La Liturgia e le sue espressioni di p. Michael Lang

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Caterina63
00lunedì 8 giugno 2009 20:13
La liturgia e le sue espressioni

Bellezza materiale e concretissima


di Uwe Michael Lang

La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come "lo stesso autore della bellezza" (Sapienza, 13, 3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione. Il pensiero cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria ontologica, anzi teologica. San Bonaventura è stato il primo teologo francescano a includere la bellezza tra le proprietà trascendentali, insieme all'essere, alla verità e alla bontà. I teologi domenicani sant'Alberto Magno e san Tommaso d'Aquino, pur non annoverando la bellezza fra i trascendentali, intraprendono un simile discorso nei loro commentari sul trattato pseudo-dionisiano De divinis nominibus, dove emerge l'universalità della bellezza, la cui prima causa è Dio stesso.

Nella condizione della modernità, ciò che è contestato è proprio la dimensione trascendente della bellezza, commutabile con la verità e la bontà. La bellezza è stata privata del suo valore ontologico ed è stata ridotta a un'esperienza estetica, addirittura a un mero "sentimento". Le conseguenze di questa svolta soggettivista si sentono non solo nel mondo dell'arte. Piuttosto, insieme con la perdita della bellezza come trascendentale, si è persa anche l'evidenza della bontà e della verità. Il bene è privo dalla sua forza di attrazione, come il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar ha rilevato con esemplare chiarezza nel suo opus magnum sull'estetica teologica Herrlichkeit (La gloria del Signore). 

Liturgia Certamente la tradizione cristiana conosce anche un falso tipo di bellezza che non innalza verso Dio e il suo Regno, ma invece trascina lontano dalla verità e bontà e suscita desideri disordinati. Il libro della Genesi rende chiaro che è stata una falsa bellezza a portare al peccato originale. Visto che il frutto dell'albero in mezzo al giardino era un vero piacere per gli occhi (Genesi, 3, 6), la tentazione del serpente provoca Adamo ed Eva alla ribellione contro Dio. Il dramma della caduta dei progenitori fa da sfondo a un passo, ne I Fratelli Karamazov (1880) dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881), dove Mitia Karamazov, uno dei protagonisti del romanzo, dice:  "La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini".

Lo stesso Dostoevskij nel suo romanzo L'idiota (1869) mette sulla bocca del suo eroe, il principe Mishkin, le famose parole:  "Il mondo sarà salvato dalla bellezza". Dostoevskij non intende qualsiasi bellezza, anzi, si riferisce alla bellezza redentrice diCristo. Nel suo messaggio magistrale per il Meeting di Rimini nel 2002, l'allora cardinale Joseph Ratzinger rifletteva su questo famoso detto di Dostoevskij, trattando l'argomento dalla prospettiva biblico-patristica.

Come punto di partenza, egli si serve del salmo 44, letto nella tradizione ecclesiale "come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa". In Cristo, "il più bello tra gli uomini", appare la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso.

Nell'esegesi di questo salmo, i Padri della Chiesa, come sant'Agostino e san Gregorio di Nissa, accoglievano anche gli elementi più nobili della filosofia greca del bello, mediante la lettura dei platonici, ma non li ripetevano semplicemente, poiché con la rivelazione cristiana è entrato un nuovo fatto:  è lo stesso Cristo, "il più bello tra gli uomini", al quale la Chiesa, ricordandolo come sofferente, attribuisce anche la profezia di Isaia (53, 2 ) "non ha bellezza né apparenza; l'abbiamo veduto:  un volto sfigurato dal dolore". Nella passione di Cristo si incontra una bellezza che va al di là di quella esteriore e si apprende "che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e (...) anche l'oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell'accettazione del dolore, e non nell'ignorarlo", come accenna l'allora cardinale Ratzinger.

Perciò, ha parlato di una "paradossale bellezza", pur notando che il paradosso "è una contrapposizione, ma non una contraddizione", quindi è nella totalità che si rivela la bellezza di Cristo, quando contempliamo l'immagine del Salvatore crocifisso, che mostra il suo "amore sino alla fine" (Giovanni, 13, 1).

La bellezza redentrice di Cristo si riflette soprattutto nei santi di ogni epoca, ma anche nelle opere d'arte che la fede ha generate:  esse hanno la capacità di purificare e di sollevare i nostri cuori e, così, di portarci al di là di noi stessi verso Dio, che è la Bellezza stessa. Il teologo Joseph Ratzinger è convinto che questo incontro con la bellezza "che ferisce l'anima e in questo modo le apre gli occhi" sia "la vera apologia della fede cristiana". Da Papa, ha ribadito questi suoi pensieri nell'incontro con il clero di Bolzano-Bressanone dell' 8 agosto 2008 e nel suo messaggio in occasione della recente seduta pubblica delle Pontificie Accademie del 24 novembre 2008:  "Questo" - ha detto il Santo Padre nella prima circostanza - "è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo:  cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano".

Occorre aggiungere che per Benedetto XVI la bellezza della verità si manifesta soprattutto nella sacra liturgia. Infatti, ha ripreso la sua riflessione sulla bellezza redentrice di Cristo nella sua esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis (22 febbraio 2007), dove riflette sulla gloria di Dio che si esprime nella celebrazione del mistero pasquale. La liturgia "costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. (...) elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria" (n. 35).

La bellezza della liturgia si manifesta anche attraverso le cose materiali di cui l'uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali:  l'edificio del culto, le suppellettili, le immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse. La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore. Nell'udienza generale del 6 maggio 2009, dedicata a san Giovanni Damasceno, noto come difensore del culto delle immagini nel mondo bizantino, Benedetto XVI spiega "la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell'Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell'incontro dell'uomo con Dio".

Va riletto in merito anche il capitolo sul "Decoro della celebrazione liturgica" nell'ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia del servo di Dio Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove insegna che la Chiesa, come la donna dell'unzione di Betania, identificata dall'evangelista Giovanni con Maria sorella di Lazzaro (Giovanni, 12; cfr. Matteo, 26; Marco, 14), "non ha temuto di "sprecare", investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell'Eucaristia" (47-48).

La questione liturgica è anche essenziale per la valorizzazione del grande patrimonio cristiano non soltanto in Europa, ma anche nell'America Latina e in altre parti del mondo, dove il Vangelo è stato proclamato da secoli.

Nel 1904, lo scrittore Marcel Proust (1871-1922) pubblicò un celebre articolo su "Le Figaro", intitolato La mort des cathédrales, contro la progettata legislazione laicista che avrebbe portato a una soppressione dei sussidi statali per la Chiesa e minacciava l'uso religioso delle cattedrali francesi.

Proust sostiene che l'impressione estetica di questi grandi monumenti sia inseparabile dai sacri riti per i quali sono state costruite. Se la liturgia non viene più celebrata in esse, saranno trasformate in freddi musei e diventeranno proprio morte.

Una simile osservazione si trova negli scritti di Joseph Ratzinger, cioè che "la grande tradizione culturale della fede possiede una forza straordinaria che vale proprio per il presente:  ciò che nei musei può essere solo testimonianza del passato, ammirata con nostalgia, nella liturgia continua a diventare presente vivo" (Introduzione allo Spirito della Liturgia, p. 152). Durante il suo recente viaggio in Francia, il Papa si è riferito a questa idea nella sua omelia per i vespri celebrati il 12 settembre 2008, nella splendida cattedrale Notre-Dame di Parigi, elogiandola come "un inno vivente di pietra e di luce" a lode del mistero dell'Incarnazione del Figlio di Dio nella beata Vergine Maria.

Era proprio lì, dove il poeta Paul Claudel (1868-1955) aveva avuto una singolare esperienza della bellezza di Dio, durante il canto del Magnificat ai vespri di Natale 1886, la quale lo condusse alla conversione. È questa via pulchritudinis che può diventare strada dell'annuncio di Dio anche all'uomo di oggi.


(©L'Osservatore Romano - 8-9 giugno 2009)

Caterina63
00martedì 9 giugno 2009 12:48
Riferimento dal testo sopra a:
Nel suo messaggio magistrale per il Meeting di Rimini nel 2002, l'allora cardinale Joseph Ratzinger rifletteva su questo famoso detto di Dostoevskij, trattando l'argomento dalla prospettiva biblico-patristica

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L'intervento

(20 aprile 2005)

"La bellezza, nostalgia di Dio"[SM=g1740717] [SM=g1740720]

Joseph Ratzinger

Pubblichiamo un ampio estratto della riflessione teologica che Ratzinger scrisse per commentare il tema dell’edizione 2002 del Meeting di Rimini: «Il sentimento delle cose, la contemplazione della bellezza».
 

Ogni anno, nella Liturgia delle Ore del Tempo di Quaresima,  torna a colpirmi  un paradosso che si trova nei Vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, l’una accanto all’altra, ci sono due antifone, una per il tempo di Quaresima, l’altra per la Settimana  Santa. Entrambe introducono il Salmo 44, ma ne anticipano una chiave interpretativa del tutto contrapposta. È il Salmo che descrive le nozze del Re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nel Tempo di Quaresima il salmo ha per cornice la stessa antifona che viene utilizzata per tutto il restante periodo dell’anno. È il terzo verso del salmo che recita: «Tu sei il più bello  tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia».

È chiaro che la Chiesa legge questo salmo come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra indica la bellezza interiore della Sua parola, la gloria del Suo annuncio. Così, non è semplicemente la bellezza esteriore dell’apparizione del Redentore ad essere glorificata: in Lui appare piuttosto la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso che ci attira a sé e allo stesso tempo ci procura la ferita dell’Amore, la santa passione (eros) che ci fa andare incontro, insieme alla e nella Chiesa Sposa, all’Amore che ci chiama...
Chi crede in Dio, nel Dio che si è manifestato  proprio nelle sembianze alterate di Cristo crocifisso come amore "sino alla fine" (Gv 13,1) sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente egli apprende anche che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e, sì, anche l’oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell’accettazione del dolore, e non nell’ignorarlo.

Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è  senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al "Fedro" di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo "entusiasma" attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto...

La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo... L’essere colpiti e conquistati  attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale...

L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima e in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei  criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti. Resta per me un’esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e altrettanto spontaneamente ci dicemmo:- "Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera".  In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore. E la stessa cosa non è forse evidente quando ci lasciamo commuovere dall’icona della Trinità di Rublëv? Nell’arte delle icone, come pure nelle grandi opere pittoriche occidentali  del romanico e del gotico, l’esperienza  descritta da  Kabasilas, partendo dall’interiorità, si è resa visibile e partecipabile. Pavel Evdokimov ha indicato in maniera così pregnante quale percorso interiore  l’icona presupponga. 

L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone,  come egli afferma, un  "digiuno della vista".  La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la "gloria di Dio sul volto di Cristo" (2, Cor 4,6). Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del  superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore,  ci rivela la bellezza, o almeno un raggio di essa. Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità.

Io ho spesso già affermato essere mia convinzione che la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i Santi, a entrare in contatto con il bello.

Ora però dobbiamo rispondere ancora ad un’obiezione. Abbiamo già respinto l’affermazione secondo cui quanto finora sostenuto sarebbe una fuga nell’irrazionale, nel mero estetismo. E’ vero piuttosto l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e resa capace di azione. Maggior peso ha oggi un’altra obiezione: il messaggio della bellezza viene messo completamente in dubbio attraverso il potere della menzogna, della  seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza essere autentica, oppure, alla fine, non è che un’illusione? La realtà non è forse in fondo malvagia?
 
La paura che, alla fine, non sia lo strale del bello a condurci alla verità, ma che la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera "realtà" ha angosciato gli uomini in ogni tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’ affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto fare poesia, dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori? Ora questa obiezione, per la quale esistevano motivi sufficienti ancora prima di Auschwitz,  in tutte le atrocità della storia, indica in ogni caso che un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente. Non regge il confronto con la gravità della messa in discussione di Dio, della verità, della bellezza. Apollo, che per il Socrate di Platone era "il Dio" e il garante della imperturbata  bellezza come "il veramente divino", non basta assolutamente più.

In questo modo ritorniamo alle "due trombe" della Bibbia dalle quali eravamo partiti, al paradosso per cui  di Cristo si possa dire sia "Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo", sia "Non ha apparenza né bellezza…… il suo volto è sfigurato dal dolore". Nella passione di Cristo l’estetica greca, così degna di ammirazione per il suo presentito contatto con il divino, che pure le resta indicibile, non viene rimossa, bensì superata. L’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine - la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante.

Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva "sino alla fine" e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è "vera", bensì proprio la verità. E’ per così dire un nuovo trucco della menzogna presentarsi come "verità" e dirci: al di là di me non c’e in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla; così facendo siete sulla strada sbagliata. L’icona di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a  lui e crediamo all’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per  annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza...

Chi non ha conosciuto la molto citata frase di Dostoevskij: "La bellezza ci salverà?" Ci si dimentica però nella maggior parte  dei casi di ricordare che Dostoevskij intende qui la bellezza redentrice di Cristo. Dobbiamo imparare a vederLo. Se noi Lo conosciamo non più solo a parole ma veniamo colpiti dallo strale della sua paradossale bellezza, allora facciamo veramente la Sua conoscenza e sappiamo di Lui non solo per averne sentito parlare da altri. Allora abbiamo incontrato la bellezza della verità, della verità redentrice. Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo del bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria Luce.


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Caterina63
00martedì 9 giugno 2009 12:53

Uwe Michael Lang traccia l'evoluzione storica della lingua liturgica nel rito romano

Il latino vincolo di unità fra popoli e culture

Uwe Michael Lang

L'unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo. Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto.

La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio la Prima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino.

Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana.
Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell'incertezza sulla data, sull'origine e sul vero autore.

Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario Vittorino, risalente al 360.

Intorno a quell'epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos - un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa.

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano.

I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano.

Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l'uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana.

Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano.

La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi.
In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo liturgico.

Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con l'eccezione di poche reminiscenze dell'uso più antico, come il Kyrie eleison nell'Ordo e le letture in greco nella messa papale.

Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima dell'editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura.
I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito. Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo.
Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, "testi di preghiera", dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi "destinati a essere letti, l'Epistola e il Vangelo", e, terzo, "testi confessionali", come il credo. Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione.

Recenti ricerche su lingua e rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo.
La "sociolinguistica" - una disciplina accademica relativamente nuova - ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un'altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali.

Gli storici dell'antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana.

Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue elites.

Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i "classici" della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questa Latinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente. Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni.
In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l'appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi.

Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese.

Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. Un altro aspetto importante fu l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocaliano dell'anno 354). La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo omnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica.
Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana. Questa non fu un'adozione della lingua "vernacola" nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall'idioma della gente comune. Essa era una lingua fortemente stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi. Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punico.

È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiope.

Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l'unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica.

Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione.

"La prima opposizione al latino liturgico - ha scritto Christine Mohrmann - coincise con la fine del latino medievale come "seconda lingua viva", che fu rimpiazzato da una lingua veramente "morta", il latino degli umanisti. E l'opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l'indebolimento dello studio del latino - e con la tendenza al "secolarismo"" ("The Ever-Recurring Problem of Language in the Church", in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977).
Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia
Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2).

Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo.

La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes.

In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001.

(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2007)



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Caterina63
00venerdì 11 settembre 2009 18:46
Intervista a monsignor Gérard Njen, capo ufficio della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti

La liturgia ritmo della vita
dei popoli africani


di Nicola Gori


La cultura africana, con i suoi riti legati al ciclo della natura e ai ritmi della vita, è un terreno fertile per far attecchire il seme del Vangelo. Non mancano certo i rischi, come quello di esaurire l'esperienza religiosa nella superstizione e nella magia. Proprio per questo, la prossima assemblea continentale del Sinodo dei vescovi può essere un'occasione per riscoprire l'autentica natura del sacerdozio e della liturgia, che non è limitata a una serie di riti esteriori ma è la prosecuzione dell'attività salvifica di Cristo. Ne abbiamo parlato con il camerunese monsignor Gérard Njen, capo ufficio della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. 

Quali sono gli elementi tipici della spiritualità e della cultura africana accolti nella liturgia cattolica?

Partendo dal concetto biblico del "mistero" di cui parla Paolo al capitolo 3 della Lettera agli Efesini, versetti 5 e 6 - e cioè "che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e a essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo" - la religione tradizionale africana offre, come fece uno dei re Magi, l'incenso naturale e puro, necessario al combattimento spirituale contro le forze delle tenebre. Lo stesso concetto di Dio nella traduzione dei testi liturgici è pieno di significato:  la parola Djòb in lingua "bassa" del Camerun del sud significa dapprima il Sole - djòb liñyè vuol dire il sole sorge - e poi l'Eterno, cioè il più anziano, hilolombi. Di uno che è appena morto, un proverbio locale dice che ha tolto gli occhi dalla luce del Sole per guardare la luce dell'Anziano, cioè dell'Eterno:  ambulul djòb li hyanga inyu i nun Djòb li Hilolombi.
Pensiamo a un altro concetto biblico, quello di Dio roccia e salvezza. Colpire la roccia e veder sgorgare l'acqua nel deserto è pieno di significato per la religione tradizionale africana. Bakum ngòg, ngòg i kum isi:  colpisci la roccia e la roccia colpirà la terra. Per noi che apparteniamo al popolo di Ngog Lituba - e cioè della roccia sacra dei Bassa, nel Camerun del sud - la roccia, con le sue grotte, le sue caverne e anche la sua sorgente, ha un significato particolare, perché ha protetto i nostri antenati dall'invasione dei musulmani. Inseguita dagli invasori, la popolazione infatti trovò rifugio proprio nelle caverne della roccia di Ngog Lituba, salvandosi così dalla deportazione o dalla morte. Pensi che questa roccia è stata dichiarata patrimonio mondiale dell'umanità dall'Unesco proprio lo scorso agosto.

