LEPANTO... 440 anni dopo

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Caterina63
00sabato 8 ottobre 2011 18:42

Lepanto 440 anni dopo: l'orgoglio cattolico. I parte

Forse penserete che pubblichiamo sin troppo articoli discorsivi, e magari un po' lunghi.
E sicuramente è così.
Ma non son mai troppe le narrazione o le riflessione su uno degli eventi storici che ha salvato la nostra religione cristiana in Europa, e con essa la nostra cultura, il nostro modo di vivere, la nostra società. Insomma: l'Europa cristiana.
Ecco allora che dopo la
Lectio Magistralis, dotta e di alto profilo accademico, che il Chiar.mo prof. Massimo de Leonardis (Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano), competente e amico della Tradizione, ha voluto donare in esclusiva ai lattori di MiL, proponiamo un articolo (anch'esso in esclusiva, diviso in due puntate) del nostro lettore e amico, Avv. F. Adernò, che, con un taglio diverso (e a tratti magnificamente politicamente scorretto) ci propone, oltre ad un rapido ma avvincente resoconto della Battaglia di Lepanto,anche alcune dotte riflessioni sotto profili differenti e ci esorta ad una più conoscenza di alcuni fatti importanti della nostra Storia, e ad un orgoglio "cattolico"
Un grazie ad Adernò, per il lavoro preciso e considerevole!

Maria, auxilium Christianorum, ora pro nobis!


Roberto



7 OTTOBRE 2011: 440° ANNIVERSARIO DELLA BATTAGLIA DI LEPANTO
Storia di un trionfo della Cristianità
di F. Adernò



. Rievocare oggi la Battaglia di Lepanto potrebbe apparire una provocazione o un accanimento antimusulmano – specialmente dopo gli attentati terroristici che hanno ferito e sconvolto l’America e tutto il mondo – in pieno contrasto con il moderno modo ecumenico, ahinoi unilaterale e spesso masochista, di vivere il Cattolicesimo. Si vuole, invece, riportare alla memoria di quanti hanno dimenticato, o semplicemente hanno un’idea sbagliata, un grandioso evento che ha segnato la Storia dell’Europa Cattolica con la salutare cacciata degli islamici dall’Occidente: un vero e proprio “trionfo della Cristianità”. «Una data memorabile negli annali dell’Europa occidentale»:
così il Santo Padre Pio XII, in un discorso del 7 Ottobre 1947, definì l’evento nel quale «le potenze rappresentanti della Civiltà Cristiana si unirono per sconfiggere la minaccia mortale che veniva da Oriente».

«È un giorno di rendimento di grazie,» – continua il Sommo Pontefice –, «commemorato nel Calendario della Chiesa non soltanto perché i Santuari d’Europa e i loro Altari furono definitivamente salvati dall’estrema distruzione, ma anche perché le preghiere ordinate dal Papa di allora, Pio V, portarono largo contributo alla Vittoria».
La battaglia che ricordiamo, a 440 anni di distanza, non fu, infatti, solo un episodio di una guerra “politica” o “economica”, lontana da noi, uomini del duemila; essa fu, soprattutto, una “battaglia della Chiesa”, non solo perché fu voluta e sostenuta da un Papa, e perché vi fu lo scontro tra la Cristianità ed il mondo islamico, ma soprattutto perché fu vissuta in modo intensamente religioso; una “battaglia della Luce”, dunque, contro le ombre, che, di certo, non mancarono, e che, anzi, giovano proprio a mettere in risalto questa “Luce”.

Ultimamente si tende a definire “male” anche solo il termine “battaglia”, a condannare a priori le Crociate etc…, tutti mossi da quel sentimento buonista ed accomodante, proprio – purtroppo – del nostro tempo, dimenticando (volontariamente?) il motto biblico «Militia est vita hominis super terram», ben adatto alla nostra Madre Chiesa, non perché Essa abbia solo combattuto “in armis” contro infedeli, eretici, nemici della Croce…, ma perché le Sue battaglie non possono essere semplicemente contro la carne ed il sangue, come fa notare San Paolo, ma anche contro ben più temibili potenze tenebrose che reggono questo mondo.

Una battaglia, quella cristiana, in generale, che è sì soprattutto interiore, per difendere la nostra Anima dal male, ma deve essere anche esteriore, per il semplice fatto che la nostra Fede non è Platonismo, e che secondo la Rivelazione cristiana, la materia non è una caduta dall’essere ed il corpo non è altro che la dimensione naturale dell’io.
Una battaglia, dunque, giustamente sociale, mondana, temporale, in quanto, col “disonor del Golgota” ogni cosa è stata redenta, dunque il Cristiano non può lasciare nulla nelle mani delle forze del male e si deve sentire “soldato” che riconquista, integralmente, tutto ciò che è stato tolto. A questo scopo, ovvero la preservazione, la diffusione e la riconquista della Fede, la Chiesa Santa di Dio mette in campo non cannoni, non fucili, ma uomini armati delle armi della Luce (S. Paolo), le armi spirituali, le più potenti, atte a difendere e a restaurare la libertà dell’anima.

Tuttavia, alla Chiesa “orante e purgante” si aggiunge la Chiesa “militante e trionfante”, la quale non può disinteressarsi dei corpi e della vita temporale, in quanto quella “libertà dell’anima” si sviluppa proprio nel tempo.

Con questa chiave di lettura bisogna accostarsi alla Storia, cioè con una disposizione d’animo tale da saper comprendere che certi eventi, che, magari, con gli occhi e la mentalità del presente non sono giustificabili o ripetibili, erano, in quel particolare momento storico necessari e comprensibili.
Al giorno d’oggi, invece, si tende a giudicare e ad emettere condanne sommarie di fatti storici e di personaggi, dimenticando di analizzarli con gli “occhi del passato”. Se i moderni storiografi sapessero far questo, si eviterebbero non poche falsità e si avrebbe una più certa “verità storica”.
Lepanto, dunque, è una Vittoria della Chiesa, quindi anche della nostra Cultura, della nostra Tradizione, della nostra Civiltà; essa è una delle tante conquiste dell’Occidente, molto spesso salvato e tutelato proprio dai Successori di Pietro.

