperimento che lo scienziato russo Dmitri Kouznestov, premio Lenin, ha fatto nel 1995 a proposito dell’arricchimento di carbonio sul tessuto sindonico: egli ha dimostrato come un campione di tela di lino, datato in una età compresa tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., se influenzato artificialmente con aggiunta di radiocarbonio, cambi la datazione, con un ringiovanimento di numerosi secoli.

Lo studioso ha sottoposto il campione, che precedentemente l’esame al radiocarbonio aveva datato in una età compresa tra il IV secolo a.C. e il I secolo a.C., ad un trattamento che ricostruiva le condizioni climatiche avvenute durante l’incendio di Chambéry del 1532; la ridatazione del reperto in oggetto dava così una età compresa tra l’XI e il XIII secolo d.C.: il campione si era quindi ringiovanito di almeno un millennio.

2- Lo studio dei pollini

La palinologia, scienza che studia i pollini delle piante, ha contribuito non poco alla ulteriore conoscenza dei misteri racchiusi nella Sindone: attraverso lo studio e l’analisi dei pollini presenti sul Telo, lo scienziato Max Frei nel 1977 ha potuto pubblicare importanti studi in merito.

Egli ha verificato che i pollini presenti sul tessuto sono di 58 specie112 , delle quali tre quarti sono di area orientale: palestinese, siriaca, anatolica; di provenienza europea le altre.

Questa mappa palinologica ci permette di confermare l’itinerario che secondo gli storici il Telo avrebbe compiuto durante i secoli dal sepolcro di Gerusalemme al Duomo di Torino, passando per Edessa, Istanbul, Lirey e Chambéry.

Un altro elemento che la palinologia ci fornisce dà conferma a una delle ipotesi, molto accreditata tra gli studiosi e gli storici, che la Sindone di Torino sia identificabile con il Mandylion di Edessa; il Telo infatti, come abbiamo già detto, era ripiegato in modo tale da far vedere, durante le ostensioni, solo il Santo Volto.

Questo è confermato dall’altissima percentuale di pollini trovati proprio intorno alla zona del viso dell’uomo della Sindone: l’esposizione naturale da una parte, e i fiori venuti a contatto con il tessuto dall’altra113, hanno contribuito notevolmente alla maggiore densità dei pollini trovati proprio in quella parte del Telo.

Ulteriori analisi hanno riscontrato, nella zona dei piedi, delle ginocchia e del naso, presenza di terriccio; ai talloni è stata rilevata anche aragonite, un carbonato di calcio con piccole quantità di stronzio e ferro: la presenza di aragonite simile nelle grotte dell’area gerosolimitana ci fornisce importanti dati intorno alla provenienza del tessuto.

Il condannato, quindi, ha camminato scalzo ed è caduto più volte, battendo sia le ginocchia che il volto per terra. I racconti della Passione di Cristo non sono poi tanto discordanti anche rispetto a quest’ultimo elemento, soprattutto se aggiungiamo che i condannati alla morte di croce portavano sul dorso per tutto il tragitto, dal luogo della flagellazione a quello della crocifissione, il patibulum.

Per far sì che questo non fosse utilizzato dai condannati come arma di difesa contro la folla che li percuoteva e li ingiuriava durante il cammino verso lo stipes, già piantato nella roccia, i cruciari venivano legati fra loro, nelle prossimità delle caviglie e alle braccia: bastava che inciampasse uno solo dei condannati perché cadessero anche gli altri.

3- Lettere greche, latine ed ebraiche?

Studi recenti hanno avanzato l’ipotesi che sul Telo sarebbero visibili lettere in lingua greca, latina ed ebraica.

Queste non sono visibili ad occhio nudo; sappiamo però che soltanto dallo studio dei negativi fotografici la ricerca scientifica di alcuni particolari ha potuto avere inizio.

Oggi con l’aiuto dell’informatica le letture di altre tracce rinvenute sul telo sindonico sono più profonde e certe di quelle precedenti, più artigianali e incerte; altre tecniche quindi più sofisticate e scientificamente attendibili vengono messe al servizio dell’approfondimento degli ulteriori misteri che la Sindone racchiude ancora gelosamente in sé: non solo mezzi quali i potenti microscopi, ma il computer e la relativa lettura digitale114, metodo già usato e ampiamente sperimentato per la lettura in filigrana dei palinsesti115.

Con questa nuova forma di lettura avanzata si sono, tra l’altro, riscontrate, sul Telo tracce di monete romane del I secolo d.C.: si tratta di due monete rinvenute nelle prossimità delle orbite degli occhi dell’Uomo della Sindone.

I numismatici hanno verificato che le due monete sono il Dilepton Lituus e il Simpulum, coniate e in uso durante l’epoca di Tiberio dal procuratore della Giudea al tempo di Gesù, Ponzio Pilato.

Oggetto del nostro paragrafo, però, è lo studio delle lettere forse scritte dal retro del Lenzuolo, le quali apparirebbero scritte in differenti lingue, appartenenti ad epoche diverse, volute dai vari possessori e prodotte per motivi diversi; tra l’altro gli inchiostri adoperati sono di differenti tonalità di colore116.

Questa lettura, evidentemente più profonda e ricca di particolari, ha permesso di identificare lettere che compongono parole aventi senso compiuto: mi soffermo solo su alcune di queste, perché l’argomento è realmente complesso ed articolato. Uno studio importante su questo lavoro è stato pubblicato dai proff. Andrè Marion e Anne-Laure Courage, nell’opera Nouvelles découvertes sur le suaire de Turin, tradotta in italiano da Luciana Pugliese, nella quale sono esaminate le varie lettere e le relative interpretazioni.

Ai fini del nostro lavoro è sufficiente elencare le parole che avrebbero rinvenuto gli studiosi in prossimità del Volto sindonico117.

Le maiuscole INNECE fanno immaginare l’espressione a morte se la frase, sul telo parzialmente visibile, fosse scritta per intera: IN NECEM IBIS.

Interessante è anche la scritta maiuscola NAZARENUS, e quella, appena sotto il mento, in greco maiuscolo, HSOU, cioè IESOU; la I è probabilmente caduta o si è cancellata. Sono state trovate ancora altre scritte, non solo nei pressi del Volto, ma anche in varie altre parti del telo sindonico.

Perché dunque queste scritte? Le ipotesi più accreditate dagli studiosi della questione sono almeno due; proviamo a sintetizzarle così: secondo lo storico Gino Zaninotto si è trattato di una semplice operazione di "controllo".

Il Telo veniva dato alle varie comunità cristiane perché queste potessero copiarlo con calma e minuzia di particolari; i proprietari per accertarsi, ad operazione ultimata, che il Telo restituito fosse quello autentico, verificavano che le scritte poste sul retro della Sindone - cioè sigle di riconoscimento - fossero quelle originali118.

Queste operazioni sono ovviamente avvenute in modi, tempi e con personaggi diversi, motivo per cui variano le grandezze delle lettere, le lingue e le sigle.

L’altra ipotesi è quella fatta dagli studiosi francesi sopra citati, i quali hanno riportato e ripreso studi di Piero Ugolotti, Aldo Marastoni, Marcel Alonso e Grégoire Kaplan: se si guarda il negativo del volto dell’Uomo della Sindone, a forte ingrandimento e ad immagine pulita, grazie all’uso di vari potenti filtri, si noteranno due grandi U, una inscritta nell’altra, le quali a loro volta inscrivono il Volto come un doppio ferro di cavallo119.

Queste impronte, le due U, si sarebbero impresse grazie ad una patina spalmata sul tessuto, una specie di "appretto", distesa sul verso del Telo per prepararlo a ricevere l’inchiostro perché si potesse riconoscere, attraverso l’iscrizione dei dati generali e della causa della morte, di chi fosse il corpo del defunto sepolto.

Ciò vuol dire che l’operazione sarebbe avvenuta mentre il sudario avvolgeva il corpo. Infatti l’uso di segnalare le salme era previsto dal rito funerario giudaico, né più né meno di quello che ordinariamente facciamo noi in Occidente e cioè l’apporre sulla tomba una iscrizione funeraria incisa sul marmo.

Nel caso della sepoltura di Gesù questo è ancora più probabile che sia avvenuto perché i giudei erano preoccupati che i discepoli rubassero il corpo del loro Messia per dimostrarne la risurrezione: le guardie romane non solo fecero la guardia al sepolcro ma sigillarono lo stesso.

L’azione del sigillare il sepolcro potrebbe comprendere anche questo particolare rito sul lenzuolo funebre: "Pilato disse loro: Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete. Ed essi (i giudei) andarono ed assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia" (Mt 27,65-66).

Abbiamo detto quindi che le scritte appaiono sul Telo anch’esse in negativo, cioè scritte al contrario, perché? L’inchiostro sarebbe filtrato attraverso il tessuto al punto da rendersi visibile dall’interno del tessuto stesso, dalla parte del telo che toccava il volto di Gesù120.

Dalle scritte riscontrate, si evince quindi che la causa della scrittura sul Telo fosse quella di apporre il nome del defunto121; se proviamo infatti a mettere insieme le parole ricavate dalla lettura digitale, abbiamo una sola frase possibile da comporre: Gesù Nazareno, il condannato a morte.

Note del IV Capitolo

108 Tratto da un’intervista a Vittorio Messori di Michele Brambilla, in , marzo 1998, p. 42-44.

109 Per approfondire il tema della tecnica della radiodatazione, cfr PIERLUIGI BAIMA BOLLONE, Sindone: la prova, p. 219-233, Milano 1998.

110 Cfr MARINELLI, La Sindone, p. 109-111.

111 Il cosiddetto punto di Raes, così chiamato dal nome di un esperto tessile belga che fece un prelievo in quella zona nel 1973, è uno dei punti più esposti all’inquinamento, perché vicino ad un angolo dal quale la Sindone veniva tenuta stesa, da parte di vescovi e presbiteri, durante le numerose Ostensioni dei secoli scorsi, con il solo uso delle mani. I campioni analizzati dai laboratori scientifici sono stati presi proprio da questo punto, il più sporco del Lino.

112 Altri studi successivi hanno portato il totale a 77.

113 Ricordiamo che il telo sindonico probabilmente ha avuto anche la funzione di rivestire l’altare a mo’ di tovaglia durante i riti liturgici.

114 Questa tecnica consiste nella traduzione delle immagini in numeri, e dei numeri in segni; è ciò che si definisce, in termini informatici, elaborazione numerica delle immagini.

115 Sono quei manoscritti antichi su pergamena nei quali le scritte sono state sovrapposte ad altre precedentemente raschiate dai copisti, e, ad operazione di pulitura ultimata, riutilizzati per ulteriori lavori; il motivo dell’operazione era di carattere economico, visto l’alto costo dei materiali necessari per la fabbricazione dei libri.

116 Dai negativi fotografici si evince che le scritte compaiono a volte in tinta scura su fondo chiaro, a volte in tinta chiara su fondo scuro; si pensa che gli inchiostri utilizzati fossero perciò il rosso e il nero.

117 Per le scritte rinvenute in altre parti del Telo, cfr BAIMA BOLLONE, Sindone: la prova, p. 237-238.

118 Sul Telo compaiono anche diverse sigle; la più vistosa, SB, è collocata in alto a sinistra del volto. Potrebbero essere le iniziali di eventuali proprietari della Sindone; la sfragistica, scienza che studia i sigilli, si occupa di tali questioni.

119 Cfr BAIMA BOLLONE, Sindone, p. 103-105.

120 Cfr MARION - COURAGE, La Sacra Sindone, p. 149-155.

121 La presenza contemporanea di lettere in latino, greco ed ebraico non deve meravigliarci; nella Palestina del I secolo questa abitudine era un fatto ordinario, è sufficiente infatti pensare all’iscrizione posta sulla croce di Cristo: il titulus.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 16:00
La scansione elettronica della zona oculare dell'Uomo impresso sulla Sindone, rivela la presenza di monete coniate sotto Ponzio Pilato in Giudea negli anni 29-30 D.C.




(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 16:02
I racconti evangelici della sepoltura di Gesù e le relazioni con la Sacra Sindone.

 

La sepoltura giudaica, come tutte le forme di ritualità religioso-culturali, è considerata non solo una autorevole manifestazione di quanto anticamente gli ebrei facevano in quel preciso contesto cultuale, ma anche una scienza vera e propria: conoscere a fondo quanto prescritto in questo rito ci aiuta a comprendere se ci troviamo di fronte ad un reperto funerario autentico o meno, e quindi capaci di una più precisa datazione dello stesso.

Se il Telo sindonico ha le caratteristiche merceologiche del tipico manufatto funerario giudaico del I secolo d.C. usato per avvolgere i cadaveri nell’atto della sepoltura; se il rito dell’unzione in uso in quel tempo è stato operato sulla salma dell’uomo poi avvolto nella Sindone; se le sostanze usate per la sepoltura, sia nella loro specificità che nella loro quantità, sono quelle prescritte dai trattati rabbinici in vigore nella Gerusalemme del I secolo d.C., perché non mettere scientificamente in relazione la Sindone di Torino con il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Cristo così come i vangeli ce ne parlano?

Per fare questo è conveniente partire dalle fonti che abbiamo a disposizione, ovvero la Sindone stessa, il Nuovo Testamento e i trattati giudaici relativi all’uso funerario122.

Le scoperte archeologiche e gli studi scientifici sulla suddetta questione rituale giudaica del I secolo nella terra di Palestina, sono argomentazioni di recente dibattito scientifico e non solo nell’ambito della sindonologia; questo dato conferma ancora una volta, laddove non fosse già chiaro, che l’eventuale falsario medievale non avrebbe potuto ricostruire, anche da un punto di vista funerario, il Telo così come era in uso in quel tempo. 

È noto che studi simili sono stati oggetto di recenti pubblicazioni, ma da troppo poco tempo si conoscono notizie a tal riguardo.

Proviamo ad entrare quindi nel complesso mondo del rito della sepoltura dei morti, in uso al tempo di Gesù, nella Gerusalemme governata dal procuratore romano Ponzio Pilato e, come abbiamo detto, non possiamo non partire dai racconti evangelici, la fonte più autorevole quanto alle descrizioni dei fatti avvenuti in quei giorni intorno alla persona e al corpo esanime di Gesù.

A ben guardare le sacre fonti, nessuno dei quattro Evangelisti riporta l’ora esatta della avvenuta deposizione del corpo del Signore dalla croce; né si conosce l’ora della relativa unzione del corpo di Gesù praticata sulla pietra, nonché della avvenuta successiva sepoltura.

Soltanto Marco e Giovanni forniscono un elemento importante ai fini della individuazione indiretta della datazione cronologica degli ultimi eventi pasquali gerosolimitani di Cristo: di certo Gesù è stato deposto dalla croce, esanime, il venerdì precedente la Pasqua, il giorno chiamato dagli ebrei della Preparazione o Parasceve.

L’apostolo amato dal Signore riferisce nel suo vangelo, nel terzultimo capitolo (Gv 19,31), che quel giorno è, per i giudei, il giorno della Parasceve, giorno nel quale le donne dedicano gran parte del loro tempo alla pulizia della casa e, gli uomini, all’acquisto dell’agnello, da immolare nel Tempio in segno di sacrificio e di offerta a Dio.

Il corpo di Gesù fu sepolto, come tra l’altro era in uso nella tradizione ebraica, lo stesso giorno dell’avvenuta morte, e posto nel sepolcro di Giuseppe di Arimatea, a pochi metri dal Golgota, fuori le mura di Gerusalemme.

I due luoghi, quello della crocifissione e quello del sepolcro di Gesù, sono così vicini tra loro che fin dalla prima costruzione della Basilica di Santa Croce, voluta della imperatrice Elena nel 335, a dieci anni dalla sua visita nella città santa, furono inglobati nell’unico edificio sacro : la Basilica del Santo Sepolcro123. Sappiamo però che il culto sui due luoghi santi si formò da subito, nonostante le costruzioni che gli imperatori romani fecero sui luoghi sopraddetti, per eliminarne il ricordo.

La vigilia del Grande Sabato quindi era dedicata esclusivamente, da parte delle donne, alla preparazione dei cibi per la Festa e alle pulizie della casa e di quanto essa conteneva dalle impurità soprattutto di natura alimentare; da parte degli uomini, alla scelta dell’agnello il quale doveva essere maschio, senza macchia ovvero senza difetto, e non più vecchio di un anno perché il sacrificio fosse gradito a Dio (cfr Es 12,4-5).

All’incominciare del tramonto tutto doveva essere pronto per dare inizio al riposo assoluto e alle preghiere (cfr Es 35,2-3): "per sei giorni si lavorerà, ma il settimo sarà per voi un giorno santo, un giorno di riposo, assoluto, sacro al Signore. Chiunque in quel giorno farà qualche lavoro sarà messo a morte. Non accendete il fuoco in giorno di Sabato, in nessuna delle vostre dimore".

Questo è il clima nel quale è avvenuta la deposizione del corpo dalla croce e la relativa sepoltura di Gesù Cristo: toccare un cadavere, per un ebreo, significava, a poche ore dalla Pasqua, contrarre l’impurità e dunque vanificare i propositi di purificazione, di preghiera, di partecipazione alla festa che ricordava la libertà del popolo di Israele dalla secolare schiavitù d’Egitto.

I sinottici però annotano l’ora della morte del Messia: l’ora nona (Mt 27,46; Mc 15,33; Lc 23,44); la tradizione fa coincidere questo orario con le ore 15, le tre del pomeriggio124. Infatti la sepoltura è indicata, sempre dai sinottici, quando è sopraggiunta la sera, al calare del sole o all’imbrunire, per poter provvedere al rito funerario prima che iniziasse il Sabato.

Come abbiamo già detto, i giudei seppellivano i loro defunti lo stesso giorno della morte, ma a motivo della festa principale sopraggiunta, seppellire Gesù, per Giuseppe di Arimetea e per Nicodemo, divenne un problema da risolvere al più presto: l’eventuale impurità presa da contatto di cadavere poteva essere comunicata anche ai pellegrini che incominciavano a salire a Gerusalemme per accedere alla festa. L’impurità si contraeva non solo per contatto fisico, ma anche per partecipazione visiva125.

Il tempo a disposizione per la sepoltura del corpo di Cristo fu però un po’ più lungo di quello che solitamente si è immaginato o si è voluto far immaginare: la questione dell’inizio della notte, limite massimo per le ultime operazioni prima del riposo sopraddetto, fu molto dibattuta in Israele e per diversi secoli.

Una regola liturgica sgombrò il campo dai vari dubbi: "quando appariva la prima stella, si è ancora al venerdì, alla seconda si è tra venerdì e il sabato, alla terza si è al sabato"126: non quindi al tramonto del sole, come si è sempre detto, ma a sera, così come i tre evangelisti fedelmente riportano.