Questi elementi sono un arricchimento o rischiano di snaturare la liturgia?

Come radici della religione il sociologo e antropologo Henri Hatzfeld riconosce tre elementi basilari:  la tradizione, il rituale e i valori. Premesso questo, dopo ben cinquecento anni dalla prima evangelizzazione dell'Angola e dopo più di cento anni per molti altri Paesi del continente, diciamo che ormai anche in Africa la liturgia è un'arte, ars celebrandi:  e vale sempre il motto lex credendi, lex orandi e viceversa. Basta ricordare le visite dei Pontefici in Africa per avere un'idea dell'equilibrio che si mantiene tra il gregoriano e la liturgia cosiddetta "africana", in lingue e in espressioni culturali differenti da quella occidentale. A cominciare dagli strumenti musicali utilizzati più frequentemente:  kora, balafon, tambour, tam-tam.

Ci sono abusi liturgici ricorrenti nella realtà africana?

La liturgia è come una scienza:  esistono regole precise che bisogna conoscere e ben seguire. Spesso non sono applicate per ignoranza. C'è il rischio di rimanere nel folklorico. Bisogna stare attenti anche alla tentazione dell'arbitrarietà per il desiderio di innovare a tutti i costi. Per quanto riguarda i sacramenti, l'amministrazione di alcuni di essi va controllata nei confronti di certe categorie di persone che, per le loro scelte o situazioni, non possono accedervi:  divorziati, concubini, poligami, maghi, stregoni, se individuati dalla pubblica autorità.

L'Instrumentum laboris del prossimo Sinodo per l'Africa, al numero 95, mette in guardia dal pericolo che i sacerdoti si dedichino a pratiche occulte. Cosa può fare la Chiesa per prevenire il fenomeno ?

C'è chi esagera o abusa. È vero, ma bisogna considerare che siamo circondati da gruppi e singoli individui dediti alle scienze occulte anche locali, come il vudú, o venuti dall'estero con soldi e proposte allettanti per attirare nuovi adepti. Il prete si sente spesso come intrappolato, anche perché gli stessi fedeli indulgono a queste pratiche. Che fare, allora?
In questo senso, l'Anno sacerdotale è una bella occasione per riscoprire in Africa la figura del sacerdote, soprattutto per sottolineare ciò che egli non è:  né veggente, né mago, né stregone, ma discepolo degli apostoli e dei loro successori. I preti africani devono camminare sulle traccia dei loro predecessori, i missionari esemplari e il clero indigeno dei primi tempi. Per fortuna possediamo anche il rituale delle benedizioni, oltre a diverse preghiere o suppliche, la liturgia delle Ore e i commenti dei salmi fatte da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. I sacramentali vanno riattivati, così come l'utilizzo degli oggetti di pietà - medaglie, statue, scapolari, croci - e soprattutto la recita del rosario, delle novene. Purtroppo, una certa mentalità deride queste devozioni, a cominciare dal clero straniero.

I fedeli africani comprendono il significato dei riti liturgici o li vivono come gesti lontani dalla realtà in cui sono immersi?

Non si tratta solo di comprendere tutto nei dettagli - consideriamo che tanti fedeli sono analfabeti - ma di vivere i momenti significativi della loro esistenza. I popoli africani hanno i propri riti per tutte le fasi più importanti della vita:  la fecondità, la gravidanza, la nascita, l'iniziazione degli adolescenti per il passaggio all'età di adulto, la celebrazione di un lutto e dei funerali, i riti di riconciliazione tra padre e figli o tra marito e moglie, tra clan, il rito di liberazione, purificazione e guarigione, il rituale di matrimonio consuetudinario tra fidanzati accompagnati dalle loro rispettive famiglie, il rito d'intronizzazione del capo tribù in unione con gli antenati. Molti di questi riti possono essere accostati ai sacramenti cristiani:  dal battesimo alla cresima, dal matrimonio all'ordine sacro, fino all'unzione degli infermi. Tutti questi riti restano culturalmente presenti anche dopo la conversione dei fedeli al cristianesimo e hanno un ruolo nel comprendere la celebrazione dei sacramenti della Chiesa cattolica.

Che influenza hanno magia e superstizione nella vita liturgica dell'Africa?

L'Africa vive in effervescenza mistica e spirituale. Molte persone sono alla ricerca di una via di salvezza di fronte agli attacchi della stregoneria onnipresente. Frequentano maghi, veggenti, guaritori. La Chiesa in Africa studia come contrastare la stregoneria, cerca la guarigione che viene da Dio. Come la cerca? Attraverso l'intensità della vita liturgica, dei ritiri spirituali, della messa quotidiana, della confessione frequente, con il coinvolgimento delle famiglie negli atti liturgici che riguardano eventi tristi o gioiosi, nelle feste dei patroni celesti e in altre solennità, conservando il ritmo delle stagioni di raccolta e di mietitura, come delle attività di allevatori, pescatori, cacciatori.

Quale contributo si attende dal Sinodo dei vescovi per promuovere una più forte consapevolezza del valore della liturgia nella vita della Chiesa africana?

La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha iniziato qualche anno fa un ciclo di riunioni continentali in Africa, Asia e America Latina. Sono stati coinvolti i presidenti e i segretari delle Commissioni episcopali nazionali di liturgia delle Conferenze episcopali d'Africa e Madagascar. Con la pubblicazione recente degli atti del congresso per la promozione della liturgia in Africa e nelle Isole, svoltosi a Kumasi, in Ghana, dal 4 al 9 luglio 2006, i padri sinodali avranno in mano una sorta di vademecum delle sfide odierne e di quelle future per la liturgia in Africa.

La vita liturgica diventa alimento di comportamenti di riconciliazione, di pace e di giustizia, come indica il tema del prossimo Sinodo?

L'Africa ha conosciuto guerre e conflitti soprattutto all'interno di certi Paesi:  l'apartheid in Sud Africa fino al 1994, la guerra in Rwanda tra hutu contro tutsi nel 1994, le guerre tra nord e sud in Sudan e in Costa d'Avorio. Il caso del Sud Africa è esemplare:  con le preghiere delle varie comunità nera e bianca, con l'impegno di personalità religiose come l'arcivescovo anglicano Desmond Mpilo Tutu - premio nobel per la pace nel 1984 - che ha guidato la commissione di riconciliazione e di verità, si è avuta una vera rivoluzione pacifica. Ne rende testimonianza lo stesso Tutu nel suo libro intitolato Niente avvenire senza perdono. Oggi il Sud Africa è una nuova nazione democratica con l'abolizione, già sancita il 1° febbraio 1991, delle leggi razziali del 1950 e l'amnistia generale a tutti i colpevoli che avevano confessato i loro crimini. La liturgia segue la vita di ogni società o nazione. Lo stesso avviene in Costa d'Avorio:  oggi, dopo molto sangue sparso, il sacerdote Francis Barbey ha raccontato questa esperienza nel libro Cammino di avvenire:  Costa d'Avorio, la pace sia con te. Bisogna sempre partire dalle vere ragioni della crisi e lavorare per il futuro, convinti della necessità di farlo insieme con gli altri. Quindi occorre impegnarsi per la coesistenza pacifica:  prima di portare l'offerta sull'altare, bisogna andare a riconciliarsi con il fratello o la sorella che hanno qualcosa contro di noi. Solo così la vita liturgica sarà di sostegno al cambiamento di mentalità.


(©L'Osservatore Romano - 12 settembre 2009)


                          
Caterina63
00mercoledì 11 novembre 2009 15:10

Perchè la Messa di una volta.

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di Dario Dal Cengio

Sono ancora molti i pregiudizi e le resistenze contro la possibilità (non è un obbligo!) di celebrare la S. Messa nella forma straordinaria usata fino ad una quarantina di anni fa.

Lo si è constato anche durante l’ultimo Convegno Romano cui ho partecipato, e durante il quale - a conforto - è stato diffuso un interessante sondaggio della Doxa, secondo cui, se l’antico rito fosse fatto conoscere, un terzo dei cattolici gradirebbero averlo qualche volta nelle loro chiese.
Il fronte avverso, stranamente, è spesso costituito da persone “di una certa età” e da praticanti abituali il rito nella forma ordinaria (che però si tengono lontane dalla Liturgia nella forma straordinaria, la cosiddetta - ma erroneamente - “Messa in latino” - che Benedetto XVI ha voluto ridare alla Chiesa).

So per esperienza che, invece, c’è maggior interesse fra i giovani, specialmente quelli con elevata cultura. Così ho chiesto ad un amico, appena laureatosi in lettere, che ha partecipato alla Messa celebrata “more antiquo” (alla vecchia maniera) nella nostra Chiesa di San Pancrazio, la cortesia di un contributo su questo tema piuttosto controverso.
Ecco le sue articolate ed interessanti considerazioni.

“Ciò che vediamo spesso non ci meraviglia più, anche se non sappiamo perché succede”.

Queste parole, consegnate ai posteri da Cicerone, ci offrono la possibilità di fermarci, togliere gli occhiali dal naso, dare una bella pulita alle lenti offuscate dalla routine quotidiana e stropicciarci gli occhi affaticati.

Dopo quest’operazione preliminare, è necessario sforzarsi di osservare la realtà e i gesti quotidiani che si compiono meccanicamente con un’ottica più critica, senziente e attenta ai dettagli. Ponendosi anche le più semplici e banali domande, ci si accorgerà che spesso non si riesce a dare una risposta esaustiva a molte azioni che per molto tempo abbiamo compiuto con il più anonimo
automatismo. Non si riesce a spiegare appieno il significato di una parola che si usa come intercalare; non ci si è mai posti le domande più semplici: “ma da dove deriva tale termine?”, “perché ha proprio questo significato?” “come mai si usa proprio questo e non un altro?”.
Tornando al nostro buon Cicerone, continuerebbe a solleticare la nostra curiosità dicendoci che “ignorare ciò che è avvenuto prima della nostra nascita vuol dire rimanere sempre bambini”: elogio dell’historia magistra vitae, ma non solo.

Gli antichi ben sapevano che per tramandare alle future generazioni dei saperi, delle dottrine e degli insegnamenti, era necessario condensarli in formule e gesti stabili, fissi e immutabili: solo così si sarebbe riusciti ad arginare e a contenere l’impeto dell’inarrestabile corrente del tempo che tutto travolge e porta con sè.

La religione e i sacri culti furono tra le prime forze a scendere in campo contro la forza logorante dei secoli: i loro apparati rituali e le loro liturgie erano (e sono) un riflesso terreno dell’eternità e dell’imperturbabilità degli dei celesti. La ciclicità delle celebrazioni e i loro gesti fissi hanno sfidato il passare delle generazioni con lo scopo di perpetuarsi nei tempi a venire; nei cerimoniali nulla era svolto a caso e tutto era pregno di significato.

Che si voglia a no, anche il cristianesimo risente dei culti che l’hanno preceduto. Certamente si differenzia in quanto Rivelazione, ma il sostrato arcaico sul quale Pietro ha edificato la Chiesa di Cristo ha assorbito direttamente o indirettamente parte del sistema cultuale e liturgico del paganesimo, riadattandolo sulla base del messaggio Messianico.

Diverse cause motivarono tale processo. In primo luogo la mancanza, nei primi anni dell’era cristiana, di un vero e proprio apparato rituale organizzato e uniforme. In seguito, allorché il Cristianesimo prese a diffondersi tra i più diversi strati della popolazione cittadina, fu necessario avvicinare al nuovo Credo anche gli abitanti delle campagne e dei centri urbani più piccoli e dispersi: costoro erano infatti meno permeabili alle novità e alle innovazioni rispetto a chi viveva nelle grandi città. Per convertire gli abitanti del pagus si cercò di assimilare le antiche divinità e le antiche cerimonie al Credo dei nuovi evangelizzatori, in modo tale da rendere meno traumatico il cambiamento di fede.

Una terza causa che diede impulso alla cristallizzazione dell’apparato liturgico fu, dopo l’editto di Milano del 313 d.C. che elevò il cristianesimo a religione di Stato, la lotta alle eresie: appena dodici anni dopo si tenne infatti a Nicea il primo grande concilio ecumenico della
cristianità che mirava a definire la vera natura di Cristo.

Tutto il II e III secolo furono pervasi dall’impegno di definire i concetti e le terminologie teologiche del cristianesimo, che ispireranno le opere di Agostino.

Non ci si stupirà quindi ad aver intuito che il termine
“pagano” era usato per designare gli abitanti del pagus, del villaggio, e che, per traslato, assunse poi l’accezione negativa di “infedele”, “idolatra”. Allo stesso modo, come gli antichi avevano una divinità protettrice per ogni elemento della quotidianità, dall’amore alla salute, dalla guerra al buon raccolto ecc, così gli evangelizzatori detronizzarono Afrodite, Asclepio, Ares e Demetra ma furono costretti a sostituirli con i Santi patroni.

Quest’operazione coinvolse anche le festività: il 15 Agosto, prima di essere la glorificazione dell’Assunta, designava il periodo delle feriae Augusti, da cui il nome. Il Santo Natale fu stabilito il 25 Dicembre a scapito della celebrazione del Sol Invictus; dopo il solstizio d’inverno si salutava il ritorno del Sole che riprendeva ad illuminare la Terra: ora si saluta la nascita del nuovo Sole Gesù Cristo che illumina il cammino della vita con la Sua venuta. Le radici del rito delle rogazioni, che fino a poco tempo fa accompagnavano il risveglio della vegetazione dal torpore invernale, affondano nelle processioni agresti in onore di Demetra
o di Maia, dee protettrici delle messi e della primavera.

Seppur semplicisticamente, si è fin qui dimostrato come il sostrato di parte della liturgia e dei riti cristiani appartenga a tradizioni ben precedenti allo stesso cristianesimo: il fatto però di aver spesso sotto gli occhi tali celebrazioni, non ci spinge ad indagare sulla loro origine. Tranne che per un pubblico di specialisti, sta venendo meno oramai anche l’approccio architettonico agli edifici adibiti alla celebrazione del culto: ad esempio, non si fa più caso al fatto che l’asse della navata centrale delle chiese sia “orientato”, ossia rivolto verso Oriente, punto cardinale del Sole nascente, e che questa caratteristica sia presente anche tra i siti cultuali delle civiltà più arcaiche.

Soffermiamoci ora su uno tra gli aspetti più importanti che caratterizzano la celebrazione: l’uso della parola. Il cristianesimo delle origini si diffuse usufruendo della koinè linguistica all’epoca diffusa tra i paesi del Mediterraneo orientale: il greco. Dovendo poi far propria la sua vocazione cattolica, cioè “universale”, dovette appropriarsi dello strumento linguistico che unificava gran
parte del mondo allora conosciuto: il latino.

Roma era la tappa obbligata in quanto centro di diffusione di idee, notizie, culti e quant’altro per tutte le terre dell’impero: e fu lì che i primi evangelizzatori si recarono, San Pietro in testa.

Se è vero che il cristianesimo attinse molto dalla filosofia greca, è certo che diede forma alle proprie istituzioni modellandole sugli efficienti e gerarchici organismi romani. Ciò permise alle prime comunità di dotarsi di una gerarchia e di sopravvivere, forti anche della
Fede, agli innumerevoli episodi persecutorii.

A partire dal IV secolo, il latino divenne la lingua ufficiale della Chiesa d’Occidente: i Padri della Chiesa scrissero in tale idioma, le Scritture furono tradotte dal greco e dall’ebraico e tutto l’apparato liturgico, preghiere, celebrazioni e sacramenti, adottò la lingua dei Cesari.

Tutt’oggi i documenti ufficiali del Vaticano sono redatti in latino.

Com’è logico pensare, anche la celebrazione della messa era nella lingua di Roma. Il rito antico, risalente all’età apostolica, subì delle modifiche, seppur non sostanziali, dal messale codificato da papa San Pio V nel 1570 dopo il Concilio di Trento (1545-1563): questo rimase in vigore fino alla promulgazione del messale di papa Paolo VI nel 1970, a seguito della Riforma Liturgica del Concilio Vaticano II (1962-1965).

Un rito quindi, quello antico, che ha coperto quasi per intero i duemila anni dalla Rivelazione. Schiere di poeti, di artisti, di teologi e di architetti hanno subito l’influenza del rito ora chiamato “straordinario”: le imponenti cattedrali gotiche erigono i loro archi a glorificare la magnificenza di Dio; il canto gregoriano eleva i cuori e l’anima alla contemplazione della Trinità.

Le pause e i lunghi silenzi che caratterizzano il rito antico servono a preparare spiritualmente all’incontro eucaristico e descrivono meglio di ogni altra parola il mistero della Trasustanziazione. La profonda simbologia e l’uso di una lingua arcaica, ma ancora circondata da un’aura di solennità e rispetto, servono a infondere e a far percepire ai partecipanti un maggior senso di sacralità nei riguardi del rito. Assistere alla celebrazione secondo il rito antico vuol dire entrare pienamente a far parte della devozione che per millenni ha unito popoli diversi in una sola lingua e in una sola liturgia e che ci riporta alle radici profonde della nostra identità cristiana.

Papa Benedetto XVI, col motu proprio del 7 luglio 2007, ha dato la possibilità di celebrare l’eucaristia secondo il messale di San Pio V: ciò non deve essere percepito come un passo indietro da parte della Chiesa o, come molti affermano senza cognizione di causa, un “ritorno al medioevo”,
bensì come una possibilità di poter conoscere meglio da dove veniamo e approfondire certi aspetti del sacro che ci circonda e che fa parte della nostra cultura.

Tale rito straordinario non mira certo a soppiantare il rito post conciliare, ma ad affiancarsi a esso per tener viva la lunga tradizione che ci lega ai primi fedeli e a tutti coloro che nei secoli hanno contribuito a diffondere la Buona Novella.

