La Musica Sacra nel Culto Cattolico (Il canto gregoriano, gli Inni)

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Caterina63
00domenica 20 settembre 2009 21:16
La musica sacra nel pensiero della Chiesa

L'universalità del gregoriano


Michael John Zielinski
Vicepresidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa


L'arte e la musica, manifestazioni della bellezza, non sono elementi estrinseci alla liturgia e neppure sono puramente decorativi; sono piuttosto parti integranti del culto, come mette in rilievo Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica post-sinodale
Sacramentum caritatis del 22 febbraio 2007: "Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione. In Gesù, come soleva dire san Bonaventura, contempliamo la bellezza e il fulgore delle origini. Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l'amore" (numero 35).
Il valore spirituale della musica è stato riconosciuto in un modo distinto da san Filippo Neri. Nei suoi esercizi spirituali, che chiamava "oratorio", san Filippo usava la parola e la musica: la lettura e il commento di un testo dei Padri della Chiesa o di autori classici di spiritualità favorivano l'edificazione e il raccoglimento degli uditori, mentre la musica veniva aggiunta per consolare et recreare li animi stracchi da discorsi precedenti. Come scrive Maria Teresa Bonadonna Russo, "San Filippo dichiarò infatti (...) di aver preso dalla "pratica" l'idea di introdurre "tra gli esercizi gravi fatti da persone gravi la piacevolezza della musica spirituale"". L'idea di inserire la musica nelle sue riunioni spirituali, che concepiva come "reti per pescar anime", sembra dovuta all'esperienza maturata durante la sua giovinezza a Firenze, dove il canto delle laudi sacre era molto diffuso fra il popolo. Di questi canti san Filippo stimava non solo la semplicità formale, ma anche la suggestione emotiva che grazie a essa erano in grado di suscitare.
Nel cosiddetto "oratorio grande" e nelle celebrazioni liturgiche la musica divenne sempre più importante ed elaborata, anche se non è mai stata considerata fine a se stessa: il suo scopo era il culto solenne offerto a Dio e l'edificazione delle anime. La Chiesa Nuova era un centro del mondo musicale romano, e fra gli amici e figli spirituali del santo si trovano i grandi musicisti del Cinquecento: Anerio, Animuccia, Palestrina, da Victoria. In tutte le regioni d'Italia, le congregazioni dell'Oratorio erano luoghi dove fioriva la musica sacra.
San Filippo ed i suoi figli spirituali mettevano in prassi ciò che la tradizione ecclesiale ha sempre affermato: il canto e la musica sacri, nell'offrire gloria a Dio nella solennità della celebrazione liturgica, sostengono la preghiera e la partecipazione ai santi misteri di quanti vi assistono. Nel santificare i fedeli e nell'educarne il gusto, il canto sacro rende anche esplicita la misteriosa unità del corpo mistico. Sant'Agostino descrive nelle sue Confessioni la viva commozione provata a Milano nel partecipare a celebrazioni in cui i fedeli eseguivano il canto dei salmi e degli inni di sant'Ambrogio (IX, 7, 15-16). In un sermone lo stesso sant'Agostino dice: "L'uomo nuovo sa qual è il cantico nuovo. Il cantare è espressione di gioia e, se pensiamo a ciò con un po' più di attenzione, è espressione di amore" (Sermo, 34, 1). In tal senso, Benedetto XVI ha detto durante la sua visita al Pontificio Istituto di Musica Sacra il 13 ottobre 2007: "Quanto è ricca la tradizione biblica e patristica nel sottolineare l'efficacia del canto e della musica sacra, per muovere i cuori ed elevarli a penetrare, per così dire, nella stessa intimità della vita di Dio!".
Tanti documenti pontifici e conciliari del secolo scorso richiamano alla celebrazione dei divini uffici in modo solenne e in canto. Come frutto di questo rinnovamento di musica sacra, i fedeli venivano a conoscere bene le melodie gregoriane più comuni, e ciò accadeva in molte regioni del mondo. Negli ultimi decenni, è invece stata proposta una grande varietà di canti e canzoni per favorire il coinvolgimento dell'assemblea; purtroppo essi mancano spesso nella forma e nel contenuto. Emerge anche il problema che molte composizioni nuove sono così effimere e legate al proprio tempo che devono essere sostituite dopo pochi anni.
Bisogna sottolineare che il magistero non richiede un'indistinta partecipazione di tutto il popolo nel canto liturgico, ma raccomanda un buon coordinamento di tutti, ciascuno secondo i propri compiti e ministeri, per cui "scaturisca quel giusto clima spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e fruttuoso" (Giovanni Paolo II, chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio, 23 novembre 2003). I documenti ecclesiastici parlano soprattutto del canto gregoriano, perché esso è intimamente unito alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche e fa parte della lex orandi della Chiesa. Questa è la traccia dal motu proprio di san Pio X
Tra le sollecitudini (1903) ai giorni nostri, passando attraverso l'enciclica Musicae sacrae disciplina di Pio XII (1955), il capitolo sesto della costituzione sulla sacra liturgia del Vaticano II Sacrosanctum Concilium (1963), la successiva istruzione dell'allora Congregazione dei Riti (1967), e il chirografo Mosso dal vivo desiderio di Giovanni Paolo II (2003) in commemorazione del centenario del Tra le sollecitudini.
In Sacramentum caritatis, Benedetto XVI afferma: "La Chiesa, nella sua bimillenaria storia, ha creato, e continua a creare, musica e canti che costituiscono un patrimonio di fede e di amore che non deve andare perduto. Davvero, in liturgia non possiamo dire che un canto vale l'altro. A tale proposito, occorre evitare la generica improvvisazione o l'introduzione di generi musicali non rispettosi del senso della liturgia. In quanto elemento liturgico, il canto deve integrarsi nella forma propria della celebrazione. Di conseguenza tutto - nel testo, nella melodia, nell'esecuzione - deve corrispondere al senso del mistero celebrato, alle parti del rito e ai tempi liturgici. Infine, pur tenendo conto dei diversi orientamenti e delle differenti tradizioni assai lodevoli, desidero, come è stato chiesto dai Padri sinodali, che venga adeguatamente valorizzato il canto gregoriano, in quanto canto proprio della liturgia romana" (numero 42).
Non è soltanto possibile, è anche desiderabile che l'assemblea, nella celebrazione della Santa Messa, partecipi cantando in gregoriano le parti che le sono assegnate. Ciò sarebbe un ritorno alla serietà della liturgia, alla santità e alla bontà di forme e all'universalità che devono caratterizzare ogni musica liturgica degna di questo nome, come insegna san Pio X e ribadiscono sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI. Si potrebbe iniziare dalle acclamazioni, dal Pater noster, e dai canti dell'Ordinario della Messa. Non si dovrebbe sottovalutare la capacità dei fedeli di apprendere un repertorio minimo. Possiamo imparare molto dall'esperienza dei paesi africani, dove il popolo cristiano canta facili melodie gregoriane ormai ben assimilate.
Non sorprende quindi che la musica sacra sia in crisi, perché "senza il canto gregoriano la musica di chiesa è mutilata, (...) non ci può essere anzi musica di chiesa senza canto gregoriano", come afferma monsignor Valentín Miserachs Grau, presidente del Pontificio Istituto di Musica Sacra. "I grandi maestri della polifonia sono ancora più grandi quando si basano sul canto gregoriano, mutuandone le tematiche, la modalità e la poliritmia. Per questo spirito che ne informa la raffinata tecnica, per questa fedele aderenza al testo sacro e al momento liturgico, sono stati grandi Palestrina, Lasso, da Victoria, Guerrero, Morales, e via dicendo". Anche le nuove composizioni, sia in latino sia in lingua volgare, sono tanto più valide quanto più si ispirano al canto gregoriano. Giovanni Paolo II ha fatto suo il noto principio di san Pio X: "Una composizione di chiesa è tanto più sacra e liturgica, quanto più nell'andamento, nell'ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme" (Tra le sollecitudini, numero 3; Mosso dal vivo desiderio, numero 12).