La sepoltura di Gesù, quindi, fu fatta con tempo sufficiente: Giuseppe di Arimatea e Nicodemo ebbero quasi due ore di tempo per adempiere ai riti funerari in uso in quel momento a Gerusalemme; si vuole con questa annotazione, respingere l’idea della fretta e dell’incompletezza della sepoltura riservata a Gesù quel tardo pomeriggio del 7 aprile dell’anno 30 d.C., tesi molto cara e sostenuta da diversi esegeti.

Per capire meglio come sono andati i fatti, facciamo un passo indietro e ritorniamo alla crocifissione; la morte dei tre crocifissi, i due ladroni e Gesù, fu accelerata perché di grave scandalo ai pellegrini che si recavano a Gerusalemme per prendere parte alla festa.

Quando i soldati romani cominciarono ad applicare il crurifragium - lo spezzare le tibie dei crocifissi con dei bastoni, anche di metallo, onde impedire il sollevarsi del condannato sul chiodo dei piedi e quindi la possibilità di respirare ulteriormente per poter allungare i tempi del decesso per asfissia sia pur a costo di indicibile dolore127 - si resero conto che Gesù era già morto: ai due ladroni furono quindi spezzate le gambe. Il militare, visto Gesù morto, non gli spezzò le gambe, ma lo colpì con la lancia nel costato per poterne accertare così la morte avvenuta.

L’arma si conficcò nel torace di Gesù già senza vita e giunse fino al cuore, creando una grande ferita dalla quale uscì copiosamente sangue ed acqua (Gv 19, 32-34). Lo studio delle tracce presenti sulla Sindone ha rivelato che l’acqua che ha visto fuoriuscire Giovanni dal costato di Gesù dopo il sangue è siero.

Sono evidenti i rimandi al Salmo 34,21: "Preserva tutte le sue ossa, neppure uno sarà spezzato"; all’Esodo 12,46 quando descrive le prescrizioni sulla cena pasquale: "non ne spezzerete alcun osso", e a Numeri 9,12, in riferimento sempre all’agnello pasquale il quale doveva essere arrostito con le ossa intatte, figura di Cristo, Agnello di Dio: "non ne serberanno alcun resto fino al mattino e non ne spezzeranno alcun osso"; a Zaccaria che aveva profetizzato come gli abitanti di Gerusalemme avrebbero volto lo sguardo verso colui che avevano trafitto (Zac 12,10): "guarderanno a colui che hanno trafitto".

Chi adempie al rito della sepoltura di Cristo è il ricco Giuseppe di Arimatea, membro autorevole del Sinedrio, discepolo segreto di Giovanni.

L’opera di carità era una delle più importanti prerogative degli uomini del Sinedrio: Giuseppe aveva notato che ad assistere il Signore nelle ultime ore della sua vita non c’erano né parenti né amici; la presenza delle sole tre donne e del giovane Giovanni toccò il cuore del sinedrita.

Grazie alla schiera di schiavi di cui egli disponeva provvide a quanto necessario sia in termini di aiuto per la deposizione e la sepoltura della salma, sia per l’acquisto della Sindone - che come sappiamo dalla descrizione è pregiata e non alla portata economica della povera Maria - e per l’uso del sepolcro nuovo e monoposto, di proprietà di pochi fortunati in Gerusalemme.

Giuseppe dunque è il vero protagonista della sepoltura di Gesù, avvenuta soltanto per il coraggio e la tempestività che questo pio ebreo aveva dimostrato in modo forte: mentre i discepoli di Gesù erano alla macchia, Giuseppe diventa il difensore del corpo esanime del Cristo.

Il corpo di Gesù, come di qualsiasi altro giustiziato, se non fosse stato per l’intervento di Giuseppe di Arimatea, doveva essere gettato nella fossa comune dei delinquenti, insieme agli attrezzi e agli strumenti del supplizio.

Il Talmud Sanhedrin, al numero 452 così recita: "Il giustiziato deve essere sepolto, prima che tramonti il sole: ed inumato nel recinto dei delinquenti, di nascosto, senza onore, insieme con lo strumento del supplizio, cioè con le pietre della lapidazione, col legno della croce, con la spada della decollazione, col sudario della soffocazione, con loro o vicino a loro"128.

È notevole il coraggio di quest’uomo, il quale dalla sua alta posizione sociale e religiosa, chiede il corpo di Cristo, il corpo di un condannato a morte dal Sinedrio stesso, rischiando così l’impurità e ancor più la sua condizione giuridica molto rispettata in tutta Gerusalemme ed oltre.

Marco coglie questo dramma, mettendo in rilievo l’atto rischioso di Giuseppe: "Andò coraggiosamente da Pilato, per chiedergli il corpo di Gesù" (Mc 15,43).

Per la legge romana il crocifisso o un giustiziato, non doveva essere seppellito, ma dato in pasto ai corvi o ai cani; se il corpo, invece, fosse stato chiesto dai famigliari o dagli amici, il procuratore non avrebbe avuto alcuna norma contraria da far rispettare: questo veniva regolarmente consegnato senza particolari procedure o complicazioni, attraverso l’emissione di un atto di governo.

E siamo giunti al punto centrale della nostra ricerca: l’acquisto del lenzuolo funebre per la sepoltura di Gesù sempre da parte di Giuseppe di Arimatea.

A darcene notizie è l’evangelista Marco, così infatti riporta questo particolare importantissimo: "Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce, e avvoltolo in un lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia" (Mc 15,46).

Giuseppe, come abbiamo già detto, va da Pilato a chiedere il corpo in consegna, prima che Gesù fosse deposto dalla croce; la tempestività è motivata dal fatto che soltanto qualche minuto di ritardo poteva essere fatale al destino del corpo di Cristo: la fossa comune.

Così non fu: Giuseppe è intervenuto, sovvertendo l’apparente destino del corpo di Cristo; ritorna velocemente sul Golgota, dopo aver parlato con Pilato, con la tela o sindone già acquistata, come vedremo, nuova, finemente intessuta e formata da un pezzo unico, destinata ad avvolgere il corpo di Gesù insanguinato129.

In quella febbricitante corsa non è solo, al suo seguito ci sono alcuni servi che impiegherà per deporre il corpo di Gesù dalla croce e avvolgerlo nella tela testé acquistata.

Sulla questione filologica del termine greco sindòn, tradotto dalla Conferenza Episcopale Italiana con il lemma lenzuolo, rimandiamo alla lettura del capitolo successivo, in occasione dell’esegesi della pericope di Giovanni 20,1-10.

Aggiungiamo, in questo momento, soltanto un particolare: ai tempi di Gesù, in tutto Israele, non esistevano negozi che vendessero articoli religiosi o adatti alla sepoltura, tanto meno imprese funebri. Giuseppe comprò quindi una porzione di tela, dalla quale ricavare, tagliandola in parti aventi misurazioni predefinite dalla consuetudine funeraria, la sindone, le fasce - almeno tre - e il sudario130.

Contemporaneamente alla figura di Giuseppe di Arimatea, vediamo apparire un altro personaggio importante in Gerusalemme, riportato però solo dal quarto evangelista: Nicodemo, il sinedrita che era andato dal Signore, per incontrarlo, di notte. Egli, come dicono le scritture, acquistò i profumi, quasi trentatré chili di àloe e mirra: la quantità dei profumi acquistati fa immaginare una unzione di tipo regale.

La mistura preparata da Nicodemo era sotto forma liquida, grazie alla diluizione con olio d’oliva131.

È evidente che non ci troviamo di fronte solamente a profumi da bruciare all’interno del sepolcro o da collocare all’interno dei vasi da mettere vicino alla salma, ma ad un unguento, idoneo alla unzione del corpo e adatto a ritardarne la decomposizione; l’uso dell’àloe di tipo medicinale e non aromatico, aveva questo specifico obiettivo132.

I due racconti sulla preparazione del corpo di Cristo per la sepoltura, quello dei sinottici, - "Giuseppe e i suoi servi avvolsero il corpo in un lenzuolo" - e quello di Giovanni, - "lo legarono e lo avvolsero con bende (fasce) insieme agli aromi" - non sono tra loro in disaccordo, ma complementari, cronologicamente susseguenti l’uno all’altro.

Il corpo di Gesù, dunque, non è stato lavato e unto, come doveva avvenire se fosse morto in modo naturale, ma soltanto avvolto in una tela, così come era, anzi raccogliendo anche il sangue che nel frattempo aveva perso133.

Questo non perché mancasse il tempo, ma perché il rito riservato agli uccisi con spargimento di sangue prescriveva questi gesti: il defunto doveva essere seppellito con il sangue che aveva perduto, il cosiddetto sangue di vita, perché secondo la teologia ebraica il sangue è il luogo dove risiede la vita dell’uomo, l’anima134.

L’unzione di Cristo infatti non é stata fatta direttamente sul corpo del Signore, ma in modo indiretto: attraverso il contatto dei lini inzuppati di unguento e fatti avvolgere intorno alla sua persona.

Non dobbiamo dimenticare che Giuseppe di Arimatea e Nicodemo sono dei pii ebrei sinedriti e che la loro conoscenza della Legge era a dir poco perfetta.

La preparazione del corpo per la sepoltura fu fatta su una pietra sepolcrale, dunque fuori dal sepolcro ma comunque vicino ad esso, forse sempre in terra di proprietà di Giuseppe, si pensa nel giardino stesso del sepolcro. A Gerusalemme infatti, nella Basilica del Santo Sepolcro, è venerata la Pietra dell’Unzione; questa si trova tra il Golgota, luogo della crocifissione, e il Sepolcro, luogo della risurrezione.

Sappiamo dalla Scrittura che Gesù viene posto nel sepolcro di Giuseppe di Arimatea, a poca distanza dai luoghi della crocifissione e della preparazione per la sepoltura. Probabilmente è un sepolcro ad un solo banco, nuovo, dove non era stato sepolto nessuno prima di Cristo (Lc 23,53).

Giuseppe aveva sicuramente un sepolcro più grande, a struttura familiare, nella sua città natale ad Arimatea, ma riservò per sé un posto, il più vicino possibile al luogo della accoglienza del Messia, nell’ultimo giorno, durante la risurrezione dei morti: nella valle del Cedron nella città santa di Gerusalemme135.

Non sappiamo se, dopo l’evento della risurrezione di Gesù, Giuseppe abbia avuto la possibilità, sia per un fatto di rispetto personale che per un fatto di devozione popolare, di decidere liberamente se poter seppellire il proprio corpo nel suo sepolcro o se invece altrove.

Un importante passo del Vangelo di Gamaliele, o Lamentazione di Maria, ai versetti 20, 24, 25 e 40, ci fa conoscere ulteriori particolari circa la sepoltura e il luogo del Maestro: "Quelli intanto lo avvolgevano con cura, insieme a spezie e mirra, in un panno di lino nuovo che non era mai stato usato per nessuno. Anche la tomba era vuota; nessun cadavere umano vi era mai stato seppellito, poiché era stata scavata in una grotta appositamente per Giuseppe, il proprietario del giardino. Lo posero dunque là dentro e presero tutte le precauzioni, dicendo: Staremo a vedere fino al terzo giorno...Dopo tutto ciò, Giovanni ritornò di corsa dalla Vergine e le disse: Guarda, hanno posto tuo figlio, il mio Signore, in una tomba nuova, su di lui è stato steso un sudario nuovo, e lo hanno sepolto con molte spezie e abbondante mirra...La Vergine gli domandò: Chi ha dimostrato tanta benevolenza nei confronti di mio figlio? Egli le riferì che erano state due persone autorevoli: Giuseppe e Nicodemo...Giovanni le parlò affettuosamente, dicendole: Cessa ora il tuo pianto, poiché quelli l’hanno preparato per la sepoltura, come si conviene, con aromi e fumo d’incenso e con nuovi panni di lino. Anche la tomba in cui lo hanno seppellito è nuova e lì vicino vi è un giardino"136.

La descrizione del sepolcro di Gesù ci è pervenuta attraverso le Catechesi di Cirillo di Gerusalemme; nelle catechesi 10,13 e 19, così descrive l’ambiente: "Vi si entra per una porticina un po’ più bassa di una persona. Scesi alcuni gradini, si entra nel vestibolo, capace di contenere alcune persone; si accede quindi alla cameretta sepolcrale che ha un solo loculo laterale per un solo cadavere...Fuori del sepolcro giace a terra la pietra che chiudeva la tomba, molto grossa e pesante".

Infatti il sepolcro veniva chiuso da una grande pietra circolare, rotolante in un’apposita scanalatura, guida e sostegno per la pietra sepolcrale altrimenti pesante e pericolosa ai fini della stabilità della stessa; la pietra veniva poi fermata da un cuneo anch’esso in pietra.

La tradizione funeraria in uso presso il popolo di Israele prevedeva che la tomba rimanesse aperta per almeno tre giorni: innanzi tutto per dare la possibilità ad amici e parenti di porgere gli estremi onori al defunto attraverso le visite che si concludevano con il dono dei profumi, ciò che per noi è oggi il deporre dei fiori sulla tomba e poi perché i tre giorni rappresentavano i tre momenti clinico-biologici, trascorsi i quali si poteva affermarne l’avvenuto decesso, si passava cioè dalla morte clinica a quella biologica, la putrefazione del corpo o stato cadaverico.

Sappiamo inoltre che i tre giorni sono carichi anche di significato teologico, così come vedremo meglio quando tratteremo la questione teologica nel paragrafo successivo.

Perché allora il sepolcro di Gesù fu chiuso subito dopo la sepoltura del corpo?

La risposta è molto semplice: come osserva Luca, era appena cominciata la Parasceve, la vigilia della Pasqua; dalle finestre delle case già si intravedevano le luci del candelabro della festa, accese dalle donne.

Durante la festa più importante dell’ebraismo a nessuno era lecito fare nulla se non riposare e pregare: le visite ai sepolcri, i pianti e i lamenti erano pertanto interdetti, la Festa non doveva essere disturbata da niente e da nessuno.

I sinottici ci informano che delle donne furono presenti durante il rito della sepoltura di Gesù; questo aspetto è di capitale importanza, soprattutto quando verrà messo in relazione alla testimonianza che queste faranno, relativamente alla avvenuta risurrezione di Gesù: loro sapevano bene quale era la posizione del corpo, delle tele - cioè della sindone, delle fasce e del sudario - nonché la quantità dei profumi e degli aromi utilizzati dal pio Nicodemo137.

Gli apostoli, tranne Giovanni, non erano stati presenti durante il rito sopra descritto: ecco perché Pietro non collega immediatamente, in base alla posizione delle tele, la grandezza dell’evento appena consumato.

Giovanni invece non avrà difficoltà a capire cosa fosse accaduto all’interno del sepolcro in quelle misteriose trentasei ore138: egli ricordando la posizione della sepoltura e il rinvenimento delle tele potrà dire, in terza persona, di sé "allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette" (Gv 20,8).

Era seguito alla chiusura del sepolcro l’allontanamento delle donne e l’arrivo dei soldati romani perché sorvegliassero il sepolcro evitando l’eventuale furto di cadavere; la preoccupazione dei giudei era quella che i discepoli di Gesù, rubando il corpo, potessero dire che egli era risuscitato dai morti e dunque affermare che veramente Gesù fosse il Messia.

Le guardie appongono così i sigilli139 sulla pietra, dando inizio ai turni di guardia, turni che termineranno al terzo giorno (Mt 27,64-65).

Si conclude così il primo giorno dopo la morte di Gesù; terminato il venerdì incomincia il sabato, giorno di completo silenzio per la liturgia cattolica, a simboleggiare il silenzio fattosi all’interno e intorno al sepolcro, ma giorno di festa per Gerusalemme e tutto Israele.

2- La risurrezione e la Sacra Sindone: quali relazioni?

Il grande sabato è terminato da qualche ora e nel sepolcro entrano i primissimi fievoli raggi di sole; le imperfezioni murarie della porta sepolcrale e quelle della pietra tombale lasciano entrare nella stanza del Signore la luce del nuovo giorno.

Il sepolcro si illumina pian piano; prima dall’esterno e subito dopo, con una esplosione intensa ma breve, dall’interno: la risposta alla luce che nasce da Oriente è la risurrezione di Cristo, la Luce delle genti.

Ciò che per Israele è un giorno normale, il primo della settimana, lo iòm rishòn, il 9 aprile dell’anno 30 dell’Era Volgare, per la cristianità nascente e per il mondo intero è invece il giorno più importante di tutti i tempi: è il Giorno che non conoscerà tramonto, è il giorno della risurrezione di Gesù Cristo.

Attori principali di questa singolarissima giornata sono le donne che tanta parte hanno avuto nei racconti evangelici e nella storia della salvezza, inaugurata da Gesù nei tre anni di predicazione pubblica per le strade della Galilea e della Giudea140; delle tante, tre però emergono fortemente dal gruppo: "C’erano là molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo" (Mt 27,55-56).

Il secondo Evangelista invece divide le donne in più gruppi, dalle più distanti alle più intime del Signore: quelle che avevano seguito Gesù a Gerusalemme in occasione della Pasqua sin dalla Galilea, quelle che erano un po’ più vicine al Maestro e ai discepoli, e quelle invece più assidue nel frequentarli: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e Salome, madre degli apostoli Giacomo e Giovanni (l’apostolo amato dal Signore non la nominerà nel suo vangelo).

Luca preferisce l’anonimato durante il racconto della crocifissione e della sepoltura, ma indica tre donne quando affronta la pericope dell’annuncio della risurrezione di Cristo: "Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti (Lc 23,49); e, tornate dal sepolcro annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo" (Lc 24,9-10): Giovanna, nominata solo da Luca, è moglie di Cusa, l’amministratore del tetrarca Erode (Lc 8,3; 24,10).

Proviamo a mettere insieme i fatti appena narrati dai sinottici e da Giovanni apparentemente in contrasto tra loro se affidati ad una lettura affrettata; i racconti infatti non vanno sovrapposti sincronicamente, ma uniti diacronicamente, cronologicamente l’uno all’altro.

Sono diverse sequenze di un’unica grande scena, consumatasi nel giro di poche ore, la domenica mattina dopo il sabato: la risurrezione di Cristo e le visite delle donne al sepolcro.

Le tre donne, le più assidue e affezionate a Gesù, Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salome, la madre di Giovanni, si recano all’alba del primo giorno della settimana al sepolcro per visitare e imbalsamare il corpo del Maestro (Mt 28, 1; Mc 16,1-2).