Conoscere la tradizione non vuol dire regredire o essere incapaci di affrontare la modernità: anzi, saper dare un significato preciso ai gesti rituali e alle fasi che compongono la liturgia è utile per comprendere che nessun aspetto
della celebrazione deve essere vissuto acriticamente.

Le iniziative che si vanno diffondendo da parte di singoli parroci di celebrare saltuariamente secondo il rito antico possono offrire a chi è nato negli ultimi quarant’anni l’occasione per conoscere com’era celebrata la messa nei secoli precedenti. Chi invece ha ricordi infantili della “messa in latino” e ripeteva mnemonicamente (e a volte senza capirne il significato) le antifonie e le preghiere, può approfittarne per rivivere quei momenti con una maggior arguzia e un orecchio più attento e critico. Entrambe le generazioni potranno di certo assaporare un maggior senso del sacro e sentirsi più vicini ai cristiani di tutti i tempi che da duemila anni vivono in seno a Santa Romana Chiesa.

Fonte l'Anzin Ottobre 2009. Si ringrazia P.R.

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Caterina63
00mercoledì 27 gennaio 2010 22:38

Riorientare la Messa


Padre Lang spiega come si deve essere “rivolti al Signore”


LONDRA, giovedì, 25 ottobre 2007 (ZENIT.org).- L’obiezione che solitamente viene sollevata rispetto alla forma antica di celebrare la Messa è che il sacerdote dà le spalle alla comunità, ma questo è un falso problema, secondo padre Uwe Michael Lang.

La postura “ad orientem” - verso oriente - riguarda piuttosto la volontà di assumere una direzione comune (tra comunità e sacerdote) nella preghiera liturgica, aggiunge.

Padre Lang del London Oratory, recentemente nominato alla Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, è autore del libro “Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica”. Il libro è stato pubblicato inizialmente in Germania da Johannes Verlag e poi in inglese da Ignatius Press. Successivamente è apparso anche in italiano (
ed. Cantagalli), francese, ungherese e spagnolo.

In questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Lang parla della postura “ad orientem” e della possibilità di riscoprire questa antica pratica liturgica.

Come si è sviluppata, nella Chiesa dei primi secoli, la pratica di celebrare la liturgia “ad orientem”, rivolti verso oriente? Qual è il suo significato teologico?

Padre Lang: Nella maggior parte delle religioni, la posizione che si assume nella preghiera e nell’orientamento dei luoghi sacri è determinata da una “direzione sacra”. La direzione sacra dell'ebraismo è verso Gerusalemme o più precisamente verso la presenza del Dio trascendente “shekinah” nel Sancta Sanctorum del Tempio, come si legge in Daniele 6,11.

Anche dopo la distruzione del Tempio, l’uso di rivolgersi verso Gerusalemme è rimasto nella liturgia della sinagoga. È così che gli ebrei hanno espresso la loro speranza escatologica per l’arrivo del Messia, per la ricostruzione del Tempio e per il rientro del popolo di Dio dalla diaspora.

I primi cristiani non si volgevano più verso la Gerusalemme terrena, ma verso la nuova Gerusalemme celeste. La loro ferma convinzione era che con la seconda venuta, nella gloria, il Cristo risorto avrebbe radunato il suo popolo per costituire questa città celeste.

Essi vedevano nel sorgere del sole un simbolo della Risurrezione e della seconda venuta. E questo simbolo è stato quindi trasposto anche nella preghiera. Vi sono elementi che ampiamente dimostrano che dal secondo secolo in poi, in gran parte del mondo cristiano, la preghiera era rivolta verso oriente.

Nel Nuovo Testamento, il significato della preghiera orientata (rivolta verso oriente) non è esplicito.

Ciò nonostante la Tradizione ha individuato molti riferimenti testuali a questo simbolismo, come ad esempio: il “sole di giustizia” in Malachia 3, 30; “verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge” in Luca 1, 78; l’angelo che sale dall’oriente con il sigillo del Dio vivente in Apocalisse 7, 2; e le immagini di luce nel Vangelo di san Giovanni.

In Matteo 24, 27-30 il segno della venuta del Figlio dell’Uomo con grande potenza e gloria, come la folgore che viene da oriente e brilla fino a occidente, è la croce.

Esiste una stretta relazione tra la preghiera orientata e la croce; questo risulta evidente sin dal quarto secolo, se non prima. Nelle sinagoghe di quel periodo, il punto in cui erano collocati i rotoli della Torah indicava la direzione della preghiera “qibla” verso Gerusalemme.

Tra i cristiani divenne uso comune segnare la direzione della preghiera con una croce sul muro orientale nelle absidi delle basiliche e nei luoghi privati, per esempio, dei monaci e degli eremiti.

Verso la fine del primo millennio vi sono teologi di diverse tradizioni che osservano come la preghiera orientata sia una delle pratiche che distinguono il Cristianesimo dalle altre religioni del Vicino Oriente: gli ebrei pregano verso Gerusalemme, i musulmani verso la Mecca, mentre i Cristiani verso oriente.

Anche gli altri riti della Chiesa cattolica adottano l’orientamento liturgico?

Padre Lang: La preghiera liturgica orientata (rivolta verso oriente) fa parte anche delle tradizioni bizantina, siriaca, armena, copta ed etiope. Ancora oggi essa è in uso nella maggior parte dei riti orientali, almeno per quanto riguarda la preghiera eucaristica.

Alcune Chiese cattoliche orientali, come ad esempio quella maronita e quella siro-malabarese, hanno adottato in tempi recenti la Messa rivolta “versus populum”, ma questo è dovuto all’influenza moderna occidentale e non deriva dalle proprie tradizioni.

Per questo motivo la Congregazione vaticana per le Chiese orientali ha dichiarato nel 1996 che l’antica tradizione di pregare rivolti verso oriente ha un profondo valore liturgico e spirituale e deve essere preservata nei riti orientali.



Spesso sentiamo dire che “ad orientem” significa che il sacerdote sta celebrando con le spalle rivolte alla comunità. Ma qual è il significato vero di questo orientamento?

Padre Lang: Il luogo comune secondo cui il prete dà le spalle alla gente è un falso problema in quanto il punto essenziale è che la Messa è un atto di culto comune, in cui il sacerdote insieme alla comunità - che rappresentano la Chiesa pellegrina - protendono verso il Dio trascendente.

La questione non è se la celebrazione è rivolta “verso” o “contro” la comunità, ma è la comune direzione della preghiera liturgica che conta. E ciò si può avere a prescindere dall’orientamento dell’altare. In Occidente molte chiese costruite dopo il XVI secolo non sono più orientate.

Il sacerdote all’altare, rivolto nella stessa direzione dei fedeli, guida il popolo di Dio nel cammino della fede. Questo movimento verso il Signore trova la sua massima espressione nei santuari di molte chiese del primo millennio, in cui la rappresentazione della croce o del Cristo glorificato indica la meta del pellegrinaggio terreno dell’assemblea.

Essere rivolti verso il Signore significa mantenere vivo il senso escatologico dell’Eucaristia e ci ricorda che la celebrazione del Sacramento è una partecipazione alla liturgia celeste e la promessa della futura gloria nella presenza del Dio vivente.

Questo dà all’Eucaristia la sua grandezza, evitando che la singola comunità si chiuda in se stessa, aprendola verso l’assemblea degli angeli e dei santi nella città celeste.


In che modo può una liturgia orientata promuovere il dialogo con il Signore nella preghiera?

Padre Lang: L’elemento principale del culto cristiano è il dialogo tra il popolo di Dio nel suo complesso, compreso il celebrante, e Dio verso il quale è rivolta la preghiera.

È per questo che il liturgista Marcel Metzger sostiene che la diatriba sul verso in cui è rivolto il celebrante rispetto alla comunità esclude del tutto colui verso il quale tutte le preghiere sono dirette, ovvero Dio stesso.

L’Eucaristia non è celebrata con il sacerdote rivolto verso i fedeli o dando loro le spalle. Piuttosto è l’intera assemblea che celebra rivolta verso Dio, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo
.


Nella premessa al suo libro, l’allora cardinale Ratzinger osserva che nessuno dei documenti del Concilio Vaticano II indica di dover rivolgere l’altare verso i fedeli. Come si è verificato allora il cambiamento? Qual è la base per tale importante modifica della liturgia?

Padre Lang: Solitamente si citano due argomenti principali per sostenere la posizione del celebrante rivolto verso i fedeli.

Il primo è che tale pratica corrisponde a quella della Chiesa dei primi secoli e che pertanto deve essere adottata come la norma anche ai tempi nostri. Tuttavia, un’attenta analisi dei documenti non dà conferma a questa ipotesi.

Il secondo è che la “attiva partecipazione” dei fedeli, un principio introdotto da Papa san Pio X e diventato centrale nella “Sacrosanctum Concilium”, impone che il celebrante sia rivolto verso la comunità.

Ma una riflessione critica sul concetto di “attiva partecipazione” ha di recente rivelato la necessità di una nuova valutazione teologica di questo importante principio.

Nel suo libro “Lo spirito della liturgia”, l’allora cardinale Ratzinger compie una utile distinzione tra la partecipazione alla liturgia della Parola, che comprende azioni esterne, e la partecipazione alla liturgia eucaristica, in cui le azioni esterne sono del tutto secondarie, poiché è la partecipazione interiore della preghiera che costituisce l’elemento centrale.

La recente esortazione apostolica post-sinodale del Santo Padre “Sacramentum Caritatis” contiene una importante trattazione di questo argomento al paragrafo 52.

Il nuovo ordinamento della Messa promulgato da Papa Paolo VI nel 1970 vieta al sacerdote di rivolgersi ad oriente? Esiste qualche ostacolo giuridico che vieta l’uso più ampio di questa antica pratica?

Padre Lang: Il Messale di Papa Paolo VI considera come un’opzione legittima quella di combinare la posizione del sacerdote rivolto verso i fedeli durante la liturgia della Parola e la posizione di entrambi rivolti verso l’altare durante la liturgia eucaristica e in particolare per il Canone.

La versione revisionata delle Istruzioni generali del Messale romano, che sono state pubblicate inizialmente per motivi accademici nel 2000, affronta la questione dell’altare al paragrafo 299, che sembra considerare la posizione del celebrante rivolto “ad orientem” come non opportuna o persino vietata.

Tuttavia, la Congregazione per il culto divino e i sacramenti ha rigettato questa interpretazione in risposta ad una domanda sottoposta dal cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna. Ovviamente il paragrafo delle Istruzioni generali deve essere letto alla luce di questa riposta, datata 25 settembre 2000.

La recente lettera apostolica di Benedetto XVI “Summorum Pontificum”, che liberalizza l’uso del Messale di Giovanni XXIII, consentirà un più profondo apprezzamento della posizione “rivolti verso il Signore” durante la Messa?

Padre Lang: Io credo che molte riserve o persino timori sulla Messa “ad orientem” derivino da una scarsa familiarità con essa e che la diffusione dell’ “uso straordinario” del rito romano antico aiuterà molte persone a riscoprire e apprezzare questa forma di celebrazione.





Caterina63
00martedì 9 marzo 2010 23:37
Fondamenti teologici e liturgici dell'architettura sacra

L'arte è sempre un dono


di Uwe Michael Lang

Nel suo esistere, l'uomo vive in due coordinate fondamentali:  lo spazio e il tempo, due realtà che non si costruiscono, ma che gli sono date. In altre parole, l'uomo è legato allo spazio e al tempo in tutte le sue azioni, e lo è anche nella preghiera che rivolge a Dio. Quando si invoca Dio, la preghiera ha bisogno, per così dire, di essere incarnata e di conseguenza anche il culto cristiano richiede un luogo, dove si può realizzare come rito sacro.

Tale luogo non è il corrispettivo del tempio pagano nella Grecia antica, dove la cella era considerata l'abitazione della divinità. Come dice san Paolo agli Ateniesi che "Dio non abita in templi costruiti dall'uomo" (Atti degli Apostoli, 17, 24). C'è un rapporto stretto fra il luogo del culto cristiano e la tenda del convegno, ovvero il Tempio di Gerusalemme, che è concepito come luogo dove il Dio trascendente si rende presente nella sua gloria (si veda, ad esempio Esodo, 25, 22 e 40, 34). Comunque, già Salomone, dopo avere costruito il Tempio di Gerusalemme, esclama:  "Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!" (1 Re, 8, 27).

Nell'Antico Testamento si osserva un movimento verso una spiritualizzazione del culto, che si riflette anche nel canto dei serafini nel libro del profeta Isaia:  "Tutta la terra è piena della sua gloria" (Isaia, 6, 3; cfr. Geremia, 23, 24; Salmi, 139, 1-18; Sapienza, 1, 7) - un passo che è stato incluso nel Sanctus della liturgia eucaristica. Pertanto, tutta la terra è piena della presenza di Dio e da Lui affidata agli uomini (cfr. Vincenzo Gatti, Liturgia e arte. I luoghi della celebrazione, Bologna, EDB, 2001, ristampa 2005, pp. 49-50 e 67-68).

Nel Vangelo secondo Giovanni, Gesù durante il suo incontro con la donna di Samaria dichiara che "è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori" (Giovanni, 4, 23).

Bisogna tenere conto che ci sono vari livelli di significato:  nel contesto storico, il culto cristiano è contrapposto al culto dei Samaritani e degli Ebrei, perché esso è "in spirito", cioè non è limitato a un singolo santuario, come il monte Garizim per i samaritani e il tempio di Gerusalemme per gli Ebrei.

Questo non significa che, alla luce del Vangelo, non ci dovrebbero essere riti e cerimonie, nessun culto pubblico o nessuno edificio sacro. Una tal conclusione sarebbe sbagliata, fosse soltanto perché quasi duemila anni di tradizione cristiana parlano in senso contrario. Gesù non ha detto alla donna samaritana che non ci dovrebbero essere luoghi ed edifici per il culto nella Nuova Alleanza; allo stesso modo, nella profezia sulla distruzione del Tempio, non afferma che non ci debba essere più alcuna casa costruita in onore di Dio, ma piuttosto che ci debbano essere molte case.

John Henry Newman, il grande teologo inglese convertito, ha espresso questa verità in un'omelia:  "La gloria del Vangelo non è l'abolizione dei riti, ma la loro diffusione; non la loro assenza, ma la loro presenza viva ed efficace per la grazia di Cristo". (Parochial and Plain Sermons, San Francisco, Ignatius Press, 1997, vi, 19:  "The Gospel Palaces", p. 1355).

Nel suo libro fondamentale sullo spirito della Liturgia, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, metteva in relazione "il nuovo universalismo" del culto "in spirito e verità" della Nuova Alleanza, che non è legato a un luogo esclusivo, e la profezia di Gesù sulla distruzione del tempio:  "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Matteo, 26, 61). Riprendendo la precisazione dell'evangelista Giovanni:  "Egli parlava del tempio del suo corpo" (Giovanni, 2, 21), Ratzinger prendeva le parole di Gesù come "una profezia della croce; la fine della sua vita terrena sarà al tempo stesso la fine del tempio:  è questo ciò che egli lascia intendere".

Allo stesso tempo, è anche una profezia della sua Risurrezione, con la quale "comincerà il nuovo tempio:  il corpo vivente di Gesù Cristo, che allora sarà al cospetto di Dio e che sarà il luogo di ogni culto. In questo corpo egli abbraccia tutti gli uomini; non è la tenda eretta da mani d'uomo, è il luogo della vera adorazione di Dio, che dissolve le tenebre e le sostituisce con la realtà". Questa profezia quindi diventa eucaristica, perché "vi si annuncia il mistero del corpo di Cristo, sacrificato e proprio per questo vivente, che si comunica a noi e conduce in tal modo al legame reale con il Dio vivente" (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001, pp. 39-40).

Cristo stesso, il suo corpo vivo, risorto e glorificato, è il nuovo tempio dove Dio dimora e dove si svolge il suo culto "in spirito e verità". Il vero tempio in cui Dio abita è il corpo che la Vergine Maria, per opera dello Spirito Santo, offriva al Verbo di Dio, Gesù Cristo. Come scrive san Paolo ai Colossesi:  "È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza" (2, 9-10). Poi, per partecipazione, in forza del Battesimo, anche il corpo del cristiano diventa tempio di Dio.
Christus totus, per usare una frase cara a sant'Agostino, il Cristo intero è il vero luogo di culto cristiano, cioè Cristo in quanto capo e noi in quanto membra del suo corpo mistico. I fedeli che si riuniscono in uno stesso luogo per il culto divino costituiscono le "pietre vive", messe insieme "per la costruzione di un edificio spirituale" (1 Pietro, 2, 4-5). Infatti, è significativo che la parola che prima indicava l'azione del riunirsi dei cristiani, cioè ecclesia, è passata a indicare anche il luogo stesso in cui la riunione si realizza.

Perciò, possiamo dire che la liturgia stessa, la solenne celebrazione del mistero pasquale della passione, morte e risurrezione del Signore, è costitutiva del tempio cristiano, inteso come luogo della presenza divina. In questo senso Benedetto XVI scrive nella sua Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007):  "Lo scopo dell'architettura sacra è di offrire alla Chiesa che celebra i misteri della fede, in particolare l'Eucaristia, lo spazio più adatto all'adeguato svolgimento della sua azione liturgica. Infatti, la natura del tempio cristiano è definita dall'azione liturgica stessa" (n. 41).

Va riletta anche l'apposita sezione del Catechismo della Chiesa cattolica. Questo documento autorevole del magistero insiste che le chiese (come edifici) "non sono luoghi di riunione", ma "dimora di Dio con gli uomini riconciliati e uniti in Cristo" (n. 1180). Questo passo ricorda inoltre il fatto che la liturgia eucaristica è per gli "iniziati" e per questo motivo in molte tradizioni cristiane, soprattutto in Oriente, si conclude "la liturgia della Parola" con il congedo dei catecumeni, dei penitenti e delle altre persone che non possono essere ammessi alla parte più sacra della celebrazione liturgica.

