La Chiesa e la ricerca di cellule staminali umane per uso terapeutico

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Caterina63
00martedì 8 settembre 2009 00:17

La Chiesa e la ricerca di cellule staminali umane per uso terapeutico

Non è un nuovo caso Galileo


di Roberto Colombo

Università Cattolica del Sacro Cuore
Pontificia Accademia per la Vita

I moderni orizzonti delle scienze sperimentali della vita, spalancati a metà dell'Ottocento dalle tre grandi teorie sul ruolo fondamentale della cellula, l'ereditarietà dei caratteri e l'evoluzione delle specie, e ancor più incisivamente, nella seconda parte del secolo scorso, dalla "rivoluzione genetico-molecolare" della biologia - scaturita dall'identificazione della struttura e delle funzioni degli acidi nucleici - hanno visto la Chiesa costantemente interessata alle scoperte che provengono dall'indagine dei fenomeni vitali. In questa feconda e sorprendente stagione delle scienze della natura vivente, la Chiesa non si è sottratta al confronto, vivace e anche provocatorio, con le interpretazioni teoriche e le implicazioni pratiche di tali scoperte, in modo particolare quelle che riguardano l'essere umano e la sua fisiologia e patologia.

A differenza di epoche precedenti, caratterizzate da "certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancarono nemmeno tra i cristiani, derivanti dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza", e che "trascinarono molti spiriti fino al punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro" (Gaudium et spes, 36), la disposizione della Chiesa verso le "nuove scienze naturali" è stata di grande attesa e profonda stima. "La ricerca scientifica ha certamente il suo valore positivo. La scoperta e l'incremento delle scienze (...) sono frutto della ragione ed esprimono l'intelligenza con la quale l'uomo riesce a penetrare nelle profondità del creato. La fede, da parte sua - ha sottolineato Benedetto XVI nel Discorso ai partecipanti al Congresso in occasione del x anniversario dell'enciclica Fides et ratio il 16 ottobre 2008 - non teme il progresso della scienza e gli sviluppi a cui conducono le sue conquiste quando queste sono finalizzate all'uomo, al suo benessere e al progresso di tutta l'umanità".

Non possiamo dimenticare, tuttavia, che l'arricchimento delle conoscenze scientifiche e delle abilità tecnologiche è stato accompagnato da un impoverimento progressivo dell'esercizio della ragione che giunge fino ad intaccarne l'originale apertura alla realtà secondo tutti i suoi fattori costitutivi. Ne è seguita una crescente emarginazione culturale della ratio quando essa, non fermandosi alle apparenze empiriche della realtà, si pone alla ricerca della verità intera, ultima, delle cose. A fronte di un privilegio accordato - talora in modo esclusivo - alla ricerca della verità parziale, contingente, dei processi naturali e delle loro leggi fisiche, chimiche e biologiche, si assiste ad una diminuita tensione verso il significato totale che la realtà, gravida di essere e di promessa per l'uomo, invoca come segno ardente che nessun calcolo e nessuna convenienza riescono a spegnere.

Un simile restringimento degli orizzonti della ragione - cui ha fatto riferimento Benedetto XVI nel suo discorso all'università di Ratisbona (12 settembre 2006) e in altre sedi - non è privo di conseguenze individuali e sociali: lo scopo integrale, la destinazione dell'ingegnosa e meritoria opera dello scienziato e del tecnologo è divenuto opaco a loro stessi e a molti uomini contemporanei. Il "caso serio" della modernità è quello di un esilio della coscienza di sé e del mondo che il soggetto in azione porta in ogni sua opera. La coscienza del nesso tra l'azione ed il significato ultimo del gesto che il ricercatore compie sperimentalmente e il medico esegue clinicamente è stata sostituita da una confidenza assoluta nel calcolo delle esigenze e delle conseguenze, la bilancia dei vantaggi e degli svantaggi, esito di una ragione ridotta a misura delle cose. Essa sembra avere rinchiuso il proprio compito nel recinto delimitato dai canoni del fattibile e del replicabile, privandosi così di quello slancio verso la categoria suprema dell'avventura umana della ricerca razionale: la possibilità "che l'universo stesso sia strutturato in modo intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione e la ragione oggettivata nella natura". (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al quarto Convegno nazionale della Chiesa italiana, 19 ottobre 2006).

Una corrispondenza che rilancia instancabilmente il processo conoscitivo e operativo verso la valorizzazione di quegli aspetti della realtà studiata e manipolata - fattori altrimenti trascurati o addirittura censurati - che rendono ragionevole e desiderabile il perseguimento di un obiettivo finito, provvisorio, senza tradire lo scopo ultimo della scienza e della tecnologia: l'uomo, tutto l'uomo e ogni uomo, nella verità del suo essere unico e irripetibile, con la preziosità della sua vita spirituale e fisica, secondo la sua origine ed il suo destino trascendente.

Il dialogo tra la Chiesa e i cultori delle discipline biologiche e mediche si è sviluppato, già a partire dalle indimenticabili allocuzioni di Pio XII nella sala Clementina, secondo la prospettiva che "la Chiesa cattolica professa una concezione dell'uomo totalmente inclusiva, sulla quale fonda le sue prese di posizione relative ai problemi attuali. (...) Essa riconosce a ciascuna persona un carattere sacro, garantito da Colui che ha creato l'uomo a sua immagine, l'abbraccia con il suo amore e lo chiama a vivere con Lui" (Paolo VI, Discorso ai membri dell'Accademia dei Nuovi Lincei, 27 febbraio 1974).

Ed è proprio in nome del riconoscimento dell'altissima dignità dell'uomo che "la Chiesa appoggia la libertà della ricerca, uno degli attributi più nobili dell'uomo" ed "è convinta che non può esserci contraddizione reale tra scienza e fede, dal momento che tutta la realtà procede in ultima istanza da Dio creatore. (...) È certo che scienza e fede costituiscono due diversi ordini della conoscenza, autonomi nei loro processi, però infine convergenti nella scoperta della realtà integrale che trae origine da Dio" (Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti delle università spagnole, 3 novembre 1982). Questo riconoscimento della distinzione epistemologica ed indipendenza metodologica del sapere della scienza e del sapere della fede non è stato sempre onorato e il guadagno di questa posizione è il frutto di un lungo percorso, segnato anche da incidenti ed incomprensioni reciproche, nei quali hanno giocato un ruolo maggiore il temperamento individuale e le circostanze storiche e culturali: "Che la Chiesa abbia potuto avanzare con difficoltà in un campo così complesso, non ci deve sorprendere o scandalizzare. La Chiesa, fondata da Cristo che si è dichiarato la Via, la Verità e la Vita, resta tuttavia costituita da uomini limitati e legati alla loro epoca culturale. (...) È solamente con lo studio umile e assiduo che essa impara a distinguere l'essenziale della fede dai sistemi scientifici di un'epoca". (Giovanni Paolo II, Discorso ad un gruppo di scienziati, 9 maggio 1983)

A un'attenta considerazione, è molto più profondo ciò che unisce fede e scienza di quello che le divide. Non soltanto la realtà che esse ci dischiudono, secondo prospettive diverse, è una sola - tutto ciò che le scienze indagano è stato creato attraverso il Lògos divino (cfr. Giovanni, 1, 3; Colossesi, 1, 16) che la fede conosce attraverso la sua incarnazione redentrice e rivelatrice della verità dell'uomo, del cosmo e della storia (cfr. Giovanni, 14, 6) - ma il sapere della fede procede mediante la stessa ragione che porta l'uomo ad indagare empiricamente i segreti dell'universo e della vita. Tuttavia, affinché la ragione possa dispiegare di nuovo la sua vertiginosa disposizione ad abbracciare tutto, aprendosi anche all'imprevisto e all'imprevedibile, a ciò che è indeducibile a partire da quello che possiamo misurare ma che corrisponde in modo sorprendente alla verità originaria delle cose e alla struttura originale della persona e della sua esperienza, deve essere ricomposta la frattura tra "pensiero calcolante" (das rechnende Denken) e "pensiero meditativo" (das besinnliche Denken) lucidamente denunciata da Martin Heidegger come la deriva della ragione strumentale che domina la scienza e la tecnica contemporanea (M. Heidegger, Gelassenheit, Stuttgart 2004, pp. 18ss.).

Di fronte al compito che attende la ragione nell'epoca delle più ardite imprese della scienza e delle formidabili sfide etiche poste dalla tecnologia, la fede "è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio". (Benedetto XVI, Deus caritas est, 28).