La visita che fanno le donne al sepolcro rientra nei costumi ordinari di tutti gli usi funerari del mondo: gli aromi che portarono in dono al Signore sarebbero serviti non per l’unzione, del resto già fatta da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, ma per bruciarli all’interno del sepolcro in segno di lutto e di preghiera per il defunto.

Per il verbo utilizzato da Marco, imbalsamare, ci sono invece alcuni problemi che andrebbero meglio chiariti: innanzitutto gli ebrei non imbalsamavano i defunti; in secondo luogo il verbo greco che indicherebbe il testo originale è alèipho, cioè ungere, spalmare; non di certo imbalsamare.

La Volgata Sisto-Clementina così infatti traduce questo passaggio: "emerunt aromata ut venientes ungerent Iesum". Credo che non debba aggiungere altro alla questione filologica. Per quanto riguarda invece quella rituale credo che l’evangelista abbia voluto indicare con il verbo alèipho l’atto dell’ungere non la salma, ma il giaciglio del sepolcro: versare cioè sul letto di morte ulteriore unguento perché si onorasse la sepoltura.

Gli aromi e gli unguenti portati dalle donne servivano esclusivamente per bruciare i primi - per aromatizzare l’interno del sepolcro -, e per ungere la salma (esternamente) e la pietra sepolcrale i secondi; ricordiamo che se non fosse stato per la festa di Pasqua, il sepolcro sarebbe stato aperto per tre giorni consecutivi, tempo dedicato a parenti ed amici per onorare il defunto con omaggi di profumi, aromi e unguenti141.

L’errata interpretazione di questi gesti porta a considerare la sepoltura fatta in precedenza dai due sinedriti frettolosa e incompleta, cosa che già abbiamo detto non corrispondere a verità.

Le donne sono subito protagoniste, prima di arrivare al sepolcro, di un evento particolare: durante il cammino, da casa verso il sepolcro, sentono una "forte scossa di terremoto" (Mt 28,2); giunte al sepolcro, vedono la pietra "ribaltata": il sepolcro è aperto.

Si trattò veramente di terremoto? Sappiamo che la scossa avvertita dalle donne è stata l’unica, non sono seguiti, a questa, altri sussulti tellurici; la scossa inoltre pare che non sia stata avvertita nella vicina Gerusalemme: le donne infatti non vedono riversarsi per le strade la popolazione in cerca di aiuto o in preda al panico; tutto invece è calmo, tranquillo, normale.

Le donne si trovavano già fuori le mura di Gerusalemme, si dirigevano verso il sepolcro di Gesù quando avvertirono il sussulto, la scossa; il Golgota è una collina e il sepolcro di Gesù si trovava a pochi metri dal luogo della crocifissione: le donne avevano quindi una visuale panoramica della città ed erano vicine ad una delle porte della stessa, luogo naturale di fuga della gente in casi di calamità naturali, ma questo non è avvenuto.

Non fu terremoto: si trattò di una scossa limitata alla zona del Golgota; il terreno vibrò ed emise un gran rumore.

Il testo greco di Matteo, quando fa riferimento a ciò che la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha tradotto con la parola terremoto, riporta il termine seismòs; possiamo dedurre che il fragore sentito dalle donne nei pressi del sepolcro sia stato causato non da un terremoto, ma dal "ribaltamento" della pietra sepolcrale che chiudeva il sepolcro stesso142.

Marco e Giovanni parlano di "pietra che era stata già rotolata o ribaltata" quando le donne arrivano al sepolcro ; non dimentichiamo la preoccupazione iniziale delle donne di aprire il sepolcro a causa del grande masso: "Esse dicevano tra loro: chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?" (Mc 16,3). Matteo invece ci parla di un angelo che rotola la pietra, aprendo il sepolcro, sulla quale poi si mette a sedere.

Facciamo un passo indietro e analizziamo i versetti di Marco, interessanti per capire cosa accadde effettivamente al sepolcro alle prime luci dell’alba che inaugurerà il Giorno senza tramonto: se davvero l’angelo avesse rotolato la pietra, l’Autore non avrebbe avuto bisogno di sottolineare il seguito con una proposizione concessiva: "benché fosse molto grande" (Mc 16,4).

La meraviglia delle donne a questo gesto compiuto dall’angelo si riferisce non al semplice rotolare del masso, ma al sollevamento di questo affinché posizionasse la pietra fuori dalla scanalatura, dalla guida, necessaria invece per la normale chiusura del sepolcro.

La pietra è stata così sollevata dall’angelo e posta appoggiata alla parete del sepolcro, cioè in modo obliquo, per evitarne la caduta; fatta questa operazione rumorosa - immaginiamo il tonfo che il sollevamento della grande pietra ha creato quando è stata posizionata oltre la scanalatura rimettendola a terra - si è poi seduto sopra; la pietra infatti non poteva più rotolare, era pertanto stabile grazie alla posizione obliqua fatta assumere dalla nuova posizione rispetto al sepolcro.

Il testo greco, come al solito, ci viene in aiuto per capire fino in fondo come siano andate le cose: Marco al versetto terzo, quando si riferisce alla domanda preoccupata delle donne relativa alla difficoltà di far rotolare la pietra per accedere nel sepolcro, usa il verbo apokulìo: "Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?".

Nel quarto versetto, per esprimere il movimento della pietra dal basso verso l’alto nell’operazione fatta dall’angelo sopra descritta, al verbo rotolare, in greco kulìo, aggiunge la preposizione anà, anakulìo, cioè ribaltare e non più rotolare.

La CEI invece utilizza lo stesso verbo per i due termini tra loro differenti; la traduzione di Marco potrebbe essere all’incirca questa: "Esse dicevano tra loro: chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro? Ma, guardando, videro che il masso era stato ribaltato, benché fosse molto grande".

Dopo l’analisi delle pericopi di Matteo e di Marco ci addentriamo ora in quella di Giovanni, il quale al versetto secondo del capitolo venti usa il verbo ermènon, che significa sollevare in alto, dal verbo greco aìro; in questo caso la Bibbia di Gerusalemme ha tradotto in italiano il verbo greco in modo filologicamente esatto: "E vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro"143.

La vittoria della vita sulla morte scardina l’equilibrio naturale; la pietra ribaltata dalla scanalatura è segno della definitiva e soprannaturale apertura del sepolcro, non può più restare chiuso per sempre; la vittoria di Cristo sulla morte è definitiva ed irreversibile.

Dopo lo stupore per l’accaduto le donne reagiscono in modo differente perché differenti sono le personalità: Maria madre di Giacomo e Salome rimangono davanti al sepolcro in contemplazione, quasi bloccate dall’avvenimento misterioso e dall’apparizione dell’angelo, esternamente al sepolcro per Matteo, internamente per Marco.

Maria di Magdala, più impulsiva ed emotiva delle altre, lascia le due amiche al sepolcro e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali si trovavano in città, in Gerusalemme, portando loro la notizia del probabile furto del corpo di Gesù: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto" (Gv 20,2).

Mentre Maria di Magdala è in Gerusalemme l’angelo apparso al sepolcro parla alle due donne; in entrambi i casi le invita a visitare il sepolcro e a vedere il luogo dove era stato deposto Gesù; il senso di questo invito è ovvio: soltanto chi aveva preso parte alla sepoltura di Gesù poteva ricordare il posto e quindi testimoniare l’avvenuta risurrezione di Cristo144, così come più tardi farà l’apostolo Giovanni, che per questo vide e credette, a differenza di Pietro che pur vedendo la stessa scena che vedeva il giovane apostolo "se ne tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto" (Lc 24,12).

Le donne fuggirono impaurite dal sepolcro dopo che l’angelo aveva parlato loro: si diressero frastornate verso la città, meditando di non raccontare a nessuno quanto loro era accaduto.

Le donne sapevano bene che la propria testimonianza era nulla nel contesto giuridico-sociale ebraico; Cristo ha voluto che le prime a vederlo risorto fossero proprio loro, le donne, perché queste non lo avevano abbandonato durante i momenti difficili del venerdì precedente, giorno di Passione: processo, flagellazione, crocifissione, morte e sepoltura.

I discepoli invece, escluso Giovanni, scapparono davanti a questi fatti; Pietro rinnegò più volte di averlo addirittura conosciuto.

Maria e Salome corrono impaurite verso Gerusalemme, così come pochi minuti prima aveva fatto Maria di Magdala e nella direzione opposta comincia la corsa degli apostoli Pietro e Giovanni verso il sepolcro.

L’analisi della pericope della visita dei due apostoli nel luogo di sepoltura di Gesù e la relativa descrizione di quanto ivi trovato, certamente non una stanza vuota come da più parti si vuol far intendere, è oggetto dell’intero capitolo successivo; rimandiamo pertanto la trattazione di questo nodale avvenimento ai fini della identificazione della Sindone di Torino con i lini descritti nel racconto giovanneo.

Continuiamo invece la trattazione dei fatti della domenica mattina, ritornando sulla figura della Maddalena, la quale dopo aver avvisato i due Apostoli, ritorna anche lei verso il sepolcro, ma più lentamente di quelli: era stanca della corsa appena fatta e distrutta dall’idea che si era fatta rispetto al furto del corpo del Signore.

È inutile sottolineare l’attaccamento di Maria a Gesù e alla conseguente sofferenza che doveva provare in quel triste momento; per sua fortuna ritornerà gioconda quando il Signore le apparirà e ci piace immaginare che la Maddalena, presa da uno dei suoi soliti attacchi emotivi, si scagliasse letteralmente su Gesù coprendolo di domande al punto che dovette risponderle: "non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre, ma va dai miei fratelli e dì loro: io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Gv 20, 17).

Soltanto in questo passo si può collegare, da un punto di vista cronologico, il racconto di Luca; è la visita delle donne che avevano comprato gli aromi il venerdì sera dopo il tramonto; possiamo definire questo gruppo di donne il secondo.

Il primo gruppo è formato dalle tre donne Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salome, le quali avevano già visitato il sepolcro non già di buon mattino, come fanno queste (Lc 24,1), ma "all’alba, quando era ancora buio, al levar del sole".

Il secondo gruppo di donne mentre si recavano al sepolcro incrociano sia Maria e Salome agitate e in corsa che la Maddalena, le quali raccontarono separatamente le loro straordinarie esperienze: le donne trovano il coraggio per farlo perché non c’erano tra loro uomini. Ma il secondo gruppo di donne, incredule di quanto raccontato, decidono di andare tutte insieme al sepolcro per convincersi di quanto appena affermato.

Arrivate nei pressi della tomba, verificarono dapprima il ribaltamento della pietra, poi l’assenza del corpo di Gesù nel sepolcro, ma la presenza di Cristo risorto e la visione degli angeli non fu loro ancora data.

Non ebbero neanche il tempo di cominciare a dubitare che le apparvero due angeli in atteggiamento di rimprovero per la loro incredulità: le donne si sentirono in colpa e chinarono il volto verso il basso, a sottolineare la vergogna per non aver creduto alle testimonianze delle tre fortunate amiche.

Segue l’annuncio delle donne della risurrezione di Cristo agli Apostoli, ormai fortificate dalla visione del Cristo risorto e per questo capaci di affrontare qualsiasi situazione; loro infatti sono state testimoni oculari dell’apparizione di Cristo, riportata in Matteo 28,9-10.

Gli Apostoli risponderanno increduli, freddi e distaccati. Infatti, nessuno degli altri discepoli raggiunse il sepolcro per verificare quanto detto dalle donne, segno ulteriore della loro incredulità.

Uno dei motivi è da ricercarsi nel fatto che la Maddalena aveva portato due differenti testimonianze, una in contrasto con l’altra, ma la causa principale della incredulità degli Apostoli è che la legge giudaica non dava la capacità giuridica alle donne in qualità di testimone (non che la cultura giuridica greca e romana l’avesse)145.

Possiamo a questo punto tentare una conclusione: il sussulto del Golgota, come abbiamo detto, è stato causato dal tonfo dovuto al ribaltamento della pietra fuori dalla scanalatura della guida sepolcrale ad opera dell’angelo.

Solo una forza soprannaturale avrebbe potuto sollevare il masso, infatti le donne per questo si sono meravigliate.

L’angelo apre il sepolcro un attimo prima che avvenisse la risurrezione: se il sussulto fosse stato provocato dopo la risurrezione il sudario si sarebbe afflosciato insieme alle fasce perché scosso anch’esso. Le forti vibrazioni della terra, circostanti il sepolcro, avrebbero inficiato quello che Giovanni e Pietro hanno visto e per questo creduto: le fasce adagiate sulla pietra sepolcrale e il sudario ancora avvolto nello stesso posto iniziale, quello della sepoltura, come un palloncino ancora gonfio.

Questo è un elemento importante per determinare la sequenza dei fatti: vedremo adesso cosa è accaduto ai lini sepolcrali di Gesù e come li hanno trovati i due Apostoli.

Note del V Capitolo

122 Talmud, Il trattato delle Benedizioni, a cura di SOFIA CAVALLETTI, p. 181-222, Milano 1992.

123 L’imperatore Giuliano (361-363) tentò la ricostruzione del Tempio perché pressato dai giudei di Gerusalemme, ma il progetto venne immediatamente sospeso perché morì in battaglia contro i persiani. Sulla descrizione storica ed architettonica della Basilica del Santo Sepolcro: BUX - CARDINI, L’anno prossimo, p. 40-43.

124 La notte, dal tramonto all’alba, per gli ebrei era divisa in tre veglie di quattro ore ciascuna; il giorno invece in dodici ore: l’ora sesta per esempio era mezzogiorno e l’ora nona, le quindici. Per approfondire l’argomento, cfr ENCYCLOPAEDIA JUDAICA, alla voce Sundial, col 519-520, Jerusalem 1972.

125 Cfr FREDERIC MANNS, Il Giudaismo, ambiente e memoria del Nuovo Testamento, p. 99-101, Bologna, 1995.

126 G. RICCI, La Sindone Santa, p. 243.

127 Questo particolare sforzo che i crocifissi facevano è ben messo in evidenza sull’impronta lasciata dall’Uomo della Sindone se osserviamo che il dorso della mano e le nocche delle dita sono completamente escoriate: questo è avvenuto per il continuo sfregamento delle mani contro il legno della croce.

128 Cfr ANTONIO PERSILI, Sulle tracce del Cristo risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, p. 91-97, Tivoli 1988.

129 Cfr GIUSEPPE GHIBERTI, La sepoltura di Gesù. I Vangeli e la Sindone, p. 54-62, Torino 1982.

130 Cfr R. DE VAUX, Il mondo di Gesù, <Tempi e luoghi della Bibbia>, p. 372-373, (1978).

131 Cfr UMBERTO FASOLA, La Sindone e la Scienza, Atti II Congresso Internazionale di Sindonologia, 1978, p. 59-64.

132 Cfr PERSILI, Sulle tracce, p. 101.

133 Cfr BONNIE B. LAVOIE et al., The Body of Jesus was not washed according to the Jewish burial custom, <Sindon> XXIII (1981), q. 30, p. 19-29.

134 Cfr GAETANO INTRIGILLO, Indagine nel sepolcro vuoto. "Venite a vedere il luogo dove era deposto", p. 12, Udine 1996.

135 Cfr ABRAHAM COHEN, Il Talmud, p. 423-431, Bari 1999.

136 Cfr MORALDI, Apocrifi del Nuovo Testamento.

137 Cfr GHIBERTI, La sepoltura, p. 29-34.

138 Perché si imprimesse sulla Sindone il decalco di sangue così come noi oggi lo vediamo, lo stesso deve avere subito un processo di fibronolisi, cioè un ridiscioglimento dei coaguli di sangue, reso possibile dalla mistura di àloe e mirra venuta a contatto con le ferite grazie all’avvolgimento del Lino, che di quelle sostanze era imbevuto, con il corpo di Cristo. Questo processo si consuma nell’ambito delle trentasei ore, giusto il tempo di permanenza del corpo esanime di Cristo nel sepolcro gerosolimitano; se le ore del contatto tra le ferite e il Telo fossero state maggiori o minori delle trentasei ore, il decalco in oggetto non sarebbe stato quello visibile oggi sulla Sacra Sindone di Torino.

139 Come abbiamo visto nel capitolo precedente, i sigilli che hanno apposto i soldati romani sulla pietra del sepolcro di Gesù potrebbero riguardare anche l’iscrizione che gli stessi avrebbero fatto sulla Sindone di Cristo per accertarvi l’identità del defunto e la causa della morte, rito in uso nel giudaismo del I secolo d.C. Le scritte che i soldati avrebbero posto, con inchiostro, sul Telo sono quelle rinvenute dagli studiosi francesi nelle prossimità del volto dell’Uomo della Sindone di Torino.

140 Cfr LILIA SEBASTIANI, Donne dei Vangeli, tratti personali e teologici, Milano 1994.

141 Cfr PERSILI, Sulle tracce, p. 116-119.

142 Ib, p. 119-120.

143 Ib, p. 121.

144 Cfr INTRIGILLO, p. 8-10.

145 Cfr PERSILI, Sulle tracce, p. 131-132.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 16:02
L'immagine dell'uomo presente sulla Sindone ha subito un vero martirio e una vera crocifissione e morte e non è nè un dipinto, nè di un uomo che si è finto cadavere.


(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 16:04
 

 

Giovanni 20,1-10: le tracce nel sepolcro di Gerusalemme e la Sindone di Torino

1- I testimoni di Gerusalemme

Giovanni 20,1-10 è l’unico racconto evangelico che descrive con cura la natura e la condizione dei teli trovati dagli apostoli all’interno del sepolcro la mattina seguente la Pasqua ebraica: il primo giorno della settimana ebraica, lo iòm rishòn, giorno riservato nel racconto della Creazione - nel primo libro della Bibbia - alla separazione della luce dalle tenebre, del giorno dalla notte, noi potremmo dire, della Vita dalla morte.

L’apostolo prediletto dal Signore, l’amato Giovanni, è il solo dei quattro evangelisti a parlare espressamente di sudario e di fasce senza confonderli con la sindone, quando fa riferimento ai teli che hanno avvolto il corpo di Cristo - dormiente nella morte per trentasei ore - all’interno del sepolcro gerosolimitano.

La nostra riflessione, filologica ed esegetica, del noto passo di Giovanni fa riferimento al rapporto teli-sepoltura-Sindone: le domande che cercheremo di porci, per comprendere meglio cosa sia avvenuto in quelle misteriose ore nel sepolcro più famoso di tutti i tempi, ci stimoleranno ad analizzare, momento dopo momento, versetto dopo versetto, i fatti accaduti e raccontati dal quarto evangelista in modo quasi didascalico.

Quali relazioni possiamo quindi intravedere tra gli oggetti del racconto di Giovanni e il Telo conservato attualmente a Torino, e che noi conosciamo - almeno da sette secoli - con il nome di Sacra Sindone?