Ancora più specifico è il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 2005. In risposta alla domanda "Che cosa sono gli edifici sacri?" (n. 245), il Compendio dice:  "Essi sono le case di Dio, simbolo della Chiesa che vive in quel luogo, nonché della dimora celeste. Sono luoghi di preghiera, nei quali la Chiesa celebra soprattutto l'Eucaristia e adora Cristo realmente presente nel tabernacolo".

L'architettura e l'arte non compiono una funzione puramente decorativa, sono piuttosto parti integranti del culto. Il punto di partenza per costruire le chiese deve essere uno teologico e liturgico, e da questo risulta una grande responsabilità sia dei progettisti sia dei committenti. Oggi si sente l'esigenza urgente di una formazione adeguata che va al di là di una visione solo "normativa" della progettazione. Nel suo libro sopra citato Ratzinger ha dato voce al desiderio di un'arte "rinnovata nella fede", ma ha ricordato anche che l'arte - come la liturgia - "non può essere prodotta, così come si commissionano, si producono delle apparecchiature tecniche. Essa è sempre un dono". Le epoche di grande creatività artistica nella storia della Chiesa sono state contrassegnate da "una fede capace di vedere". Se giungiamo di nuovo a questa, "anche l'arte trova la sua giusta espressione".


(©L'Osservatore Romano - 10 marzo 2010)

Caterina63
00sabato 15 maggio 2010 22:30
Arrivano le concordanze del "Missalis Hispano-Mozarabici"

Quei 2584 modi per celebrare Dio


di Marta Lago


Dalla compilazione e ricerca teologico-liturgica alla desiderata esperienza spirituale:  il rito mozarabico riceve un importante impulso dal volume Concordantia Missalis Hispano-Mozarabici (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 955, euro 98) presentato a Roma alla presenza del cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Con il contributo dell'arcidiocesi spagnola di Toledo, questo nuovo strumento editoriale si deve a Félix María Arocena, Adolfo Ivorra e Alessandro Toniolo. Quasi mille pagine che contengono tutto il patrimonio orazionale del rito mozarabico per la celebrazione eucaristica e l'indice delle voci per la sua individuazione all'interno del Missale. Iniziata a cura di Manlio Sodi e di Achille Maria Triacca, la collezione "Monumenta Studia Instrumenta Liturgica" si arricchisce di queste Concordantia, un'autentica filigrana che è molto più di un mero strumento di consultazione. Così lo spiega al nostro giornale uno dei suoi autori, don Félix María Arocena, docente di Teologia Liturgica e Sacramentale nella Facoltà di Teologia dell'università di Navarra.

Fino a che punto il rito ispano-mozarabico esprime la relazione cultuale-culturale?

Nell'Hispania romana, poi visigota e quindi mozarabica, si conservò un modo specifico di celebrare i sacramenti proprio di quell'area geografica. È il rito ispano, se si fa riferimento alla liturgia prima dell'anno 711, rito visigotico se si allude ai goti convertiti o liturgia mozarabica se ci si riferisce ai cristiani che vissero durante la dominazione musulmana. Certamente, le categorie liturgiche utilizzate dal rito ispano affondano le proprie radici nella cultura del popolo che viveva tale liturgia. Il rito per i cristiani che vivono nella penisola iberica finisce con l'essere come i colori della bandiera per un determinato Paese. Cambiare questi riti significherebbe modificare la loro tradizione. Fra liturgia e cultura esiste una simbiosi molto intima.

È una lezione d'inculturazione della fede.

Certamente. Anzi, per comprendere in profondità le radici spirituali cristiane del popolo spagnolo occorre consultare la celebrazione ispana.

Qual è il suo volto?

In termini di teologia liturgica, la sua esuberanza eucologica. I libri liturgici mozarabici, soprattutto il Liber princeps, il messale, presentano un'abbondanza di testi orazionali incomparabilmente superiore alle altre famiglie liturgiche occidentali attualmente vive. Il rito ispano possiede quasi per ogni giorno una preghiera eucaristica; il rito romano, dopo il concilio Vaticano ii, ne presenta quattro.

Nel nuovo volume sono citate 2584 formule eucologiche.

È un dato molto importante, perché offre un'idea della dimensione orazionale del messale ispano. Non si tratta solo di quantità, ma anche di qualità e di spessore teologale, perché i contenuti della lex orandi ispana sono ricchissimi. Le Concordantia sono proprio uno strumento per potersi immergere in questo oceano. Senza il loro ausilio ritengo che non si possa ottenere la necessaria intelligenza teologica di un libro liturgico tanto importante come il messale. Si aprono enormi possibilità di ricerca in liturgia comparata, ad esempio, fra una nozione concreta nel rito romano e nel rito ispano. La liturgia ispana ha un latino molto diverso dal romano, l'elemento leggendario è più presente e il suo spessore lirico è enorme.

Quanto tempo avete impiegato per elaborare queste concordanze?

Il lavoro è durato quattro anni. È stato molto laborioso. Non tanto per l'esecuzione informatica del processo, quanto per la preparazione del testo, di modo che il procedimento informatico operasse su di esso. Ancora disponibile solo in latino, bisogna osservare che il messale mozarabico, così come è stato pubblicato nel 1991 (il primo tomo) e nel 1994 (il secondo tomo), presenta alcuni errori che se non fossero stati corretti avrebbero fatto sì che nelle concordanze apparissero termini inesistenti nella lingua latina. Nell'attuale messale mozarabico ci sono alcuni errori, ma forse anche nelle fonti:  il Liber mozarabicus di Férotin o il Missale mixtum; tali errori possono a loro volta risalire ai manoscritti stessi che contenevano questi testi. Correggerli prima di sottoporli al trattamento informatico ha richiesto un grande sforzo. Siamo certi che questo nuovo strumento conferirà un efficace impulso alla teologia liturgica del rito ispano.

Le Concordantia sono strumenti specializzati di teologia liturgica. Dietro c'è anche il desiderio di divulgazione del rito ispano mozarabico?

Pensiamo a quello che presuppone per la Chiesa a Milano il suo rito. Il rito ambrosiano è vivo, si celebra e comporta tutta una spiritualità, un patrimonio di preghiera specifico. Questo esempio si può applicare tranquillamente alla Spagna. I cristiani in Spagna possiedono un rito liturgico che è proprio di questa terra; sarebbe imperdonabile se non apprezzassimo, coltivassimo e pregassimo con la sensibilità di coloro che ci hanno preceduto nella fede, persino fino al martirio.

Potremmo dire che il rito ispano mozarabico e la novità delle Concordantia sono un frutto maturo del Vaticano ii?

Il concilio ha dato uguale diritto e  onore  a  tutti  i  riti  legittimamente riconosciuti dalla Chiesa. Ha voluto che uno stesso mistero della fede  avesse  una  celebrazione  in una pluralità di riti. Quando la Sacrosanctum concilium ha enunciato questi principi, il cardinale arcivescovo di Toledo, Marcelo González Martín - il primo Superiore del rito ispano mozarabico dopo il concilio, poiché si tratta di un ufficio proprio della diocesi primaziale toledana - ha iniziato i lavori di restaurazione di questo rito. Ha mostrato la sua sensibilità ecclesiale nel conservare e promuovere una ricchezza della fede inculturata in Spagna. Si deve a lui l'edizione dell'attuale messale ispano mozarabico, che contiene autentici gioielli eucologici di saggi e santi:  padri ispani come Isidoro di Siviglia, Ildefonso, Giusto di Urgel, Conanzio di Palenzia. Questo messale ha recuperato testi caduti nell'oblio da oltre cinquecento anni. È un patrimonio troppo importante per mettere a rischio il suo valore e la sua integrità.


(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2010)

Caterina63
00martedì 5 ottobre 2010 19:31
Troppo funzionalismo e pochi professionisti

Perché è in crisi la musica sacra


Anticipiamo stralci della relazione che sarà pronunciata nel pomeriggio del 6 ottobre a Roma, all'Accademia Urbana delle Arti, nell'ambito del seminario "Le ragioni dell'arte".

di Uwe Michael Lang

Fra i molti contributi lungimiranti e acuti di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI circa la musica sacra, ce n'è uno che trovo particolarmente interessante e che vorrei prendere come punto di partenza per le mie riflessioni:  la conferenza "Problemi teologici della musica sacra" tenuta presso il Dipartimento di Musica Sacra del Conservatorio Statale di Musica di Stoccarda nel gennaio 1977 e poi pubblicata anche in altre lingue.

In italiano è uscita per la prima volta qualche mese fa nel libro Teologia della Liturgia, il primo volume pubblicato dei sedici dell'opera omnia di Joseph Ratzinger (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 858, euro 55).

In questa conferenza, l'allora cardinale Ratzinger individuava le cause della crisi contemporanea della musica sacra sia nella crisi generale della Chiesa sviluppatasi dopo il concilio Vaticano ii sia nella crisi delle arti nel mondo moderno, che ha colpito anche la musica. Joseph Ratzinger era interessato soprattutto ai motivi teologici della crisi della musica sacra; sembra "che questa sia finita in mezzo a due macine teologiche di carattere assai contrapposto, che però cooperano concordemente a logorarla".

Da un lato, esiste "il funzionalismo puritano di una liturgia intesa in senso puramente pragmatico:  l'evento liturgico deve essere, come si dice, liberato dal carattere cultuale e ricondotto al suo semplice punto di partenza, un convito comunitario". Questo atteggiamento va di pari passo con una lettura sbagliata del principio della partecipazione attiva (participatio actuosa), introdotto dal Papa san Pio X e promosso dalla Costituzione del Vaticano ii sulla Sacra Liturgia. Spesso si intende la partecipazione attiva come "un'uguale attività nella liturgia di tutti i presenti", che non lascia più spazio alla musica che ha un più alto tenore artistico e viene cantata da un coro o da una schola, e comprende anche l'uso degli strumenti musicali classici. In questa visione, rimane lecito solo il canto dell'assemblea, "che, a sua volta, non è da giudicare in base al suo valore artistico, ma unicamente in base alla sua funzionalità, cioè in base alla sua capacità di creare ed attivare una comunità".

Dall'altro lato, c'è ciò che Joseph Ratzinger ha chiamato "il funzionalismo dell'adattamento", che ha portato alla comparsa di nuove forme di cori e orchestre che eseguono musica "religiosa" ispirata al jazz e al pop contemporaneo. L'attuale Papa osserva che i "nuovi ensemble (...) risultavano non meno elitari dei vecchi cori di chiesa, ma non venivano sottoposti alla stessa critica". Ambedue gli atteggiamenti teologici hanno lo stesso effetto:  il repertorio tradizionale della musica sacra, dal canto gregoriano fino alle composizioni polifoniche del XX secolo, è giudicato inadatto per la liturgia ed è relegato in sala da concerto, dove è curato e valutato come un oggetto di museo, o forse addirittura trasformato in una specie di liturgia "secolare".

Certo, si può sostenere che vi sia qualche precedente nella Chiesa primitiva per l'atteggiamento del "funzionalismo puritano" nei confronti della musica nella liturgia. Già dagli inizi, il canto dei salmi e, come sviluppo successivo, gli inni e cantici avevano un posto naturale nel culto cristiano. Comunque, non si continuava la pratica musicale del Tempio di Gerusalemme con il suo carattere festivo e il suo uso degli strumenti, descritto in vari salmi. Il luogo della musica nella liturgia cristiana corrisponde piuttosto a quello nella sinagoga. Allo stesso tempo, i primi cristiani erano preoccupati di distinguere chiaramente la musica della loro liturgia da quella del culto pagano. Una conseguenza di tale presa di distanza sia dal culto del Tempio che dalle cerimonie pagane era l'esclusione degli strumenti dalla liturgia cristiana, che si mantiene ancora nelle tradizioni ortodosse e che si è espressa in una forte corrente anche nell'Occidente latino, lasciando da parte il ruolo privilegiato dell'organo, che è stato investito di un profondo significato teologico.

Joseph Ratzinger insiste sul fatto che non si può interpretare la sospensione degli strumenti come un rifiuto della dimensione "sacra" e "cultuale" della musica o anzi come un "passaggio nella profanità". Al contrario, essa esprime "una sacralità puristicamente accentuata", che si riflette anche nei commenti dei Padri della Chiesa sull'uso della musica nella liturgia. Molti Padri presentano la liturgia cristiana come il risultato di un processo di "spiritualizzazione" dal culto del Tempio dell'Antica Alleanza con i suoi sacrifici di animali verso la logiké latreía (Romani, 12, 1), "un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione", un tema chiave nel pensiero del Pontefice. Una musica adeguata alla liturgia cristiana aveva dovuto subire un processo di "spiritualizzazione", che i Padri, secondo Joseph Ratzinger, avevano interpretato come una "de-materializzazione":  la musica è stata ammessa solo nella misura in cui serviva il movimento dal sensibile allo spirituale, e da quello risulta la discontinuità con la musica festosa del Tempio e l'esclusione degli strumenti. L'attuale Papa attribuisce l'atteggiamento austero dei Padri verso la musica alla forza del pensiero platonico nella teologia patristica, e individua anche i problemi inerenti in esso, in quanto "si avvicinava più o meno all'iconoclastia". Infatti, egli lo considera "l'ipoteca storica della teologia" attraverso l'arte nel sacro, un'ipoteca che riappare ogni tanto nel corso della storia.

Un particolare rilievo in questo ambito è ricoperto dall'enciclica Annus qui, scritta da uno dei Papi più dotti dell'età moderna, Benedetto xiv, nato Prospero Lorenzo Lambertini nel 1675, Vescovo di Ancona 1727-1731 e arcivescovo di Bologna dal 1731, incarico che mantenne anche da Papa. Nel 1728 fu nominato cardinale e, dopo la morte di Clemente xii, nel conclave lungo e controverso del 1740, fu elevato alla Sede di Pietro e scelse il nome Benedetto xiv. Morì nel 1754.
Papa Lambertini era un canonista e studioso con un vasto ambito di interessi, tra cui il culto divino. Il suo magistero liturgico può essere collocato all'interno del progetto continuo di riforma avviata dal Concilio di Trento. L'enciclica Annus qui, essendo scritta prima in italiano e poi tradotta in latino, rivela il suo scopo già nel suo titolo completo:  "Del culto e mondezza delle Chiese; del regolamento dell'Uffiziature, e Musica Ecclesiastica, Lettera circolare a' Vescovi dello Stato Ecclesiastico per l'occasione del prossimo Anno Santo".

Questo titolo indica gli argomenti principali dell'enciclica:  la cura delle chiese, l'ordine e la solennità del culto celebrato in esse, e in modo particolare la musica sacra. Si noti inoltre che l'enciclica si indirizza ai vescovi dello Stato Pontificio del prossimo Anno Santo 1750. Il Pontefice aspettava a Roma un grande numero di pellegrini che desideravano conseguire "il frutto spirituale delle sante indulgenze". Benedetto xiv comincia la sua enciclica con un monito alla disciplina ecclesiastica, spingendo il suo clero a fare tutto quanto in loro potere per assicurare che i tanti visitatori nella città eterna non ritornino alle loro patrie scandalizzati da ciò che avevano visto. Infatti, Roma e tutto lo Stato Pontificio devono fornire un esempio di celebrazione liturgia e di musica sacra per tutto il mondo cattolico. Senza dubbio, Papa Lambertini era consapevole dei limiti del suo potere in tali questioni, che in gran parte dipendevano dal patrocinio locale sia ecclesiastico sia secolare. Tuttavia, era determinato a mantenere un livello più alto nel suo proprio territorio.

Le principali preoccupazioni di Benedetto xiv circa la polifonia sacra - in continuità con i dibattiti al Concilio di Trento e le dichiarazioni successive di Papi e di sinodi locali - sono l'integrità e l'intelligibilità del testo liturgico che viene messo in musica. In particolare, quando si cantano i brani polifonici nella Messa o nell'Ufficio Divino, devono contenere i "propri" che sono parti integranti della sacra liturgia.  Data  questa  premessa,  Benedetto xiv si riferisce a un decreto emesso dal suo predecessore Innocenzo xii nel 1692, che proibì in genere il canto di ogni cantilena o mottetto. Nelle sante Messe solenni permise soltanto, oltre al canto del Gloria e del Simbolo, di poter cantare l'Introito, il Graduale e l'Offertorio. Nei Vespri non ammise nessun cambiamento, neppure minimo, nelle Antifone che si dicono all'inizio e alla fine di ogni Salmo.

Inoltre, l'enciclica nota che è diventato comune negli ultimi tempi utilizzare la musica di carattere teatrale nel culto divino. Il problema di questo tipo di musica è che mira a rendere gli ascoltatori fruitori della melodia, del ritmo, della qualità delle voci, e così via, mentre il significato delle parole diventa secondario. Bensì, afferma Benedetto xiv in modo inequivocabile, questo non vale per la liturgia:  "Non così invece deve essere nel canto Ecclesiastico; anzi in questo si deve avere di mira l'opposto". In altre parole, la musica sacra che merita il suo nome deve sempre servire un fine spirituale e teologico, non solo estetico.

L'enciclica poi procede alla questione dell'uso degli strumenti in chiesa. Il Pontefice ritiene che tale questione sia fondamentale per distinguere la musica sacra da quella dei teatri. In primo luogo, egli determina quali strumenti si possano tollerare (si noti la scelta delle parole:  "degli strumenti musicali, che possono essere tollerati nelle Chiese"). Benedetto xiv segue la sua solita metodologia e cita varie opinioni, in particolare il Primo Concilio Provinciale di Milano, tenutosi sotto san Carlo Borromeo, che ha ammesso solo l'organo e ha escluso tutti gli altri strumenti.