All'alba del nuovo millennio, l'identificazione, l'isolamento, l'espansione in vitro e la caratterizzazione morfologica e funzionale di alcune popolazioni di cellule - chiamate staminali (dal termine Stammzelle, introdotto dallo zoologo tedesco Ernst Haeckel nel 1868) e capaci di autorinnovarsi in coltura, conservando la loro potenzialità replicativa ed epigenetica, e di differenziarsi in uno o più tipi cellulari - non solo hanno fatto rinascere un vivace interesse per lo studio della biologia delle cellule indifferenziate e progenitrici del corpo umano in sviluppo e adulto, ma hanno anche suscitato un grande entusiasmo per l'eventuale uso di queste cellule nella terapia rigenerativa dei tessuti lesionati, nella correzione di difetti genetici e nel potenziamento della risposta cellulare a fattori patogeni intrinseci ed estrinseci. Alcune linee di cellule staminali presenti nei tessuti dell'adulto erano già conosciute da diversi anni, tra le quali le ematopoietiche (J. E. Till e E. A. McCulloch, "Radiation Research", 1961, 14, pp. 213-222), le mesenchimali (A. J. Friedenstein e altri, "Experimental Hematology" 1974, 2, pp. 83-92) e le neurali (B. A. Reynolds e S. Weiss, "Science", 1992, 255, pp. 1707-1710).

Le staminali ematopoietiche venivano impiegate, sin dalla fine degli anni Sessanta, nel trapianto di midollo osseo per la ricostituzione delle cellule del sangue e del sistema immunitario in pazienti affetti da immunodeficienza congenita o leucemia acuta (F. H. Back e altri, "Lancet", 1968, ii, pp. 1364-1366; R. A. Gatti e altri, ivi: 1366-1369). Tuttavia, l'attenzione dei ricercatori e dei mezzi di comunicazione sociale venne subito polarizzata verso un particolare tipo di cellule staminali pluripotenti che si ritrovano esclusivamente nelle primissime fasi dello sviluppo dell'organismo umano, quando esso è allo stadio di blastocisti (circa 5 giorni dopo la fertilizzazione): le staminali embrionali.

Inizialmente identificate e caratterizzate nel topo (M. Evans e M. Kaufman, "Nature", 1981, 292, pp. 154-156; G. Martin, "Proceedings of the National Academy of Sciences USA", 1981, 78, pp. 7634-7638), sono state isolate e coltivate in vitro a partire da embrioni umani per la prima volta nel 1998 (J. A. Thompson e altri, "Science", 1998, 282, pp. 1145-1147). La elevata clonogenicità e potenzialità epigenetica di queste cellule, che sono all'origine dello sviluppo embrionale di tutti gli oltre 220 tipi di cellule del corpo umano e le cui colture risultano spontaneamente immortali e virtualmente prive di senescenza, hanno indotto diversi studiosi a ritenerle il candidato ideale, se non addirittura unico, per la produzione di cellule destinate alla rigenerazione dei tessuti. Ciò è avvenuto, non di rado, trascurando o minimizzando - in questo slancio ideale verso la più ardita "rivoluzione terapeutica" della medicina - diversi fattori della realtà delle cellule staminali embrionali dell'uomo che sono reclamati dalla ragione biologica e medica, dall'esperienza clinica nel campo dei trapianti e, anzitutto, dalla ragione pratica, che istruisce la coscienza morale di fronte al valore fondamentale della vita umana e al bene della persona.

Dal punto di vista biologico, la ragione ci fa cogliere la difficoltà di controllare, in vitro e soprattutto in vivo, la trasformazione ordinata di queste cellule indifferenziate ed altamente plastiche in uno specifico tipo di cellula progenitrice o completamente differenziata e funzionale, laddove manchino tutti quegli stimoli e controlli cellulari e molecolari di nicchia (J. Zhang e L. Li, "Journal of Biological Chemistry", 2008, 283, pp. 9499-9503) che caratterizzano l'ambiente naturale di sviluppo delle cellule pluripotenti embrionali, ossia i tessuti in continuo rimodellamento dell'embrione stesso, cui la plasticità delle staminali che gli sono proprie è predisposta e, al tempo stesso, sottoposta (E. Fuchs e altri, "Cell", 2004, 116, pp. 769-778). A questa considerazione citologica si aggiunge la ragione medica, che porta a valutare con grande circospezione l'innesto in un paziente di cellule, quali le staminali embrionali (o le cellule da esse derivate, nelle cui colture non si può escludere la presenza di elementi embrionali residui), che non manifestano inibizione di crescita da contatto e possiedono un elevato potenziale neoplastico (M. Rao, "Stem Cells and Development", 2007, 16, pp. 903-904; T. E. Werbowetski-Ogilvie e altri, "Nature Biotechnology", 2009, 27, pp. 91-97), capace di sviluppare tumori (teratomi) nelle sedi istologiche che tali cellule vanno a colonizzare (M. Molcanyi e altri, "Cellular Physiology and Biochemistry", 2009, 24, pp. 87-94; F. Cao e altri, "Cancer Research", 2009, 69, pp. 2709-2713).

Infine, l'esperienza della clinica dei trapianti di tessuto, uno dei quali - quello di midollo osseo - è il modello attualmente più diffuso di terapia cellulare rigenerativa, rende evidente un ulteriore fattore della realtà che mette in discussione l'impiego terapeutico delle staminali embrionali: il rischio di una reazione di rigetto dell'innesto dovuta alla non compatibilità istologica di cellule eterologhe. L'uso di staminali embrionali con patrimonio genetico nucleare o nucleare-mitocondriale preordinato allo scopo di renderle pseudoautologhe o autologhe, ed aggirare così l'ostacolo immunologico, esigerebbe il ricorso alla clonazione di un embrione umano per trasferimento del nucleo di una cellula somatica del paziente in un oocita enucleato di donna o addirittura di produrre un embrione cibrido uomo-animale, nel caso in cui l'oocita provenisse da un altro mammifero per l'impossibilità di disporre di gameti femminili umani in sufficiente quantità.

Soluzioni, queste, che aggravano il giudizio già negativo della ragione pratica sulla produzione e sull'uso di cellule staminali provenienti da blastocisti umane non intenzionalmente generate per questo scopo, ma considerate "residuali" o "inappropriate" rispetto al trasferimento in utero in vista del quale sono state ottenute mediante fecondazione in vitro. Infatti, se è sempre gravemente illecito ledere intenzionalmente ed irreparabilmente un embrione umano già esistente (cfr. Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 60; Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum vitae, i, 1), arrestandone lo sviluppo e provocandone la morte per qualsivoglia fine, anche ritenuto buono e meritevole di essere perseguito con determinazione (cfr. Donum vitae, i, 4), ancor più moralmente ripugnante appare il progetto strumentale di creare deliberatamente un nuovo essere integralmente umano o nel quale vi sia una commistione di elementi biologici umani e animali.

Un'azione, questa, compiuta mediante una biotecnologia che manipola radicalmente la venuta al mondo di un embrione umano (senza connessione alcuna con l'atto di reciproca donazione coniugale e la sessualità umana) e ne predetermina arbitrariamente il patrimonio genetico e le caratteristiche biologiche al solo scopo di distruggerlo dopo pochi giorni per isolare e utilizzare alcune sue cellule, sia pure per un fine giudicato come onesto (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Dignitas personae, iii, 30.33).
Al di là di ogni dubbio circa l'effettiva possibilità di utilizzare in futuro le staminali embrionali per il trattamento di alcune gravi malattie, grazie all'eventuale superamento delle difficoltà biologiche, mediche e cliniche che tuttora indeboliscono questa ipotesi, la ragione antropologica e morale impedisce di giudicare positivamente qualunque progetto di ricerca che implichi la soppressione dell'embrione umano.

Di fronte a questa esigenza morale, che rende inaccettabile la "via embrionale" alla terapia cellulare, la Chiesa cattolica, sin dagli inizi della sua riflessione sulla produzione e l'uso delle cellule staminali umane, si è posta in ascolto degli uomini di scienza che indagano la reperibilità e le proprietà biologiche di questi tipi di cellule. La Chiesa ha considerato attentamente i loro studi sperimentali, pubblicati nella letteratura internazionale e comunicati ai congressi scientifici, e ha chiesto ad alcuni studiosi, direttamente impegnati nelle indagini citologiche, genetiche e molecolari sulle cellule staminali, di prospettare tutti i possibili percorsi lungo i quali poteva svilupparsi la ricerca in questo innovativo e promettente settore della biologia cellulare orientata alla rigenerazione dei tessuti lesionati del corpo umano.