Il tutto mirerà, se non a dimostrare, almeno a verificare le concordanze che intercorrono tra il racconto evangelico e il Sacro Lino, e affermare quindi sia la storicità dei vangeli - quanto alla descrizione di Giovanni, testimone oculare della visita al sepolcro - che la probabile autenticità della Sindone, quale testimone "muto, ma allo stesso tempo sorprendentemente eloquente"146, della risurrezione di Gesù Cristo.

Si pone quindi un problema di traduzione dal testo greco147 al linguaggio corrente: sarà nostro intento prendere in esame, per un confronto con il testo originale - la lingua greca - sia la Volgata Sisto-Clementina, redatta in lingua latina, che la Bibbia di Gerusalemme, tradotta dalla CEI in lingua italiana.

Proviamo pertanto a rivedere alcuni termini che, se tradotti diversamente, ovvero filologicamente più corretti, rendono i racconti più aderenti a quello che l’evangelista ha descritto e che dalla lettura delle traduzioni in lingua corrente non si evincerebbe immediatamente.

La latinizzazione prima e la lingua nazionale poi hanno contribuito da una parte a divulgare il messaggio della buona novella, dall’altra a creare necessari compromessi linguistici perché la comprensione del contenuto fosse veramente possibile a molti.

Questo processo però, non è avvenuto senza costi, a volte anche alti: ci si trova dinanzi a traduzioni le quali fanno immaginare avvenimenti a volte fantasiosi se non addirittura inesistenti rispetto a quanto scritto in lingua originale dall’autore sacro.

Iniziamo dalla lettura dei primi versetti della pericope del quarto evangelista e subito ci si accorge che siamo di fronte alla descrizione della tomba e di quanto in essa è rinvenuto dagli apostoli Giovanni e Pietro; i due discepoli arrivano al sepolcro correndo perché messi in allarme da Maria di Magdala che per prima vide la pietra circolare del sepolcro ribaltata rispetto alla posizione originaria, quella di chiusura, del giorno della avvenuta unzione e sepoltura di Gesù.

Dobbiamo subito ripetere, prima di proseguire nell’analisi del testo, che i sepolcri venivano tenuti aperti, per le visite dei parenti e degli amici del defunto, per tre giorni ininterrottamente, giorno e notte; il sepolcro di Gesù invece doveva restare chiuso dal vespro del venerdì fino a quello del sabato perché si festeggiava quel Sabato, in tutto Israele, la Pasqua, la più importante tra le festività dell’ebraismo. Il sepolcro di Gesù, quindi, sarebbe stato aperto alla visita dei parenti, secondo la Legge ebraica, soltanto dopo il vespro del Sabato; ecco perchè le donne si preoccupavano di chi dovesse rotolare la pietra sepolcrale per accedervi.

Tornando al testo evangelico, la prima considerazione da farsi è relativa ai tre verbi che descrivono il vedere dei tre protagonisti del racconto giovanneo: Maria di Magdala, Giovanni e Pietro; essi sono tradotti in italiano, seguendo la traduzione latina, con il generico vide, mentre, come vedremo, dall’analisi filologica, sono lemmi che descrivono verbi diversissimi tra loro; intendono cioè esprimere le differenti sfumature del vedere, dando origine così alle relative implicanze sulla descrizione degli oggetti visti da loro.

Nel versetto 1 il verbo greco (blépei), traduce il termine scorge e non un semplice vide: Maria di Magdala si recò al sepolcro quando "era ancora buio" per visitare il corpo di Gesù e rendergli omaggio, come il rito funerario giudaico prevedeva: bruciare gli aromi nel sepolcro e ungere la salma - esternamente, cioè sopra ai lini -, e la pietra sepolcrale.

Il venerdì pomeriggio precedente la vigilia della Pasqua, all’ora del vespro, cioè allo spuntare della terza stella, ogni attività doveva cessare per dare inizio alle preghiere e al riposo: come già detto, la prima stella era il segno che il giorno stava per giungere al termine, la seconda stella preludeva al nuovo giorno, la terza ed ultima inaugurava il giorno seguente, e nel caso del venerdì, preannunciava il sabato: incominciava la festa più importante per il popolo ebraico, anticipata dalla Preparazione dei Giudei (Lc 23,54).

La donna, recandosi verso la tomba, scorge da lontano che la pietra è stata ribaltata e, impaurita, corre a chiamare Pietro, temendo per la cattiva sorte toccata al corpo del Signore: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto", (v 2).

Il verbo scorgere riferisce perfettamente l’impossibilità, da parte di Maria, di raggiungere particolari circa la descrizione del sepolcro e di quanto era accaduto nei suoi pressi, perché ancora buio, e rende l’idea del suo stato d’animo agitato, perché presa da timore per eventuali manomissioni avvenute nella tomba a discapito del corpo del Signore; le è mancata la calma per osservare cosa fosse veramente accaduto.

Nel versetto 5 il verbo greco usato è parakýpsas blépei,  dal verbo parakýpto, che vuol significare un gesto simile a quello di chi si affaccia da un finestrino di un treno in corsa e protende il capo a guardare in avanti: dunque è da rendersi meglio con "data una sbirciata / un’occhiata, scorge"; le traduzioni invece portano un semplice e solo "chinatosi, vide", senza aggiungere la qualità del vedere, e cioè per dare una sbirciata, uno sguardo fugace, impreciso148.

Giovanni quindi, dopo aver sbirciato, non entra nel sepolcro, aspetta il capo degli Apostoli, Pietro, arrivato successivamente presso la tomba perché più lento, nella corsa, del giovane discepolo.

Cosa scorge Giovanni senza però entrare nel sepolcro, quindi dall’esterno149? Questa pericope è molto importante e risolutrice di alcuni problemi posti sul percorso della nostra indagine; viene descritta cioè la posizione delle fasce, tà othónia, viste all’interno del sepolcro: mentre nel versetto 6 il participio predicativo segue il sostantivo qui il participio precede il nome: scorge distendersi i teli150.

È evidente l’intento dell’autore, ossia il voler sottolineare il verbo rispetto agli oggetti e cioè che i teli si stanno distendendo: blépei keímena tà othónia (v 5); l’azione dello stendersi, dell’afflosciarsi dei teli è vista quindi dall’apostolo Giovanni, privilegio che il Signore ha concesso soltanto a lui, forse come premio per la fedeltà a chi non l’ha abbandonato neanche nel momento più grave: Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, Maria di Magdala e il discepolo che egli amava (Gv 19,25).

Il versetto 8 infatti così termina: il discepolo che era giunto per primo al sepolcro vi entra solo dopo che lo ha fatto Pietro, e facendo memoria di ciò che aveva sbirciato dall’esterno appena arrivato sul luogo - cioè lo stendersi dei teli - e la condizione dei teli visti nello stato successivo, dall’interno della tomba - i teli completamente distesi su se stessi - dice, nel raccontare l’esperienza che aveva egli stesso fatto: "vide e credette" (Gv 20,8); Giovanni infatti fa di questo vedere un vedere con i propri occhi, utilizzando per questa ulteriore sfumatura il verbo greco (oráo).

L’altro verbo da prendere in esame è teoréi, teoréi tà otónia, presente al sesto versetto della pericope. Il vedere di Pietro è in verità un osservare, un guardare con molta attenzione, più che un vedere generico, superficiale, leggero - così infatti è tradotto dai dizionari di lingua greca.

Il principe degli Apostoli dopo quell’osservazione, attenta e scrupolosa della condizione dei teli, cerca di capire quello che invece Giovanni aveva già compreso: Pietro non era stato presente durante lo svolgimento della sepoltura di Gesù, ma quello che ha osservato gli è sufficiente a destargli meraviglia, stupore.

L’evangelista Luca disegna molto bene lo stato d’animo con il quale Pietro esce dal sepolcro dopo l’esperienza dell’osservare: "E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto" (24,12).

I tre verbi sono quindi paradigmatici di un cammino di fede, cominciato dagli Apostoli e poi comunicato a noi, in quell’esperienza che l’umanità imparerà a chiamare Chiesa; prima l’autore descrive il vedere di Giovanni con il verbo blépei, cioè un vedere appena accennato, frettoloso, incerto: comincia cioè il cammino di fede del singolo fedele.

Poi il verbo teoréi, cioè l’osservare, il meditare, il soffermarsi e se vogliamo, anche il meravigliarsi di ciò che è accaduto; è lo stadio successivo ma non ancora definitivo.

Il terzo verbo, eiden, è il vedere che porta alla fede certa, il vedere con i propri occhi, l’esperienza che porta alla certezza di ciò che si credeva precedentemente e che ora è invece evidente; in greco è espresso con il verbo epìsteusen, cioè ciò che è scientifico, certo, manifesto.

Così dunque si è immaginato nei secoli successivi l’itinerario di fede, tanto caro a molti Padri della Chiesa: dallo stadio degli incipienti a quello dei progredienti per giungere a quello definitivo dei perfetti151.

2- Giovanni, dopo avere visto, credette.

Continuando l’analisi del testo passiamo al termine bende, othónia, cioè all’oggetto del vedere dei due apostoli; dobbiamo subito dire che questo lemma ha molti significati nella lingua greca: innanzitutto è il diminutivo del sostantivo othóne e quindi significa pezza, pannilino, fascia152; ma anche tessuto, panno di lino, vela, tela, veste di lino e tunica leggera.

Il vocabolario Bonazzi153 invece traduce il sostantivo plurale othónia con fasce per avvolgere i cadaveri, a nostro avviso più aderente alla dinamica del racconto stesso; anche il Vocabolario Greco-Italiano dello Schenkl154, traduce il lemma in bende con le quali gli ebrei solevano avvolgere i cadaveri155.

Gli othónia, quindi, sono bende o fasce? Proviamo a determinare l’esatta traduzione della parola prendendo in esame il passo del vangelo di Giovanni quando descrive la risurrezione di Lazzaro, 11,44: "Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: scioglietelo e lasciatelo andare".

Il sostantivo usato qui, in greco è keiríai, cioè bende. Il testo greco, a differenza della traduzione in italiano, utilizza il verbo dedemènos, che traduce il verbo legare e non avvolgere.

Infatti grazie all’uso delle bende è stato possibile legare le mani e i piedi di Lazzaro, come la Volgata Sisto-Clementina riporta: "Et statim prodiit qui fuerat mortuus, ligatus pedes et manus".

Il versetto 44 si chiude con un interessante particolare: "il Signore comanda di sciogliere le bende dal corpo di Lazzaro e di lasciarlo quindi andare"; le fasce, infatti, non si sciolgono.

Se questa traduzione del termine greco con la parola bende va bene per Lazzaro, non è corretta per la sepoltura di Cristo: qui non siamo di fronte a bende, ma a fasce; il corpo non si può avvolgere con delle bende, ma con qualcosa di più largo, adatto inoltre al versamento dei profumi, per trattenerli contro la putrefazione del corpo (cfr Gv 20,40), e in uso quindi per le sepolture degli uccisi con spargimento di sangue, così come la ritualità giudaica prevedeva156.

In aiuto, per comprendere la relazione tra i due tipi differenti di avvolgimento dei lini sepolcrali, quelli di Lazzaro e quelli utilizzati per Gesù, ci viene il vangelo apocrifo detto dei Dodici Apostoli, o anche chiamato degli Ebioniti157.

In questo scritto non si fa riferimento alle tecniche di sepoltura riservate a Gesù; è narrato soltanto l’episodio di Tommaso che incredulo davanti al Signore risorto tocca le ferite del suo corpo.

La fonte giudeo-cristiana descrive però con minuzie di particolari i lini utilizzati per la sepoltura di Lazzaro: Gesù rivolgendosi a Tommaso gli dice: "Vieni, ti farò vedere le mani di Lazzaro, legate da fasce (bende) e involte in lenzuoli".

Infatti Lazzaro, quando viene chiamato da Gesù, esce dal sepolcro; se fosse stato avvolto completamente in una sindone non avrebbe potuto farlo: l’uso delle bende, per quanto legate intorno alle caviglie, gli permetteva la deambulazione.

Altro aspetto che dobbiamo prendere in considerazione è la terminologia particolare usata da Giovanni nel descrivere la qualità merceologica degli oggetti descritti: egli precisa e, se vogliamo, contrappone, il termine bende a quello di sudario; il sudario è comunque una tela come lo sono le bende e le fasce.

Perché allora egli ci tiene a precisare le differenze? Se infatti il corpo di Cristo fosse stato stretto da bende in alcuni punti, queste, essendo di ridotte dimensioni, avrebbero messo in evidenza la Sindone, cosa di cui Giovanni non parla.

Giovanni infatti non dice che le bende e la Sindone erano distese e il sudario no, ma fa solo riferimento alle bende, cioè alle fasce, così come abbiamo sostituito. La Sindone infatti è completamente nascosta dalle fasce e per questo non è menzionata nella riflessione che fanno i due evangelisti nel sepolcro: Giovanni, a differenza dei sinottici, non la descrive nel racconto.

Facciamo notare che in tutte e due le descrizioni, sia in quella della sepoltura, Gv 11,38-42, che in quella della tomba trovata vuota - ma gli apostoli trovano le tele, non il nulla - , Gv 20, 1-10, il testimone dei fatti e delle relative descrizioni è sempre Giovanni; questo particolare, di non secondaria importanza, mette in relazione i due racconti apparentemente separati tra loro: il ricordo dell’apostolo relativo ai due momenti, quello iniziale e quello finale, la deposizione e la risurrezione del corpo di Gesù, faranno dire a Giovanni: per questo vide e credette158.

Passiamo ad analizzare un altro termine: il verbo keímena, il participio di keímai. In latino corrisponde al verbo jaceo, cioè giacere, essere disteso. La Volgata traduce con il termine posita, dal verbo ponere cioè mettere giù.

Come è facilmente intuibile le fasce non sono per terra così come è tradotto in lingua italiana, ma distese, cioè non cambiano luogo dalla posizione iniziale, si afflosciano soltanto su se stesse, senza manomissioni, senza che siano svolte.

Ciò che aveva scorto Giovanni diviene per Pietro e lo stesso Giovanni, certezza: le fasce si sono adagiate su se stesse, determinando l’osservazione e la contemplazione del principe degli Apostoli.

E siamo giunti finalmente al sudario, altro oggetto importante per la nostra ricerca e ricostruzione del testo.

Il versetto 7 così comincia: kaì tò sudárion, "e il sudario". Il sudario, come si vede nel racconto di Lazzaro, veniva usato per asciugare il viso appunto dal sudore, poco usato però, quanto ad impiego, nel rito funerario ebraico.

Nel Nuovo Testamento il termine greco soudárion è usato quattro volte: due nel vangelo di Giovanni, Gv 11,44, la risurrezione di Lazzaro, e in Gv 20,2, la risurrezione di Gesù; una sola volta nel vangelo di Luca, 19,20, nota come la parabola delle mine o dei talenti, e negli Atti degli Apostoli, 19,12.

La Bibbia di Gerusalemme riporta per la risurrezione di Gesù la traduzione di soudárion in sudario, nei tre passi citati, con il termine fazzoletto. Perché? Il sudario infatti era un fazzoletto, non un telo per l’uso funerario.

Non si deve fare confusione tra sudario e sindone, cioè tra fazzoletto e panno mortuario, equivoco non del tutto sventato soprattutto tra molti esegeti e storici, i quali hanno anche immaginato una similitudine tra i due termini.

Il sudario è un fazzolettone di tela di forma quadrata o rettangolare, più o meno di 60-80 centimetri per lato; la Sindone è un lenzuolo funerario di dimensioni molto più ampie, tali da contenere frontalmente e dorsalmente un corpo umano. Se Giovanni non parla della sindone è perché non la vede in quanto è completamente avvolta dalle fasce, forse tre, e dal sudario posto esternamente sul capo.

Il versetto infatti prosegue: "che gli era stato posto sul capo". Giuseppe di Arimatea ha fasciato il corpo di Cristo fino al collo, sul capo poi ha messo il sudario, forse per non lasciare gli unguenti esposti all’aria senza protezione; naturalmente il sudario aveva la stessa funzione delle fasce e cioè quella di avvolgere il capo di Cristo già avvolto dalla Sindone così come tutto il corpo159.

I sinottici parlano di un totale avvolgimento, corpo e capo, Giovanni invece dice che al di sopra della Sindone c’era il sudario che avvolgeva il capo.

Infatti egli utilizza il verbo avvolgere, entylísso, usato anche da Matteo e Luca per indicare l’atto dell’avvolgere la Sindone intorno al corpo di Cristo; l’Apostolo infatti esprime letteralmente "che era sul capo di lui", rafforzando il luogo e la posizione del sudario.

Alcuni esegeti ritengono che il sudario in oggetto menzionato da Giovanni fosse quello interno, la mentoniera; questa dall’interno, a risurrezione avvenuta, avrebbe contribuito alla sollevazione di quella parte del lino che avvolgeva il capo, mentre tutto il resto era afflosciato; ma Giovanni a nostro parere non poteva descrivere un oggetto che non vedeva, quindi siamo certi che il sudario era posto esternamente alla Sindone stessa.

Come era posizionato il sudario? La CEI traduce "non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte". Il testo greco non dice che le fasce si trovavano per terra, ma soltanto che il sudario non era disteso con le fasce: il participio è stato erroneamente tradotto con piegato invece che con avvolto, facendolo derivare dal sostantivo entyle; questo termine corrisponde alla parola coperta, e questa, è noto, serve per avvolgere; il Rocci traduce il termine con avvolgere, involgere, ravvolgere.

Per quanto riguarda l’avverbio korìs, questo è tradotto separatamente, in disparte: infatti in latino è detto sed separatim involutum, cioè "ma separatamente avvolto", oltre che differentemente, al contrario. Poiché Giovanni vuole descrivere l’opposizione, è bene tradurre con al contrario, rafforzato dal fatto che l’avverbio è posto tra l’avversativo e il verbo: non disteso ma al contrario avvolto. È messa in evidenza la differente posizione delle tele, ma non il luogo differente.

Infatti rispetto al luogo così la pericope prosegue: eis héna tópon, in un luogo; anche qui si sono formate due scuole: quelli che traducono nello stesso luogo, esattamente al suo posto, nella medesima posizione, e quelli che traducono invece, a nostro parere forzando il testo originale, in un luogo a parte, in un altro posto.

Quando Pietro negli Atti 12,17 dice che "uscì e si incamminò verso un altro luogo", l’autore utilizza il termine héteron per indicare il lemma altro; perché dunque qui non ha usato lo stesso termine: eis héteron tópon? La Volgata infatti traduce il passo degli Atti: In alium locum.