In secondo luogo, Papa Lambertini stabilisce che gli strumenti consentiti debbano essere suonati solo per sostenere il canto della voce umana. A questo punto, il linguaggio del Pontefice diventa molto deciso, quando dichiara:  "Se però gli strumenti suonano in continuazione, e solo qualche volta si chetano, come si usa oggi, per lasciare tempo agli uditori di sentire le armoniche modulazioni, le vibranti puntate delle voci, volgarmente chiamati i trilli (un riferimento a Giovanni xxii, Docta Sanctorum Patrum); se, per il rimanente, non fanno altro che opprimere e seppellire le voci del coro, e il senso delle parole, allora l'uso degli strumenti non raggiunge lo scopo voluto, diventa inutile, anzi rimane proibito e interdetto".

In terzo luogo, rispetto alle musiche orchestrali, Annus qui concede che potrà continuare dove è già stata introdotta, purché siano serie, e non rechino, a causa della loro lunghezza, noia o grave incomodo a quelli che sono nel Coro, o che funzionano all'Altare, nei Vespri e nelle Messe.



(©L'Osservatore Romano - 6 ottobre 2010)
Caterina63
00venerdì 11 febbraio 2011 15:12

La lingua della celebrazione liturgica






di Uwe Michael Lang, C.O.*

ROMA, mercoledì, 9 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La lingua non è soltanto uno strumento che serve per comunicare fatti, e deve farlo nel modo più semplice ed efficiente, ma è anche il mezzo per esprimere la nostra mens in un modo che coinvolga tutta la persona. Di conseguenza, la lingua è anche il mezzo in cui si esprimono i pensieri e le esperienze religiosi.

La lingua adoperata nel culto divino, ovvero la “lingua sacra” non si spinge fino alla glossolalia (cf 1Cor 14) o al mistico silenzio, escludendo completamente la comunicazione umana, o almeno tentando di farlo. Tuttavia, si riduce l’elemento della comprensibilità a favore di altri elementi, in particolare quello espressivo. Christine Mohrmann, la grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa.

Infatti, la Mohrmann sostiene che ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel culto, mentre un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di essa. In tal senso, il Cardinale Albert Malcolm Ranjith ha ricordato in un’intervista: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» (La Repubblica, 31 luglio 2008, p. 42).

L’uso di una lingua sacra nella celebrazione liturgica fa parte di ciò che san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae chiama la solemnitas. Il Dottore Angelico insegna: «Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono» (Summa Theologiae III, 64, 2; cf. 83, 4).

La lingua sacra, essendo il mezzo di espressione non solo degli individui, ma di una comunità che segue le sue tradizioni, è conservatrice: mantiene le forme linguistiche arcaiche con tenacia. Inoltre, vengono introdotti in essa elementi esterni, in quanto associazioni ad un’antica tradizione religiosa. Un caso paradigmatico è il vocabolario biblico ebraico nel latino usato dai cristiani (amen, alleluia, osanna ecc.), come ha osservato già sant’Agostino (cf. De doctrina christiana II, 34-35 [11,16]).

Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro.

Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.

La distanza fra il latino liturgico e la lingua del popolo divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. Questa situazione non favoriva la partecipazione dei fedeli nella liturgia e perciò il Concilio Vaticano II volle estendere l’uso del vernacolo, già introdotto in una certa misura nei decenni precedenti, nella celebrazione dei sacramenti (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). Allo stesso tempo, il Concilio ha sottolineato che «l’uso della lingua latina […] sia conservato nei riti latini» (ibid., art. 36, n. 1; cf. anche art. 54). Comunque, i Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata totalmente sostituita dal vernacolo.
La frammentazione linguistica del culto cattolico si è spinta così oltre, che molti fedeli oggi possono a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma e altrove.

In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Senz’altro il latino contribuisce al carattere sacro e stabile «che attrae molti all’antico uso», come scrive il Santo Padre Benedetto XVI nella sua Lettera ai Vescovi, in occasione della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007). Con l’uso più ampio della lingua latina, scelta del tutto legittima, ma poco usata, «nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità» (ibid.).

Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacolare, come fa notare con esemplare chiarezza l’Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sulla traduzione dei libri liturgici Liturgiam authenticam del 2001. Un frutto notevole di questa istruzione è la nuova traduzione inglese del Missale Romanum che verrà introdotta in molti paesi anglofoni nel corso di quest’anno.


*Padre Uwe Michael Lang è Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.


Caterina63
00domenica 26 giugno 2011 18:12

BELLEZZA E LITURGIA: VERSO UNA COMPRENSIONE DEL CONCETTO DI LITURGIA COME UN AFFACCIARSI DEL CIELO



Riportiamo l’ estratto di una conferenza tenuta da padre Uwe Michael Lang durante la “Liturgy Convention of the Archdiocese of Colombo” (Sri Lanka) tenutasi presso l’Aquinas University College, il 01 settembre 2010.L’intervento completo lo potete trovare qui.







di Uwe Michael Lang

Nel 2008, lo “Institut Papst Benedict XVI” a Regensburg in Germania, ha iniziato a pubblicare la raccolta degli scritti di Joseph Ratzinger. Secondo l’espresso desiderio dell’attuale Santo Padre, l’undicesimo volume della progettata serie, “Teologia della Liturgia”, è apparso per primo (1). Nel luglio 2010, è stata pubblicata la traduzione italiana di questo volume (2) e la versione inglese è preparata dalla Ignatius Press di San Francisco.
Nella prefazione, datata 29 giugno 2008, nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, Benedetto XVI spiega le ragioni per questa scelta, che era ovvia, poiché la Sacra Liturgia è stata sempre centrale nella sua vita fin dall’infanzia ed è il cuore della sua opera teologica. C’è un’altra ragione perché la serie inizi con il volume sulla liturgia: il progetto editoriale riflette l’ordine di priorità del Concilio Vaticano II.

Il Santo Padre attira l’attenzione sul fatto che il primo documento conciliare è stata la Costituzione sulla Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium: “Ciò che a prima vista può sembrare una coincidenza, si rivela essere, guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, anche intrinsecamente giusto. Iniziando con il tema della ‘liturgia’, si mette inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità del tema ‘Dio’. Prima di tutto Dio: questo significa iniziare con la liturgia. Quando il centro non è Dio, tutto il resto perde il suo orientamento. Il motto della regola benedettina ‘Non anteporre nulla all’Opera di Dio’ (43,3) si applica specificamente al monachesimo, ma come ordine di priorità è vero anche per la vita della Chiesa e di tutti, ciascuno nel proprio modo”. (3)
Papa Benedetto richiama poi un tema che egli ha esplorato nei suoi diversi scritti sulla liturgia, ed è la pienezza di significato della “ortodossia”: può essere utile ricordare che nel termine “ortodossia”, la seconda parte della parola “doxa”, non significa “opinione”, ma “gloria” (Herrlichkeit): non si tratta di avere una “opinione” corretta su Dio, ma il modo appropriato di glorificarlo, di rispondergli. Perché questa è la domanda fondamentale dell’uomo che comincia a comprendere se stesso correttamente: come posso incontrare Dio? Perciò, apprendere il modo giusto di adorazione – di ortodossia – è quanto ci è concesso soprattutto grazie alla fede. (4)

Esiste un’antica massima del quinto secolo che è spesso riproposta nella forma “Lex orandi, lex credendi”; cioè letteralmente, la legge dell’orazione è la legge della fede (5). Vuol dire che il culto pubblico della Chiesa è espressione e testimonianza della sua infallibile fede, e ci deve aiutare a capire profondamente, al di là delle stesse parole, che ogni nostra aspirazione di bontà, di verità, di bellezza e di amore è fondata nella trascendente realtà di Dio (6).

Nelle sue omelie e discorsi, e in special modo nelle celebrazioni liturgiche, Papa Benedetto XVI ha coerentemente seguito l’ordine delle priorità del Concilio e ha trasmesso a un pubblico mondiale il suo profondo assillo teologico espresso nei suoi molti scritti sull’argomento, che la sacra liturgia deve essere un riflesso della gloria di Dio. Ciò vale soprattutto per la celebrazione della Santa Messa nella quale si rinnova ogni volta in forma sacramentale il Mistero pasquale della Passione, Morte e Risurrezione di Cristo. Celebrando l’Eucaristia, siamo immersi in comunione con il Signore che ci benedice col dono del suo amore – il dono di sé sotto le apparenze del pane e del vino.
La liturgia, insomma, conta. Conta non solo perché, anche da una prospettiva puramente empirica, la grande maggioranza dei cattolici praticanti incontra la Chiesa alla Messa domenicale, ma a un livello più profondo, il culto di Dio è “la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana”, come afferma la Costituzione sulla Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium. Nella liturgia, in particolare nel santo sacrificio dell’Eucaristia, “si compie l’opera della nostra redenzione”, come dichiara un’antica preghiera del Rito Romano della Messa. Inoltre, la liturgia manifesta al mondo “il Mistero di Cristo e la vera natura della Chiesa”.


La Bellezza di Cristo e la Bellezza della Liturgia
[…]
Il pontefice ha riflettuto sulla bellezza nella liturgia anche nell’Esortazione Apostolica post sinodale Sacramentum Caritatis del 2007, e il seguente paragrafo merita di essere citato per intero: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione. In Gesù, come soleva dire san Bonaventura, contempliamo la bellezza e il fulgore delle origini.

Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore. Già nella creazione Dio si lascia intravedere nella bellezza e nell’armonia del cosmo. Nell’Antico Testamento poi troviamo ampi segni del fulgore della potenza di Dio, che si manifesta con la sua gloria attraverso i prodigi operati in mezzo al popolo eletto. Nel Nuovo Testamento si compie definitivamente questa epifania di bellezza nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo: Egli è la piena manifestazione della gloria divina. Nella glorificazione del Figlio risplende e si comunica la gloria del Padre. Tuttavia, questa bellezza non è una semplice armonia di forme; “il più bello tra i figli dell’uomo” è anche misteriosamente colui che “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”. Gesù Cristo ci mostra come la verità dell’amore sa trasfigurare anche l’oscuro mistero della morte nella luce irradiante della risurrezione. Qui il fulgore della gloria di Dio supera ogni bellezza intramondana. La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale” (14).

La bellezza della liturgia si manifesta concretamente attraverso oggetti materiali e gesti corporali, che l’uomo – unità di anima e corpo – deve innalzare verso le realtà di fede che trascendono il mondo visibile. Questo tema fu affrontato dal Concilio di Trento, nel quinto capitolo della Dottrina sul Sacrificio della Messa: “La natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questo la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti … similmente ha introdotto cerimonie, come le benedizioni mistiche, le luci, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande, e per indurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo sacrificio” (15). Ciò significa che l’architettura sacra e l’arte sacra, comprese le sacre vesti, calici e simili, siano di una qualità tale da poter esprimere e comunicare la bellezza e la maestà della liturgia (16).

Papa Giovanni Paolo II, nella sua ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia del 2003, ricorda il fondamento biblico della grande attenzione della Chiesa per la bellezza del culto divino: l’unzione di Gesù a Betania. “Una donna, identificata da Giovanni con Maria sorella di Lazzaro, versa sul capo di Gesù un vasetto di profumo prezioso, provocando nei discepoli – in particolare in Giuda – una reazione di protesta, come se tale gesto, in considerazione delle esigenze dei poveri, costituisse uno “spreco”intollerabile. Ma la valutazione di Gesù è ben diversa. Senza nulla togliere al dovere della carità verso gli indigenti, ai quali i discepoli si dovranno sempre dedicare – i “poveri li avrete sempre con voi” – Egli guarda all’evento imminente della sua morte e della sua sepoltura, e apprezza l’unzione che gli è stata praticata quale anticipazione di quell’onore di cui il suo corpo continuerà ad essere degno anche dopo la morte, indissolubilmente legato com’è al mistero della sua persona” (17).

Questo paragrafo illustra soprattutto che la cura per le chiese e per la liturgia è espressione di amore per Dio. Anche là dove la Chiesa non gode di grandi risorse materiali, tale cura deve essere una priorità. Mi piace ricordare su questo punto un grande papa del XVIII secolo, Benedetto XIV (1740 – 1758), il quale scrisse nella sua enciclica Annus Qui, dedicata alla musica sacra: “Non intendiamo, con queste parole, insistere su suppellettili sontuose o lussuose per gli edifici sacri, né su ricchi o costosi arredamenti. Sappiamo che ciò non è ovunque possibile. Ciò che desideriamo è il decoro e la pulizia. Esse possono andare di pari passo con la povertà e adeguarsi ad essa” (18).
[…]


Arte Sacra

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 2005, fa uso anche di molti capolavori di arte sacra per presentare gli insegnamenti della fede cattolica. Joseph Ratzinger, da Cardinale, scrisse nella sua ‘Introduzione’ al Compendio, che poi approvò da Papa: “Dalla secolare tradizione conciliare apprendiamo che anche l’immagine è predicazione evangelica. Gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza. E’ un indizio questo, di come oggi più che mai, nella civiltà dell’immagine, l’immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico” (27).

Come qui si indica, i Padri della Chiesa, i concili ecumenici, specialmente il secondo Concilio di Nicea nel 787, i sinodi provinciali e diocesani, singoli vescovi hanno dedicato grande attenzione alle questioni di arte sacra, soprattutto l’uso delle immagini. Inoltre, come committenti di nuove chiese o di opere di arte sacra, papi e vescovi hanno dato precise istruzioni agli artisti. Per scegliere solo un esempio, il XVI secolo è stato non solo un periodo di stupenda creatività artistica, ma anche di intensa riflessione sulle belle arti. Tra i tanti impegnati in tale dialettica, ci furono numerosi eminenti ecclesiastici vicini a san Filippo Neri (1515 – 1595) e alla Congregazione dell’Oratorio, tra cui il grande vescovo riformatore san Carlo Borromeo (1538 – 1584).
Nel ventesimo secolo, due importanti documenti del Magistero ecclesiastico hanno dedicato intere sezioni all’arte sacra e alla sua connessione con la sacra liturgia. Il primo fu l’enciclica di Pio XII Mediator Dei del 1947, seguito dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II. Non sorprende di certo che quei documenti, trattando della liturgia nei suoi vari aspetti, accenni anche all’arte destinata al solenne culto della Chiesa.

La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II dichiara nel capitolo VII su “L’Arte Sacra e la Sacra Suppellettile”: “Fra le più nobili attività dell’ingegno umano sono annoverate, a pieno diritto, le belle arti, soprattutto l’arte religiosa e il suo vertice, l’arte sacra. Esse, per loro natura, hanno relazione con l’infinita bellezza divina che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo, e sono tanto più orientate a Dio e all’incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio” (28).

E’ significativo che questo paragrafo del Sacrosanctum Concilium introduca una distinzione tra “arte religiosa” e “arte sacra”. Si può dire che l’arte religiosa si caratterizza dall’approccio personale dell’artista a un tema religioso. A causa di tale elemento fortemente soggettivo, non sempre un’opera di arte religiosa è accessibile a chiunque. Al contrario, l’arte sacra nasce dall’interesse e dalla riflessione dell’artista su una verità storica o positiva di una determinata religione. Oltre al fattore soggettivo, sempre presente nella creazione dell’artista, l’arte sacra ha pure una qualità oggettiva che trascende le forme individuali di espressione e, per questo, in grado di essere apprezzata da chiunque sia familiare con il tema religioso (29).
La distinzione fra arte religiosa ed arte sacra non è soltanto una sfumatura. L’arte sacra tende ad una “traduzione” visibile della realtà che trascende i limiti dell’individualità umana. Ciò ha importanti conseguenze per le forme di espressione, come bene osserva Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, nel capitolo intitolato “La Questione delle Immagini” del suo libro di gran spessore “Lo spirito della Liturgia”: “Non può esserci pura arbitrarietà nell’arte sacra. Quelle forme d’arte che negano la presenza del Logos nella realtà e riducono l’uomo a ciò che appare ai sensi, sono incompatibili con la comprensione che la Chiesa ha dell’immagine. L’arte sacra mai proviene da un’isolata soggettività … La libertà artistica, che è pure necessaria nell’ambito più ristretto dell’arte sacra, non significa arbitrarietà … Senza fede, non esiste arte commisurabile alla liturgia” (30).

Non è un caso che le riflessioni dell’attuale pontefice sull’arte sacra, si trovino nella sua monografia sulla liturgia. L’arte sacra costituisce il “vertice” dell’arte religiosa (il testo latino usa il termine “culmen”), poiché è esplicitamente diretta alla lode e alla gloria di Dio. “L’arte religiosa” diventa “arte sacra” in virtù della sua destinazione al sacrum, che nel contesto cristiano non si intende in un senso vago o generico, ma riferito alla sacra liturgia. Per cui l’arte sacra si distingue per essere al servizio del solenne culto pubblico della Chiesa a Dio (31). Si può fare la seguente analogia per chiarire meglio: fra un’opera di arte religiosa e un’opera di arte sacra, c’è la stessa differenza che unisce e distingue una poesia che parla di Dio, e una preghiera.
L’arte sacra ha un’altra importante dimensione: essa è popolare perché può essere compresa da tutti i fedeli, toccando i loro cuori. Nella storia della Chiesa, l’arte sacra si rivolgeva anche agli analfabeti, era la “Bibbia del povero”. Di conseguenza, l’arte sacra non può mai essere il campo di un’autoproclamata élite o “avant-guarde”.

Papa Benedetto conclude il capitolo sulla “Questione delle Immagini” nel suo libro “Lo spirito della Liturgia”, tentando di individuare i principi fondamentali di un’arte ordinata al culto divino (33). “Non potendo qui discutere in maniera sistematica di tali principi, vorrei segnalare il primo, che pare essenziale: La completa assenza di immagini è incompatibile con la fede nell’incarnazione di Dio. Dio ha agito nella storia ed è entrato nel nostro mondo sensibile, per renderlo a Lui trasparente. Immagini di bellezza, che rappresentino il mistero dell’invisibile Dio che diventa visibile, sono parte essenziale del culto cristiano … L’iconoclastia non è un’opzione cristiana” (34). In altre parole, l’arte sacra nel contesto cristiano è, o comunque dovrebbe essere, figurativa. Ne consegue che bisognerebbe ridiscutere la presenza di arte astratta in tante chiese cattoliche costruite più di recente.