Da un'articolata analisi della complessa e delicata questione, condotta alla luce dell'antropologia filosofica e della teologia morale, è apparso subito evidente che la soluzione al problema etico posto dal reperimento e dall'utilizzazione di cellule umane candidabili per efficaci ed efficienti protocolli di terapia cellulare e genica doveva essere cercata attraverso l'adozione dello stesso metodo delle scienze sperimentali che affrontano il problema biologico del ruolo e delle proprietà di queste cellule, sia in vitro che in vivo, e delle scienze cliniche che identificano gli obiettivi ed i requisiti di un intervento terapeutico mirato a restituire la funzionalità di un organo o a prevenire l'insorgenza di una patologia molecolare e cellulare. La necessità di coniugare la verità antropologica della persona umana e il valore fondamentale della sua vita, in ogni momento e circostanza dell'esistenza, con il lodevole impegno e l'acuto ingegno dei ricercatori e dei medici nella lotta contro le malattie che affliggono l'uomo e provocano disabilità, sofferenza e morte, esige, infatti, che mentre vengono riconosciuti i limiti etici invalicabili della sperimentazione sull'uomo siano affermate e incoraggiate, allo stesso tempo, le realistiche opportunità per conseguire gli attesi risultati terapeutici attraverso un percorso teorico e sperimentale alternativo, scientificamente solido e clinicamente orientato, capace di superare il vaglio morale della ragione pratica e mostrare la sua autentica convenienza umana e sociale.

Negli ultimi anni del Novecento lo studio delle proprietà di alcune linee cellulari isolate da specifici tessuti di adulto aveva portato ad individuare popolazioni di cellule non ancora differenziate e capaci di autorinnovarsi, le cui caratteristiche di "staminalità" erano definite da una potenzialità epigenetica che si riteneva limitata ad alcuni fenotipi cellulari presenti nel tessuto di origine. Le meglio conosciute erano quelle ematopoietiche, capaci di generare tutti i tipi di cellule del sangue. Inoltre, cellule staminali tessuto-specifiche erano state identificate nel muscolo, nella pelle, nell'intestino, nel fegato, nel pancreas e perfino nel sistema nervoso centrale, violando quello che sino ad allora veniva considerato il "dogma centrale della neurobiologia": nei centri nervosi dell'adulto "ogni cosa può morire, nulla viene rigenerato" (S. Ramon y Cajal, Estudios sobre la degeneración y regeneración del sistema nervoso, ii, Madrid, 1914,; citato in: D.K. Ma e altri, "Cell Research", 2009, 19, pp. 672-682, p. 672). Ricerche più recenti sull'animale di laboratorio portarono in breve tempo a riconoscere una multipotenzialità sorprendente in queste cellule, così che, già nel 2000, era possibile affermare che "una cellula staminale neurale dell'adulto possiede un'ampia capacità di sviluppo e può potenzialmente essere usata per generare una varietà di tipi cellulari adatti al trapianto in diverse malattie". (D. L. Clarke e altri, "Science", 2000, 288, pp. 1660-1663, p. 1660)

Divenne così sempre più evidente alla ragione scientifica non solo che "questi studi suggeriscono che le cellule staminali in differenti tessuti di adulto possono essere molto più simili alle cellule staminali embrionali di quanto sino ad [al]ora pensato e, forse, possiedono un repertorio epigenetico che si avvicina a quello delle embrionali" (ivi, p. 1663), ma che era anche giunto il tempo di spalancare un varco in una concezione biologica strettamente determinista dello sviluppo, la quale considerava l'istogenesi e l'organogenesi come l'esito di un processo di rigida e irreversibile segregazione di cellule embrionali pluripotenti e multipotenti. In quegli stessi anni si apriva nella comunità scientifica dei biologi cellulari un ampio dibattito, tuttora inconcluso, sulla "plasticità" e la "transdifferenziazione" intra-germinale e trans-germinale delle cellule staminali dei tessuti fetali e dell'adulto (F. Mohn e D. Schübeler, "Trends in Genetics", 2009, 25, pp. 129-136; A. Jaishankar e K. Vrana, "Biotechniques", 2009, 46, pp. 367-371). Questo processo di revisione concettuale non ha rappresentato solamente il tentativo di superare un paradigma teorico della biologia cellulare ormai inadeguato ad interpretare le nuove osservazioni in vivo ed i risultati delle colture in vitro (S. Huang, "BioEssays", 2009, 31, pp. 546-560), ma ha anche suggerito percorsi di ricerca che hanno condotto, in pochi anni, alla possibilità di indurre sperimentalmente la pluripotenza staminale in cellule pre-differenziate o addirittura già differenziate.

Osservazioni, interpretazioni, discussioni e prospettive di sviluppo della ricerca sulle cellule staminali e la terapia cellulare, raccolte e confrontate con le riflessioni antropologiche e morali di filosofi e teologi, hanno consentito alla Chiesa di pronunciarsi in questa delicata e complessa materia scientifica ed etica dapprima con un documento di studio e di istruzione emanato dalla Pontificia Accademia per la Vita (Dichiarazione sulla produzione e sull'uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali umane, 25 agosto 2000). Il testo giungeva alla conclusione che la "possibilità di utilizzare cellule staminali adulte per raggiungere le stesse finalità che si intenderebbe ottenere con le cellule staminali embrionali - anche se si richiedono molti ulteriori passi prima di vederne risultati chiari e definitivi - indica questa come la via più ragionevole e umana da percorrere per un corretto e valido progresso in questo nuovo campo che si apre alla ricerca e a promettenti applicazioni terapeutiche".

Alcuni giorni dopo, Giovanni Paolo II, parlando della "ricerca scientifico-tecnologica nel settore dei trapianti" dinnanzi ad un gruppo di scienziati e medici riuniti a Roma, dichiarava che "la scienza lascia intravedere altre vie di intervento terapeutico che non comportano né la clonazione né il prelievo di cellule embrionali, bastando a tale scopo l'utilizzazione di cellule staminali prelevabili in organismi adulti. Su queste vie dovrà avanzare la ricerca, se vuole essere rispettosa della dignità di ogni essere umano, anche allo stadio embrionale" (Discorso al XVIii International Congress of the Transplantation Society, 29 agosto 2000).

L'affermazione del Papa, in continuità con il precedente magistero sul "rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'embrione umano" (Evangelium vitae, 60, e documenti ivi citati), non solo ha precisato e definito la posizione della Chiesa cattolica attraverso il richiamo antropologico all'altissima dignità individuale di cui gode l'essere umano sin dal concepimento ed alla conseguente esigenza morale di una tutela e cura particolare della sua vita ed integrità, ma ha anche indicato - assumendo il metodo stesso con il quale le scienze biologiche e mediche studiano le caratteristiche delle cellule e si preparano ad impiegarle nella terapia dei trapianti - una linea di ricerca positiva e percorribile, che valorizza tutte le proprietà clonogeniche, epigenetiche e rigenerative che la ricerca sulle cellule staminali mette in luce quando è condotta tenendo conto di tutti i fattori che la loro multiforme realtà citologica dischiude all'intelligenza dello studioso.

Non sono tuttavia mancate alcune voci che, all'indomani del discorso di Giovanni Paolo II e fino ai giorni presenti, hanno sollevato obiezioni e perplessità circa la proposta di abbandonare la ricerca sulle cellule dell'embrione umano in favore di quella sulle staminali non embrionali, giudicandola una limitazione della libertà di ricerca e delle prospettive di sviluppo della terapia cellulare posta in nome di un giudizio che attinge a criteri ritenuti impervi alla misura della ragione - in quanto espressione di una concezione della realtà che eccede quella dettata dalla constatazione empirica dei fenomeni - e, dunque, estrinseci alla scienza e alla medicina moderna che su tale esercizio della ragione calcolatrice hanno costruito il proprio sapere ed agire. A ben vedere, sono proprio le più recenti acquisizioni scientifiche sulla riprogrammazione genetica, la reversibilità della restrizione di potenza epigenetica e l'induzione della staminalità cellulare a mostrare come gli orizzonti della ricerca sulle cellule non embrionali (fetali, cordonali e dei tessuti dell'adulto) quali candidate alla terapia cellulare siano assai più ampi di quelli legati alle staminali embrionali.