Si pensi, ad esempio, a San Leone Magno che corse incontro ad Attila, ad Innocenzo I, il “defensor civitatis” durante il saccheggio vandalico di Roma, a Gregorio Magno, che assicurò la sopravvivenza e la libertà dell’Urbe dopo le violenze di Atalarico, Teodato, Vitige, Totila, Narsete e a molti altri Papi e Vescovi che preservarono la Civiltà Cristiana da numerose aggressioni alla propria identità.
Anche nel caso di Lepanto, infatti, se non vi fosse stata la tenacia di San Pio V, chissà cosa sarebbe accaduto…
All’origine di questa battaglia, che segna appunto la conclusione della Guerra di Cipro, ci sono svariati avvenimenti e numerose cause di carattere politico, religioso e sociale, tutte scaturite delle esigenze del tempo, che non possono di certo essere analizzate con gli occhi del presente.

Tutto inizia con l’avvio della politica estera dell’Imperatore Filippo II (1556-1598), una sorta di grande ambizione che lo portò a combattere contro i Turchi nel Mediterraneo, ad intervenire negli affari interni francesi, a lottare contro l’Inghilterra anglicana di Elisabetta I ed a domare la ribellione protestante dei Paesi Bassi.
Il Mediterraneo, tuttavia, era il campo di attività più importante per la Spagna; era un mare a dir poco “vitale” nel quale essa aveva numerosi interessi, in quanto ne controllava le coste meridionali, e aveva molte dipendenze in Italia, e poi le Isole Baleari, la Sardegna, la Sicilia; con tali presupposti, la Spagna non poteva di certo permettere che il pericolo turco, che incombeva non solo dall’Oriente, ma anche dai vicini Stati barbareschi dell’Africa settentrionale, vassalli del Sultano, violasse la pace della Cristianità.
Non si trattava, quindi, solo di adempiere alla Crociata contro i musulmani infedeli, ma di assicurare anche le rotte marittime, costantemente infestate dai pirati.

Filippo II, dunque, attacca il Marocco e si garantisce, così, il controllo di Ceuta, Tetuan e Melilla; l’Imperatore vorrebbe controllare l’intera costa algerina e tunisina mediante il tentativo di conquista dell’isola di Gerba (nel Golfo di Gabès) che con Malta, sede dei Cavalieri Giovanniti cacciati da Rodi, dovrebbe costituire una sorta di “cancello” per tener fuori dall’Europa gli infedeli. Questo piano ideale di Filippo II svanisce quando, nel 1560, la flotta spagnola viene attaccata e sconfitta nelle acque di Gerba e, cinque anni dopo, dal 18 maggio al 12 settembre, i Turchi attaccano Malta, che fortunatamente riesce a resistere per la strenua e valorosa difesa da parte dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, che già dal 1530 venivano detti comunemente “Cavalieri di Malta”, sotto la saggia guida del Gran Maestro La Vellette.

Oltre, però, che nel Mediterraneo, i Turchi premono anche sui Balcani, minacciando gli Asburgo d’Austria: la Cristianità, dunque, è assediata dai nemici della Fede ed il Pontefice San Pio V (1566-1572), fulgidissima figura della Storia della Chiesa, cerca di trovare una qualche soluzione a questo grave problema, pensando ad una sorta di Crociata antiottomana.

Il progetto papale dovrebbe interessare da vicino, prima fra tutti, la Repubblica di Venezia, la quale, però, è da anni orientata verso una politica rigidamente neutrale per preservare i suoi profitti commerciali (infatti, non ha partecipato né alla spedizione di Gerba, né alla difesa di Malta); inoltre, la Serenissima occupa posizioni molto importanti per un eventuale attacco contro i Turchi: possiede, infatti, le Isole Ionie, minacciose per la Grecia e l’Albania, Candia e Cipro, minacciose per la Morea e la Siria; inoltre è dominio veneziano anche la Dalmazia: in questo modo si potrebbe impedire che l’Adriatico diventi un lago turco, come già era diventato il Mediterraneo orientale.

Questa è, tra il 1569 ed il 1570, la situazione europea. In questo clima di minacce, San Pio V si sente, dunque, assediato e cerca, appunto, l’occasione propizia per dar vita ad una lega militare. Il governo Ottomano, allora, venuto a conoscenza dei disegni papali, prende la decisione, se pur rischiosa, di fare la prima mossa ed attacca la Serenissima, che per la straordinaria potenza navale è la nemica numero uno, e la più pericolosa.

Sulla fine del ’59, infatti, la “Sublime Porta” fa pervenire a Venezia un ultimatum così imperioso e provocatorio, intimandole di sloggiare da Cipro, che viene persino respinto. Un esercito turco, allora, sbarca sull’Isola e, in pochi mesi, la occupa quasi tutta, meno la fortezza di Famagosta, che, comandata dal Generale veneto Marcantonio Bragadin, resiste eroicamente (non più di 7.000 persone – civili soprattutto – avevano fronteggiato oltre 250.000 soldati e ne avevano uccisi 80.000!) , per undici mesi agli attacchi, ma poi è costretta a concedere la resa (7/VIII/1751) per mancanza di viveri e munizioni.
Gli accordi (onore delle armi alla Guarnigione e trasporto dei superstiti a Candia) non vengono, però, rispettati: Bragadin, portato davanti al Pascià Mustafà, viene orribilmente seviziato ed ucciso, mentre i Turchi assaltano le navi in partenza dall’isola, ammazzano i Veneti e gli Italiani, violentano le donne dei Ciprioti e le rinchiudono poi insieme ai bambini per farne degli schiavi ed incatenano gli uomini alla voga nelle galee
.

[SM=g1740771] (... continua)

di Fabio Adernò



Caterina63
00lunedì 10 ottobre 2011 00:00

Lepanto 440 anni dopo: l'orgoglio cattolico - II parte

segue l'incalzante racconto dello svolgersi della Guerra contro gli Ottomani. Adernò è riuscito con ritmo veloce e coinvolgente a raccontare lo svolgersi della Battaglia del 7 Ottobre, riuscendo a rendere, nella velocità della narrazione, il realismo degli avvenimenti marziali e la crudezza di alcune immagini.
La capacità narrativa di Adernò e il suo scrivere fluido e mai pedante (nemmeno nei momenti meramente "elencativi"), ha appassionato persino noi, che quei fatti conosciamo abbastanza.
Ah, se i libri scolastici di Storia sapessero raccontare così! Come si appasionerebbero agli eventi grazie ai quali essi sono "occidentali", cristiani... e liberi.
Da rilevare le opportune e fondate considerazioni finali e l'accorata esortazione all'unitario orgoglio "cattolico", più che mai supportato dalla Storia.
(Il sottolineato è nostro).