Oggi in occidente, c’è una crisi dell’arte sacra che è parte della crisi dell’arte in generale. In effetti, la crisi si estende ben aldilà dei confini dell’arte in ambito ecclesiale (35). Un rinnovamento dell’arte sacra nel mondo contemporaneo, dipende dal rinnovamento della sacra liturgia. Papa Benedetto ha fatto passi decisivi verso tale rinnovamento, e abbiamo ragione di sperare che i frutti del rinnovamento si avranno anche nell’arte sacra e nell’architettura.

Da Cardinale, Joseph Ratzinger ha scritto “dello sforzo – necessario in ogni generazione – per la retta comprensione e la degna celebrazione della sacra liturgia” (36); lo stesso vale per l’arte sacra e l’architettura. Ci ha ricordato anche che, all’inizio di tale sforzo, occorre rendersi conto che l’arte – come la liturgia – “non può venire ‘prodotta’, come se si ordinassero e producessero apparecchiature tecniche. E’ sempre un dono … Prima di tutto richiede il dono di una visione nuova. Per cui vale la pena compiere ogni sforzo per riconquistare una fede che vede” (37). Una “fede che vede” è cruciale anche per apprezzare l’immenso tesoro di bellezza che le precedenti generazioni ci hanno lasciato nelle loro stupende opere di arte sacra e architettura.
Le grandi cattedrali e le chiese in tutto il mondo non sono solo monumenti culturali, sono testimonianze della fede cattolica. Papa Benedetto osserva nello “Spirito della Liturgia”: “La grande tradizione culturale della fede possiede un immenso potere. Ciò che nei musei è solo un monumento del passato, un’occasione di mera ammirazione nostalgica, nella liturgia invece si rende costantemente presente in tutta la sua novità” (38).
[…]


fr. Uwe Michael Lang


Liturgy Convention of the Archdiocese of Colombo - Sri Lanka - held at Aquinas University College, 01/09/2010.
link al testo originale in inglese



(traduzione di Don Giorgio Rizzieri)

*Padre Uwe Michael Lang è Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.


Caterina63
00domenica 29 luglio 2012 09:27

ESCLUSIVO . Padre Uwe Michael Lang : GRAZIE E ARRIVEDERCI !

 
Padre Uwe Michael Lang , Oratoriano, ha preferito ritornare nel suo convento di Londra lasciando tutti gli incarichi in Vaticano. 
A Padre Lang un forte e commosso "GRAZIE" per il grande lavoro che generosamente e con rinnovato entusiasmo ha fatto in questi anni. 
A questo punto anche noi abbiamo bisogno di incoraggiarci vicendevolmente per proseguire il faticoso e solitario cammino intrapreso dopo l'elezione del nostro amatissimo Papa Benedetto XVI . 
Per questo invochiamo la potente intercessione della Beata Vergine Maria e dei Santi. 
                   Maria Mater Ecclesiae ora pro nobis !

Foto 1 : ( da destra) Mons. Albert Malcolm Ranjith Patabendige ( ora Cardinale Arcivescovo di Colombo, Sri Lanka), P. Uve Michel Lang, oratoriano e don Nicola Bux in una conferenza sulla Liturgia.
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Caterina63
00venerdì 17 agosto 2012 11:36

"Tamquam cor in pectore": il tabernacolo eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento

Sull'altare maggiore il tabernacolo era come il cuore spirituale e spaziale della Chiesa

di p. Uwe Michael Lang

 

 

 

foto: Duomo di Siena, Tabernacolo di Lorenzo di Pietro, detto "Il Vecchietta"

 

 

Tamquam cor in pectore: il tabernacolo eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento

"Il tabernacolo sull'altare maggiore era come il cuore spirituale e spaziale della Chiesa"

di p. Uwe Michael Lang


Negli ultimi anni la ricerca storica ha dedicato notevole attenzione al rapporto che esiste tra liturgia e architettura. Molti studiosi si sono concentrati sulla tarda antichità e sul Medio Evo, ma l'interesse si sta volgendo anche verso i periodi del Rinascimento e della Riforma cattolica prima e dopo il Concilio di Trento (1545 - 1563), come risulta evidente dagli atti di una conferenza tenuta al Kunsthistorisches Institut a Firenze nel 2003. Il redattore del volume, Joerg Stabenow, identifica due sviluppi principali che trasformarono gl'interni tipici delle chiese nei secoli XV e XVI.


Il primo rimosse quegli elementi che dividevano l'edificio sacro in diverse sezioni, creando così uno spazio unificato. Per contrasto, si strutturarono le chiese medievali con un complesso sistema di pareti divisorie, soprattutto la cancellata che separava la navata dal coro. Il secondo interessò il tabernacolo che, collocato in posizione centrale sull'altare maggiore, venne adottato come forma ordinaria di riserva eucaristica, divenendo il punto focale dell'architettura sacra di stile barocco.


Il termine "tabernaculum" era già usato nel Medio Evo per indicare il ricettacolo per il Santissimo Sacramento. Guglielmo Durando rileva nel suo libro "Rationale divinorum officiorum" del 1282 - e che ebbe un grande influsso nel suo tempo - che, a imitazione dell'Arca dell'Alleanza e della Tenda del convegno (Esodo 25 -26, 33, 7 -11 e altrove), "in alcune chiese è posta un'arca o tabernacolo (archa seu tabernaculum), in cui si custodisce il Corpo del Signore con reliquie". L'associazione biblica è significativa, poiché la Tenda del convegno rappresentava la presenza di Dio fra il popolo d'Israele nel deserto. Inoltre, il prologo del Vangelo di Giovanni afferma che il Verbo divino " si fece carne e venne ad abitare (letteralmente: "piantò la sua tenda") in mezzo a noi" (Gv. 1, 14). Infine, nell'Apocalisse viene evocata la Gerusalemme celeste con le parole: "Ecco la tenda di Dio con gli uomini!", che nella Vulgata latina recita: "Ecce tabernaculum Dei cum hominibus!" (Ap. 21, 3).


L'ubicazione di un tabernacolo eucaristico fisso sull'altare maggiore è generalmente associata alle riforme liturgiche che si effettuarono dopo il Concilio di Trento, soprattutto da parte di San Carlo Borromeo, i cui sforzi per rinnovare la vita religiosa nella sua Arcidiocesi di Milano divennero esemplari per tutta la Chiesa Cattolica. Tuttavia, tale pratica era già stata promossa da Vescovi riformatori prima di Trento e si può rintracciare nella Toscana del XV secolo.


In diverse chiese di questa regione italiana erano stati introdotti tabernacoli su altare maggiore, come la cattedrale di Volterra (1471) e la cattedrale di Prato (1487); forse l'esempio più noto è il trasferimento del vecchio tabernacolo del Vecchietta all'altare maggiore della Cattedrale di Siena nel 1506, dove prese il posto della "Maestà" di Duccio. La nuova disposizione fu vigorosamente promossa da Gian Matteo Giberti, Vescovo di Verona dal 1524 al 1543. Le "Consitutiones" di Giberti, pubblicate nel 1542 con l'approvazione di Papa Paolo III, miravano ad una riforma della vita ecclesiastica nella sua diocesi e anticiparono in molti modi gli sviluppi post-tridentini.


Una parte importante del programma pastorale di Giberti era proprio la collocazione della riserva del Santissimo Sacramento sull'altare maggiore al centro della chiesa, dove veniva esposto alla venerazione di clero e laici. Nelle sue "Consitutiones" scriveva il vescovo, evocando vari versetti di salmi: "E come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona (Ps. 123, 2), così siano gli occhi di coloro che stanno intorno alla mensa del Signore (Ps. 128, 3), rivolti sempre con timore e tremore verso l'altissimo e preziosissimo sacramento, che è lì sull'altare maggiore; piangano di gioia e si rallegrino piamente nelle loro lacrime, e vedranno com'è buono il Signore (cfr. Ps. 34, 9)".


Con uno schema simile, Pier Francesco Zini nella sua biografia del Giberti, pubblicata a Venezia nel 1555 col titolo "Boni pastoris exemplum ac specimen singulare", scrive che il tabernacolo sull'altare maggiore trova una posizione che è "come il cuore nel petto" (tamquam cor in pectore). Si voleva che il tabernacolo fosse il cuore della chiesa sia in senso spaziale che spirituale. Giberti applicò questo principio alla sua cattedrale di Verona e lo prescrisse per tutte le Chiese parrocchiali della sua Diocesi.


Il Concilio di Trento, che si celebrò dal 1545 al 1563, non diede alcuna direttiva specifica sull'architettura e gli arredi delle Chiese. Tuttavia i decreti conciliari, affermando il tradizionale insegnamento della Chiesa, diedero chiare indicazioni teologiche sulla costruzione delle nuove Chiese e sulla ristrutturazione di quelle già esistenti. I canoni del Decreto sull'Eucaristia, datato 11 ottobre 1551, frutto della XIII sessione del Concilio, riconfermarono la posizione cattolica di fronte alla critica protestante, soprattutto quella di Martin Lutero che sosteneva che Cristo era presente nel sacramento dell'Eucaristia soltanto durante la vera e propria celebrazione liturgica, quando veniva ricevuto con fede dai comunicandi.


I canoni tridentini ribadirono la dottrina del IV Concilio Laterano del 1215 sulla presenza reale e permanente di Cristo sotto la forma del pane e del vino dopo la loro consacrazione da parte del sacerdote. Ne consegue la necessità di una custodia appropriata e sicura delle ostie consacrate dopo la Messa, utilizzate anche per portare la Santa Comunione agli ammalati. Il canone sette parla in termini apparentemente generali della riserva della Santissima Eucaristia "in sacrario". Nell'uso medievale, il termine "sacrarium" poteva indicare qualsiasi luogo per la riserva eucaristica, compresa la sacrestia. Comunque, nel contesto di Trento, si può ritenere che molti Padri conciliari intendessero per "sacrarium" il tabernacolo d'altare. Un'interpretazione che era già corrente, come si evince dal Sinodo convocato dal Cardinale Reginald Pole, Legato della Santa Sede in Inghilterra, e tenuto a Westminster nel dicembre del 1555 e gennaio del 1556. Il sinodo decretò che la Santissima Eucaristia dovesse essere custodita "o al centro dell'altare o alla sua estremità".


Il Concilio di Trento accentuò anche il ruolo dei vescovi nel realizzare le riforme ecclesiastiche e dispose la pubblicazione di libri liturgici revisionati, opera che fu condotta dai papi negli anni successivi. Tali fattori portarono ad una standardizzazione della vita liturgica, che fece sì che il nuovo modo di ccustodire l'Eucaristia sull'altare maggiore si diffondesse in tutto il mondo cattolico.


Gli storici si sono spesso concentrati sul contributo dato da San Carlo Borromeo (1538 - 1584) allo sviluppo dell'architettura e degli arredi sacri post-tridentini. Borromeo è stato presentato come un modello di Vescovo riformatore, ponendo in atto i decreti tridentini nell'Arcidiocesi di Milano con diligenza esemplare. Senza ridurre il ruolo di questo grande Vescovo, sembrebbe appropriato collocare il suo operato in un più ampio contesto culturale. Il tabernacolo sull'altare maggiore non fu affatto un'innovazione del Borromeo, abbiamo visto infatti che il pensiero teologico che sosteneva tale pratica era già in circolazione da diverso tempo.


Le idee del Borromeo sull'architettura sacra sono espresse in modo succinto nelle sue "Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae" del 1577, composto da un gruppo di autori sotto i suoi auspici. Sulla questione della riserva eucaristica, le "Instructiones" si riferiscono ai decreti del primo Sinodo provinciale di Milano tenuto nel 1565, che stabiliva che in tutte le chiese in cui si custodiva il Santissimo Sacramento, compresa la Cattedrale, questo fosse collocato sull'altare maggiore, a meno che un caso di necessità o una grave ragione non lo impedissero.


L'Arcivescovo di Milano diede l'esempio trasferendo il Santissimo Sacramento dalla sacrestia all'altare maggiore della sua Cattedrale. Le "Instructiones" del Borromeo furono largamente recepite nel periodo post-tridentino, mentre vi era ancora qualche flessibilità sul luogo della riserva eucaristica. Vale la pena notare che il "Cerimoniale Episcoporum" del 1600 raccomandava che il Santissimo Sacramento non si tenesse sull'altare maggiore o su altro altare al quale il vescovo dovesse celebrare la Messa solenne o i Vespri. Tuttavia, non penso che ciò indichi una critica del tabernacolo sull'altare maggiore, come invece ritiene Christoph Jobst nel suo studio magistrale sul tema. La prescrizione non riguarda la disposizione generale della Chiesa, ma le rubriche di celebrazioni specifiche. Al massimo, si potrebbe dedurre che nelle liturgie pontificali si riflettesse l'antica consuetudine della riserva eucaristica separata dall'altare.


Il rituale romano del 1614 ha un paragrafo pertinente nei "Praenotanda" sul Santissimo Sacramento dell'Eucaristia, che recita: "Il tabernacolo sia opportunamente coperto da un baldacchino, e null'altro vi sia contenuto. Sia collocato sull'altare maggiore o su altro altare dove si possa vedere facilmente e possa così rendersi degna adorazione a questo grande Sacramento".


Anche qui c'è flessibilità sulla ubicazione del tabernacolo: può stare sull'altare maggiore o su altro altare della Chiesa che sia appropriato per la venerazione del Sacramento. Istruzioni simili si possono trovare negli atti di molti Sinodi diocesani e provinciali tenutisi nella prima metà del secolo XVII. Per esempio, il Sinodo di Costanza nel 1609 decretò che il Santissimo Sacramento fosse custodito " o sull'altare stesso, secondo l'uso romano, o alla sinistra del coro presso l'altare". In ogni modo, l'ubicazione del tabernacolo sull'altare principale secondo "l'uso romano" fu adottato gradualmente in tutta Europa come parte della Riforma tridentina.


A questo sviluppo contribuì una serie di fattori: innanzi tutto, la chiara e sicura riaffermazione del Concilio della dottrina cattolica della presenza reale di fronte alla critica protestante; secondariamente, la crescente popolarità delle devozioni eucaristiche (Benedizione col Santissimo Sacramento, processioni eucaristiche, la devozione delle Quarantore); in terzo luogo, la fioritura dell'arte e architettura barocche non solo in Europa ma in tutto il mondo cattolico, con un'attenzione speciale nell'esprimere visibilmente le verità di fede, soprattutto la presenza reale; e per ultimo, la standardizzazione dei libri liturgici dopo il Concilio di Trento, con la pratica romana presa a modello per l'intera Chiesa.


E' evidente che tale sviluppo, visto nel suo contesto culturale e artistico, non ebbe inizio con il Concilio di Trento, ma fu parte di una tendenza comune nel Rinascimento e nell'architettura sacra barocca di creare uno spazio unificato, nel quale il tabernacolo sull'altare maggiore era effettivamente, secondo le parole del biografo del Giberti, "tamquam cor in pectore".

 

The Institute of Sacred Architecture, vol. 15 - spring 2009
http://www.sacredarchitecture.org/articles/tamquam_cor_in_pectore_the_eucharistic_tabernacle_before_and_after_the_coun/

traduzione italiana a cura di d. Giorgio Rizzieri

(12/08/2012)


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Caterina63
00venerdì 24 agosto 2012 16:00

Alla riscoperta dello 'Spirito della Liturgia' di Benedetto XVI

"L'aspetto di cena dell'Eucaristia è divenuto proprietà comune, ed è proprio il suo carattere sacrificale che ha bisogno di essere ricuperato"

di p. Uwe Michael Lang

  

 

 

 

Alla riscoperta dello 'Spirito della Liturgia' di Benedetto XVI

Louis Bouyer e l'Architettura Sacra

di Padre Uwe Michael Lang

 

Il pensiero dell'attuale Santo Padre sulla liturgia e l'architettura sacra è stato notevolmente influenzato da Louis Bouyer (1913 - 2004), un convertito dal luteranesimo, sacerdote dell'Oratorio francese (congregazione religiosa fondata dal Card. Pierre De Bérulle nel XVII secolo e distinto dall'Oratorio di San Filippo Neri) e protagonista del movimento liturgico in Francia (1). Bouyer ha lasciato un'enorme letteratura che si estende non solo allo studio della sacra liturgia, ma anche ad altri campi della teologia e della spiritualità. Ha insegnato per molti anni in università americane e molti dei suoi libri sono stati pubblicati in inglese, eppure il mondo anglofono sembrò non accorgersi della morte di Bouyer avvenuta il 22 ottobre 2004 all'età di 91 anni (2).

Joseph Ratzinger e Louis Bouyer erano amici che avevano grande stima delle opere l'uno dell'altro. Entrambi furono chiamati a far parte della Commissione Teologica Internazionale istituita da Papa Paolo VI nel 1969. Bouyer, nelle sue memorie non pubblicate, rievoca le sessioni di lavoro della Commissione ed elogia in particolare la chiarezza di visione di Ratzinger, la sua vasta conoscenza, il suo coraggio intellettuale, il suo giudizio incisivo e il suo garbato senso dell'umorismo. Nel suo interessante libro - intervista del 1979, dal titolo "Le Métier de Théologien" (Il mestiere di teologo), Bouyer plaude alla nomina dell'eminente teologo Joseph Ratzinger ad Arcivescovo di Monaco (3). A sua volta, il Cardinal Ratzinger, in un contributo pubblicato originariamente nel 2002, richiama la fondazione della rivista teologica internazionale 'Communio'. Iniziata da un gruppo di amici, 'Communio' comprendeva i famosi teologi Henri de Lubac, Hans Urs von Balthasar, Louis Bouyer e Jorge Medina Estévez, che diventerà poi il Cardinal  Prefetto della Congregazione Vaticana per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (4).