L’aggettivo numerale heîs, sorretto dalla preposizione eis, prende il significato di stesso, medesimo. Infatti sempre la Volgata traduce con in unum locum, cioè nella stessa posizione, nello stesso luogo160.

Il sudario dunque sarebbe rimasto nella medesima posizione, o nello stesso luogo, mentre le fasce avevano cambiato posizione perché distese.

Giovanni infatti non nomina nessun altro luogo certo, non dicendo chiaramente dove fosse posizionato il sudario; ciò significa che rimane nello stesso posto di quello iniziale e non altrove; il sostantivo topos infatti è tradotto dal Rocci con il termine luogo ma anche posizione.

Soffermandoci ancora una volta sul numerale heis, notiamo che altri numerali quali mìa e hèn sono tradotti dal Bonazzi con il termine unico: il sudario, al contrario delle fasce, era avvolto in una posizione unica, nel senso di singolare, eccezionale, irripetibile; invece di essere disteso sulla pietra sepolcrale con le fasce, era rialzato ed avvolto; una sfida alla legge di gravità161.

Pietro dunque vede le fasce distese sulla pietra sepolcrale senza effrazioni o manomissioni; il sudario, al contrario, come se ancora avvolgesse il capo di Cristo, probabilmente anche per l’improvviso asciugarsi degli aromi dovuto all’effetto della risurrezione; Luca infatti tratteggia lo stato d’animo dell’Apostolo dopo l’esperienza straordinaria avvenuta nel sepolcro: "e se ne tornò meravigliandosi tra sé per l’accaduto" (Lc 24,12).

Se a questo aggiungessimo anche l’ulteriore concordanza tra il racconto evangelico della crocifissione e la relativa posizione del capo - lievemente spostata in avanti rispetto al corpo - con l’immagine del corpo impressa sulla Sindone, il disegno diventerebbe completo. La distanza che riscontriamo sul Telo sindonico tra la rima buccale e l’articolazione sternoclavicolare è ridotta perchè il corpo esanime di Gesù crocifisso si trovava già nello stato del rigor mortis. Le coincidenze, come si nota, sono veramente molte.

Dopo l’esame al radiocarbonio del 1988 la Sindone fu datata in un intervallo di tempo compreso tra il 1260 e il 1390 d.C.; sappiamo però che la datazione medievale non è stata confermata, perché errata: non si è tenuto conto, da un punto di vista metodologico, delle norme di pulitura dei campioni analizzati.

Sull’antichità e sull’autenticità della Sindone sono intervenute oltre trenta scienze, le quali, quasi all’unanimità, concordano sul fatto che il Telo di Torino è il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Cristo: le fonti liturgiche e storiche, l’esegesi, la filologia, l’iconografia, la palinologia, la numismatica, la merceologia, l’informatica, la sfragistica, la medicina, la fotografia, ecc.

E allora, come si è formata l’immagine giallognola, raffigurante il corpo di un uomo martoriato, sulla Sacra Sindone - così come i racconti della Passione ci descrivono della persona di Gesù - di cui la scienza a tutt’oggi non riesce a comprendere la natura, tanto meno a riprodurla?

Possiamo tentare una risposta, naturalmente coraggiosa, ma non fantasiosa: la causa dell’impressione dell’immagine del corpo di Cristo sul Lenzuolo è da ricercarsi intorno all’avvenuta risurrezione del corpo del Signore; un’esplosione di energia, di luce e di calore, forte e delicata nello stesso momento, che ha lasciato sul Telo l’orma santa di Dio162.

Concludiamo con una traduzione del vangelo di Giovanni più confacente ai termini greci dell’originale e che ci aiuta a mettere in relazione la Sindone di Torino con i teli trovati dagli apostoli nel sepolcro gerosolimitano, quella mattina di primavera del 9 aprile dell’anno 30 d.C.

"Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi per dare una sbirciata, vide le fasce distendersi, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva, entrò nel sepolcro e osservò attentamente le fasce giacenti, distese e il sudario che era stato posto sul capo, non disteso come le fasce, ma differentemente ancora avvolto allo stesso posto. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette".

Citiamo un Salmo che racchiude in poche parole quanto detto fin qui, a sottolineare sia la misericordia di Dio nei confronti degli uomini che la sua ostinata fedeltà a non abbandonare l’uomo in nessuno dei suoi stati di infermità; è il 111 (110), che ai versetti 4-5 così recita: "Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi: pietà e tenerezza è il Signore. Egli dà il cibo a chi lo teme, si ricorda sempre della sua alleanza".

La Sacra Sindone in definitiva è il ricordo che Cristo ha lasciato di sé all’umanità, perché continuasse la sua Presenza tra gli uomini, non solo in modo autorevole e ordinario nella Chiesa e nei sacramenti, ma anche in una immagine, lui che è l’immagine del Padre e l’Emmanuele, il Dio-con-noi.

Note del VI Capitolo

146 Cfr Discorso di Giovanni Paolo II in occasione della visita a Torino, nel 1980.

147 La fonte presa in considerazione è il Nuovo Testamento. Greco e Italiano, a cura di A. MERK e G. BARBAGLIO, Bologna 1993.

148 Cfr GINO ZANINOTTO, Giovanni 20, 1-8. Giovanni testimone oculare della risurrezione di Gesù?, <Sindon>, n. s. 1 (1989), p. 151.

149 Cfr UMBERTO FASOLA, Studi e scoperte archeologiche relative alla Sindone, Atti del II Convegno Nazionale di Sindonologia, Bologna 1981.

150 Cfr GAETANO INTRIGILLO, Indagine nel sepolcro vuoto. "Venite a vedere il luogo dove era deposto", p. 19-23, Udine 1996 ; PERSILI, Sulle tracce del Cristo risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, p 144-145, Tivoli 1988; Cfr ZANINOTTO, Giovanni.

151 Cfr ZANINOTTO, Giovanni, p.151-152.

152 Cfr GHIBERTI, La sepoltura, p. 38-47.

153 Cfr B. BONAZZI, Dizionario Greco-Italiano, Napoli 1907; L. ROCCI, Vocabolario Greco-Italiano, Roma 1979.

154 Cfr C. SCHENKL, Vocabolario Greco-Italiano, Vienna 1964.

155 Cfr PERSILI, Sulle tracce, p. 141.

156 Cfr il Codice della Legge giudaica Kitzur Shulchan Aruk, in BONNIE B. LAVOIE et al., The body of Jesus was not washed according to the Jewish burial custom, <Sindon> XXIII (1981), q. 30, p. 19-29.

157 Sono una setta giudeo-cristiana di stretta osservanza della legge mosaica i quali ritenevano che Gesù fosse semplicemente un profeta. Il termine ebionita in lingua ebraica significa povero.

158 Cfr INTRIGILLO, p. 14-16.

159 Cfr ZANINOTTO, p. 155-156.

160 Cfr PERSILI, Sulle tracce, p. 149-152.

161 Il professor GRAMAGLIA ritiene, invece, che tutte le versioni siriache del quarto Vangelo intendevano che i panni funerari di Gesù sono dei teli che avvolgevano il corpo legandolo e fasciandolo. Non si tratterebbe dunque di un lungo lenzuolo posto sotto il cadavere e ripiegato all’altezza della testa per ricoprirlo sulla parte superiore. Cfr dell’autore, I panni funerari nella tomba di Gesù (Gv 20, 1-10), <Approfondimento Sindone>, Anno II, vol. 2 (1988), p. 49-72.

162 Sul complesso rapporto tra scienza e fede e la controversia tra i concetti di "reliquia" o "icona", cfr BRUNO MAGGIONI, Sulla Sindone, in <La Rivista del clero italiano>, gennaio 1989, p. 1-4.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 16:33
Vi è una straordinaria convergenza tra le profezie messianiche, le descrizioni evangeliche della passione e morte di Cristo e tutto ciò che si può rilevare sulla Sindone.
Tali e tante sono le corrispondenze che all'analisi statistica risulta praticamente IMPOSSIBILE che quel lenzuolo abbia avvolto un cadavere che non fosse Gesù.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 17:33
 IDENTIFICAZIONE DELL'UOMO DELLA SINDONE: 

"Diversi studiosi, con atteggiamento critico e con l'intento di penetrarne il mistero, si sono chiesti e si chiedono se l'immagine impressa sulla Sindone è realmente quella di Gesù Cristo. Ovviamente anche questa ricerca, perché possa avere valore scientifico, deve basarsi esclusivamente su considerazioni oggettive. Ed ecco lo studio riferito al calcolo delle probabilità, fatto dal prof. Bruno BARBERIS dell'Università di Torino, il quale richiama e completa gli studi di Yves DELAGE (agnostico), Paul DE GAIL e Tino ZEULI. Il metodo di ricerca, anche se di assoluto rigore scientifico, si basa su considerazioni estremamente semplici. Ecco come procede il calcolo matematico delle probabilità:

Se si getta in aria una moneta, si ha una probabilità su due (1/2) che si ottenga il lato della moneta prescelto; se si getta in aria un dado, la probabilità che si ottenga la faccia del dado col numero prestabilito, sarà di una su sei (1/6). Gettando in aria simultaneamente moneta e dado, poiché i due eventi sono tra di loro indipendenti, la probabilità che si ottenga contemporaneamente il lato della moneta e la faccia del dado prestabiliti, sarà di una su dodici (1/2 x 1/6 = 1/12).

Ora prendiamo in esame le sette caratteristiche più significative comuni a Gesù di Nazaret (secondo il racconto evangelico) e all'Uomo della Sindone e vediamo quante sono le probabilità che tali caratteristiche si trovino riunite contemporaneamente su uno stesso uomo che abbia subito il supplizio della crocifissione.

1. Sia Gesù sia l'Uomo della Sindone sono stati avvolti in un lenzuolo funebre dopo la morte per crocifissione.
È noto che non molti crocifissi possono avere avuto una regolare sepoltura (era il supplizio più ignominioso riservato a schiavi, briganti, assassini e continuava dopo morte nel disprezzo al cadavere): una probabilità su cento (1/100).

2. Tanto a Gesù quanto all'Uomo sindonico è stato posto sul capo un casco di spine. Nessun documento storico ricorda una tale usanza. Limitiamo questa lontanissima probabilità a una su cinquemila (1/5000).

3. Il patibulum ha pesantemente gravato sulle spalle dell'Uomo della Sindone come su quelle di Gesù. Non sempre il condannato doveva portare il palo orizzontale della croce fino al luogo di esecuzione: una probabilità su due (1/2).

4. Stessa probabilità (1/2) per come risultano fissate le mani e i piedi al legno della croce. Si potevano fermare con inchiodamento o mediante una semplice legatura con funi.

5. Il Lenzuolo sindonico rivela una ferita al costato destro dell'Uomo che ha avvolto.
Il Vangelo di Giovanni (19,33-34) narra che a Gesù "...non spezzarono le gambe, ma un soldato gli aperse il costato con la sua lancia, e subito uscì sangue e acqua". Forse una probabilità su dieci (1/10).

6. L'Uomo della Sindone è stato avvolto nel lenzuolo appena deposto dalla croce, senza che venisse effettuata alcuna operazione di lavaggio e unzione del cadavere; lo stesso è accaduto per Gesù, in quanto stava per arrivare la Pasqua ebraica durante la quale nessun lavoro manuale poteva essere eseguito: una probabilità su venti (1/20).

7. La Sindone reca l'impronta del cadavere di un uomo senza tracce di putrefazione. Dunque essa ha avvolto un corpo umano per un periodo breve, e tuttavia sufficiente perché vi imprimesse un'orma. Il cadavere di Gesù rimase nel sepolcro per circa trenta ore, dalla sera del venerdì all'alba della domenica. È una straordinaria concordanza che autorizza a considerarla una probabilità su cinquecento (1/500).
Da questa analisi il Barberis ha poi ricavato la probabilità complessiva che è data dal prodotto delle singole probabilità considerate;

In linea con gli studiosi suoi predecessori, ha potuto dedurre che su 200 miliardi di ipotetici crocifissi UNO SOLO può aver posseduto le stesse identiche caratteristiche".
C'è una così perfetta corrispondenza tra il racconto evangelico della passione di Gesù e quanto registrato sulla Sindone che, matematicamente parlando, non c'è alcuna realistica probabilità che vi sia stato avvolto una cadavere diverso da quello di Gesù di Nazaret.
In conclusione si può matematicamente/statisticamente affermare che su 200 miliardi di crocifissi uno solo può avere le stesse caratteristiche dell'uomo della Sindone e cioè il Gesù di Nazaret dei vangeli; oppure si deve affermare che ci sono 199.999.999.999 probabilità su 200 miliardi di crocifissi che l'uomo della Sindone sia Gesù.
Forse in negativo si può anche affermare che c'è una sola possibilità che l'uomo della Sindone non sia il Gesù dei vangeli.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 17:57
Il Prof.Giulio Fanti spiega che l'immagine corporea è talmente superficiale da far presupporre una azione di irradiamento del tessuto non riproducibile in laboratorio.

(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 17:58

SINDONE. La copia degli scienziati del Cicap è un falso. Ecco le prove

In riferimento all’articolo del 5/10/2009 de La Repubblica, “Sindone – è un falso medievale. Ecco la prova” c’è da stupirsi per le affermazioni prive di rigore scientifico ivi riportate. Ogni tanto qualche persona in cerca di notorietà ottiene spazio nei media dichiarando di avere riprodotto la Sindone o una parte di essa, ma quando si approfondisce il discorso “casca il palco”…



SINDONE/ 2. La copia degli scienziati del Cicap è un falso. Ecco le prove

In riferimento all’articolo del 5/10/2009 de La Repubblica, “Sindone – è un falso medievale. Ecco la prova” c’è da stupirsi per le affermazioni prive di rigore scientifico ivi riportate. Ogni tanto qualche persona in cerca di notorietà ottiene spazio nei media dichiarando di avere riprodotto la Sindone o una parte di essa, ma quando si approfondisce il discorso “casca il palco”. È infatti possibile riprodurre alcune fattezze macroscopiche della Sindone, ma è assai più difficile riprodurre le caratteristiche microscopiche dell’immagine corporea ivi impressa. Nessuno, nemmeno con lo stato dell’arte delle tecnologie attuali, è stato sinora capace di riprodurre tutte insieme tali caratteristiche estremamente particolari. Anche un articolo a nome di 24 studiosi pubblicato su Internet (www.shroud.com/pdfs/doclist.pdf ) riporta l’impossibilità attuale di riprodurre tutte le fattezze della Reliquia più importante della Cristianità.
In particolare nell’articolo in questione, il Dr. Garlaschelli non dice nulla riguardo la profondità di colorazione, che è molto sottile (un quinto di millesimo di millimetro) nel caso dell’immagine Sindonica ed è praticamente impossibile riprodurre tale profondità tramite le sostanze chimiche utilizzate dal Dr. Garlaschelli.
Se tuttavia il Dr. Garlaschelli avesse effettivamente trovato il modo di riprodurre qualcosa di simile alla Sindone, egli avrebbe dovuto sottoporre al vaglio della comunità scientifica i suoi risultati prima di esporli ad un pubblico impossibilitato ad eseguire verifiche dettagliate di laboratorio, ad esempio analisi microscopichiche che toglierebbero ogni dubbio riguardo la profondità submicrometrica della colorazione.
Il sottoscritto ha lanciato pubblicamente a “Porta a Porta” una sfida scientifica dichiarando che la Sindone non è riproducibile e sarebbe stato pronto a cambiare parere appena qualcuno gli avesse dato modo di studiare campioni similsindonici da analizzare con gli strumenti adatti.
L’ENEA di Frascati da anni sta studiando come sia possibile riprodurre alcune caratteristiche dell’immagine corporea ed ha ottenuto risultati incoraggianti utilizzando laser eccimeri (G. Baldacchini et al. articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica statunitense Applied Optics il 18-3-2008), ma la strada è lunga prima di potere ottenere qualcosa di uguale all’immagine corporea della Sindone.
All’Università di Padova sono in corso esperimenti di colorazione di lini mediante effetto corona, ed i risultati ottenuti sembrano assai incoraggianti (www.dim.unipd.it/fanti/corona.pdf e www.ohioshroudconference.com/papers/p15.pdf).
Ad ogni modo da una prima osservazione della fotografia dell’immagine pubblicata dal Dr. Garlaschelli, sembra che non si sia ottenuto alcunché di nuovo perché analoghe immagini sperimentali furono considerate nel lavoro pubblicato nel Journal of Imaging Science and Technology, (vol. 46-2) nel lontano 2002, risultando molto carenti delle gradazioni intermedie di colore rispetto all’immagine sindonica.
Inoltre l’immagine ora proposta, che si basa su altri studi precedenti di migliore riuscita come quello ottenuto dalla studiosa americana Emily Craig, è già stato analizzato a livello microscopico con risultati alquanto deludenti; la fotografia allegata mette a confronto la colorazione uniforme delle fibrille sindoniche di immagine con quelle ottenute utilizzando pigmenti a base di ossido di ferro.
Infine un cenno alla datazione al carbonio 14 citata dal Dr. Garlaschelli: il risultato ha scarso valore scientifico a causa dei gravi errori statistici pubblicati (Nature, 1989) i quali dimostrano che il campione analizzato non è rappresentativo della Reliquia più importante della cristianità.
Il sottoscritto è pronto ad analizzare il nuovo risultato dal punto di vista scientifico per trarne le dovute conclusioni che potranno essere discusse a livello di esperti (eventualmente anche internazionali coinvolgendo il gruppo ShroudScience - gruppo mondiale di più di un centinaio di studiosi sull’argomento), prima che siano fatte comunicazioni sui media prive di riscontro scientifico.
di Giulio Fanti
Il Sussidiario giovedì 8 ottobre 2009
(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 18:14
 Visuale completa dell'Uomo deVisuale completa posteriore de