Roberto





(segue da qui) (omissi) Mentre a Cipro si svolge il violento assedio, il 20 Maggio 1571 San Pio V riesce a costituire la tanto necessaria Santa Lega, alla quale partecipano, naturalmente, i grandi “colossi” militari e politici: la Repubblica Serenissima di Venezia e la Spagna di Filippo II; a queste potenze, si uniscono, ovviamente, lo Stato Pontificio, il Duca di Savoia Emanuele Filiberto Testa di Ferro, i Cavalieri di Malta, le Repubbliche Marinare di Genova e Lucca e diverse Signorie italiane, tra le quali il Granducato di Toscana con Cosimo de’ Medici. Mentre Famagosta capitolava, la Flotta alleata – formata da 208 galee, 6 galeazze e otre 60 fregate con 1815 cannoni e 90.000 uomini (34mila soldati, 13mila marinai e 43mila vogatori) – si riunisce nel porto di Messina.
Tra la composizione della Flotta Cristiana spiccano le figure di coloro i quali saranno i protagonisti della Battaglia: Don Giovanni d’Austria, fratellastro di Filippo II e Comandante Supremo dell’Armata; il Principe romano Marcantonio Colonna, Comandante della Flotta Papale; il Capitano Sebastiano Venier, capo della Flotta Veneta, coadiuvato da Agostino Barbarigo (poi morto in combattimento); Gian Andrea Doria, comandante della formazione genovese.

In seguito, si conviene di dividere le tre flotte in quattro squadre, distinte da bandiere di diverso colore e composte ognuna da navi provenienti da tutte le Nazioni partecipanti, cosi da impedire il sorgere di eventuali gelosie tra le truppe e ottenere un’Armata la più compatta possibile. Oltre alle 6 galeazze di Francesco Duodo, c’è la squadra azzurra (61 galee) agli ordini di Don Giovanni, la squadra gialla (55 galee) di Barbarigo, la squadra verde (53 galee) di Doria, e quella Bianca (30 galee di retroguardia) al comando del Marchese di Santa Cruz. Su tutte le navi garriva il Vessillo della Lega, costituito da un grande stendardo di damasco di seta azzurra recante l’immagine di Nostro Signore Gesù Cristo in Croce. Dall’altra parte, riunita nel Golfo di Corinto, sta la grand’armata musulmana, pure divisa in quattro squadre. Conta circa 230 galee e una sessantina di bastimenti minori. In totale circa 280 legni, 750 cannoni, 34.000 soldati, 13.000 mariani e 41.000 rematori (in buona parte schiavi cristiani, per lo più greci). Il Supremo Comandante è Alì Pascià, soprannominato “Scirocco”, vecchio ammiraglio dei gloriosi giorni del sultano Solimano il Magnifico; gli altri comandanti: Uluds Alì (Uccialli) Pascià d’Algeri, Mohammed Saulak, governatore d’Alessandria, e Amurat Dragut (squadra di riserva). Il 16 settembre 1571 la Flotta Cristiana salpa da Messina verso Corfù e si raccoglie, poi, nel Porto di Camenizza, sulla costa albanese; nel frattempo, la Flotta turca si ripara presso Lepanto, fra il Golfo di Corinto e quello di Patrasso. Entrambe le formazioni si avvistano il 5 ottobre, all’ingresso del Golfo di Corinto, ma lo scontro non avviene subito.

Nella notte tra il Sabato 6 ed la Domenica 7 Ottobre la Flotta della Lega Santa fa vela da Cefalonia, dove si era frattanto trasferita, verso Punta Scropha, all’ingresso del Golfo di Patrasso dove entra alle prime luci dell’alba, mentre la formazione turca avanza (anticamente la Battaglia era detta “delle Curzolari”; curiosità: i mori chiamarono Punta Scropha il “Capo Insanguinato”). I Turchi vorrebbero oltrepassare la Flotta nemica per prenderla alle spalle, ma il valorosissimo Barbarigo resiste combattendo con grande tenacia e, sebbene egli cade mortalmente ferito, i nemici non passano e la manovra mora viene respinta.
È Mezzogiorno e, mentre a sinistra avviene questa strenua e valorosa difesa (e vittoria!), al centro lo scontro assume toni sanguinosissimi e violenti, specialmente fra le navi ammiraglie. La Reale Turca e la Reale di Spagna ingaggiano un tremendo duello, appoggiate dalle rispettive capitane e da molte altre galee, cristiane e turche, accorse in loro aiuto. Poi le due navi si urtano e quindi si affiancano, si lanciano a vicenda gli arpioni e inizia l’arrembaggio. Il Grand’Ammiraglio Alì Pascià, colpito dal fuoco della moschetteria cristiana, cade folgorato, ed i turchi vengono sconfitti, grazie soprattutto all’intervento della retroguardia della Lega Santa.

A destra, invece, ci sono dei problemi e la situazione è più incerta: Gian Andrea Doria, che si è esteso troppo in mare per non essere circondato, dà modo ai Turchi di penetrare tra le linee cristiane, ma, visto che la gran parte della flotta musulmana è, ormai, quasi del tutto sconfitta, i mori sono costretti a ritirarsi. Non per questo, però, gli infedeli risparmiano i Cristiani di soprusi e violenze.

In questo gran trambusto, molti schiavi cristiani nelle galee turche, incuranti anche delle minacce fatte loro (Alì Pascià aveva ordinato ai suoi uomini di uccidere senza pietà i rematori che avessero anche solo alzato la testa per guardare la flotta nemica) spezzano le catene e con armi di fortuna assalgono alle spalle i loro persecutori; quindi, gridando alla libertà, saltano sulle galee della Lega, mettendosi ai remi. Al contrario, i Capitani cristiani promettono ai galeotti rematori la libertà… La grande Battaglia culmina. Le urla dei combattenti, unite al suono delle trombe cristiane, al rullare dei tamburi turchi, all’esplodere delle granate, agli spari degli archibugi, all’incrociarsi delle spade e agli urti tra remi generano un frastuono assordante. Molti altri uomini continuano a morire, ancora tante galee cristiane e turche affondano o bruciano, in un inferno che sembra non finire mai…

Verso le quattro del pomeriggio il mare è ormai una raccapricciante distesa coperta di sangue, di lamenti, di cadaveri, di remi spezzati, di pezzi di alberature.
La Battaglia è finita, e la grand’armata turca completamente distrutta. La Cristianità ha sconfitto gli infedeli, li ha cacciati dal Mediterraneo e l’Europa ha ottenuto la pace.