I primi offrono, infatti, grandi opportunità e spazi per la libertà intelligente e creativa dello studioso che da ogni particolare della realtà biologico-molecolare delle cellule, anche imprevedibile e imprevisto, sa trarre vantaggio per conquistare terreno nel campo della terapia cellulare senza perdere di vista lo scopo ultimo della sua opera, che solo rende onore alla sua fatica e lo vede collaboratore del Creatore nella cura della sua creatura prediletta: il servizio all'uomo malato nel rispetto della vita e della dignità di ogni uomo, dal primo all'ultimo istante della sua esistenza.
Oltre all'incessante caratterizzazione di ulteriori linee di cellule staminali multipotenti identificate in un numero crescente di tessuti umani fetali e dell'adulto, nonché nel sangue cordonale (S. Ruhil e altri, "Current Pharmaceutical Biotechnology", 2009, 10 pp. 327-334), nel liquido amniotico (O. Parolini e altri, "Regenerative Medicine", 2009, 4 pp. 275-291) e nella placenta (M. Evangelista e altri, "Cytotechnology", 2009, 58, pp. 33-42), che presentano interessanti, anche se limitate, capacità di autoreplicazione e differenziazione epigenetica, la ricerca si è recentemente arricchita di una nuova e promettente prospettiva, quella della induzione in vitro di cellule staminali pluripotenti, con caratteristiche di staminalità simili a quelle delle cellule embrionali. L'evidenza della capacità di un nucleo, anche di una cellula completamente differenziata, di essere "riprogrammato" fino alla competenza necessaria per sostenere lo sviluppo di una cellula totipotente in un organismo animale completo di tutti i tessuti dell'adulto - secondo il processo di clonazione da cellule somatiche inaugurato con la pecora Dolly (I. Wilmut e altri, "Nature" 1997, 385, pp. 810-813) - aveva suggerito la possibilità che cellule multipotenti, pre-differenziate ed anche già differenziate di un paziente potessero subire una modificazione del loro stato epigenetico, fino a ricondurle ad una primordialità pluripotente di tipo staminale utile per la generazione di linee "personalizzate" di cellule destinate ad innesti terapeutici autologhi sullo stesso paziente, evitando così la barriera immunologica senza ricorrere alla clonazione di embrioni umani.

La strategia, scientificamente solida e prima facie eticamente accettabile, ha iniziato a concretizzarsi grazie al lavoro di due ricercatori giapponesi, Kazutoshi Takahashi and Shinya Yamanaka, dell'Università di Kyoto, che sono riusciti a convertire dei fibroblasti di topo adulto in colture di cellule staminali pluripotenti con proprietà morfologiche e proliferative simili a quelle delle staminali embrionali (K. Takahashi e S. Yamanaka, "Cell", 2006, 126, pp. 663-676). La riprogrammazione cellulare è stata resa possibile grazie all'induzione dell'espressione di almeno quattro fattori di trascrizione (Oct3/4, Sox2, c-Myc e Klf4) ottenuta mediante transfezione retrovirale dei corrispondenti cDna. I fattori di trascrizione utilizzati erano stati identificati attraverso lo studio dei profili di espressione genica delle cellule staminali embrionali. Successivamente, cellule di tipo staminale pluripotente sono state ottenute, mediante un processo di induzione simile a quello utilizzato nel modello murino, anche a partire da cellule mature dell'uomo, quali i fibroblasti dermici (K. Takahashi e altri., "Cell", 2007, 131, pp. 861-872; J. Yu e altri, "Science", 2007, 318, pp. 1917-1920; Park e altri, "Nature", 2008, 451, pp. 141-146), i cheratinociti (T. Aaasen e altri, "Nature Biotechnology", 2008, 26, pp. 1276-1284) e cellule del sangue periferico dell'adulto (Y. H. Loh e altri, "Blood" 2009, 113, pp. 5476-5479).

Nei mesi scorsi, due gruppi indipendenti di ricercatori hanno documentato, in pazienti affetti da anemia di Fanconi e beta-talassemia, l'effettiva riprogrammazione a staminali pluripotenti delle loro cellule somatiche (fibroblasti dermici), la correzione in vitro del difetto genetico, e la capacità delle staminali pluripotenti indotte di dare origine a progenitori ematopoietici autologhi della linea eritroide e mieloide, esenti dalla patologia ereditaria di cui soffrono i pazienti e candidabili per studi di innesto terapeutico (A. Roya e altri, "Nature", 2009, 460, pp. 53-59; L. Ye e altri, "Proceedings of the National Academy of Sciences Usa", 2009, 106, pp. 9826-9830). Il percorso sperimentale da compiere prima di giungere a procedure di laboratorio affidabili, standardizzate e sicure, ed a protocolli clinici validati ed estendibili a differenti patologie e diverse categorie di pazienti, è ancora lungo e complesso, ma - come gli stessi autori hanno sottolineato - "la prova del concetto che la tecnologia delle cellule iPS (staminali pluripotenti indotte) può essere usata per generare cellule specifiche del paziente corrette per la malattia (di cui soffre), con un potenziale valore per la terapia cellulare" (A. Roya e altri, p. 53), è stata fornita attraverso consistenti dati sperimentali. Sono attualmente oggetto di intenso studio in diversi laboratori nuove tecniche in vitro per l'induzione della riprogrammazione cellulare senza il ricorso a vettori retrovirali o lentivirali, che suscitano problemi di sicurezza relativi alla eventualità di una attivazione dei proto-oncogeni oppure di una riattivazione transgenica di c-Myc e degli altri fattori di trascrizione la cui espressione prolungata potrebbe inibire l'efficiente differenziazione delle cellule iPS nei fenotipi cellulari desiderati e provocare la formazione di teratomi nei tessuti dei pazienti. Gli approcci alternativi che sono già stati sperimentati comprendo l'uso di vettori adenovirali, plasmidi e molecole di sintesi chimica, oppure, in alternativa, la rimozione dei transgeni una volta completata la riprogrammazione cellulare (S. Yamanaka, "Cell", 2009, 137, pp. 13-17).

Queste considerazioni, unite a quelle che derivano da numerosi recenti studi condotti su cellule staminali di diversa origine tessutale e coltivate secondo differenti prospettive di espansione, differenziazione e innesto, confortano la ragionevolezza ed il realismo della posizione della Chiesa in merito alla terapia cellulare, secondo la quale "è da incoraggiare l'impulso e il sostegno alla ricerca riguardante l'impiego delle cellule staminali adulte" che "presentano una loro versatilità" ed alle quali "studi e sperimentazioni di alto livello scientifico tendono ad accreditare (...) risultati più positivi" per la terapia cellulare rispetto a quelli sinora ottenuti con le staminali embrionali (Dignitas personae, 31-32; cfr. Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sul tema "Le cellule staminali: quale futuro in ordine alla terapia?", 16 settembre 2006).

Dinnanzi allo spettro, talora paventato con riferimento alla questione della ricerca di cellule pluripotenti per uso terapeutico, di un nuovo conflitto tra Chiesa e uomini di scienza, simile a quello che coinvolse nel XVIi secolo il fisico e astronomo pisano Galilei, occorre ricordare - al di là di ogni approfondito "esame del caso Galileo" e "nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano" (Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10 novembre 1979) - che la posizione del magistero cattolico in merito allo sviluppo di terapie cellulari basate sull'impiego di cellule staminali è maturata in un sincero clima di ascolto e di dialogo tra biologi, medici, filosofi e teologi, non privo di un serrato confronto tra posizioni diverse e distanti, ma costruito attorno alla stima della ragione quale fondamento del giudizio, una stima preziosa che è comune alla scienza e alla fede.

È la medesima ragione che consente di leggere i due "libri" che, secondo lo stesso Galileo (cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana, 1615; Il Saggiatore, 1623, capitolo 6), Dio ha offerto alla nostra intelligenza: quello della natura, indagata dalla biologia alla ricerca di cellule capaci di svelare i segreti della rigenerazione dei tessuti e offrire nuove opportunità per la cura delle malattie, e quello della Sacra Scrittura, rivelatrice dell'origine e del destino dell'unica creatura voluta per essere "immagine e somiglianza" del Creatore (cfr. Genesi, 1, 26; Salmi, 8, 6; Sapienza, 2, 23; Siracide, 17, 3; Romani, 8, 28-29), da Lui conosciuta e amata ancor prima della nascita (cfr. Geremia, 1, 15; Salmi, 139[138], 13; Giobbe, 10, 8-12; 2 Maccabei, 7, 22-23) e chiamata a partecipare alla vita stessa di Dio (cfr. Giovanni, 3, 15; 6, 40; 11, 25-26).