PER VEDERE ALTRI DETTAGLI FOTOGRAFICI DELLA SINDONE CLICCARE IL SEGUENTE COLLEGAMENTO

http://foto.libero.it/dioama/Foto-profilo/


(Teofilo)
00martedì 27 ottobre 2009 18:26
RIFARE LA SINDONE?  PROVATECI

Ormai è un ritornello che si ripete regolarmente. Ogni volta che viene indetta un’ostensione della Sindone assistiamo, nei mesi che la precedono, ad una serie di scoperte presentate come sensazionali che dimostrerebbero che la Sindone è un falso realizzato con le tecniche più svariate, ovviamente in epoca medioevale. Già all’inizio dell’estate è giunta dagli Stati Uniti la notizia che la Sindone sarebbe l’autoritratto di Leonardo realizzato dal genio toscano in una vera e propria camera oscura utilizzando un busto con le proprie fattezze che avrebbe lasciato l’impronta su di un telo trattato con chiara d’uovo e gelatina: in pratica l’invenzione della fotografia sarebbe da far retrocedere di quasi 400 anni! E fino ad ora non ne sapevamo nulla! A questa ipotesi se ne è immediatamente aggiunta un’altra (in realtà proposta già da tempo) che sostiene che l’immagine della Sindone è facilmente realizzabile con un pirografo. Una trentina di anni fa un medico barese affermò di essere riuscito ad ottenere un’impronta simile a quella della Sindone sfruttando l’energia termica generata da un bassorilievo riscaldato. E si potrebbe proseguire a lungo con l’elenco di tali teorie.Ora è la volta di un chimico di Pavia che, secondo le notizie riportate da alcuni quotidiani, sostiene di aver realizzato anche lui un’impronta identica a quella della Sindone usando come matrici il corpo di un suo assistente e un calco in gesso e utilizzando ocra rossiccia, tempera liquida, acido solforico e alluminato di cobalto. Non ho nessun motivo per dubitare della cura e della professionalità con cui tali manufatti sono stati realizzati, ma nutro forti perplessità che possano essere seriamente messi a confronto con la Sindone e la sua immagine. Non è sufficiente ottenere un’immagine che ad un esame visivo appaia simile a quella presente sulla Sindone. Forse fino ad alcuni decenni fa sarebbe stato sufficiente, oggi non più. L’immagine della Sindone e le cosiddette "macchie ematiche" visibili sul telo sono state studiate in modo approfondito soprattutto in seguito alla campagna di raccolta di dati e di campioni effettuata sulla Sindone dall’8 al 13 ottobre 1978. I risultati dell’analisi di tali dati sono stati resi noti dagli scienziati che parteciparono alla ricerca in decine di articoli pubblicati su prestigiose riviste scientifiche internazionali. In particolare gli scienziati statunitensi appartenenti allo Sturp (Shroud of Turin Research Project) effettuarono una serie di esami (spettroscopia nel visibile e nell’ultravioletto per riflettanza e per fluorescenza, spettroscopia ai raggi X e IR, spettroscopia di massa, termografia infrarossa, radiografia, ecc.) sia sulle zone interessate dall’immagine sia sulle zone ematiche, accertando l’assoluta mancanza sul lenzuolo di pigmenti e coloranti e dimostrando inoltre che l’immagine corporea è assente al di sotto delle macchie ematiche (e dunque si è formata successivamente ad esse) e che è dovuta ad un’ossidazione-disidratazione della cellulosa delle fibre superficiali del tessuto con formazione di gruppi carbonilici coniugati. Tale alterazione è rilevabile solo superficialmente per una profondità di circa 40 micrometri (ossia 4 centesimi di millimetro). È stato inoltre dimostrato che la colorazione delle fibre nelle zone dell’immagine è uniforme e le variazioni di intensità dell’immagine sono dovute al numero di fibre colorate per unità di superficie. Nelle zone ematiche è stata evidenziata la presenza di anelli porfirinici e le stesse zone hanno dato luogo a reazioni di immunofluorescenza tipiche del sangue umano di gruppo AB. E molte altre ancora sono le caratteristiche dell’immagine evidenziate dalle analisi effettuate dopo gli esami del 1978.È pertanto evidente che per poter affermare di aver ottenuto (non importa con quale tecnica o metodo) un’immagine identica a quella sindonica è indispensabile effettuare su di essa le stesse analisi fatte sulla Sindone ed ottenere tutti gli stessi identici risultati. Invito pertanto coloro che intendono cimentarsi con tali esperimenti a effettuare sulle immagini da loro ottenute tali analisi, pubblicando su riviste scientifiche i relativi risultati.Mi risulta che fino ad ora tutte le teorie proposte, pur interessanti di per sé, sono sempre risultate carenti o perché non sono state correlate da verifiche sperimentali serie o perché tali verifiche hanno evidenziato sulle immagini ottenute caratteristiche fisico-chimiche molto diverse da quelle possedute dall’immagine sindonica.
Bruno Barberis
(Teofilo)
00giovedì 29 ottobre 2009 22:03
aprile (9)VOLTO


aprile (2)CAPO CORANATO DI SPINE



aprile (4)aprile(01)
(Teofilo)
00giovedì 29 ottobre 2009 22:04
La diocesi di Torino prepara l'ostensione e la visita di Benedetto XVI

L'uomo della Sindone
e il mistero della sofferenza


da Torino Marco Bonatti

La riflessione sul mistero della sofferenza sarà il "filo rosso" che caratterizzerà la prossima ostensione della Sindone, alla quale - il 2 maggio 2010 - parteciperà Benedetto XVI. La data è stata fissata lunedì scorso nell'udienza concessa dal Papa al cardinale Severino Poletto, arcivescovo di Torino e custode pontificio del sacro telo. Il Papa aveva annunciato già la sua intenzione il 2 giugno 2008, durante l'udienza straordinaria ai settemila pellegrini della diocesi di Torino scesi a Roma per concludere il ciclo delle Missioni diocesane.

In quell'occasione Benedetto XVI si espresse così:  "Sarà un'occasione quanto mai propizia - ne sono certo - per contemplare quel misterioso Volto, che silenziosamente parla al cuore degli uomini, invitandoli a riconoscervi il volto di Dio, il quale "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Giovanni, 3, 16)". Per Joseph Ratzinger non sarà comunque la prima visita alla Sindone:  come cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede venne a Torino guidando il pellegrinaggio del personale dei suoi uffici, il 13 giugno 1998, e in quell'occasione tenne al Teatro Regio un'importante conferenza sul tema "Fede tra ragione e sentimento".

L'arcivescovo di Torino, facendo conoscere la data della visita del Papa, ha sottolineato la grande gioia sua e della città per questa visita. "Sono sicuro di interpretare il sentimento generale - ha detto - nell'esprimere la mia sincera riconoscenza a Sua Santità perché la sua visita sarà per la nostra città e diocesi un dono straordinario del suo cuore di Padre e pertanto invito tutti a elevare fin d'ora fervide preghiere al Signore e alla Vergine Consolata per la sua persona e per il suo impegnativo ministero. Lo accoglieremo con grande affetto ed entusiasmo e questo sarà per lui sostegno e conforto per continuare a lungo a offrirci la bella testimonianza della sua fede e della sua grande saggezza con cui sta guidando la Chiesa, diventando così anche per tutto il mondo un punto di riferimento di primaria importanza per la difesa dei valori fondamentali di tutta l'umanità".

La visita del Papa inizierà dal duomo, con la preghiera davanti alla Sindone - l'ostensione inizia il 10 aprile 2010, per concludersi il 23 maggio. Poi Benedetto XVI presiederà la solenne concelebrazione eucaristica sul sagrato della cattedrale. Nel pomeriggio, come noto, il programma di massima prevede l'incontro con i giovani nella nuova chiesa dedicata al Santo Volto, e un breve momento alla Piccola Casa della Divina Provvidenza, per incontrare gli ospiti ammalati e le comunità religiose del Cottolengo.

Sarà proprio, come accennato, quello della sofferenza il tema dominante di questa nuova ostensione. Il motto scelto dal custode - Passio Christi, passio hominis - intende sottolineare proprio il collegamento tra la passione del Signore così com'è descritta nei Vangeli e testimoniata dalla Sindone e le molteplici sofferenze degli uomini e delle donne di oggi, in una città e in un territorio, come quelli torinesi, particolarmente segnati dagli effetti della crisi economica globale. Qui le piccole e medie aziende metalmeccaniche continuano a essere in forte disagio, e l'intero tessuto economico ne risente. In questi mesi, oltre alle iniziative di livello nazionale decise dalla Chiesa italiana, la Caritas subalpina ha attivato, nelle parrocchie, una vasta rete di supporto per le famiglie, in difficoltà soprattutto per pagare mutui e affitti, spese mediche e scolastiche.

La preparazione all'ostensione coinvolge tutte le comunità parrocchiali in momenti di preghiera e riflessione intorno ai temi del disagio, della speranza, della solidarietà e della fraternità. Il cardinale Poletto ha evidenziato questo aspetto anche nel suo messaggio:  "Inoltre, nello spirito della sua ultima enciclica Caritas in veritate, [il Papa] esprimerà incoraggiamento e speranza a quanti stanno trepidando per un posto di lavoro in questa città, da sempre considerata città del lavoro e dell'industria, che però in questo momento sente più che altrove le conseguenze di una crisi vasta  e  prolungata  oltre  ogni  aspettativa".

L'ostensione della Sindone, per altro, rimane un grande richiamo di fede e di speranza. Come si è visto nelle due ultime esposizioni - che complessivamente hanno portato a Torino oltre 3,5 milioni di fedeli - il mistero di quel Volto diventa, per i pellegrini, un richiamo forte a interrogarsi sul senso della propria esistenza di fronte alla morte e alla passione del Signore. Un richiamo esistenziale e religioso, che va ben oltre le pur importanti questioni scientifiche sulla formazione dell'immagine.

La Sindone che il Papa e i pellegrini vedranno nel 2010 è stata sottoposta a un intervento accurato di conservazione, eseguito nel 2002 da Mechthild Flury-Lemberg, una delle maggiori autorità mondiali in materia di tessuti, che ha eseguito le indicazioni emerse dalla commissione internazionale di scienziati incaricati dal cardinale Saldarini di studiare le condizioni di conservazione del telo. La Sindone è poi stata ricucita su un nuovo supporto, che ha sostituito il telo d'Olanda usato dalle clarisse di Chambéry dopo l'incendio del 1532. Sono state eliminate anche le "toppe" che le monache avevano applicato al telo proprio per coprire le tracce lasciate dalla colata di argento fuso.

Il sito www.sindone.org  sarà il "motore" della preparazione all'ostensione, che viene organizzata dalla diocesi in collaborazione con enti locali e sponsor privati. Dal sito, a partire dal 1° dicembre, sarà possibile prenotare giorno e ora della visita. Ma dal gennaio del prossimo anno sarà operativo anche un centro per raccogliere le prenotazioni via telefono.


(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2009)
(Teofilo)
00mercoledì 18 novembre 2009 22:10
Al fine di corredare visivamente in modo organico i vari filmati e documentari sulla SINDONE, inserisco il collegamento a una PLAYLIST che si incrementa automaticamente facendo vedere in successione ordinata tutti i video.

(Teofilo)
00sabato 12 dicembre 2009 22:22
IL CASO

Sindone firmata: è già polemica

 
Le scritte ricostruite sul libro della Frale
«In base ai confronti svolti, oggi sono convinta che le tracce di scrittura identificate sul lino della Sindone possano appartenere ad un testo derivato direttamente o indirettamente dai documenti originati fatti produrre per la sepoltura di Yeshua ben Yosef Nazarani, più noto come Gesù di Nazareth detto il Cristo». È questo il sasso lanciato nello stagno della scienza della Sindone, il celebre (e discusso) sudario di Cristo conservato a Torino, da una storica di recente balzata agli onori delle cronache per i suoi saggi medievalistici. Già il volume I Templari e la sindone di Cristo (Il Mulino), uscito a inizio anno, di Barbara Frale, funzionaria dell’Archivio Segreto Vaticano, aveva diviso gli esperti. Ora, con La Sindone di Gesù nazareno (Il Mulino, pp. 254, euro 28), la Frale - nata a Viterbo nel 1970 - lancia un’altra ipotesi suggestiva: che sul lino custodito all’ombra della Mole si annidino alcune scritte multilingue vergate da un funzionario addetto alla sepoltura dei condannati a morte nella Gerusalemme del I secolo. Qui Barbara Frale interpreta un’iscrizione compatibile con la tradizione che vede nel sudario il telo che avvolse il corpo di Gesù di Nazareth, che nella primavera prossima verrà di nuovo mostrato in pubblico: a Torino si recherà pellegrino anche Benedetto XVI.

La Frale ha interpretato la seguente scritta: «Gesù Nazareno deposto sul far della sera, a morte, perché trovato» colpevole. Il tutto scritto con termini di tre idiomi: latino, greco ed ebraico. E al profluvio di critiche che si preannunciano, la giovane addetta dell’Archivio vaticano risponde così nelle conclusioni del suo volume, anticipato ieri da Repubblica: «L’ipotesi che le scritte siano state messe da un falsario per avvalorare l’autenticità della Sindone è da scartare: infatti questo truffatore avrebbe dovuto inventare un sistema complicato per lasciare sul telo certe tracce che sarebbero divenute visibili ai posteri solo tanti secoli dopo, con l’invenzione della fotografia; inoltre qualunque falsario avrebbe usato le diciture del titulus crucis, quelle descritte dall’evangelista: non certo quelle strane parole che con i Vangeli non c’entrano proprio nulla». 

E la discussione si infiamma. «Sono molto stupito». Monsignor Giuseppe Ghiberti, vicepresidente del Comitato per l’ostensione della Sindone, non nasconde la sua perplessità, sebbene metta le mani avanti: «Prima di tutto bisogna leggere l’opera. Sono stato di fronte alla Sindone ore e ore e mai ho avuto sentore di nulla del genere. E nemmeno l’hanno avuto professori competenti in elaborazione di immagini». Circa il carattere multilinguistico della ricostruzione, Ghiberti afferma: «L’unico precedente che può dare peso a questa ipotesi è il titolo della croce di Gesù, che era in più lingue». Ma alla domanda se ritenga realistica la tesi della studiosa laziale, Ghiberti risponde con un eloquente sospiro. E riprende: «Quando non si conoscono bene gli argomenti altrui, si preferisce sospendere il giudizio. Ma tutto questo non mi convince».

«Non voglio essere ironico né polemico», esordisce Luciano Canfora, docente di Filologia greca e latina all’università di Bari. «Ma secondo me Barbara Frale si è avventurata in qualcosa di molto insidioso». Per lo studioso barese «la ricchezza di particolari nascosti nelle fibre di lino fa pensare a una vera falsificazione». Canfora qualifica come errata l’ipotesi della Frale in base a due elementi: la ricchezza di dettagli e il poliglottismo della scritta decifrata. «Si presenta tutto ciò come una gigantesca novità, ma così non è. La prima, forte perplessità è la presenza di tre lingue nella scritta ritrovata. La Frale spiega tale riscontro con il pluriculturalismo della Gerusalemme del tempo. Ma un conto è l’ambiente culturale di una città - annota Canfora -, altra cosa un documento che racchiude tre lingue. È come se oggi un taxista di origine indiana a Londra, per scrivere una ricevuta, utilizzasse tre idiomi diversi».

Canfora sottolinea un altro particolare per spiegare la sua disapprovazione: «Tutto si basa sull’idea che al collo del condannato vi sia il verbale del giudizio di Caifa su Gesù». L’affermazione che si trattasse di uno scritto fatto da un becchino trova l’antichista pugliese nettamente scettico: «Non è ovvio che esistesse una figura del genere. Non abbiamo ancora una trattazione sistematica sulla figura di funzionari addetti alla sepoltura dei condannati a morte nella Giudea del I secolo: vi sono testimonianze contraddittorie al riguardo». Canfora stabilisce un parallelo tra il papiro di Artemidoro e la Sindone, o meglio tra la contestata autenticità della seconda e la dimostrata falsità del primo: «I numerosi dettagli, che vogliono avvalorare l’autenticità, indicano invece che questi elementi scritturistici sono aggiunte tardive. Com’è stato constatato dalla polizia scientifica per il papiro di Artemidoro». Canfora riconosce che Barbara Frale non propone una tesi: «Lei dice: io ho trovato questo. Ma ha riscontrato cose tutt’altro che univoche!».

A Canfora replica Franco Cardini, medievalista e docente all’università di Firenze: «Primo: dobbiamo difendere Barbara Frale dai sindonologi che si scagliano con durezza contro quanti sostengono ipotesi troppo forti. La sua non è ancora una tesi ma un’ipotesi, ragionevole e affascinante, basata su indizi. Si tratta di una pista interessante. Ritengo che gli indizi che lei individua siano troppo coerenti per poterli considerare frutto del caso. Si è limitata a riempire dei vuoti di documentazione come solitamente si fa nella ricerca storica. La sua è un’interpretazione con forti basi storiche, niente a che fare con la fantastoria di Dan Brown». Insomma, per lo storico fiorentino siamo davanti a «un lavoro serio, da prendere in considerazione, in cui ci sono osservazioni geniali». È poi singolare che Cardini giudichi in maniera opposta il particolare del plurilinguismo rinvenuto dalla Frale sul lino di Torino, cosa che Canfora bolla come «artefatto»: «Se si trattasse di un documento di ambiente caratterizzato da un forte monolinguismo, capirei l’obiezione. Ma la Gerusalemme del I secolo era un luogo di straordinario incrocio linguistico: il latino era la lingua ufficiale ma il greco rappresentava il "basic english" del tempo. Poi c’erano il caldeo, l’ebraico, e altre lingue che poggiavano su una grande tradizione grafica». Cardini guarda all’oggi per suffragare la plausibilità dell’interpretazione plurilinguistica della Frale: «I ragazzini arabi dei suk della Gerusalemme attuale, quando scrivono, passano tranquillamente dalla grafia araba a quella latina dell’inglese. Il plurilinguismo della scritta della Sindone non mi sorprende affatto».

Invece Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di Sindonologia di Torino, non concorda con la Frale: «Premetto che devo leggere il libro per un giudizio completo. Comunque, già nell’opera precedente, questa studiosa faceva un accenno a tali ipotesi. Il nodo è che queste scritte sono tutt’altro che confermate. Non è mai stato fatto un rilievo fotografico che dia risposte definitive se sulla Sindone ci siano delle scritte. Del resto in molti vi hanno rinvenuto tantissime parole: sembra più un’enciclopedia che un sudario!». Barberis afferma che è prioritario «stabilire se queste scritte esistono. Che poi si giunga a conclusioni del genere della Frale, mi sembra fantascienza e fantastoria. Sono inoltre estremamente critico su queste ipotesi perché possono essere strumentalizzate dagli avversari della Sindone».