Il bilancio dell’epico scontro è pesantissimo per tutti. Gli alleati contano circa 7.500 morti, uccisi o annegati, in gran parte soldati, e circa 20.000 feriti. Molto peggio va per i Turchi: 30.000 morti, tra cui la maggior parte dei loro capitani; circa 100 navi bruciate o affondate e 130 catturate; molti dei loro migliori capitani e 10.000 uomini fatti prigionieri; 15.000 schiavi cristiani fuggiti.

A questa grande Crociata del XVI secolo prese parte il fiore della Nobiltà e dell’eroismo italiano; Aristocratici come Alessandro Farnese Principe di Parma, Francesco Maria della Rovere Principe d’Urbino, i Principi capitolini Orsini, Colonna, Savelli, Caetani, Gonzaga; e poi Francesco di Savoia, un Ruspoli, un Malvezzi (autore di una nuova tecnica per incendiare le navi avversarie), un Serbelloni e molti altri si distinsero nell’aspro scontro, ma anche uomini comuni, mossi dal sentimento e dalla Religione.

La notizia della grande vittoria fece il giro dell’Orbe Cattolico, e dovunque fu salutata con celebrazioni religiose, letterarie ed artistiche. Si pensi all’immenso repertorio di poesie spagnole su questo tema, alle migliaia di composizioni nei vari dialetti italici ed alle centinaia in lingua italiana, prima fra tutte la “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, dove questi, prima di cantar “l’arme pietose e ’l capitano”, dedica il poema ad Alfonso d’Este augurandogli di poter esser lui il Goffredo dell’avvenire «s’egli avverrà ch’in pace/il buon popol di Cristo unqua si veda/e con navi e cavalli al fiero Trace/cerchi ritor la grande ingiusta preda». Si ricordino, inoltre, anche i numerosissimi dipinti dei vari Tintoretto, Veronese, Tiziano, Vasari che ritraggono la Battaglia ed il trionfo della Chiesa, e dunque di Cristo, sui Suoi nemici….

Molto, a riguardo delle celebrazioni ma, soprattutto, al sentimento religioso che animò la Battaglia e la Vittoria di Lepanto, si deve al grande Papa San Pio V, il quale già in uno dei suoi primi documenti da Pontefice, esortando alla riforma dei costumi del Clero, dichiarava che nella battaglia contro i Turchi poteva giovare solamente la preghiera di quei preti che sono di costumi puri.

Da ricordare è, poi, anche il fatto che un anno prima, nel 1570, il Papa aveva indetto un grande Giubileo “ad divinum auxilium implorandum contra infideles” e che, durante tutto il mese di Settembre del ’71 il Pontefice pregava e digiunava per il buon esito dell’impresa.
Speciali disposizioni, inoltre, erano state date dal Santo Padre per l’assistenza religiosa della Flotta Cristiana, garantendola con scelti Cappellani Domenicani, Francescani Minori, Cappuccini e Gesuiti; da lodare che la Compagnia di Gesù, per tutta l’estate aveva celebrato una S. Messa settimanale per la Crociata e, in modo particolare, i Gesuiti di Messina organizzarono così bene il lavoro pastorale che tutti gli equipaggi, prima di partire, si accostarono ai Sacramenti con sufficiente preparazione e con l’ottimo esempio “delli signori principali”.

Ciò è anche attestato dalle varie corrispondenze che ci sono giunte, da dove emerge il profondo fervore dei novelli Crociati, che aveva tutti i segni d’una autentica preparazione al Martirio. Su esplicita richiesta del Papa, fu assicurato su ogni nave il servizio religioso quotidiano con pratiche devozionali e confessioni, anche dopo la partenza da Messina.
I cappellani (ciò emerge dalla loro corrispondenza) assicurano che, nell’imminenza dello scontro, tutti gli equipaggi erano sereni e quasi allegri, fidenti in Dio e spesso desiderosi del rischio.

Una nota, a riguardo di come Pio V visse il giorno della Battaglia, è bene darla.
La tradizione tramanda che ebbe una rivelazione superna sull’esito dello scontro e che la notte durante la quale ricevette la notizia, si inginocchiò e pianse di gioia. Subito dopo, il Pontefice ordinò che si celebrasse una festa di ringraziamento in ogni giorno anniversario in onore di Nostra Signora della Vittoria ed inserì tra le Litaniæ Lauretanæ l’invocazione di “Maria Auxilum Christianorum”; il suo successore, il Santo Padre Gregorio XIII, ne fece la Festa della Beata Vergine del Rosario, che ricorre tuttora la prima Domenica di Ottobre, poiché la Tradizione tramanda che, mentre si svolgeva la Battaglia, l’intero Orbe Cattolico, seguendo l’esempio del Papa, era intento a recitare il Santo Rosario per chiedere la Vittoria.

Riguardo alla Penisola Iberica, inoltre, va ricordato che imbarcato in una galea cristiana, si trovava anche uno spadaccino spagnolo, fatto schiavo dai Turchi, un gentiluomo il cui nome sarebbe stato ricordato molto forse anche più a lungo dei nomi di quei tanti nobili personaggi che parteciparono all’epico scontro. Quest’uomo si chiamava Miguel Cervantes, grande scrittore e autore del Don Chisciotte. Il suo illustre genio letterario ebbe a definire la Battaglia di Lepanto come "Il più grande evento che videro i secoli".

Molti – purtroppo – si vergognano della data che abbiamo ricordato (e non solo di questa!) e si mascherano dietro il dito di quello che si può definire un “pacifondismo” estremo…i Cattolici, invece, non dovrebbero vergognarsene e dovrebbero essere fieri di appartenere a quella Chiesa per la cui salvaguardia San Pio V lavorò intensamente, una Chiesa incarnata e storica, e non disincarnata e atemporale, puramente carismatica e spirituale, così come la si vorrebbe far diventare adesso. Numerosi esponenti – anche nei gradini alti! – di questa Chiesa “moderna”, provano vergogna nei confronti della Chiesa “antica” che, se si potrebbe presentare “sporca” è solo perché ha duramente lavorato, impegnandosi a salvare il salvabile di una società e di una civiltà in crisi.

Qualcuno potrebbe magari tacciare di “trionfalismo” questo scritto, ma ciò che è stato espresso non ha fatto altro che riportare la storia che fu e che, forse, si potrebbe disgraziatamente ripetere se non si guarda attentamente e non ci si difenderà dalle sciagure, dai nemici del nostro presenti nel nostro tempo: il ritorno dell’invasione islamica, l’annullamento della Tradizione, il dilagare dell’ateismo e del laicismo, l’affermazione tra i giovani dei disvalori della new age e quanto di orrendo e spaventoso presenta il mondo moderno.