Nella valorizzazione di ogni aspetto che affiora dalla ricerca biologica e medica ed è capace di far intravedere una via verso la terapia cellulare che non tradisca né le ragioni della fede né quelle della scienza, la Chiesa ha difeso la struttura originale della ragione - la sua apertura a tutti i fattori della realtà - più di quanti hanno circoscritto il loro interesse investigativo ed applicativo alla sola staminalità di tipo embrionale, volgendo le spalle ad alcuni indizi preziosi che il "libro della natura" lascia ripetutamente trapelare per farci scoprire come esso non sia in contraddizione con quello della Rivelazione, non potendo lo stesso Autore contraddire se stesso (cfr. Tommaso d'Aquino, Summa contra Gentiles, VII). In questa prospettiva non mancano segnali di una crescente attenzione alla composizione sinfonica delle evidenze e delle esigenze della scienza, della filosofia e della teologia, "grazie alla passione e alla fede di non pochi scienziati, i quali - sulle orme di Galileo - non rinunciano né alla ragione né alla fede; anzi, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità". (Benedetto XVI, Omelia nella solennità dell'Epifania del Signore, 6 gennaio 2009)



(©L'Osservatore Romano 5 agosto 2009)
Caterina63
00martedì 8 settembre 2009 19:28
In un'anteprima del bimestrale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore "Vita e Pensiero"
due opinioni a confronto sui concetti che stanno alla base dell'attuale dibattito bioetico

Qual è la vita che difendiamo?




La rivista dell'Università Cattolica del Sacro Cuore "Vita e Pensiero" propone un dibattito sul tema "Bioetica, in che senso parlare di "vita"?". Pubblichiamo integralmente i due articoli messi a confronto nel numero in uscita il 9 settembre.



di Lucetta Scaraffia

Durante il viaggio in Africa del Papa, mentre ferveva la battaglia su preservativi e Aids, su una vignetta umoristica di un quotidiano italiano due personaggi si domandavano: "La Chiesa difende la sacralità della vita?" diceva l'uno. E l'altro: "Anche quella dei virus!". Lasciando da parte la malignità insita nella scenetta, bisogna ammettere che essa toccava un problema: cosa vuol dire difendere la vita? Qual è la vita che difendiamo? Che cosa è la vita? Sono domande che non ci si pone di solito, preferendo lasciare nel vago tutta la questione: proprio per questo risulta estremamente interessante e stimolante la lettura di uno degli ultimi saggi di Ivan Illich (La construction institutionelle d'un nouveau fétiche: la vie humaine, in Oeuvres complètes, ii, 2005) che affronta di petto il problema segnalando quelli che sono, secondo lui, i pericoli che corre la cultura cattolica nel farsi difensore di questo concetto.
Secondo Illich, la Chiesa intrattiene una relazione istituzionale con una sorta di nuova entità chiamata "vita", che è diventata il soggetto di nuovi discorsi, e di cui si parla come di qualcosa di prezioso, minacciato e raro. Qualcosa che si presta a una gestione istituzionale ed esige la formazione di "specialisti" sempre nuovi. Chi usa questa nozione, scrive Illich, dimentica che essa ha una storia specifica dell'Occidente, che "l'accettazione di una vita sostanzializzata come realtà divinamente conferita si presta a una corruzione della fede cristiana".

Oggi il termine "vita" - lamenta Illich - è usato a proposito e sproposito per qualsiasi cosa, si parla di "vita umana sulla Terra" che è al centro della mitologia delle nuove scienze ecologiche, è un nuovo genere di costruzione sociale che nessuno oserebbe mettere in questione. È suscettibile di essere gestita, migliorata e valutata in termini di risorse disponibili, cosa che non faremmo mai quando parliamo di "persona". Questa "gestione" della vita ha il potere di designare norme di salute, di educazione, di sviluppo e altri idoli moderni - scrive Illich - e la mancanza in rapporto a questi "valori" è vissuta come un bisogno che, a sua volta, si traduce in un diritto.
Le Chiese, utilizzando il loro potere di creare dei miti, nutrono, consacrano e santificano questa nozione astratta di vita umana che non ha nulla a che vedere con la tradizione cristiana. Si permette così a questa identità spettrale di rimpiazzare progressivamente la nozione di "persona" alla quale è ancorato l'umanesimo dell'individuo occidentale. Questo processo di sostituzione del termine "persona umana" con il concetto astratto di vita, sostiene Illich, è iniziato quando la "mano d'opera" è diventata oggetto di studio, di promozione, di investimento e di miglioramento, cioè da quando questo concetto in sé astratto ha preso l'aspetto di una realtà compatta. Oggi i bambini imparano a pensare in termini di "risorse umane" e non di persone umane. Ed è proprio questa esperienza quotidiana di una esistenza gestita che ci porta a prendere per reale un mondo di entità fittizie come l'educazione universale, lo sviluppo sociale, il "progresso" delle cure della salute, utilizzando parole che suggeriscono qualcosa di positivo perché scientifico, moderno, avanzato.

In questo deserto semantico pieno di echi confusi, noi abbiamo bisogno di un "feticcio prestigioso" che ci permetta di presentarci come nobili difensori di valori sacri: nel passato lo sono stati "la giustizia sociale", "la pace nel mondo", oggi il nuovo feticcio è "la vita". Ci sono i difensori della vita e i loro avversari, ma in sostanza chi gestisce la vita è la medicina: per questo la Chiesa si è conquistata una nuova posizione sociale che offre un quadro a queste attività mediche sotto le spoglie di un discorso etico.
L'Occidente cristiano - scrive Illich - ha dato vita a un tipo di condizione umana assolutamente singolare, venuto a maturazione in quello che Ellul chiama "il regime della tecnica", tale da aprire un nuovo ruolo alle istituzioni che creano miti, moralizzano, legittimano, cioè un nuovo ruolo al concetto di "vita". Questo non presenta alcuna somiglianza con le ideologie conflittuali che la Chiesa ha affrontato nella prima fase della secolarizzazione, quando uno Stato nemico tentava di cancellarla: ora si cerca di rendere superfluo il suo ruolo con dei poteri che promuovono l'assistenza, lo sviluppo e la giustizia. Gesù ha detto "io sono la Vita" e non una vita, pertanto essere semplicemente viventi non significa possedere questa Vita. Del resto, nell'Evangelium vitae Giovanni Paolo II dice che "la vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini non si riduce alla sola esistenza nel tempo".

Oggi invece il termine - ribadisce Illich - viene usato per definire una sostanza, di cui il medico si assume piena responsabilità, che le tecniche possono prolungare. Ma questa idea di vita, considerata come un possesso, come un valore, una risorsa nazionale, un diritto, è una nozione esclusivamente occidentale, ricorda Illich. I movimenti cristiani di difesa della vita hanno svolto un ruolo di primo piano nella costruzione sociale di questo idolo, perché, egli denuncia, oggi incombe una tentazione deplorevole sulle confessioni cristiane: "quella di collaborare alla creazione sociale di un feticcio che, in una prospettiva teologica, rappresenta il travestimento, come idolo, della vita rivelata".

Il termine "vita" in questa concezione sostanzializzata è entrato in scena nei primi anni dell'Ottocento, quando Lamarck forgiò il termine "biologia" per definire un nuovo campo di indagine, la "scienza della vita". Dopo Lamarck la vita non è più una questione eterna, ma la trivializzazione delle esplorazioni della ricerca scientifica per tutta una serie di fenomeni come la riproduzione, la fisiologia, l'ereditarietà, l'organizzazione, l'evoluzione, ecc.
Si crea una nuova coscienza, che non si muove più nell'ambito della comprensione della natura come vivente, come matrice da cui nascono tutte le cose: con la rivoluzione scientifica si afferma infatti il modello meccanicista, che diventa l'unica spiegazione del mondo, operando quello che la scienziata Caroline Merchant ha definito come "morte della natura". Come spiegare la presenza di forme viventi in un cosmo morto? Secondo Illich, la risposta a questo problema è la nozione di vita sostanzializzata, che diventa una formula passepartout per colmare questo vuoto.