Nel suo 'Spirito della Liturgia', il debito dell'attuale Papa verso Bouyer si rende particolarmente evidente nei capitoli dedicati a "I sacri luoghi - Il significato dell'edificio chiesa" e "L'altare e la direzione della preghiera liturgica", nei quali il teologo francese è continuamente citato (5). Nella breve bibliografia, il libro di Bouyer "Liturgia e Architettura" occupa un posto preminente. Questo libro venne pubblicato originariamente in inglese nel 1967 dalla University of Notre Dame Press; tradotto in tedesco soltanto nel 1993, e subito usato dall'allora Cardinal Ratzinger. Il tema dell'orientamento nella preghiera liturgica interessava il teologo Joseph Ratzinger già dal 1966, al culmine della riforma liturgica post-conciliare (6); il suo primo contributo significativo al dibattito risale al 1978 ed è riportato nell'importante volume 'La festa della fede', pubblicato in tedesco nel 1981 (7). Comunque, è stata sicuramente l'opera dell'amico Bouyer ad aver condotto Ratzinger a un approccio più profondo, quale è riflesso ne "Lo spirito della liturgia".

 


Origini ebraiche del culto cristiano

Una delle caratteristiche della teologia sulla liturgia di Papa Benedetto è la sua accentuazione delle radici ebraiche del culto cristiano, da lui considerato manifestazione dell'unità essenziale di Antico e Nuovo Testamento, che ripetutamente sottolinea (8). Bouyer persegue tale metodologia nella sua monografia 'Eucaristia', in cui sostiene che la forma della liturgia ecclesiale va compresa come proveniente da un contesto rituale ebraico (9).

Bouyer, in 'Liturgia e architettura', esplora lo sfondo ebraico nella primitiva architettura delle chiese, soprattutto riguardo alla "direzione sacra" che deve assumere il culto divino. Egli nota che gli ebrei della diaspora pregavano verso Gerusalemme o, più precisamente, verso la presenza del Dio trascendente (shekinah) nel "Santo dei Santi" del Tempio. Anche dopo la distruzione del tempio, la consuetudine prevalente di volgersi verso Gerusalemme per la preghiera fu mantenuta nella liturgia della sinagoga. Gli ebrei esprimono la loro speranza escatologica per la venuta del Messia, per la ricostruzione del tempio, e per il ritorno del popolo di Dio dalla diaspora. La direzione della preghiera era perciò inseparabilmente legata  all'attesa messianica di Israele (10).

Bouyer osserva che tale direzione della preghiera verso il Santo dei Santi nel Tempio di Gerusalemme dava al culto della sinagoga ebraica una qualità quasi-sacramentale che andava oltre la mera proclamazione della Parola. La direzione sacra fu rafforzata dal successivo sviluppo del santuario della Torah, dove si conservavano solennemente i rotoli della Sacra Scrittura. Il santuario della Torah diventa perciò un segno della presenza di Dio fra il suo popolo, tenendo viva la memoria della sua ineffabile presenza nel Santo dei Santi del Tempio. Ratzinger nota nello "Spirito della Liturgia" che nell'architettura sacra cristiana, che continua e nello stesso tempo trasforma l'architettura della sinagoga, il santuario della Torah ha il suo equivalente nell'altare collocato verso la parete orientale o nell'abside, luogo in cui il sacrificio di Cristo, Verbo incarnato, si rende presente nella liturgia della Messa (11).

 


Le chiese siriane

"Liturgia e Architettura" di Bouyer ha reso disponibile a un pubblico più vasto la ricerca degli anni '60 sulla primitiva architettura sacra cristiana nel Medio Oriente (12). Le chiese siriane più antiche ancora superstiti, e che datano dal IV secolo in avanti, per lo più seguono il modello della basilica, simile alle sinagoghe del tempo, con la differenza però che erano generalmente costruite con l'abside rivolta ad Oriente. Nelle chiese dove rimane qualche indizio sulla posizione dell'altare, esso appare collocato solo un po' più in avanti rispetto alla parete orientale o direttamente dinanzi alla parete.

L'orientamento della chiesa e dell'altare corrisponde perciò al principio universalmente accettato di volgersi ad Oriente nella preghiera ed esprime la speranza escatologica dei primi cristiani per la seconda venuta di Cristo quale Sole di giustizia. Il 'bema', una pedana rialzata nel mezzo dell'edificio, veniva dalla sinagoga, dove serviva da luogo in cui si leggevano le Sacre Scritture e si recitavano preghiere. Il Vescovo sedeva con il suo clero nella parte occidentale del 'bema' nella navata davanti all'abside. Dal 'bema' si svolgevano anche la salmodia e le letture che fanno parte della liturgia della Parola. Il clero procede poi verso Oriente all'altare per la liturgia eucaristica (13). La teoria di Bouyer, secondo cui la "disposizione siriana" col 'bema' nella navata fosse anche lo schema originale delle chiese bizantine, ha trovato accoglienza diversificata tra gli studiosi. Ciò su cui si riscontra un largo accordo, invece, è che il celebrante stesse in piedi di fronte all'altare, rivolto ad Oriente con l'assemblea eucaristica.

 


Le basiliche romane

Le primitive chiese romane, specialmente quelle con ingresso orientato, come la Basilica lateranense o San Pietro in Vaticano (che è unica in molti modi) presentano quesiti sul loro uso liturgico che sono ancora tema di dibattito tra gli studiosi. Secondo Bouyer, l'intera assemblea, Vescovo o sacerdote celebrante che stavano dietro all'altare e i fedeli nella navata si volgevano verso oriente e quindi verso le porte durante la preghiera eucaristica (15). Era probabile che le porte fossero lasciate aperte in modo che la luce del sole nascente, simbolo del Cristo risorto e della sua seconda venuta nella gloria, invadessero la navata. L'assemblea formava un semicerchio che si apriva ad oriente, con il sacerdote celebrante all'apice. Nel contesto della pratica religiosa nel mondo antico, questo gesto liturgico non appare così straordinario come sembrerebbe oggi. Era consuetudine generale nell'antichità pregare verso il cielo aperto, il che significa che in un ambiente chiuso ci si volgesse per la preghiera verso porta o finestra aperte, tradizione attestata da fonti ebraiche e cristiane (16). E' ben possibile che per la preghiera eucaristica i fedeli, insieme al celebrante, si volgessero verso l'ingresso orientale. La pratica di sacerdote e fedeli che si fronteggiavano a vicenda sorse quando non si comprese più il profondo simbolismo del volgersi ad oriente e i fedeli non si volgevano più ad est per la preghiera eucaristica. Ciò avveniva soprattutto in quelle basiliche dove si era trasferito l'altare dal centro della navata all'abside.

Un altro tema di studio è quello che parte dalla rilevazione che il volgersi ad Oriente si accompagnava al volgere degli occhi in alto, in particolare verso il cielo ad Oriente, considerato il luogo del Paradiso e la scena della seconda venuta di Cristo. L'elevazione dei cuori nel Canone, in risposta alla monizione "Sursum corda", implicava i gesti corporali di stare eretti, alzare le mani e guardare verso il cielo. Non è un puro caso che in molte basiliche (solo) l'abside e l'arco trionfale fossero decorati con magnifici mosaici; i loro programmi iconografici sono spesso in riferimento alla Eucaristia celebrata al di sotto. I mosaici servivano a dirigere l'attenzione dell'assemblea che guardava in alto durante la preghiera eucaristica. Anche il sacerdote all'altare pregava con le braccia aperte e alzate, senza altri gesti rituali. Dove l'altare era posto all'ingresso dell'abside o nella navata centrale, il celebrante in piedi dinanzi ad esso, poteva facilmente guardare in alto verso l'abside. Con gli splendidi mosaici che rappresentavano il mondo celestiale, è probabile che l'abside indicasse l'"Oriente liturgico" e dunque il centro della preghiera (17). Questa teoria ha il chiaro vantaggio di giustificare meglio la correlazione tra liturgia, arte e architettura della teoria di Bouyer, che deve spiegare una discrepanza tra i riti sacri e lo spazio creato per essi. Papa Benedetto allude a questa teoria nei suoi fini commenti sull'orientamento nella preghiera liturgica nell'omelia che tenne durante la Veglia Pasquale del 2008 (18).

Anche se si ritiene che sacerdote e popolo si fronteggiassero a vicenda nelle prime basiliche cristiane con ingresso ad Oriente, si può escludere ogni contatto visivo almeno durante il canone, dal momento che tutti pregavano con le braccia alzate e gli occhi in alto. Ad ogni modo, non c'era molto da guardare all'altare, poiché gesti rituali come segno di croce, bacio dell'altare, genuflessione ed elevazione delle specie eucaristiche furono aggiunte solo più tardi (19). Bouyer ha certamente ragione quando dice che la Messa "rivolta al popolo", nel senso moderno, era sconosciuta all'antichità cristiana, e che sarebbe anacronistico considerare la liturgia eucaristica nelle primitive basiliche romane come ad un prototipo.

Bouyer accredita l'architettura bizantina come causa dello sviluppo della basilica cristiana primitiva: quegli elementi che non erano appropriati per la celebrazione liturgica venivano cambiati o rimossi, così che si impose un nuovo tipo di costruzione. Di grande rilievo fu la formazione di una iconografia particolare che era strettamente collegata con i sacri misteri celebrati nella liturgia, conferendo loro forma artistica visibile. L'architettura sacra in occidente, invece, dipendeva fortemente dalla struttura basilicale. E' assai significativo che la ricca decorazione della parte orientale e della cupola nelle chiese bizantine abbia la sua controparte negli affreschi ottoniani e romanici e, ancor più sviluppati, nelle sontuose composizioni d'altare del tardo Medio Evo, del Rinascimento e del Barocco, che rappresentano temi intimamente connessi con l'Eucaristia, dando così una pregustazione della gloria eterna che i fedeli ricevono nel sacrificio della Messa (20).

 


Il Movimento liturgico e la Messa "rivolta al popolo"

Bouyer, come testimone di quella esperienza, riferisce che i pionieri del Movimento Liturgico nel XX secolo avevano due ragioni principali per promuovere la celebrazione della Messa 'versum populum'. Per prima cosa, essi volevano che la Parola di Dio venisse proclamata verso il popolo. Secondo le rubriche per la Messa "bassa" (o privata), il sacerdote doveva leggere l'Epistola e il Vangelo dal messale adagiato sull'altare. Per cui, l'unica opzione era quella di celebrare l'intera Messa "rivolta verso il popolo", come era d'altronde previsto dal Messale di San Pio V (21) per corrispondere alla particolare disposizione delle basiliche maggiori romane. L'Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti "Inter Oecumenici" del 26 settembre 1964, la lettura dell'Epistola e del Vangelo da un pulpito o ambone, introducendo così il primo incentivo per la Messa rivolta verso il popolo.

Vi era però anche un'altra ragione che motivò molti esponenti del Movimento Liturgico a sollecitare tale cambiamento, e precisamente l'intento di rendere più percepibile la Santa Eucaristia come banchetto sacro, che si riteneva fosse eclissato dalla forte accentuazione sul suo carattere sacrificale. E si ritenne che celebrare la Messa verso il popolo fosse un modo adeguato per recuperare tale perdita.

Bouyer nota in retrospettiva una tendenza a concepire l'Eucaristia come cena 'in contrasto' con il sacrificio, che egli definisce un dualismo fabbricato che non trova giustificazione nella tradizione liturgica (22). Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, "La Messa è ad un tempo e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce, e il sacro banchetto della Comunione al Corpo e Sangue del Signore" (23), e nessuno dei due aspetti può essere isolato dall'altro. Bouyer aggiunge che la nostra situazione oggi è molto diversa da quella della prima metà del XX secolo, poiché l'aspetto di cena dell'Eucaristia è divenuto proprietà comune, ed è proprio il suo carattere sacrificale che ha bisogno di essere ricuperato (24).

L'esperienza pastorale conferma tale analisi, poiché la comprensione della Messa come sacrificio di Cristo e sacrificio della Chiesa è notevolmente diminuita, se non svanita tra i fedeli (25). Ci si domanda pertanto legittimamente se il grande peso dato all'aspetto di cena per l'Eucaristia che ha motivato il volgersi del sacerdote celebrante verso il popolo non sia stato eccessivo, e se si sia riusciti a proclamare l'Eucaristia "un sacrificio visibile (come esige l'umana natura)" (26). Il carattere sacrificale dell'Eucaristia deve trovare un'espressione adeguata nell'attuale rito. Fin dal III secolo, l'Eucaristia è stata chiamata 'prosphora', 'anaphora' e 'oblazione', termini che articolano l'idea di "portare a", "presentare", e quindi di un movimento verso Dio.

 


Conclusione

Bouyer ha fatto un po' di tutta l'erba un fascio, e la sua interpretazione dei dati storici è talvolta discutibile o perfino insostenibile. Inoltre, era incline ad esprimere le sue posizioni teologiche in modo aspro, e il suo gusto per la polemica lo faceva a volte esagerare nelle sue buone ragioni. Come altri importanti teologi anteriori al Concilio Vaticano II, egli ebbe un rapporto ambiguo con il cattolicesimo post-tridentino e non era del tutto esente da un atteggiamento iconoclastico (27). Successivamente, egli deplorò alcuni sviluppi post-conciliari soprattutto nella liturgia e nella vita religiosa, e di nuovo lo manifestò nei termini più forti possibile (28).

Ovviamente, Benedetto XVI non condivide l'atteggiamento di Bouyer, come emerge dal suo apprezzamento dei sani e legittimi sviluppi nella liturgia post-tridentina, nell'architettura sacra, nell'arte e nella musica. Va pure detto che Joseph Ratzinger non fa propri gli ultimi capitoli, più sperimentali, di "Liturgia e Architettura", dove sono presentati nuovi modelli schematici di edifici ecclesiali. Con tutti i suoi limiti, tuttavia, il libro di Bouyer resta un'opera importante e il suo merito più grande è forse quello di aver presentato a un pubblico più ampio il valore dell'architettura sacra primitiva siriana. Louis Bouyer fu uno dei primi a sollevare questioni che allora sembravano non aderenti alla realtà, ma che ora sono divenute materia di intenso dibattitio teologico e liturgico (29).


The Institute for Sacred Architecture, vol. 19 - Spring 2011
http://www.sacredarchitecture.org/articles/louis_bouyer_and_church_architecture/

trad. it. a cura di d. Giorgio Rizzieri

 


NOTE

(1) Cfr. i contributi recenti di J. F. Thomas "Notes sur le sacré et la liturgie chez Louis Bouyer et Joseph Ratzinger", Communio 31 (2006): 45-62; e K. Lemma, "Louis Boyer's Defense of Religion and the Sacred: Sacrifice and the Primacy of Divine Gift in Christian Liturgy", Antifona 12 (22008): 2-24.

(2) A differenza della Francia, dove si pubblicò un necrologio di Armogathe su Le Figaro, 27 ottobre 2004 e un altro di Tinq su Le Monde, 27 ottobre 2004.

(3) L. Bouyer, Le Métier de Théologien. Entretiens avec Georges Daix.

(4) J. Ratzinger, "Eucaristia-Comunione- Solidarietà: Cristo presente e attivo nel SS.mo Sacramento".

(5) J. Ratzinger, "Lo Spirito della Liturgia", 62-84.

(6) In una conferenza al Katholilentag a Bamberg.

(7) J. Ratzinger, "La festa della fede: Approcci a una teologia della Liturgia".

(8) Vedi, ad esempio, "Spirito della Liturgia", 66.

(9) L. Bouyer, "Eucaristia: Teologia e spiritualità della preghiera eucaristica".

(10) Cfr. Bouyer, "Liturgia e Architettura", 17-20.

(11) Cfr. Ratzinger, "Spirito della Liturgia", 70-71.

(12) Per esempio, J.Lassus, "Sanctuaires chrétiens de Syrie", e G. Tchalenko, "Villages antiques de la Syrie du Nord: Le massif de Bélus à l'époque romaine", 3. volume.

(13) Vedi Bouyer, "Liturgia e Architettura", 24-39.

(14) Cfr. la critica di R.F. Taft "Some notes on the Bema in the East and West Syrian Traditions"

(15) Bouyer, "Liturgia e Architettura", 55-56.

(16) Daniele 6,10; Tobia 3,11 e Atti 10,9; Talmud babilonese, Berakhot 5,1, Origene, De oratione 32. Evidenza archeologica di sinagoghe galilee del tardo I secolo con l'ingresso verso Gerusalemme. Sembrerebbe che l'assemblea si volgesse verso le porte aperte per la preghiera e dunque guardasse verso la direzione della Città Santa.

(17) Vedi soprattutto S. Heid "Gebetshaltung und Ostung in fruehchristlicher Zeit", Rivista di Archeologia Cristiana 82: 347-404.

(18) Benedetto XVI, Omelia della Veglia Pasquale, 22 marzo 2008.

(19) Vedi Bouyer, "Liturgia e Architettura", 56-59.

(20) Ibid. 60-70.

(21) Missale Romanum (1570-1962), Ritus servandus in celebratione Missae, V,3.

(22) Cfr. postscritto di Bouyer alla edizione francese di K. Gamber, "Tournés vers le Seigneur!", 67: "non vi è mai stato, in nessuna religione, un sacrificio che non sia un pasto, ma un pasto sacro: riconosciuto come avvolgente il mistero di una speciale presenza e comunicazione divina".

(23) no. 1382.

(24) Cfr. Bouyer, "Liturgia e Architettura", 106-111.