Oggi, a 440 anni di distanza, è giusto ricordare il passato, ben consapevoli degli orrori che ogni guerra produce, ma, allo stesso tempo, orgogliosi di essere Cattolici e figli di quella Chiesa da sempre protagonista di una Storia costellata di bellissime vittorie, spirituali e materiali. .


Fabio Adernò

[SM=g1740771]


Caterina63
00lunedì 10 ottobre 2011 17:54

7 Ottobre 2011 - Nel CDXL anniversario della Vittoria di Lepanto (7 ottobre 1571)

Mesi or sono, in una riunione "organizzativa" della Redazione per fare il punto della situazione e per per stilare il programma per i mesi venturi, avevamo rinvenuto che quest'anno cade il 440° anniversario della Vittoria di Lepanto.
Volendo rendere degna celebrazione alla ricorrenza, abbiamo pensato di rivolgerci, forse un po' indegnamente, al prof. de Leonardis (che molti dei nostri lettori già conoscono e apprezzano), e domandargli se avrebbe mai avuto tempo di scrivere un articolo
ad hoc per Messainlatino, proprio sulla gloriosa battaglia del 1571.
Siamo rimasti ammirati ed emozionati nel ricevere dal Professore un immediato ed entusiasta riscontro, con il quale ci assicurava la sua disponibilità a offrirci ottimi spunti di riflessione sulla Battaglia di Lepanto, per farla conoscere meglio, con uno sguardo e un'attenta analisi anche ad alcune vicende contemporanee.
E' con gratitudine quindi che porgiamo al Chiarissimo prof. Massimo de Leonardis le nostre più sincere espressioni di riconoscenza per aver messo cortesemente a disposizione dei nostri lettori la propria disponibilità e le proprie competenze per tenere una
Lectio Magistralis (se pur da leggere) che ci arrichisce culturalmente e impreziosisce il nostro blog di MiL.
Grazie, Professore!
Buona lettura.

Roberto

Il significato storico della battaglia di Lepanto: Cristianità, Occidente e Islam
di Massimo de Leonardis *


In una demitizzazione esasperata di pagine gloriose nella storia militare della Cristianità, ci si è spinti a negare sia valore strategico sia legittimità religiosa a battaglie come quelle di Poitiers e di Lepanto. Quanto alla legittimità, il Catechismo della Chiesa cattolica, elencando le condizioni di una “legittima difesa con la forza militare”, osserva: “Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della «guerra giusta». “La legittima difesa – aggiunge il catechismo – è un dovere grave per chi ha la responsabilità della vita altrui o del bene comune” (n. 2321). L’art. 2309 del Catechismo è anche integralmente ripreso nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa. La Chiesa quindi è pacificatrice, ma respinge il pacifismo. Pio XII affermava nel 1952: “La Chiesa deve tener conto delle potenze oscure che hanno sempre operato nella storia. Questo è anche il motivo per cui essa diffida di ogni propaganda pacifista nella quale si abusa della parola di pace per dissimulare scopi inconfessati”. Difficile negare che oggi “potenze oscure” di ogni genere sono all’opera nel mondo; quindi il pacifismo assoluto è più che mai una pericolosa utopia, come ha più volte ha riaffermato il Regnante Pontefice Benedetto XVI, quando era ancora il Cardinale Joseph Ratzinger, Decano del Sacro Collegio e Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Nel discorso pronunciato in Normandia il 4 giugno 2004 in occasione delle celebrazioni per il 60° anniversario dello sbarco alleato, l’allora Cardinale Ratzinger affermò: “Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto”.

In una lettera all’allora Presidente del Senato Marcello Pera, il Cardinale Ratzinger affermava: “Sul fatto che un pacifismo che non conosce più valori degni di essere difesi e assegna a ogni cosa lo stesso valore sia da rifiutare come non cristiano siamo d’accordo: un modo di «essere per la pace» così fondato, in realtà, significa anarchia; e nell’anarchia i fondamenti della libertà si sono persi”. Tale concetto è stato ribadito e precisato in un discorso pronunciato a Subiaco il 1° aprile 2005, poche settimane prima dell’elezione a Sommo Pontefice: “La pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. … Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza”.

Asceso al soglio pontificio, Benedetto XVI nel messaggio del 1° gennaio 2006 per la consueta Giornata della Pace, ha ribadito il Magistero tradizionale cattolico sul problema della pace. Spiegando il significato del tema di riflessione scelto, Nella verità, la pace, il Papa afferma: “Occorre tener ben presente che la pace non può essere ridotta a semplice assenza di conflitti armati, ma va compresa come «il frutto dell'ordine impresso nella società umana dal suo divino Fondatore», un ordine «che deve essere attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta». Sant’Agostino ha descritto la pace come «tranquillitas ordinis», la tranquillità dell'ordine, vale a dire quella situazione che permette, in definitiva, di rispettare e realizzare appieno la verità dell’uomo”. In una prospettiva cristiana, quindi, solo “il riconoscimento della piena verità di Dio è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace”.

Tenendo nella dovuta considerazione il diverso linguaggio che Benedetto XVI deve adoperare rispetto a quando era “solo” il Cardinale Ratzinger, appare evidente che il pensiero del Sommo Pontefice sulla pace e la guerra è radicato nella Tradizione della Chiesa, in una dimensione spirituale del tutto aliena dalle semplificazioni e dalle strumentalizzazioni di un pacifismo ingenuo o, peggio, politicamente di parte. Il realismo cristiano non dimentica appunto che “gli uomini, nel loro stato di peccatori, sono e saranno sempre minacciati dal pericolo della guerra fino alla venuta del Cristo” (Gaudium et Spes, n. 78).