Ed è proprio attraverso questa nozione di vita che l'homo oeconomicus, cioè quello che il postulato utilitarista considera un essere definito dai bisogni, diviene il referente della riflessione etica. Il concetto di vita tende infatti a vuotare di contenuto la nozione legale di persona - i medici non sono più responsabili di un paziente, ma di una vita - e questo feticcio astratto ci fa credere, da un secolo, che la "preservazione della vita" costituisca un fine supremo dell'azione umana e dell'organizzazione sociale.
Quella di Illich è una denuncia pesante, ma non del tutto nuova: per certi aspetti, infatti, Illich riprende un filo di pensiero già elaborato da Michel Foucault nelle lezioni tenute al Collège de France dal 1978 al 1979 (Naissance de la biopolitique, 2004). Anche Foucault vede all'origine dei cambiamenti che coinvolgono la vita umana il concetto di "capitale umano", che apre la possibilità di reinterpretare in termini economici tutto un ambito che fino a oggi poteva essere considerato di fatto non parte della sfera economica, come il corpo umano. Da questo momento, invece, l'economia si assume il compito di analizzare il comportamento umano e la sua razionalità. Il capitale umano, cioè la vita umana, è composto da elementi innati e acquisiti: in teoria, il nostro corredo genetico, l'elemento innato, non costa niente ma già alla fine degli anni Settanta Foucault prevedeva che, con i progressi della genetica, avrebbe potuto diventare un bene economico.

Proprio la rarità dei buoni corredi genetici, infatti, avrebbe potuto essere oggetto di controllo, di filtro, di miglioramento sempre al fine di ottenere un capitale umano, quindi una qualità della "vita", più elevati.

Intuizioni, queste di Foucault, confermate dalla realtà attuale: oggi le tecnologie che riguardano la vita (bio-tecnologie, nano-tecnologie) costituiscono un fattore determinante nell'economia mondiale. Chi è capace di padroneggiare le nuove tecnologie, e di esportare questo sapere, è avvantaggiato nell'equilibrio di forze mondiale.

Ma questa vita trasformata in bene economico, su quale teoria scientifica si fonda?

Nel libro che ha dedicato al concetto di vita, lo studioso della scienza André Pichot (Histoire de la notion de vie, 1993), dopo avere ripercorso la storia di questa nozione nella biologia, arriva a vederne il senso ultimo nella biochimica (soprattutto nella forma di "biologia molecolare") che ha messo in evidenza la perfetta identità della natura della materia, e delle leggi che la governano, fra gli esseri viventi e gli oggetti inanimati. Ma ridurre la vita a formule biochimiche viene considerato da Pichot come il tentativo della biologia di sbarazzarsi della nozione di vita, di cui non si sa cosa fare nel lavoro scientifico. Si trova così costretto ad ammettere che il problema della specificità dell'essere vivente non è affrontato dalla biologia moderna. Pichot propone allora una definizione di essere vivente come "entità disgiunta per la sua evoluzione individuale" da quella dell'ambiente in cui vive. Per cui morire sarebbe "raggiungere il proprio ambiente ed evolvere con lui (cioè cessare di differenziarsi)". Il fisico premio Nobel Erwin Schrodinger, uno dei fondatori della biologia molecolare, nella sua opera What is life? (1944) scrive che "la vita appare essere un comportamento ordinato e regolamentato dalla materia". Quindi, già prima della scoperta del Dna (1953), situa lo studio del funzionamento del vivente al livello psico-chimico, cioè al di fuori della questione della vita stessa.

La storica della scienza Lily Kay dimostra come nella nozione di "codice", così come in quella di "programma genetico", si nasconde l'idea di decifrare la vita - Crick e Watson hanno annunciato la scoperta del Dna con la frase "abbiamo scoperto il segreto della vita" - con l'intento di dominarla, superando i limiti della morte. Il proseguimento della vita in sé diviene così un obiettivo indipendente da ogni altra dimostrazione culturale, sociale o politica. Il mantenimento e l'allungamento della vita diventano la base del bio-potere esercitato dallo Stato, a tal punto che la salute e la sicurezza vanno a costituire, all'alba del xxi secolo, la vera posta in gioco della lotta politica.

Vediamo quindi come il sapere scientifico, che incarna l'onnipotenza della ragione, distrugge il regime cristiano di immortalità trasformando la morte in una sconfitta biologica, in una malattia.
Ma allora, sarebbe questa la nozione di "vita" a cui fa riferimento il discorso cattolico? Foucault ci mette in guardia, come Illich, dalla trasformazione degli esseri umani in entità astratte ed economicamente gestibili, come il "capitale umano"; Pichot spiega quale sia, oggi, il problema della biologia nei confronti della nozione di vita: di sicuro, nessuna delle definizioni da lui analizzate corrisponde all'idea di "vita" oggi utilizzata dal nostro contesto culturale. Se ne può dedurre che si tratta di un termine vago, dal significato facilmente manipolabile - si può dire che quella di Eluana "non è vita", ad esempio - che si presta a un controllo delle istituzioni e a un utilizzo ideologico. Niente a che vedere con il complesso - e unico - significato di persona, né tanto meno con il concetto di Vita di cui ha parlato Gesù. Non sarebbe meglio, allora, invece che di vita in senso astratto, parlare dei problemi delle singole creature - siano essi embrioni o feti, o malati senza speranza di guarigione - e difenderle, occuparsi della loro condizione fragile e delle possibilità di intervenire per proteggerle da tentativi di distruzione?

Bisogna riflettere sulla provocazione di Illich: i cattolici devono essere capaci di trasmettere l'amore per la Vita come è intesa nelle parole di Gesù, una Vita che diventa amore per le creature sofferenti, e non continuare a diffondere e sostenere un concetto biologico astratto che è estraneo alla nostra tradizione, che spesso ci rende ideologici e poco credibili.



Parole pericolose nel gioco degli equivoci



di Adriano Pessina

La parola bioetica unisce di fatto due questioni "vitali": quella del bìos, termine che in senso lato indica la vita, umana e non, e quella dell'èthos, che indica la vita che gli uomini costruiscono e conducono insieme, esprimendone così il senso (significato e direzione). In fondo la bioetica sorge, anche nell'intuizione dell'oncologo Potter, che è stato tra i primi, se non il primo, a coniare questo termine, per difendere la vita e non semplicemente per tutelare le scelte e le volontà degli uomini. Ma il concetto di vita è molto esteso. Gli uomini amano usare con una certa disinvoltura le parole che coniano, oscillando tra usi equivoci e usi analoghi, ed è abbastanza evidente che il termine vita è di fatto predicato, cioè riferito, a contesti tra loro molto differenti. Siamo soliti parlare della vita politica, della vita religiosa, della vita sociale, della vita degli uomini, della vita degli animali.

E se ora usiamo il termine qualità della vita per indicare stati di salute, non possiamo dimenticare che questo vocabolo è stato pensato e usato all'interno dell'economia. Non si può certo dubitare della centralità della nozione di vita, che fin dall'antichità è servita per indicare esperienze e conoscenze che riguardavano l'uomo e Dio, la vita spirituale e la vita eterna. E dobbiamo ad Aristotele il tentativo di distinguere viventi e non viventi attraverso il concetto di anima, attribuito alle piante, agli animali e all'uomo. L'anima, come principio immanente e vitale, dava ragione dell'unità del vivente e della pluralità delle sue funzioni, che nell'uomo culminavano nell'attività cognitiva.

Ed è grazie a questa definizione della vita umana che, in seguito, nella tradizione cattolica il concetto teologico di persona potrà essere attribuito anche all'uomo, e non soltanto a Dio e agli angeli. Ma si può ancora parlare di vita, oggi che della vita si è impadronito il linguaggio delle scienze sperimentali? La Chiesa non dovrebbe sottrarsi, come scrive Lucetta Scaraffia, sulla scorta di alcune letture di testi di Illich, Foucault, Pichot, a un riferimento a un concetto "biologico astratto" di vita e tornare a parlare di persona o promuovere la Vita "come è intesa nelle parole di Gesù", evitando così di essere fraintesa? Personalmente ritengo che la questione possa essere affrontata anche da un'altra angolatura.
Certo, qualcuno è infastidito, e persino irritato, dal fatto che la Chiesa, in particolare la Chiesa cattolica, torni con insistenza a farsi promotrice della "difesa della vita" e consegni al pensiero filosofico e alla cultura secolarizzata l'immagine di una sacralità della vita, che va ben al di là del concetto, tutto moderno, di dignità della vita. Difendere la vita è un progetto opposto rispetto a quello del "governare la vita". Ed è questa la tentazione rinascente nell'epoca della tecnologia e della possibilità della manipolazione genetica ed eugenetica. Il nuovo antropocentrismo occidentale coltiva la speranza di poter finalmente fare della vita, non soltanto della vita umana, ma della vita tout court, l'oggetto della propria scelta e della propria progettualità. In fondo, il venire al mondo è, per ogni essere umano, l'esperienza di una passività originaria, di una dipendenza costitutiva, di un legame che è anche la radice dell'umano, perché si nasce da altri uomini e si diventa uomini in mezzo ad altri uomini. La vita umana non è una cosa che si aggiunge all'umano, è il concreto esserci qui e ora di qualcuno: non si può, infatti, farsi astrattamente promotori della dignità umana, della persona umana, senza farsi promotori della vita umana.