Lorenzo Fazzini

Articolo Su Avvenire del 21 Nov 2009
Caterina63
00sabato 9 gennaio 2010 20:26
Le ricerche, l'incendio, il futuro

La Sindone dal 1992 a oggi


"La Sindone:  provocazione all'intelligenza, specchio del Vangelo" è il tema dell'incontro che si svolgerà lunedì 11 gennaio, nell'Auditorium della chiesa del Santo Volto a Torino, in occasione della presentazione del volume "Sindone" edito dalla Utet. Dal libro, ancora non in distribuzione, anticipiamo ampi stralci di due saggi. Il primo, qui sotto, è stato scritto rispettivamente dal direttore scientifico del Museo della Sindone e dal direttore del Centro internazionale di sindonologia. Il secondo ripercorre la fortuna della Sindone nella storia dell'arte.


di Bruno Barberis e Gian Maria Zaccone

Nel 1992 l'arcivescovo di Torino e custode pontificio della Sindone, il cardinale Giovanni Saldarini, nominò una commissione scientifica internazionale composta da alcuni tra i maggiori esperti di tessuti antichi e da eminenti studiosi, con l'incarico di avviare un ampio e articolato piano di studio per affrontare e risolvere il delicato e importante problema della conservazione della Sindone.
I lavori ebbero inizio nel 1992 con un'ostensione privata alla presenza della commissione e si conclusero nel 1996 con la consegna alla Santa Sede, proprietaria della reliquia, di una relazione finale. In tale relazione la commissione di esperti faceva il punto sullo stato di conservazione della Sindone e suggeriva una serie di indicazioni e condizioni irrinunciabili per la sua conservazione ottimale che si possono così riassumere: 

a) la Sindone deve essere conservata in posizione distesa, piana e orizzontale.

b) La Sindone deve essere liberata dagli accessori che servivano alle vecchie modalità di conservazione e di ostensione, ovvero il cilindro di legno, il telo rosso che la ricopriva quando veniva arrotolata, il nastro di seta azzurra cucito lungo il perimetro e le bandelle d'argento cucite all'interno del nastro azzurro lungo i due lati più corti.

c) La Sindone deve essere conservata in una teca di vetro antiproiettile, a tenuta stagna, in assenza di aria e in presenza di un gas inerte, al fine di interrompere il progressivo ingiallimento del tessuto dovuto al naturale processo di ossidazione e che è responsabile della progressiva riduzione di visibilità dell'immagine. La teca deve essere protetta dalla luce e mantenuta in condizioni climatiche (pressione, temperatura, umidità, e così via) costanti.

d) È necessario studiare a fondo il problema dell'eventuale sostituzione del telo d'Olanda con un nuovo telo e dell'eventuale asportazione o sostituzione dei rattoppi per migliorare le condizioni di conservazione.

Poco mancò che tutti questi studi si rivelassero vani, in quanto il 12 aprile dell'anno successivo un terribile incendio danneggiò seriamente la cappella della Sindone. Fortunatamente il lenzuolo, che era stato spostato nel duomo per permettere i restauri della cappella stessa, fu risparmiato sia dal fuoco, sia dall'acqua, sia dai crolli di materiale.

Le indicazioni suggerite dalla commissione imponevano ovviamente una modalità di conservazione radicalmente diversa da quella utilizzata negli ultimi tre secoli - l'arrotolamento su di un cilindro - e soprattutto la necessità di costruire una teca di dimensioni ben maggiori. L'intera operazione si presentava naturalmente molto complessa e delicata poiché numerose erano le difficoltà da superare tanto in fase progettuale quanto in fase esecutiva. Nonostante le non poche difficoltà incontrate, la costruzione della teca fu completata nei tempi previsti e il 17 aprile 1998 la Sindone venne per la prima volta ospitata nella nuova teca e in essa esposta al pubblico durante l'ostensione tenutasi in quell'anno.

La teca è un parallelepipedo dal peso di 2.500 chilogrammi, le cui superfici laterali e inferiore sono realizzate con un doppio strato di acciaio balistico e la cui superficie superiore è fatta di uno spesso vetro laminato a prova di proiettile. La teca è sorretta da un carrello mobile che consente di effettuare gli spostamenti e le rotazioni necessarie in occasione delle ostensioni. All'interno della teca la Sindone è cucita su di un mollettone non trattato e appoggiata su di un supporto di alluminio scorrevole su rotaia.

Al termine dell'ostensione del 2000 la Sindone fu trasferita dalla teca utilizzata per le ostensioni in una nuova teca, più leggera e maneggevole, destinata alla conservazione ordinaria. All'interno della teca a tenuta stagna è stata introdotta una miscela di argon (99,5 per cento) e di ossigeno (0,5 per cento). La presenza di un gas inerte come l'argon - che non reagisce con i più comuni elementi chimici - miscelato a una piccola quantità di ossigeno è indispensabile per impedire lo sviluppo di batteri sia aerobici che anaerobici e, come si è detto, per interrompere il progressivo ingiallimento del tessuto. La nuova teca è provvista di un sistema di controllo della pressione interna costituito da una batteria di soffietti mobili (posizionati al di sotto della teca) che garantiscono un costante equilibrio tra pressione interna ed esterna alla teca, necessario per evitare rischi di rotture del vetro.

Al termine di una lunga e delicata fase di preparazione, il 20 giugno 2002 ebbe inizio l'ultima fase dei lavori, consistente in un importante e indispensabile intervento di restauro conservativo che si concluse il successivo 23 luglio. Sotto la guida di Mechthild Flury Lemberg, esperta di fama internazionale di restauri di tessuti antichi, la Sindone venne scucita dal vecchio telo d'Olanda e successivamente furono scucite tutte le toppe al di sotto delle quali fu trovata una notevolissima quantità di materiale inquinante - costituito soprattutto da residui di tessuto carbonizzato durante l'incendio di Chambéry e polverizzatosi durante i secoli successivi - che costituiva ovviamente un notevole rischio per la conservazione del tessuto sindonico. Tale materiale fu asportato, raccolto in appositi contenitori sigillati, catalogato e consegnato al cardinale Severino Poletto, arcivescovo di Torino e custode pontificio della Sindone

Prima di provvedere alla cucitura di un nuovo telo di sostegno sul retro della Sindone venne effettuato un completo rilievo fotografico e tramite scanner, oltre a rilievi fotografici in fluorescenza e registrazioni spettroscopiche Uv-Vis e Raman a diverse lunghezze d'onda in siti con diverse caratteristiche - al di sotto di siti senza immagine, con la sola immagine, con il solo sangue, con sangue e immagine, e così via. Fu inoltre effettuata un'analisi microscopica in alcuni siti con l'utilizzo di un videomicroscopio con ingrandimenti.

Infine vennero inoltre effettuati, sempre sul retro, alcuni prelievi microscopici con i metodi della suzione e del nastro adesivo.

Tutti i dati ottenuti e il materiale raccolto furono consegnati al custode pontificio della Sindone e, se e quando la Santa Sede lo riterrà opportuno, potranno essere messi a disposizione degli scienziati per studi e ricerche.

L'esame del retro della Sindone - rimasto coperto, e quindi non visibile, dal 1534 al 2002 - permise di confermare pienamente l'ipotesi avanzata nel 1978 dagli scienziati dello Sturp relativa al fatto che sul retro appaiono ben evidenti le macchie di sangue presenti sulla faccia visibile della Sindone, mentre è assente ogni traccia dell'immagine corporea perché possiede uno spessore solo di qualche centesimo di millimetro.

La Sindone è stata poi ricucita su di un nuovo telo di supporto, anch'esso tessuto in Olanda e preventivamente testato e analizzato per garantirne le caratteristiche chimico-fisiche. Infine i bordi delle bruciature furono cuciti al nuovo telo d'Olanda in quanto si è ritenuto non più necessario coprirli con nuove toppe, sia perché la Sindone è ora conservata completamente distesa in posizione orizzontale e quindi non più sottoposta a tensioni meccaniche, sia per rendere del tutto visibili l'immagine sindonica e le macchie ematiche.

Al termine dei lavori la Sindone è tornata nella sua teca, nel transetto sinistro della cattedrale di Torino, protetta e monitorata da sistemi moderni e sofisticati.

Il futuro della ricerca sul misterioso lenzuolo è stato tracciato dal simposio "La Sindone:  passato, presente e futuro" svoltosi a Torino nel 2000, che ha visto la partecipazione, su invito, di 40 tra i maggiori esperti a livello internazionale di studi sulla Sindone e dei campi di ricerca a essa connessi, provenienti da dieci Paesi. Al termine del simposio è stato deciso di raccogliere nuove proposte di ricerca al fine di avviare nuovi studi e una raccolta di nuovi dati. Negli anni successivi al simposio sono pervenute a Torino, da scienziati di tutto il mondo, nuove proposte e progetti di ricerca che sono stati sottoposti all'esame di una commissione internazionale di esperti, per valutare la possibilità di avviare una nuova campagna coordinata di studi e di ricerche.

Al momento attuale tutto il materiale raccolto è stato consegnato alla Santa Sede. Sarà la Santa Sede, proprietaria della Sindone, a decidere se e quando avviare una nuova campagna di ricerche dirette. La nuova e affascinante sfida che la Sindone lancia alla scienza per il nuovo millennio è già iniziata.


(©L'Osservatore Romano - 10 gennaio 2010)
Caterina63
00sabato 9 gennaio 2010 20:28

1649 scatti per un telo in alta definizione



Un volume di pregio a tiratura limitata - 499 esemplari in numeri arabi, 80 in numeri romani e altre 20 fuori commercio - per uno degli oggetti più studiati nei secoli dal punto di vista scientifico, storico e teologico. Oltre alla prefazione curata dal cardinale Severino Poletto, arcivescovo di Torino, e ai saggi storici e artistici di Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia, Gian Maria Zaccone, direttore scientifico del Museo della Sindone, e Timothy Verdon, il volume è caratterizzato da ricco corredo iconografico di oltre 120 immagini. In particolare spiccano le riprese fotografiche della Sindone realizzate ad altissima definizione dalla società Haltadefinizione con un procedimento certificato dall'Istituto superiore per la conservazione e il restauro:  l'immagine del telo - ripreso dalla distanza di sicurezza di 30 centimentri con ben 1649 scatti - è stata suddivisa in piccole porzioni ricomposte grazie a un software che ha garantito le migliori condizioni di luce e nitidezza su ogni particolare.


 

Morte e resurrezione nell'interpretazione dei grandi artisti

Il gonfalone della vittoria


di Timothy Verdon

"Muoio, dice il Signore, per vivificare tutti per mezzo mio". Queste parole, che un Padre della Chiesa, san Cirillo d'Alessandria, s'immaginava sulla bocca di Cristo, suggeriscono il vero significato della Santa Sindone nella vita della Chiesa:  non tanto una reliquia di sofferenza e mortalità, ma il segno della vittoria:  della tomba vuota, del sudario abbandonato, della vita che trionfa sulla morte. Tale vittoria coinvolge poi ogni uomo, non solo il Salvatore:  "Con la mia carne ho redento la carne di tutti", prosegue Cristo nel testo di san Cirillo, spiegando che "la morte infatti morrà nella mia morte e la natura umana, che era caduta, risorgerà insieme con me".

Questa universale e definitiva vittoria è visualizzata in un capolavoro del Rinascimento d'oltralpe:  un pannello dell'altare di Isenheim, opera del tedesco Matthias Grunewald, dove Cristo esplode dal sepolcro ancora avvolto dalla Sindone, la quale viene gradualmente impregnata della sua nuova condizione, colorata dalla luce che lo circonda. In questa composizione divisa in due parti, Cristo risorto in alto e i soldati messi a sorvegliare il sepolcro sotto di lui, è infatti la Sindone a collegare la terra e il cielo; e laddove nella parte inferiore i militi sono supini o curvi - intorpiditi dal sonno e spaventati - in alto Cristo sorge eretto e libero, il suo corpo nudo sotto la Sindone sciolta mentre le guardie rimangono imprigionate nelle pesanti armature; libero è anche il volto del salvatore - schietto e gioioso - in contrasto alle facce coperte e ombreggiate delle guardie. Numerosi dettagli, e soprattutto le armi inutilmente impugnate dai militi evocano lo scontro celebrato nell'antica sequenza pasquale, dove si narra che "morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa". Gonfalone e reliquia di questo trionfo è la Sindone.

Il tema della Sindone come reliquia della Pasqua era stato elaborato in un altro dipinto nordico, una Risurrezione attribuita a Michael Wolgemut, trent'anni prima. Nella versione di Wolgemut, il primo maestro di Albrecht Dürer, l'attenzione viene attirata da affascinanti dettagli:  l'alba del nuovo giorno su cui si staglia Gerusalemme, sullo sfondo a destra; nella media distanza, poi, le donne che varcano la soglia del giardino murato; e in primo piano i militi assopiti al piede del sepolcro.

S'impongono tuttavia i due elementi narrativi principali, posti al centro della composizione:  il Risorto in piedi davanti alla tomba, con lo scettro in mano e un regale manto scarlatto, e, appena dietro di lui, la Sindone, sistemata da un angelo metà dentro il sepolcro, metà fuori. Sappiamo che tra pochi istanti Cristo scomparirà e che le donne, arrivando, non lo vedranno più; rimarrà solo la Sindone come testimonianza della sua Risurrezione.

La Sindone - il lungo telo utilizzato per il trasporto e la sepoltura del Salvatore morto in croce - appare soprattutto in raffigurazioni della sua deposizione e del successivo compianto sul cadavere:  una tavola dell'olandese Geertgen tot Sint Jans, assai vicino al linguaggio stilistico e allo spirito pietistico della Risurrezione attribuita al Wolgemut, illustra bene quest'uso iconografico. La stoffa bianca su cui il corpo rigido di Gesù è steso, alla stregua della corona di spine e dei chiodi disposti appena sotto di essa, viene presentata come veneranda reliquia del sacrificio della croce; Golgotha, luogo del sacrificio, di fatto è visibile sopra il gruppo costituito da Cristo morto e Maria. Questa immagine suggerisce poi un'altra dimensione di significato della Sindone.

La tavola di Geertgen è quanto rimane di un grande trittico descritto nelle fonti antiche:  una pala d'altare databile intorno al 1484, la cui immagine centrale era la Crocifissione, mentre quella a sinistra rappresentava forse la Via Crucis, e quella a destra il Compianto. Tale programma iconografico serviva da sfondo per l'Eucaristia, celebrata davanti a queste raffigurazioni del sacrificio fisico del Salvatore, e il telo bianco steso sotto il corpo di Cristo nella tavola era pertanto visto appena sopra l'altare rivestito di un analogo tessuto bianco, la tovaglia su cui il sacerdote pone il Corpus Domini sacramentale:  l'ostia consacrata. Nella simbologia liturgica medievale, l'altare era infatti considerato simbolo del sepolcro, e le "deposizioni" ed "elevazioni" dell'ostia immagine del corpo storico di Gesù tra Venerdì Santo e Pasqua.

La stessa mistica allusione all'altare eucaristico è presente in una piccola tavola del Beato Angelico, dove i temi di compianto e sepoltura, sovrapponendosi e fondendosi, suggeriscono un'adorante "comunione spirituale" che è anche un addio. Il cruciforme corpo di Cristo, sostenuto da Nicodemo, Maria e Giovanni, il discepolo diletto, è poi avvolto nella lunga Sindone che, sull'erba fiorita del giardino, diventa un perfetto rettangolo di stoffa bianca evocante la tovaglia della mensa eucaristica.
Pure in questo caso l'opera era infatti parte di una pala d'altare - il pannello centrale della predella - e anche qui la tovaglia bianca sulla mensa era visibile pochi centimetri sotto la Sindone raffigurata e della stessa forma.

Quest'immagine era al centro della predella della celebre pala angelicana per la chiesa fiorentina di San Marco, oggi conservata nell'attiguo convento domenicano diventato museo. Leggendo dall'alto verso il basso si capiva quindi che Cristo era prima nato, poi morto e successivamente sepolto; l'elevazione dell'ostia dalla tovaglia-sindone, alla consacrazione della Messa, avrebbe sottolineato che Egli era anche, infine, risorto. E la stoffa bianca della Sindone raffigurata nella predella - sotto la tavola grande e sopra l'altare - diventava anche allusione al "velo della carne" avuto dalla madre - il velo con cui Gesù Cristo nascose la sua divinità e s'immolò.

Il collegamento tra la Passione del Salvatore e la sua Natività è antico nell'iconografia cristiana, come suggerisce un'opera palestinese del VI secolo, il coperchio di una teca per reliquie. Il soggetto principale è la Passione, e al centro vediamo Cristo che stende le braccia tra i due ladri, il suo corpo così grande da quasi occultare la croce stessa. Ma l'anonimo artista ha inserito la crocifissione tra altri momenti della Vita Christi, così che l'immagine si presenta come un sunto in cui la crocifissione è l'atto dominante, occupando l'intero centro del campo visivo - anzi, configurando la composizione in termini cruciformi. Ecco allora perché i vangeli e la prima arte cristiana hanno trattato con concisione l'evento della crocifissione in sé, capivano cioè che il senso della crocifissione non era limitato all'evento stesso, ma che sulla croce Cristo aveva portato tutta la sua esistenza passata e futura.

Il legame morte-nascita è ancora più esplicito in uno spettacolare oggetto conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana, la Croce di Papa Pasquale i, un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d'oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del IX secolo. Il programma iconografico è focalizzato sul mistero natalizio ma i sette episodi vengono organizzati nelle braccia e al centro di una croce, così che l'Annunciazione, la Visitazione, la Natività, l'Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto e il Battesimo di Cristo devono essere obbligatoriamente letti tutti in rapporto alla futura crocifissione del Salvatore. Ciò che abbiamo chiamato "croce" è poi in realtà una stauroteca - un contenitore per frammenti della vera croce - sapendo che l'oggetto conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una mangiatoia, allusione alla futura offerta del corpo di Cristo come alimento.

Lo stesso modo di riassumere in un'unica immagine gli estremi esistenziali dell'umanato Figlio di Dio emerge in una piccola tavola trecentesca dove sono raffigurati sia il neonato Gesù, in basso, che il Vir dolorum, in alto, quasi a conferma dell'affermazione di san Leone Magno, secondo cui "l'unico scopo del Figlio di Dio nel nascere era di rendere possibile la crocifissione. Nel grembo della Vergine egli assunse una carne mortale, e in quella carne mortale ha compiuto la sua passione".

L'enfasi delle Scritture e dell'arte sul legame tra la nascita di Cristo e la sua morte ha la funzione di presentare la Passione non come un episodio tragico - una conclusione imprevista e indesiderata del racconto esistenziale di Gesù - bensì come il senso stesso della sua vita, la ragione per cui è venuto nel mondo (cfr. Giovanni, 19, 37). Ma la morte di Cristo dà senso anche alle nostre vite, come suggerisce un capolavoro assoluto dell'arte occidentale, la grande pala dipinta da Giovanni Bellini per i francescani di Pesaro negli anni 1470, oggi divisa in due parti:  la tavola principale al Museo Civico della città adriatica e la cimasa alla Pinacoteca Vaticana. Un'immagine drammatica che descrive l'unzione del cadavere di Cristo, tenuto sull'orlo del sepolcro da Giuseppe d'Arimatea, Nicodemo e Maria Maddalena, con la Sindone che gli avvolge le gambe; anche qui, nella sistemazione originale sopra l'altare della chiesa, il significato eucaristico della scena doveva essere evidente.