(25) Cfr. commenti di Schreiter, "Constructing local theologies". Prefazione di Schillebeeckx.

(26) Concilio di Trento, sessione XXII, cap. 1, Denzinger 1740, citato dal Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1366.

(27) Infatti la sua posizione sulla Messa rivolta al popolo si è sviluppata: vedi la sua lettera a Padre Pie Duployé, O.P., del 1943, un testo che si rivelò molto influente per il rinnovamento liturgico in Francia. Bouyer scrive che, per promuovere la partecipazione dei fedeli nella liturgia, occorre operare alcuni cambiamenti: "Ciò deve in molti casi, significare la scomparsa irrimediabile delle pale d'altare, dei vasi di fiori, dei gradini... dei tabernacoli inutili o inutilmente voluminosi".

(28) Bouyer in "La decomposizione del cattolicesimo": "Dobbiamo dirlo con franchezza: non c'è praticamente una liturgia degna di questo nome oggi nella Chiesa Cattolica .. Forse in nessun'altra area c'è maggiore distanza (e perfino opposizione formale) tra ciò che il Concilio decise e ciò che in realtà abbiamo".

(29) Cfr. la Prefazione scritta da Papa Benedetto XVI nel 2008 per il primo volume della sua Opera Omnia.

 

(22/08/2012)

Caterina63
00giovedì 22 novembre 2012 23:40

IL PAPA: LA BELLEZZA DELLA FEDE NON È DI OSTACOLO ALLA CREAZIONE ARTISTICA

Città del Vaticano, 22 novembre 2012 (VIS).-Nel pomeriggio di ieri, presso l’Aula Magna del Palazzo San Pio X, si è tenuta la XVII Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, il cui tema questa volta è stato: "Pulchritudinis fidei testis. L’artista, come la Chiesa, testimone della bellezza della fede". Nel corso della seduta, aperta dal cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha letto un messaggio che Benedetto XVI aveva indirizzato ai partecipanti.

Nel testo, il Papa riafferma “la volontà della Chiesa di ritrovare la gioia della riflessione comune e di un’azione concorde, al fine di rimettere nuovamente al centro dell’attenzione, sia della Comunità ecclesiale, sia della società civile e del mondo della cultura, il tema della bellezza”.

La bellezza “dovrebbe tornare a riaffermarsi e a manifestarsi in tutte le espressioni artistiche, senza però prescindere dall’esperienza di fede, anzi, confrontandosi liberamente e apertamente con essa, per trarne ispirazione e contenuto. La bellezza della fede, infatti, non può mai essere ostacolo alla creazione della bellezza artistica, perché ne costituisce in qualche modo la linfa vitale e l’orizzonte ultimo. Il vero artista, infatti, definito dal Messaggio conciliare "custode della bellezza del mondo", grazie alla sua particolare sensibilità estetica e al suo intuito può cogliere e accogliere più in profondità di altri la bellezza propria della fede, e quindi riesprimerla e comunicarla con il suo stesso linguaggio”.

“In questo senso -sottolinea- possiamo allora parlare dell’artista anche come testimone, in qualche modo privilegiato, della bellezza della fede. Egli così può partecipare, con il proprio specifico e originale contributo, alla stessa vocazione e missione della Chiesa, in particolare quando, nelle diverse espressioni dell’arte, voglia o sia chiamato a realizzare opere d’arte direttamente collegate all’esperienza di fede e al culto, all’azione liturgica della Chiesa”.

Nell'Anno della Fede, il Papa invita tutti gli artisti cristiani e tutti coloro che si aprono al dialogo con la fede, a far sì che il loro percorso artistico diventi “un itinerario integrale, in cui tutte le dimensioni dell’esistenza umana siano coinvolte, così da testimoniare efficacemente la bellezza della fede in Cristo Gesù, immagine della gloria di Dio che illumina la storia dell’umanità”.

La seduta si è conclusa con la consegna del Premio delle Accademie Pontificie, dedicato quest'anno alle arti, in particolar modo alla pittura e alla scultura, e di cui sono stati vincitori la scultrice polacca Anna Gulak, e il pittore spagnolo David Ribes López. La Medaglia del Pontificato è stata consegnata allo scultore italianoal giovane scultore italiano Jacopo Cardillo.


Altare e Tabernacolo non sono in conflitto neppure nelle nuove chiese ! Un progetto basato sulla “teologia della liturgia” di Benedetto XVI .

 
Pubblichiamo uno studio dell'Architetto Claudio Mecozzi che riguarda un argomento centrale che si riversa anche nell'azione liturgica :  salvaguardare l'unità nella Chiesa evitando contrapposizioni.
Una tematica assai cara all'allora Cardinale Joseph Ratzinger che il Prof. P. Uwe Michael Lang, che ha curato la supervisione di questo progetto  nell’ambito del Master da lui coordinato, ha fatto sua .
Ormai in vasti settori del  mondo cattolico si percepisce il desiderio sempre più forte di seguire il solco della viva tradizione e non di contrapporsi ad essa e questo studio, destinato soprattutto alle nuove chiese che si dovranno costruire, lo conferma !
La foto 3   riassume graficamente la proposta progettuale elaborata dall'Architetto  onde  fornire una migliore comprensione del tema trattato ;  le immagini 1 e 2 si riferiscono invece alla  Chiesa romana di Sant'Atanasio dei Greci  .
Ringraziamo l'Archietto Mecozzi per  aver voluto destinare ai Lettori di MiL questo suo interessante studio.
A.C.
 
"Si tratta di argomento centrale riguardo gli aspetti architettonici della liturgia. 
Lo affronto da fedele cattolico e da professionista architetto che ha avuto la necessità di conoscere questi argomenti. 
Le mie riflessioni trovano nella “teologia della liturgia” di Benedetto XVI il riferimento principale. L’ermeneutica della riforma liturgica intesa dentro un processo di organica continuità costituisce il fondamento delle scelte architettoniche oggetto di questo studio. 
Intendo rivolgere queste riflessioni e le indicazioni che propongo rifuggendo interpretazioni di parte tali da soddisfare solamente specifiche congregazioni o movimenti ecclesiali. 
Sono sin dagli anni dell’Università interessato alla conoscenza delle diverse realtà spirituali della chiesa pre e post –conciliari. 
Cose antiche e cose nuove che costituiscono una multiforme ricchezza dell’unica Chiesa fondata da Gesù Cristo. 
Ho avuto una intensa esperienza nel Rinnovamento Carismatico Cattolico che mi ha segnato profondamente. 
Vi sono stati poi brevi periodi in cui ho partecipato con interesse alle catechesi e alle celebrazioni Neocatecumenali. 
Nella Cappella Universitaria della Sapienza Padre Umberto, l’allora cappellano, mi iniziò all’adorazione eucaristica che non ho più lasciato. 
Ho trovato successivamente beneficio nei Movimenti Mariani che seguo tuttora e dove ho potuto riscoprire la preghiera del S.to Rosario. 
Più recentemente frequento con vivo interesse alcune realtà ecclesiali ispirate alla tradizione liturgica. 
La Chiesa è una.
Or dunque, l’altare è il luogo della celebrazione ed il tabernacolo nel presbiterio è il luogo innanzitutto dell’adorazione.
La disposizione architettonica dell’altare in relazione al tabernacolo esplicita la visione teologico-liturgica che ne è sottesa.
Se ritengo ci sia conflitto di segni tra altare e tabernacolo tenderò a distanziare nettamente i due luoghi. Nelle nuove chiese post-conciliari ad esempio si è ricorso sino ad ora, non di rado, alla soluzione del tabernacolo decentrato sul presbiterio.
Benedetto XVI ci spiega chiaramente come il conflitto tra celebrazione ed adorazione è inesistente.
“ In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’ambiente spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucarestia.” (Benedetto XVI, Omelia del Corpus Domini,7 Giugno 2012).
Il Santo Padre stà indicando la strada di una corretta interpretazione della riforma liturgica a parole e con l’esempio.
Se non c’è conflitto tra celebrazione ed adorazione non c’è conflitto tra Altare e Tabernacolo. 
Dopo cinquant’anni di esperienze ed esperimenti post-conciliari credo sia maturo il tempo per ricominciare ad apprezzare tanti aspetti architettonici della liturgia che erano stati dati per superati. 
Le chiese storiche costituiscono segno tangibile di una chiesa che non nasce oggi ma che ha attraversato i secoli. 
Queste chiese sono segno della nostra storia e della nostra identità non solo dal punto di vista artistico ma anche liturgico. 
Considerare tutto ciò come retaggio del passato che non può dire nulla alla fede dell’uomo contemporaneo è segno di ignoranza culturale e spirituale. 
Oggi, anche alla luce del Magistero di Benedetto XVI, credo, sia maturo il tempo per riflettere sui tanti interventi architettonici nei presbiteri che hanno stravolto in maniera irreversibile lo spazio liturgico delle chiese storiche. 
Le scelte fatte nel recente passato secondo criteri di reversibilità invece sono state senzaltro più sagge. In tal modo nulla è andato perduto del patrimonio artistico e liturgico ereditato. 
In particolare mi riferisco all’uso di anteporre altari posticci davanti agli altari storici. 
Oggi possiamo riconsiderare facilmente questi presbiteri specialmente nelle piccole chiese o nelle cappelle dove per la ristrettezza dello spazio l’altare posticcio messo davanti all’altare storico ha un sapore più ideologico che liturgico. 
Questo mio pensiero trova riscontro in tanti casi dove più o meno recentemente questi altari aggiunti sono stati rimossi e si è ricominciato a celebrare nell’altare storico monumentale. 
In questo modo la Santa Messa ancorchè nella forma ordinaria ritrova un aspetto fondamentale della tradizione che è quello dell’unica direzione della preghiera liturgica. 
Non si tratta di volgere le spalle al popolo ma di ritrovare il comune orientamento di una liturgia non chiusa in sé stessa ma protesa verso Dio. ( Se n'è occupato in questi giorni anche un ParrocoN.d.R.)
La liturgia abbraccia l’universo, è aperta verso Dio, ha un valore cosmico. 
L’orientamento comune della preghiera liturgica significa questo e costituisce un elemento della liturgia che ritengo sia bene riscoprire anche nei nuovi movimenti e cammini della chiesa post-conciliare. 
La nuova evangelizzazione soprattutto nei paesi di antica tradizione cristiana potrà ancorarsi attraverso questi semplici e significativi segni all’esperienza bimillenaria della liturgia. 
Di altari storici sfuggiti alla distruzione rimangono fortunatamente ancora molti esempi e costituiscono un bene prezioso da rispettare. 
Non solo tutelandoli dal punto di vista artistico ma riscoprendone quindi tutto il loro perenne valore liturgico. 

Altari a mensola sono stati realizzati sin a tutti gli anni cinquanta dello scorso secolo, di questi molti con pregevoli fattezze architettoniche ispirate ad una sana modernità. 
Sin quì ho potuto indicare alcune linee di intervento nei riguardi delle chiese storiche. 
Altra cosa invece sono le nuove chiese da realizzare oggi. 
Parlo di chiese non destinate ad una specifica congregazione ma per accogliere nell’unità tutti i fedeli cattolici, come nel caso delle nuove chiese parrocchiali. 
Non si può a questo punto non considerare realisticamente le differenti sensibilità liturgiche presenti attualmente nella chiesa. 
Queste sono espressione dei diversi cammini spirituali compresi i cammini che si ispirano di più alla tradizione. 
Pertanto non ritengo corretta una visione dello spazio liturgico da imporre gli uni agli altri ma piuttosto uno spazio liturgico che recepisca le istanze di rinnovamento in continuità con la viva tradizione della chiesa. 
Per questo credo che per una nuova chiesa parrocchiale la soluzione da ricercare per l’altare non dovrebbe precludere la possibilità di celebrare correttamente sia versus populum che versus Deum
Questa condizione non è difficile da realizzare attraverso uno spazio adeguato distribuito tutt’intorno all’altare. 
Un altare così concepito costituisce una soluzione che può esser ampiamente condivisa. 
Nell’Altare della Cattedra di S.Pietro il Cardinale Canizares Llovera in occasione del Pellegrinaggio dei Fedeli pro Summorum Pontificum (3/novembre/2012) ha celebrato versus Deum semplicemente sistemando la croce e i candelieri sull’altro lato dell’altare. 
Proviamo ora a fare un ulteriore passo. 
Un altare così concepito come può esser compatibile con il tabernacolo centrale? 
Tale esigenza si manifesta innanzitutto considerando l’evolversi della tradizione liturgica che a cominciare dal XIII° sec. secondo un organico continuo processo di rinnovamento ha determinato l’affermarsi nel XVI° sec. della centralità del tabernacolo nelle chiese. 
Questa centralità si è confermata ampiamente nei secoli successivi. 
La riforma liturgica, iniziata già prima del Concilio Vaticano II, non intendeva operare una rottura con la tradizione ma piuttosto un rinnovamento nella continuità. 
La centralità del Tabernacolo infatti non è scelta di secondaria importanza, con il Tabernacolo in posizione centrale si comunica la centralità permanente di Gesù Cristo vivo e presente nella sua Chiesa. 
Ora accade che nella celebrazione versus populum con la centralità della custodia eucaristica vi è la contraddizione del sacerdote che rivolge le spalle al Tabernacolo. 
Non è sufficiente sistemare il Tabernacolo in posizione rialzata, poiché anche in questo modo si continua a volgergli le spalle. 

Attingere allora dalla tradizione della chiesa può esserci di valido aiuto. 
Nella chiesa del IV° sec. al centro del padiglione del ciborio erano sospese per mezzo di catenelle le custodie eucaristiche nelle due forme a torre e a colomba. 
Con tutta probabilità la torre servì da custodia alla colomba che conteneva il pane eucaristico. 
Qualche volta sotto al ciborio se ne innalzava un altro, di piccole dimensioni che prendeva il nome di peristerium (colombaio) in quanto custodiva la colomba eucaristica.” (S.E. Mons. Mauro Piacenza: La custodia dell’Eucarestia). 
Più tardi si aggiunse la forma a pisside. 
Il ciborio in epoca barocca si trasformerà in baldacchino continuando in qualche caso ad ospitare la custodia eucaristica pendente. 
Non mancano anche esempi recenti di tale soluzione come nell’altare maggiore della Cappella del Pontificio Istituto di Musica Sacra a Roma realizzato ai primi del novecento. 
Ora non si tratta di riproporre in modo pedissequo queste soluzioni ma piuttosto considerare il principio della custodia eucaristica pensile. 
Il ciborio e il baldacchino servono a sottolineare l’altare, e sin qui penso possa esserci un ampia condivisione. 

Un baldacchino da realizzare oggi potrà esser realizzato attraverso soluzioni architettoniche attuali. 
I materiali potranno esser della contemporaneità in un linguaggio architettonico sobrio. 
Una sana modernità per usare un espressione cara al Servo di Dio Papa Paolo VI. 
Un baldacchino così concepito potrà quindi costituirsi come struttura portante del tabernacolo pensile. 
Ma come realizzare oggi una custodia eucaristica pensile date anche le attuali esigenze di sicurezza? 
La tecnologia non può venirci in aiuto? 
L’uso accorto di opportuni e sperimentati dispositivi tecnologici propri dell’epoca in cui viviamo è nello spirito del Concilio e della stessa riforma liturgica. 
Si potrebbe infatti consentire il necessario movimento verticale del tabernacolo attraverso un colonnina telescopica appositamente studiata. 
Al posto delle catenelle vi sarà la colonnina telescopica che potrà garantire la necessaria robustezza e inamovibilità. 
La colonnina inoltre potrà avere un veste artistica in sintonia con il tabernacolo. 
Ad esempio rivestendo il tabernacolo con un canopeo si potrà distintamente rivestire anche il sistema telescopico. 
Si mostrerà alla vista una sorta di torre o piccolo ciborio ( peristerium ). 
Il prezioso tessuto del canopeo pendente arricchito di ricami sottolineerà il centro dell’altare, luogo della consacrazione e dell’elevazione durante la liturgia eucaristica. 
La superficie inferiore del tabernacolo potrà contenere una lampada in grado di attivarsi attraverso una cellula fotoelettrica intercettando i gesti delle mani del sacerdote durante la consacrazione. 
Durante la liturgia eucaristica il tabernacolo (adorazione) illumina il mistero celebrato in quel momento sull’altare. 
Segno dell’ ”ambiente spirituale” dove ben celebrare l’Eucarestia. 
Un rinnovamento degli aspetti architettonici della liturgia nel solco della viva tradizione. 
Credo infatti che si dovrebbe evitare di offrire ai fedeli soluzioni architettoniche che disorientino. 
I fedeli hanno da sempre saputo distinguere la differenza tra altare, Tabernacolo e le Sacre Specie Consacrate che si mostrano all’adorazione. 
Al contempo hanno mantenuto la percezione del loro profondo legame. 
L’architettura è in grado di comunicare la distinzione nell’unita. 
La riproposizione del tabernacolo pensile è stata proposta nella fase di idea progettuale attraverso una soluzione indicativa, una sorta di prototipo. 
Questo è in relazione architettonica al lavoro di ricerca da me intrapreso attraverso l’elaborazione del progetto per la chiesa parrocchiale di S. Giovanni Nepomuceno Neumann a Montespaccato (Roma)  ed
ha avuto la supervisione del Rev. prof. Uwe Michael Lang nell’ambito del Master da egli coordinato. 
Un presbiterio schematizzato dove cogliere immediatamente la versatilità della proposta che si presta a differenti soluzioni architettoniche. 
Un modo questo per soffermarsi soprattutto in questa fase sugli aspetti teologico-liturgici e tecnologici. La definizione artistica ed iconografica è anche essa aperta a diverse possibilità e si costituisce come distinto impegno progettuale di una fase successiva. 
Arch. Claudio Mecozzi












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