Ma questo non significa che la vita non sia niente in sé, o si riduca alla corporeità, su cui si esercita la ricerca e la sperimentazione scientifica.

Infatti, anche se la biologia, per definizione, sembrerebbe occuparsi della vita, in realtà si occupa sempre ed esclusivamente di corpi viventi, cioè di organismi, o di materia vivente, cioè di cellule, tessuti, organi e via dicendo. In fondo, sappiamo che cosa sono e come funzionano i viventi, ma ignoriamo che cosa sia la vita in sé. Inoltre il concetto di vita è più esteso di quello di corpo e di vivente e, infatti, lo usiamo per definire delle relazioni, come quando parliamo della vita sociale, della vita politica, della vita spirituale, della stessa vita "eterna". Nella fede cristiana, la stessa Trinità è definita in termini di relazione tra le Tre Persone divine. Sono molti i motivi per cui la Chiesa ama affermare la sua difesa della vita e non soltanto dell'uomo e dei singoli viventi: essa non dimentica mai che la vita è sempre partecipazione della stessa vita di Dio creatore.

La mossa teorica con cui alcuni filosofi contemporanei hanno cercato di sostituire alla nozione di vita umana quella di persona umana non è innocente, così come non sono innocenti le parole. Che cosa intendo dire con questa affermazione? In primo luogo voglio mettere in luce che le parole possono nuocere, cioè fare del male quando di fatto stravolgono, in un gioco di equivoci, i significati usuali e ne introducono, di nascosto, altri, non pensati o non pensabili. La parola persona, che ci è così familiare perché in gran parte ereditata dalla tradizione, complessa, articolata e ricca di sfumature, della teologia cristiana, oggi è usata secondo un significato che affonda le sue radici nell'epoca moderna, e nel dibattito contro la teologia trinitaria, e di solito indica l'uomo adulto, cosciente di sé e autonomo: l'essere razionale coltivato e cullato dalle filosofie di tradizione kantiana e fatto proprio dai modelli di teoria liberale che hanno in Rawls il loro profeta.
Che cosa c'è di male in questa nozione, che di fatto identifica la persona con l'agente morale (cioè con chi agisce liberamente e autonomamente)? In sé nulla, purché sia chiaro che quel termine non indica l'uomo concreto, quello che noi siamo, perché l'uomo non è un astratto essere razionale, ma è un vivente che diviene nel tempo, che inizia a esistere prima di essere cosciente di sé, che può subire la privazione temporanea o permanente della coscienza di sé, che vive la propria soggettività anche quando non sa esprimerla, che nel ciclo quotidiano del sonno e della veglia sperimenta il fatto che la sua vita è più ricca e complessa della stessa coscienza che ne ha.

L'epoca moderna ha cambiato l'ordine dei fatti attraverso il celebre motto cartesiano "penso, dunque sono" e la lapidaria frase di Locke, "senza coscienza non c'è persona". In realtà l'esperienza ci dice esattamente l'opposto, non si può pensare se non si è uomini, ma proprio perché l'uomo non è il pensiero o la sua coscienza si può essere uomini senza aver coscienza di sé e senza pensare. Il mito della soggettività ha offuscato, in molti, il senso della realtà, di quel sano realismo ed empirismo che non è mancato a gran parte della tradizione cristiana.

Cerco di spiegarmi, in poche parole, affrontando una questione complessa, ma per certi versi decisiva. Oggi si sente spesso dire che la domanda intorno alla persona umana deve iniziare con un chi è e non con che cosa è. Credo che sia, benché in buona fede, un abbaglio metodologico quello che inizia a porre la questione ultima al posto della questione prima. Infatti, soltanto perché so che cosa è una persona umana posso anche sapere che costitutivamente, ontologicamente, è un soggetto, che la soggettività è inscritta nella sua concreta corporeità, quella che si palesa nella sua microscopica origine corporea e che si dipana nel tempo. Solo a certe condizioni, di salute e di sviluppo, questa soggettività diventerà cosciente di sé: ma si può diventare coscienti di sé soltanto se questo sé è già inscritto nella concreta vita umana, in quella nuda qualità della vita umana che è la costante della stessa persona umana. Il pensiero o la coscienza non creano la persona, la rivelano, la illuminano.

Ma non si può illuminare, rivelare, manifestare ciò che non c'è.
E la soggettività che già c'è è quella propria della vita umana, così che si può dire che la soggettività antropologica è la condizione perché si manifesti la soggettività psicologica (che determina la personalità) e la soggettività morale (ciò che determina l'essere buono o no dell'uomo). Ebbene, la cultura contemporanea ha come annientato questa soggettività ontologica, sostanziale, che è la vita umana, in nome della soggettività psicologica e morale (per questo alcuni hanno detto che Eluana non era più una persona). Il progetto di manipolazione della vita embrionale (della soggettività embrionale) e di abbandono o eliminazione della soggettività segnata dallo stato di incoscienza (come nei casi dei cosiddetti "stati vegetativi") nasce in nome e in forza di questo culto della persona che, a ben vedere, è il frutto avvelenato del platonismo, cioè di quel dualismo tra anima e corpo, tra vita psichica e vita corporea, tra vita umana e vita personale, tra il che cosa è e il chi è dell'uomo, che governa gran parte delle teorie contemporanee.

Tommaso d'Aquino, con una mossa teorica che gli permetteva di conservare l'analogia del termine persona per esprimere la fede nella Trinità divina e per parlare dell'uomo, creatura voluta da Dio in sé, scriveva: "Perciò la persona, in qualsiasi natura, indica ciò che è distinto in quella natura: cioè nella natura umana significa questa carne, queste ossa, questa anima, che sono principio di individuazione per l'uomo; le quali cose, pur non facendo parte del significato di persona, tuttavia fanno parte di quello di persona umana" (Summa Theologiae, i, q. 29, a. 24).

L'individuo, il soggetto, perciò non è la sua anima, non è la sua razionalità, la sua coscienza, è questo concreto essere umano vivente che viene alla vita attraverso la trasmissione della vita. La filosofia di Tommaso ci permette, nel suo concreto realismo, di guardare nel microscopio elettronico per vedere come la vita umana sia da sempre qualificata come vita personale. Ma tutto ciò non è possibile se la nozione di vita è dissolta, vanificata, desostanzializzata a favore di una nozione di persona disincarnata, formale, procedurale.

Detto questo, occorre però fare un passo in più. L'insegnamento della fede, infatti, ci consegna un concetto di vita che, per così dire, trascende anche le diverse riflessioni che finora sono state date della vita e ci pone di fronte all'idea della partecipazione alla vita stessa di Dio che avviene nell'Incarnazione. Il Dio della creazione è anche il Dio della storia e nella storia: la difesa della vita diventa allora un richiamo al fatto decisivo per la fede, della partecipazione di tutta la vita al progetto di Dio, cioè alla sua presenza come Padre e come Fratello in Cristo. La fede cristiana non conosce nessun antropocentrismo che non sia teocentrismo. In questo senso, il Vangelo della vita è anche l'annuncio della salvezza a cui tutto il creato è chiamato, perché, come ricorda san Paolo, "tutta la creazione geme le doglie del parto in attesa della manifestazione...".

Da questo angolo visuale si capisce la differenza che separa l'annuncio cristiano dai progetti ecologisti contemporanei e dall'emergere delle teorie che attribuiscono diritti agli animali e li definiscono persone. Queste teorie sono il frutto maturo di un antropocentrismo radicale, che pone nella soggettività dell'uomo il fondamento del valore e del significato della realtà, il dispensatore di beni e di diritti, il nuovo padrone e signore della vita. L'uomo decide che cosa ha valore in nome delle proprie scelte e delle proprie decisioni: ciò che riconosce, vale, ciò che non riconosce, non vale nulla, è pura materia. La vita diventa oggetto di scelta e di selezione, di manipolazione e di progetto: la vita umana, quella vegetale, quella animale.

Nella fede cristiana la vita non è né un feticcio, né un progetto, ha una consistenza e un valore in sé, anche quando non serve all'uomo, persino quando lo minaccia.