Ma quest'immagine di Cristo morto sovrastava un'altra, più grande, del Salvatore che, risorto, impone la corona a Maria sua madre. Il messaggio complessivo riguardava quindi la morte e la risurrezione di Cristo; riguardava anche la risurrezione di Maria, seduta accanto a Cristo, e dei quattro santi intorno al trono:  Paolo e Pietro, Girolamo e Francesco. L'insieme d'immagini rappresenta infatti la meta finale di ogni donna e uomo, la vocazione celeste della carne umana; Maria è l'antesignana di questa "sorte beata", ma con lei ci sono altri e così capiamo che la nuova condizione del Signore morto e risorto si estende anche a noi. La bianca Sindone, in alto, che si trasforma in sontuoso abito di festa nella figura di Cristo in basso, diventa metafora della trasformazione della nostra mortalità in quella vita eterna promessa da lui, Cristo. Piuttosto che "abito di festa" dobbiamo poi dire abito nuziale, perché Chi chiama l'umanità accanto a sé è anche Sposo.

Un analogo livello di interpenetrazione dell'umano col divino traspare in alcune raffigurazioni del Cristo morto dei maestri del Cinquecento. La prima è un disegno eseguito da Michelangelo Buonarroti per Vittoria Colonna:  una Pietà in cui lo stupendo Cristo morto sembra nascere dal corpo della madre. Maria, seduta sotto la croce dalla quale il figlio è stato deposto, con le mani alzate nel gesto antico di preghiera sembra crocifissa anche lei; figura della Chiesa, supplica il Padre di ridare vita al corpo del figlio, anch'esso figura ecclesiale; la Chiesa che chiede dal cielo la risurrezione della Chiesa, si può dire.

La seconda opera, sempre di Michelangelo e strettamente legata al disegno appena citato, è intensamente personale:  la monumentale Pietà di marmo iniziata dal Buonarroti nel 1547 e lasciata incompiuta nel 1555, in cui, nella figura del vecchio che sostiene il corpo di Cristo vediamo l'autoritratto dell'artista. Secondo i suoi biografi contemporanei, Ascanio Condivi e Giorgio Vasari, Michelangelo intendeva collocare questo gruppo scultoreo sull'altare della cappella in cui pensava di essere sepolto, probabilmente nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, servendosene come monumento funebre; esso costituisce pertanto una confessio fidei in cui il committente assume il carattere di un personaggio scritturistico.

In questo caso committente e artista sono la stessa persona, e il "personaggio" assunto ha un significato speciale:  Michelangelo si presenta come Nicodemo, il vecchio che "andò da Gesù di notte" per chiedergli "come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?" (Giovanni, 3, 2-4). Secondo una tradizione popolare diffusa in Toscana, Nicodemo era infatti scultore, autore del Volto Santo di Lucca.

Confrontando questa Pietà scolpita e il coevo disegno per Vittoria Colonna, rimaniamo colpiti dall'evidente rapporto tra le due opere. Nel disegno e nel gruppo scultoreo, il corpo di Cristo, potente anche nella morte, è sorretto da un personaggio che lo sovrasta e che, all'apice della composizione, diventa interprete del senso spirituale dell'evento. Ma laddove per Vittoria Colonna l' "interprete" è Maria (in cui dobbiamo forse vedere un ritratto ideale della devota nobildonna) nella Pietà eseguita per Michelangelo stesso - nella veste di Nicodemo - è il vecchio che vuole rinascere a dare il senso. Nel gruppo marmoreo Michelangelo si sostituisce alla figura di Maria, cioè, mantenendo però l'idea base del disegno in cui il corpo di Cristo "nasce" dal corpo di chi lo sovrasta, così che vediamo Cristo nascere da Michelangelo forse secondo l'intuizione di sant'Ambrogio, per cui "ogni anima che crede concepisce e genera il Verbo di Dio (...) se c'è una sola madre di Cristo secondo la carne, secondo la fede invece Cristo è il frutto di tutti".


(©L'Osservatore Romano - 10 gennaio 2010)

Caterina63
00mercoledì 24 marzo 2010 22:02
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Caterina63
00giovedì 1 aprile 2010 15:38

PRESENTAZIONE OSTENSIONE SANTA SINDONE TORINO

CITTA' DEL VATICANO, 25 MAR. 2010 (VIS). Questa mattina, nella Sala Stampa della Santa Sede, il Cardinale Severino Poletto, Arcivescovo di Torino (Italia), Custode Pontificio della Sindone, ha presieduto la Conferenza Stampa di presentazione dell'ostensione della Santa Sindone, che avrà luogo a Torino dal 10 aprile al 23 maggio prossimo, sul tema: "Passio Christi, passio hominis".

Alla Conferenza Stampa sono intervenuti il Professor Fiorenzo Alfieri, Assessore alla Cultura della Città di Torino, Presidente del Comitato per l'Ostensione solenne della Sindone 2010; il Monsignor Giuseppe Ghiberti, Presidente della Commissione diocesana per la Sindone; l'Ingegner Maurizio Baradello, Direttore generale del Comitato per l'Ostensione.

Il Cardinale Poletto ha affermato: "É la prima ostensione del nuovo millennio" e i pellegrini che si sono già prenotati sono 1,3 milioni, provenienti da tutto il mondo che "vedranno una Sindone che - nella continuità col passato - ha migliorato la sua visibilità, grazie all'importante intervento di conservazione eseguito nel 2002".

L'Ostensione del 2010 sarà caratterizzata dalla visita del Santo Padre Benedetto XVI, domenica 2 maggio.


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"Il Papa si recherà a venerare la Sindone come già il suo predecessore Giovanni Paolo II (24 maggio 1998) e celebrerà la Santa Messa in piazza San Carlo".

Con il tema dell'ostensione, il Custode Pontificio, Arcivescovo di Torino, ha affermato che "si intende in questo modo sottolineare il forte collegamento esistente tra l'immagine sindonica, impressionante testimonianza della Passione del Signore, e le molteplici sofferenze degli uomini e delle donne di oggi, perché trovino nella Sindone un sicuro riferimento di fede che rinvia alla misericordia di Dio e al servizio verso i fratelli"

Relativamente agli aspetto logistici, il Cardinale Paletto ha detto che sono oltre 4 mila i volontari che "provvederanno a tutti i servizi di accoglienza dei pellegrini lungo il percorso, all'assistenza sanitaria e per i disabili, all'accoglienza nelle chiese del centro storico dove si terranno celebrazioni liturgiche o dove i pellegrini si recheranno in visita".

Oltre alle importanti iniziative culturali, tra cui le conferenze del Cardinale Schönborn, Arcivescovo di Vienna (Austria) e dell'Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, è prevista anche la visita alla Sindone di qualificati rappresentanti del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e del Patriarcato di Mosca.

Il Cardinale Poletto ha precisato che "il ricorso a Internet è stato fondamentale per il sistema delle prenotazioni: e però occorre ricordare che l'ostensione della Sindone rimane un'esperienza personale e fisica, un 'venire a vedere' che non può essere sostituito da alcuna 'visita virtuale'".

Nel sito www.sindone.org, completamente rinnovato per l'ostensione, sono raccolti i testi e le informazioni relativi a tutti gli aspetti dell'organizzazione dell'ostensione.
OP/OSTENSIONE SANTA SINDONE/TORINO VIS 100325 (440)

Caterina63
00venerdì 9 aprile 2010 21:49
Dal 10 aprile al 23 maggio l'ostensione della Sindone nel duomo di Torino

L'immagine intoccata e la poetica dell'incarnazione


Il 10 aprile inizia nel duomo di Torino l'ostensione della Sindone che continua fino al 23 maggio. Nell'occasione la Venaria Reale in collaborazione con l'arcidiocesi di Torino e con Imago Veritatis - nell'ambito del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana - ha organizzato la mostra "Gesù. Il corpo, il volto nell'arte", curata da Timothy Verdon e in corso (fino al 1° agosto) nelle Scuderie juvarriane della Reggia. Pubblichiamo un estratto di uno dei saggi del catalogo a cura dell'Associazione Sant'Anselmo (Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2010, pagine 336, euro 35).

di Sylvie Barnay

La Bibbia indica Maria come colei che non fu toccata dalla mano dell'uomo, ma da quella di Dio:  la "vergine". Tale paradosso esprime l'incarnazione di Cristo, al tempo stesso "Dio e uomo", concepito da una donna al tempo stesso "vergine e madre". Intorno alla metà del vi secolo il mondo cristiano tentò di tradurre questo concetto fondamentale ricorrendo all'ausilio della contrapposizione presente nelle Sacre Scritture tra immagini "opera delle mani dell'uomo" (Salmi, 115, 4; Atti, 19, 26) e immagini "non fatt[e] da mani d'uomo" (Marco, 14, 58). Il Cristo fatto dalle mani dell'uomo non è in realtà opera umana:  nato dalla Vergine Maria, la sua concezione fu divina. Allo scopo di giustificare la doppia natura di Cristo, in molti documenti si narrava che il volto originale di Dio apparisse come per impressione su un velo, una tela o una tegola:  un volto non fatto dalla mano dell'uomo (acheropita, termine di origine greca). L'immagine acheropita è presentata come un'immagine originale, una traccia del passaggio di Dio su una superficie immacolata sotto forma di apparizione del suo volto.

A cominciare dalla trasformazione culturale che caratterizzò il passaggio dall'Antichità al Medioevo, le narrazioni che presentano immagini "acheropite" (appunto "non manipolate da mano d'uomo") furono indicate come "vere immagini" nell'impero cristiano in evoluzione. Ma tali racconti tramandano anche ai posteri una poetica del volto di Cristo, riassumendo una teologia del paradosso che congiunge il divino e l'umano. Essi trasmettono un'idea dell'immagine che prende forma come per contatto, che emerge alla stregua di un calco dallo stampo o di un sigillo da una matrice.

Le prime immagini acheropite - quali l'icona di Edessa nota come Mandylion - sono contemporanee alle narrazioni che ne contengono i riferimenti. Gli storici dell'arte, in particolare Georges Didi-Huberman, hanno mostrato chiaramente come la prima narrazione iconica di Dio sia in definitiva una storia della sua impronta.

Sull'esempio del Mandylion, presentato come il ritratto originale di Cristo, le immagini del volto acheropita attraversano così il primo millennio, seguendo l'avanzata del cristianesimo nel mondo e finendo sul banco degli imputati quando il dibattito sulla venerazione delle raffigurazioni sacre arriva a toccare la realtà dell'incarnazione di Cristo o la sua doppia natura. All'inizio dell'xi secolo, l'Oriente, che indaga su un'estetica di tipo nuovo, vede in esse la "pittura viva".

E anche attraverso una rivoluzione della propria teologia visiva che l'Occidente del xii secolo rinnova il proprio sguardo sulle immagini intoccate (intouchées), fino ad allora importate:  le vede come in sogno sotto forma di immagini mentali che si muovono, parlano e sanguinano, le identifica sotto specie di immagini plastiche nuove, che manifestano l'attesa e il riconoscimento di una nuova epifania di Cristo come nelle cristofanie bibliche. Sono immagini vivide, riconosciute come veritiere in quanto originali.

Tra esse, nella Roma del xiii secolo, l'immagine della Veronica va presto a oscurare progressivamente la notorietà del Mandylion e, a partire dal 1216, essa diviene "vera ikona" romana, l'impronta acheropita del volto di Cristo sul velo mostrato da santa Veronica. Il culto, autorizzato la prima domenica dopo l'ottava epifania, prende forma nel preciso contesto dell'affermazione della presenza reale di Cristo nell'eucaristia tramite Papa Innocenzo III.

La Rivelazione e la sua rivelazione sotto forma di immagine acheropita coincidono in una denominazione che ancora ne esprime l'origine, dove il gioco etimologico latino tra la "vera icona" e la "Veronica" è prova in realtà di una precisa corrispondenza tra la parola e l'immagine, che permette nel mondo medievale di esprimere e tradurre l'incarnazione. Questa retorica si rifà dunque alla teologia della "similitudine dissimile" dello Pseudo-Dionigi l'Areopagita allo scopo di dare un nome all'essenza divina nella sua accezione umana:   ad  esempio vedendo Dio come uomo, pietra, leone, aquila, fiore, pianta di vite, fiamma, germoglio, monte,  cima,  sentiero eccetera. Questa teologia porta dunque a denominare Dio come scarto allitterativo tra "Vera icona" e "Veronica" nonché a una  visione  antropomorfa,  la "Veronica", della matrice divina, la "vera icona".

Dalla "Veronica" al Volto santo di Lucca, il Sacro volto diventa testimonianza di un Dio che si manifesta per impressione e che si rivela appunto attraverso un procedimento di calco su tessuto, tela o sulla superficie della tavola. Verso la fine del xv secolo il culto del sacro volto raggiunge il suo apogeo. Si tratta di un periodo di transizione, che dal Medioevo scivola nell'era moderna, nel quale scoppia tra gli artisti una controversia relativa a tali rappresentazioni. Ancora una volta la radice di queste accese polemiche che vedono su fronti opposti la chiesa cattolica e quella riformata sulle due sponde del Reno, è il rapporto tra il sacro verbo e la raffigurazione sacra in un contesto dove il soprannaturale è grandemente inflazionato. Grünewald (circa 1475-1528) è un contemporaneo degli avvenimenti che contribuiscono a esasperare la frattura nel mondo cristiano. La sua interpretazione del lascito teologico derivante dal rapporto tra mano dell'uomo e mano di Dio si può comprendere partendo dall'ipotesi nuova, secondo cui il nome del pittore assume ora la stessa funzione che ricopriva in precedenza quello della "Veronica":  così si traduce la corrispondenza tra Verbo e immagine, la natura divina  della  Rivelazione  e la natura umana della sua manifestazione, proprio come la "vera icona" e la "Veronica".

È tra il 1512 e il 1516 che il maestro tedesco esegue la celebre macchina di altare del monastero dei monaci antoniani di Issenheim. Grünewald, forse, non è solamente il nome attribuito all'autore della pala, ma anche il nome generico della sua opera, che in tedesco significa letteralmente "foresta verde" o "bosco verde" (grün wald):  nel Medioevo è tipico dell'arte dell'etimologia attribuire a un sostantivo due significati, allo scopo di farne intendere la valenza simbolica. Colui che la storia dell'arte conosca come Grünewald è nella realtà degli archivi documentali Mathis Gothart Nithart. Il maestro di Issenheim non viene mai chiamato con il nome di Grünewald fino alla comparsa del primo trattato teorico sull'arte, redatto in lingua tedesca alla fine del XVIi secolo da Joachim von Sandrart (1608-1688).

Non è dunque casuale che il grande teorico attribuisca allora al maestro del tardo Medioevo l'appellativo di Grünewald, tramandato poi ai posteri nei secoli a venire. È assodato che tale patronimico veniva utilizzato nella cerchia famigliare dell'artista, eppure la scelta del nome da parte del teorico dell'arte dell'epoca moderna che identifica il maestro Mathis come Grünewald nasce, forse, dall'intento di inserire il maestro di Colmar in un certo filone artistico particolarmente attento alla doppia natura di Cristo. Grünewald gravitava in effetti in ambienti vicini alla Chiesa riformata, impegnata a sviscerare la questione del rapporto tra l'immagine e la Rivelazione. Gli avvenimenti dei decenni precedenti avevano mostrato fino a che punto le rivelazioni della parola divina si fossero rilevate in un rapporto di equilibrio con le Scritture.

Spingendo più in là l'ipotesi che ricostruisce un'equivalenza tra "Grünewald" e "Veronica", il grün wald che appare come una fitta foresta tipica del paesaggio germanico evoca altresì l'ordine naturale. Nell'economia naturale, il grün wald è certamente una foresta verde, ma nell'economia soprannaturale, tale espressione rimanda alla natura del Cristo:  qui il riferimento è alla natura divina, il bosco che non muore mai, la foresta eternamente verde. Il termine evoca con estrema precisione la viridità, parola che venne utilizzata dai visionari del Medioevo per indicare la resurrezione di Cristo, resurrezione che si manifesta inoltre nell'abete la notte di Natale, l'albero verde ed eternamente vivo che fa la sua comparsa nelle cittadine tedesche intorno al 1500.

Il teorico dell'arte del XVIIsecolo aveva certamente visto in colui che si accingeva a denominare Grünewald un maestro di pensiero della grün wald, un artista che aveva atteso e riconosciuto lo stato di rinnovamento dell'epifania, un'opera della "vera icona". Spesso paragonato a Vasari, il teorico italiano dell'estetica del XVI secolo, Sandrart ne prese nettamente le distanze attribuendo al maestro Mathis la designazione di Grünewald. Laddove Vasari aveva costruito una teoria dell'arte dell'imitazione come copia della natura, Sandrart decise invece di privilegiare la via dell'imitazione come similitudine dissimile, optando chiaramente per un'arte che utilizza le risorse dell'impronta, un'arte capace di far nascere nella pittura un'immagine della doppia natura di Cristo.

Il Cristo crocifisso dipinto da Grünewald per l'altare di Issenheim diventa così testimonianza di una definizione nuova di "pittura viva", dai toni nettamente aristotelici, verso la fine del XVI secolo. Gli artisti medievali basavano la teoria della genesi della forma - in virtù della quale una forma pittorica si distacca dalla superficie - sulla Fisica aristotelica. Per dipingere Cristo che si fa carne sulla pala d'altare, per tradurre l'incarnazione secondo un modello acheropita come nelle immagini dell'annunciazione di epoca medievale, Grünewald concepisce proprio la crocifissione come un'annunciazione. Il pittore si pone in attesa in una situazione di silenzio pronto a infrangersi, affinché si sconvolga la nozione di superficie, affinché si compia l'irrompere dell'immenso.

La sua pittura appare per così dire incarnata quando il confine tra la tela e la carne messa a nudo diviene incerto, lasciando trasparire l'immagine del Cristo crocifisso come la prossimità della sua distanza:  una traccia della sua manifestazione sotto forma di impronta, quasi un'aderenza a un tessuto. Georges Didi-Huberman ha mostrato come questo procedimento pittorico di distanza e prossimità riproduca il processo di generazione attribuito alla "Veronica", presupponendo l'adesione alla materia e il suo allontanamento - quasi a toccare ciò che non può essere toccato - alla base stessa della teologia dell'immagine acheropita.


(©L'Osservatore Romano - 10 aprile 2010)
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