Nelle polemiche seguite agli attentati dell’11 settembre 2001, in nome di un irenismo e di un ecumenismo spinti all’eccesso, molti hanno voluto negare il carattere intrinsecamente bellicoso dell’Islam, richiamato invece dal Santo Padre Benedetto XVI nel mirabile discorso di Ratisbona, che tante polemiche ha suscitato. Maometto è in realtà l’unico fondatore di una religione che fu anche un capo guerriero; fin dall’inizio l’Islam si espanse con la violenza e la “guerra santa” è uno dei precetti fondamentali della dottrina e della prassi musulmana. Tutte caratteristiche assenti nel Cristianesimo, che, si diffuse grazie ai martiri, che versarono docilmente il proprio non l’altrui sangue, come fanno invece oggi i seguaci fanatici di Allah, che si uccidono per portare la morte. Il Cristianesimo, non è però affatto una religione che sposa il pacifismo, come oggi si vorrebbe sostenere. Nei Vangeli non solo non compare alcuna condanna del servizio militare, ma anzi in diversi episodi traspare un’evidente simpatia per i centurioni dell’esercito romano, come ha ricordato più volte il Beato Giovanni Paolo II, anche nel 2000 in occasione del giubileo dei militari.

Altri hanno proposto una lettura assolutamente parziale dei rapporti tra Islam e Cristianesimo, evidenziando i momenti di dialogo e quasi cancellando secoli di aggressività musulmana. Ricordo in particolare un articolo su Avvenire nel quale Franco Cardini definiva Lepanto una vittoria sostanzialmente inutile, “una storia agrodolce con qualche risvolto comico”, e fustigava “qualche bollore crociato che è riaffiorato oggi in campo cattolico” come “ridicolo ... più che inopportuno”. Lo storico fiorentino, forse tradito dal suo filo-islamismo, farebbe bene a rileggere il giudizio autorevole di Fernand Braudel: “[Se] anziché badare soltanto a ciò che seguì a Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità, la fine d'una altrettanto reale supremazia della flotta turca [...] Prima di far dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme”.

Un maestro della storia militare, il britannico Sir John Keegan, elenca Lepanto tra le quindici battaglie navali decisive della storia, da Salamina tra greci e persiani nel 480 a. C., al Golfo di Leyte tra americani e giapponesi nel 1944; ove per decisiva s’intende “d’importanza duratura e non puramente locale”. Lepanto segna la fine del potere navale ottomano ed “arresta l’avanzata musulmana nel Mediterraneo occidentale”, che da allora fu salvo dalla minaccia strategica dell’espansione turca (anche se non dalle incursioni dei pirati barbareschi, contro i quali combatteva la flotta dell’Ordine di Malta), così come l’assedio di Vienna del 1683 bloccò l’avanzata terrestre dell’Impero ottomano. L’insigne storico Angelo Tamborra afferma che “con Lepanto”, anche se non ebbe “immediate conseguenze strategiche”, “prende fine ... stabilmente, quello stato d’animo di rassegnazione e quasi di paura ossessiva che aveva prostrato l’Occidente, preso dal “mito” della invincibilità del Turco” ed afferma che con tale battaglia si ebbe il “definitivo declino della talassocrazia turca del Mediterraneo”. Poche righe prima, lo stesso Autore scrive che “la Cristianità, già frammentata in nazioni in lotta di predominio le une contro le altre – taluna delle quali non aveva esitato a ricercare il compromesso o addirittura l’alleanza con il Turco – aveva visto ricomporsi, per un momento e almeno in parte, la sua unità contro il nemico comune”.

Va rilevato l’uso di due termini diversi per definire la civiltà europea: “Cristianità” ed “Occidente”. Lepanto fu una battaglia navale; ma fu soprattutto uno scontro tra la Croce e la mezzaluna; tra Cristianità ed Islam. Una Cristianità divisa, perché Lepanto si colloca pressoché a metà di quel secolo e mezzo che dalla fine del '400 alla pace di Westfalia del 1648 vide la laicizzazione delle relazioni internazionali; alla Respublica Christiana medievale si sostituì l’Europa degli equilibri. Non solo la riforma protestante spezzò definitivamente l’unità religiosa dell’Europa, ma l’interesse nazionale prevaleva talora sulle motivazioni religiose anche per gli Stati cattolici. I Re cristianissimi di Francia stringeranno intese con il turco in funzione antiasburgica e le loro navi non saranno presenti a Lepanto. I veneziani, che pure a Lepanto furono in prima fila, rimproverati in un’occasione per il loro scarso entusiasmo per l’idea di crociata, risposero: “Siamo veneziani, poi cristiani”. Venezia, i cui domini erano a diretto contatto con l’Impero ottomano ed erano quindi particolarmente esposte, ispirava la sua politica alla ragion di Stato. Dopo la sconfitta navale di Prevesa nel 1538 la Serenissima aveva concluso una pace separata con la Sublime Porta. I protestanti erano animati sia dall’ostilità al Cattolicesimo sia dal timore e dall’avversione per i turchi. Scrive Braudel: “In tutta Germania si cantavano i Türkenlieder, venuti dai lontani campi di battaglia del Sud-est. Mentre chiedeva che la Germania si liberasse dallo sfruttamento romano, Ulrich von Hutten reclamava che con il denaro così recuperato si rafforzasse il Reich e lo si ingrandisse a danno del Turco. Anche Lutero favorì sempre la guerra contro i signori di Costantinopoli; ad Anversa si parlava spesso di battersi con gli infedeli e, meglio ancora, in Inghilterra, dove ci si inquietava sempre per i successi cattolici in Mediterraneo, si gioiva delle sconfitte del Turco: Lepanto turbò e, a un tempo, colmò di gioia i cuori inglesi”. La Regina Elisabetta I d’Inghilterra, scismatica, alcuni anni prima, aveva indetto preghiere di ringraziamento per la fine dell’assedio turco a Malta, eroicamente difesa dai Cavalieri Gerosolimitani.

In questo quadro di un’Europa divisa, tanto più grandioso appare quindi il ruolo di S. Pio V nel radunare gran parte di una Cristianità divisa per una battaglia d’importanza militare, civile e religiosa. Il Papa fu l’artefice della coalizione che vinse a Lepanto. Inviò Nunzi ai Principi italiani, al Doge di Venezia, ai Re di Polonia e di Francia. Per finanziare lo sforzo bellico, dopo aver da tempo autorizzato Jean Parisot de la Valette, Gran Maestro dell’Ordine di Malta, ad ipotecare, per 50.000 scudi d’oro, le commende di Francia e di Spagna, il Papa impose la decima sulle rendite dei monasteri, tre decime al clero napoletano, riscosse dagli impiegati della corte papale 40.000 scudi d’oro in pena delle loro malversazioni e ne ricavò altri 13.000 dalla vendita di pietre preziose, accordò ai veneziani la facoltà di togliere 100.000 scudi sulle rendite ecclesiastiche e rinnovò in favore degli spagnoli il privilegio della Cruzada, o bolla della Crociata. Premessa gloriosa e necessaria di Lepanto era stata sei anni prima la vittoriosa resistenza dei Cavalieri Gerosolimitani nel grande assedio di Malta. Braudel, dopo aver descritto la schiacciante superiorità turca, non esita a scrivere: “Ma il gran maestro, Jean Parisot de la Valette, e i suoi cavalieri si difesero meravigliosamente. Il loro coraggio salvò tutto”.