Il fatto che alcuni viventi mettano in pericolo la vita umana, il fatto che l'uomo debba difendere la sua vita dalla minaccia di altri viventi, il fatto che l'uomo, come ogni altro vivente, si debba nutrire di altri viventi, non significa che questi viventi non abbiano alcun valore in sé, ma soltanto che non tutto ciò che è in sé buono è anche buono per l'uomo.

Cerco di spiegarmi: quando definiamo velenosi dei funghi o delle bacche, diciamo semplicemente che quei funghi e quelle bacche non sono buoni da mangiare per l'uomo, ma questo non significa che non abbiano alcun significato in sé, o alcuna funzione, perché spesso sono cibo per altri viventi e servono per l'equilibrio della vita di un bosco.

Pensare alla realtà sotto la categoria della creazione significa correggere la prospettiva utilitaristica e introdurre un altro punto di vista sulla vita: significa fare spazio alla prospettiva della bellezza, della gratuità, dell'imprevedibilità, dell'originalità. Non è una visione ingenua, che ignora l'esistenza degli opposti, che dimentica la fatica, il dolore, il sangue e la morte, i conflitti e le sconfitte: è una prospettiva che indica il senso (significato e direzione) della storia e del creato.

Questa direzione ha al centro un'affermazione: la morte non è la parola ultima sulla vita, sulla sua bellezza, sulla sua bontà, sulla sua imprevedibilità e originalità. Non si tratta di amare la vita sofferente, la vita malata, la vita morente, ma di amare la vita malgrado la sofferenza, malgrado il dolore, malgrado la morte. Il malgrado è ciò che va superato, perché il dolore, la sofferenza, la morte non sono in sé degni di amore: l'amore per la vita, nella fede del Dio vivente, non è un vago sentimento o una spontanea bontà d'animo, è un compito che trova la sua forza nel sentirsi amati sempre dal Dio della vita. Il contributo che la fede può dare al pensiero filosofico, alla riflessione bioetica, alla vita stessa degli uomini, non può essere ridotto nei limiti della pura ragione formale e non può limitarsi ad assecondare le ristrettezze linguistiche di un'epoca che mastica genericamente nozioni scientifiche.

La fede non parla di una vita diversa da quella di cui parla la biologia, la genetica, la filosofia: parla e difende la stessa vita perché in essa coglie impensati riflessi della presenza di Dio.



(©L'Osservatore Romano - 9 settembre 2009)



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Caterina63
00giovedì 19 novembre 2009 23:39
La sfida delle cellule staminali

Adulte è meglio




di Rino Fisichella
Arcivescovo Presidente della Pontificia Accademia per la Vita

Le cellule staminali sono oggi oggetto di prospettive e competizioni maggiori nel campo delle scienze e della medicina. È stato lo sviluppo degli studi sull'embrione umano che ha stimolato l'interesse per questo tipo di cellule e ha portato a partire dal 1998 a scoprire mezzi tecnici per isolarle e coltivarle in vitro. Queste cellule staminali embrionali si sono rivelate immediatamente molto interessanti per la biologia e la medicina.

Ciò che le rende per alcuni versi uniche nella loro specie è la proliferazione abbondante e la quasi illimitata possibilità di differenziazione in tutti i tipi di cellule dell'organismo. Queste cellule, tuttavia, hanno evidenziato profondi limiti per la loro utilizzazione terapeutica. Al di là dei gravi problemi etici che suscitano - per poter avere queste cellule si deve distruggere l'embrione - ciò che crea seri problemi presso gli scienziati è il rifiuto che viene loro opposto dalle difese immunitarie dell'organismo nel momento in cui sono trapiantate nel paziente, fino a generare tumori, e la loro sopravvivenza in coltura dovuta a cellule di topo. Si è visto, al contrario, che altre cellule staminali possono trovare maggior efficacia in diverse patologie; queste sono chiamate "adulte", se rinvenute nei diversi tessuti dell'organismo, o "ombelicali" se raccolte dal sangue del cordone ombelicale.

Il loro prelievo non pone nessun problema di ordine etico, non generano cancro nelle parti di trapianto e sono ben accettate dall'organismo dei pazienti. Un limite di queste cellule, purtroppo, è la loro mancanza di abbondante proliferazione, di potenziale differenziazione in tutti i tipi cellulari dell'organismo e di stabilità in coltura. È per questo motivo che alcuni scienziati rimangono maggiormente attratti dalle cellule staminali embrionali, nonostante i seri problemi a cui si è fatto cenno.
Nel settembre 2006 la Pontificia Accademia per la Vita si fece promotrice di un convegno per valutare le conoscenze acquisite sulle cellule staminali, sul loro reale potenziale e sulla possibile potenzialità nella prassi terapeutica. In quell'occasione, lo scienziato giapponese Shinya Yamanaka annunciò che contro ogni attesa era riuscito a riprogrammare delle cellule di topolini già differenziate per farle divenire delle cellule staminali indifferenziate, pluripotenti, dotate di tutte le qualità delle cellule staminali embrionali. Chiamò queste cellule "iPS" (induced Pluripotent Stem cells).

L'anno successivo, Yamanaka con alcuni colleghi pubblicò altri studi che riportavano ulteriori esperimenti di riprogrammazione cellulare partendo questa volta da cellule di pelle umana. In maniera indipendente da Yamanaka, anche il famoso ricercatore americano James Thomson era giunto agli stessi risultati di riprogrammazione cellulare, evidenziando il loro carattere innovativo. Questi studi, che hanno segnato una svolta decisiva nella ricerca sulle cellule staminali, sono stati giudicati lo scorso dicembre dalla prestigiosa rivista "Science Magazine", come il "passo più significativo" dell'anno. La tecnica di produzione di cellule iPS, infatti, ha permesso di realizzare ciò che era impensabile in materia di biologia cellulare: far passare cellule adulte differenziate allo stato di cellule immature, indifferenziate, di tipo embrionale. Ad oggi circa trecento laboratori sparsi per il mondo studiano queste cellule e ciò che merita attenzione è il fatto che numerose squadre di ricercatori sono passati dallo studio delle cellule staminali embrionali a quello delle cellule iPS.

È importante osservare che le cellule iPS non presentano solo le stesse caratteristiche delle cellule staminali embrionali umane in termini di proliferazione cellulare, stabilità e potenziale di differenziazione, ma le superano su almeno tre fronti. Il primo è di ordine etico: le iPS, infatti, non sono ottenute attraverso la distruzione della vita umana di embrioni vitali.

La loro riprogrammazione risolve pienamente le difficoltà etiche, rispettando la dignità e la vita umana. Con l'avvento delle cellule iPS, pertanto, si può considerare chiuso il dibattito etico che ha agitato l'opinione pubblica, i parlamenti e la comunità scientifica. Il secondo riguarda le applicazioni terapeutiche: le cellule iPS offrono il grande vantaggio di essere ottenute da cellule prelevate direttamente dal paziente. Ciò significa che nel momento del loro trapianto risultano immunocompatibili con l'organismo del paziente stesso e, dunque, perfettamente accettate.

Il terzo, infine, consente di verificare come le cellule iPS permettono di creare dei modelli di patologie. È sempre grazie a Yamanaka che si può parlare per l'immediato futuro di generazione di modelli cellulari delle malattie, in vitro, come la prima applicazione pratica di questa tecnologia. Si possono ricordare in proposito studi già effettuati con la produzione di cellule iPS a partire da cellule di pazienti con un gene mutato responsabile della sclerosi laterale amiotrofica (Sla) o di altre patologie quali il morbo di Parkinson, il diabete giovanile, l'atrofia muscolare spinale. La cosa, come si può ben osservare, non è affatto trascurabile, ma anzi presenta aspetti estremamente importanti soprattutto per la farmacologia.

Su queste recenti scoperte, è apparso importante offrire una nuova opportunità ai ricercatori e a quanti si interessano di cellule staminali. La Pontificia Accademia per la Vita, la Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici, la Fondazione Jérôme Lejeune e il Comitato Consultativo di Etica del Principato di Monaco si fanno promotori del secondo Congresso Internazionale sulle cellule staminali adulte dal titolo Adult somatic stem cells: new perspectives, che si terrà a Monaco dal 26 al 28 novembre.

Ci auguriamo che i risultati di questo importante Convegno possano permettere un ulteriore progresso nella ricerca scientifica sulle cellule staminali, attenta a rispettare l'integrità della vita umana e nello stesso tempo capace di rispondere con efficacia alla pressante necessità terapeutica, nel quadro di una medicina rigenerativa divenuta realtà.




(©L'Osservatore Romano - 20 novembre 2009)


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