Come scrive un maestro della storiografia, Nicolò Rodolico: “Al di sopra di interessi materiali, di ambizioni, di possessi e di ricchezze, vi era un Crociato che chiamava a raccolta la Cristianità: Pio V. Non era Cipro dei Veneziani in pericolo, ma la Croce di Cristo nell’Europa era minacciata. La parola commossa del Papa riuscì a conciliare Veneziani e Spagnoli”. Fu firmata a Roma il 20 maggio 1571 una Lega, cui aderirono il Papa, il Re di Spagna, la Repubblica di Venezia, la Repubblica di Genova, il Granduca di Toscana, il Duca di Savoia, l’Ordine di Malta, la Repubblica di Lucca, il Marchese di Mantova, il Duca di Ferrara e il Duca di Urbino. “Le differenze che possono insorgere tra i contraenti – prevedeva il trattato di alleanza – saranno risolte dal Papa. Nessuna delle parti alleate potrà conchiudere pace o tregua da sé o per mezzo di intermediari, senza il consenso o la partecipazione delle altre”. Accanto all’azione diplomatica, il Papa ordinò solenni preghiere, in particolare la recita del Santo Rosario, e processioni di penitenza, alle quali prese parte personalmente, nonostante i dolori cagionatigli dalla sua malattia. Il Sultano ebbe ad esclamare: “Temo più le preghiere di questo Papa, che tutte le milizie dell’imperatore”.

Il mattino del 7 ottobre 1571 iniziò lo scontro tra le flotte cristiana e musulmana al largo di Lepanto (oggi Nafpaktos), allo sbocco del golfo di Corinto ed a nord di quello di Patrasso. La flotta cristiana era sotto il comando supremo di Don Giovanni d’Austria, figlio naturale del defunto Imperatore Carlo V, ai cui ordini stavano i veneziani Sebastiano Veniero ed Agostino Barbarigo, il romano Marcantonio Colonna, il genovese Gian Andrea Doria, ed era composta di circa 208 galee, centodieci delle quali avevano comandanti veneziani, anche se, per la scarsezza di uomini, gli equipaggi erano stati rinforzati con truppe provenienti dagli Stati spagnoli, in specie archibugieri. Trentasei galee provenivano da Napoli e dalla Sicilia; ventidue da Genova; ventitré dagli Stati pontifici e da altri Stati italiani (18); quattordici dalla Spagna in senso stretto e tre da Malta. Vi era poi naviglio minore: sei galeazze, tutte venete, e oltre 60 fregate. In totale circa 280 bastimenti, sui quali trovavano posto 1.800 pezzi d’artiglieria, 34.000 soldati, 13.000 marinai e 43.000 vogatori. La flotta turca, al comando dell’ammiraglio Alì-Mouezzin Pascià, contava circa 230 galee e una sessantina di bastimenti minori, per un totale di circa 290 legni, 750 cannoni, 34.000 soldati, 13.000 marinai e 41.000 rematori (in buona parte schiavi cristiani, per lo più greci). La vittoria cristiana fu netta. Gli alleati della Lega contarono circa 7.500 morti, uccisi o annegati, in gran parte soldati, e circa 20.000 feriti e persero 12 galee. Il Generale Giustiniani, dell’Ordine di Malta, e il comandante della galera capitana dell’Ordine, fra’ Rinaldo Naro, furono feriti tre volte; 60 cavalieri di Malta perirono nel combattimento. I turchi ebbero 30.000 morti e 10.000 prigionieri, circa 100 navi bruciate o affondate e 130 catturate; 15.000 schiavi cristiani furono liberati. “Il trionfo cristiano fu immenso”, scrive Braudel.

Alle cinque della sera, ora in cui si concludeva la battaglia, il Papa stava attendendo agli affari di curia con alcuni prelati, quando ad un tratto s’interruppe, si accostò ad una finestra fissando lo sguardo verso l’Oriente come estatico, per poi esclamare: “Non occupiamoci più d’affari, ma andiamo a ringraziare Iddio. La flotta cristiana ha ottenuto la vittoria”. Il Re Filippo II di Spagna stava assistendo ai vespri nella cappella del suo palazzo quando entrò l’ambasciatore veneziano, proprio mentre veniva intonato il Magnificat, gridando “Vittoria! Vittoria!”. Ma il re non volle che si interrompesse la sacra funzione. Solo al termine fece leggere il dispaccio e intonare il Te Deum. S. Pio V attribuì il trionfo di Lepanto all’intercessione della Vergine: volle che nelle Litanie Lauretane si aggiungesse l’invocazione “Auxilium Christianorum, ora pro nobis”, e fissò al 7 ottobre la festa in onore di nostra Signora della Vittoria. Nel 1573, Gregorio XIII, suo successore, trasferì la festa alla prima domenica di ottobre, col titolo di solennità del Rosario; Clemente VIII la riportò al 7 ottobre, estendendola a tutta la Chiesa e facendola inserire nel Martirologio romano con queste parole: “Commemorazione di S. Maria della Vittoria, istituita da Pio V, Sommo Pontefice, per l’insigne vittoria riportata dai cristiani sui turchi in una battaglia navale, con la protezione della Madre di Dio”. Pio VI fissò infine il 24 maggio la festa di Maria Ausiliatrice, in memoria della battaglia di Lepanto e della propria liberazione a Savona. Il Senato veneziano fece scrivere sul quadro della battaglia di Lepanto, collocato nella sala delle sue adunanze, la famosa epigrafe: “Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit”.

Sette mesi dopo, S. Pio V moriva e, priva del suo artefice, la Lega cristiana nel giro di pochi anni si sfaldava senza sfruttare a fondo la vittoria. Non a caso, alla notizia della morte del Papa, il Sultano ordinò a Costantinopoli una festa di tre giorni. Al di là del pur importante fattore personale vanno rilevate alcune tendenze di fondo della politica internazionale. La Spagna, che il poeta Marcelino Menendez y Pelayo definirà “evangelizzatrice di mezzo mondo, martello degli eretici, luce di Trento, spada di Roma, culla di S. Ignazio”, era il pilastro del Cattolicesimo. Tuttavia essa era impegnata su molteplici fronti: contro l’Impero ottomano nel Mediterraneo orientale, contro le reggenze mussulmane dell’Africa Settentrionale, nei Paesi Bassi in rivolta (anche con connotazioni religiose calviniste), in Atlantico contro l’Inghilterra protestante. Lo stesso impero ottomano combatteva su due fronti, ad Occidente contro i cristiani e ad oriente contro la Persia. Entro la fine del secolo Spagna ed Impero ottomano arrivarono ad una pace abbastanza stabile, rivolgendo la loro attenzione verso le altre direttrici geopolitiche di loro interesse. Anche il Papa doveva dividersi tra lotta al turco e all’eresia protestante.

Dopo gli attentati del 2001, il Cardinale Biffi, Arcivescovo di Bologna, pregò “perché la Cristianità trovi la strada giusta per la propria sopravvivenza”. Fu uno dei pochi a parlare di “Cristianità”. Mons. Claudio Stagni, suo vescovo ausiliare, nel primo anniversario degli attentati negli Stati Uniti, durante la Messa in suffragio delle vittime, propose di fare del 12 settembre “una giornata di preghiera alla Vergine Maria perché protegga i nostri paesi dal diffondersi della religione islamica”. La data richiama il 12 settembre 1683 quando Vienna festeggiò la vittoria sugli assedianti turchi. Animatore infaticabile della resistenza fu il Beato cappuccino Marco d’Aviano, la cui statua campeggia nella capitale austriaca davanti alla Kapuzinerkirche.

Alberto Leoni, autore di un volume che ripercorre 1.400 anni di scontri militari tra Cristianità ed Islam, ricordando le figure di condottieri difensori dell’Europa cristiana dall’Islam, come d’Aviano, Giovanni Hunyadi ed il francescano San Giovanni da Capistrano, commenta giustamente: “Nati in un’età di ferro, la loro vita avventurosa e tormentata può forse scandalizzare la maggior parte dei cristiani contemporanei, sicuramente più mansueti e pacifici: eppure la pace e la libertà che permettono questa mitezza sono conseguenza diretta di quelle battaglie”.

* Prof. Dott. Massimo de Leonardis
Ordinario di Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali
Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche
Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano


Foto: n. 1 Verones, Battaglia di Lepanto.
n.2 - Stendardo navale della flotta Real, della Lega Santa (qui al link dei Cavalieri ospitalieri)
n. 3 - I "principi" dei popoli Cattolici che parteciparono alla Lega Santa contro gli Ottomani, nella Battaglia di Lepanto, chiesa di S. Maria Ausiliatrice (Salesiani) a Torino (link)
n.4- Maragliano, Statua lignea della Madonna, Regina del S. Rosario (1669), compatrona della città di San Remo, e venerata nella Insigne Collegiata Basilica Concattedrale di San Siro (link)
n. 5 - Stendardo "che dal B. Pio V. fù dato [a Napoli] à D. Giovan d’Austria il seniore, Capitan Generale della lega contra il Turco (da una relazione del 1673); altare maggiore della cattedrale di Gaeta (Link); si veda anche qui

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Caterina63
00venerdì 14 ottobre 2011 14:07

Ricordando Andrea Provana (1511-1592) http://www.comune.leini.to.it/portals/49/SiscomImmaginiGuidaPaese/provanaA.jpg

In questo mese di ottobre, nel quale si commemora fra i cattolici l'importante battaglia di Lepanto, vorrei brevemente richiamare, visto che quest'anno ricorre il quinto centenario della sua nascita, uno dei comandanti militari che si distinsero in quel frangente ovvero l'ammiraglio Andrea Provana di Leinì (1511 - 1592).

Egli comandava il piccolo drappello di navi inviate dal ducato di Savoia, uno stato che non poteva certo vantare, fino a quel momento, grandi tradizioni in ambito marinaresco. L'unico sbocco sul mare del ducato era rappresentato infatti dai porti di Nizza e Villefranche.
La flottiglia piemontese era composta pertanto soltanto da tre galee: Capitana, Margherita e Piemontesa. Si battè tuttavia con grande eroismo. La Capitana, su cui era imbarcato l'ammiraglio, fu circondata da due navi turche e il Provana colpito alla testa da un proiettile. Si salvò grazie all'elmo donatogli dal duca di Urbino Francesco Maria II Della Rovere.

Ma ben presto la galea sabauda riuscì a rompere l'assedio ed a catturare, a sua volta, due imbarcazioni ottomane. Cadde invece eroicamente la "Piemontesa" ma dopo aver però resistito a lungo agli assalti rendendo possibile poi la controffensiva cristiana.
Degli oltre duecento uomini che erano a bordo se ne salvarono soltanto dodici.
Ma Andrea Provana si era già distinto, in precedenza, per importanti missioni politiche e militari a favore della Cristianità.

Da governatore di Nizza si era molto impegnato a contrastare gli ugonotti infiltrati dalla Francia. Assieme alla flotta spagnola partecipò inoltre a numerose spedizioni contro i pirati barbareschi e, in particolare, si distinse nella riconquista della piazzaforte di Penon de Velez avvenuta nel 1563.
Due anni dopo lo troviamo invece impegnato nella difesa di Malta, assediata dai Turchi, accanto ai Cavalieri Gerosolimitani. In tale occasione si ricorda la rocambolesca cattura di una nave-spia nemica che, una volta neutralizzata, non riuscì ad avvisare il sultano turco di una manovra a sorpresa che ruppe l'assedio all'isola.

Alcuni storici, per la sua abilità politica e la grande fiducia in lui riposta dal duca sabaudo Emanuele Filiberto, lo hanno soprannominato "il Cavour del XVI secolo". Ma il Provana, a differenza del suo emulo ottocentesco, fu un grande uomo politico e comandante autenticamente cattolico.
Le basi che contribuì a dare allo Stato piemontese gettarono i presupposti della grande epopea dei secoli successivi. Il primo ministro risorgimentale, al contrario, forse proprio per le sue idee filo-massoniche, determinò una gloria effimera che poi, come profetizzò, san Giovanni Bosco, porterà alla rovina della dinastia entro quattro generazioni.

Per chi volesse approfondire la figura di Andrea Provana di Leinì segnalo il bel sito internet realizzato quest'anno, in sua memoria, per il quinto anniversario della nascita: www.andreaprovana.eu.

Marco BONGI

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