Nonostante i pronunciamenti del Concilio Vaticano II e del magistero papale, la musica di chiesa è in crisi; è colpita dall'ermeneutica di discontinuità e di rottura, della quale Benedetto XVI ha parlato nel suo Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005.

Per recuperare il grande tesoro che la tradizione della Chiesa ci ha trasmesso, bisogna cominciare con il canto gregoriano, che è in grado di comunicare al popolo di Dio il senso della cattolicità e di guidare verso una retta inculturazione.

Lo scrittore tedesco Martin Mosebach ricorda che questa musica era insolita anche alle orecchie di Carlo Magno o di san Tommaso d'Aquino, di Monteverdi o di Haydn. Ed era tanto estranea ai tempi loro quanto lo è ai nostri giorni. Oggi, tuttavia, si è meglio disposti verso la musica di altre culture di quanto non lo fossero i cristiani di molti secoli fa. Anzi, le melodie delle varie tradizioni locali, anche di culture diverse dalla nostra, sono parenti prossime del canto gregoriano, e anche in questo senso il canto gregoriano è veramente universale.

(©L'Osservatore Romano - 10 gennaio 2008)

Caterina63
00domenica 20 settembre 2009 21:18

MUSICAE SACRAE DISCIPLINA          

LA MUSICA SACRA

lettera enciclica del papa Pio XII

25 dicembre 1955 (1)


versione scaricabile (120 kb)

 

L'ordinamento della musica sacra Ci è stato sempre sommamente a cuore; Ci è pertanto sembrato opportuno riprenderne un'ordinata trattazione e insieme illustrare con una certa ampiezza molte questioni sorte e discusse in questi ultimi decenni, affinché questa nobile e ragguardevole arte giovi sempre più allo splendore del culto divino e a promuovere più efficacemente una più intensa vita spirituale dei fedeli. Abbiamo voluto allo stesso tempo venire incontro ai voti che molti di voi, venerabili fratelli, nella loro saggezza, hanno espresso e che anche insigni maestri di quest'arte liberale ed esimi cultori di musica sacra hanno formulato in occasione di congressi su tale materia, e infine a quanto hanno consigliato al riguardo l'esperienza della vita pastorale e i progressi della scienza e degli studi su quest'arte. In tal modo nutriamo speranza che le norme saggiamente fissate da san Pio X nel documento da lui a buon diritto chiamato "codice giuridico della musica sacra"(2) saranno di nuovo confermate e inculcate, riceveranno nuova luce e saranno corroborate da nuovi argomenti, in modo tale che la nobile arte della musica sacra, adattata alle presenti condizioni e in certo qual modo arricchita, sempre più risponda al suo alto fine.

 

I

Fra i molti e grandi doni di natura dei quali Dio, in cui è armonia di perfetta concordia e somma coerenza, ha arricchito l'uomo, creato a sua "immagine e somiglianza" (cf. Gn 1,26), deve annoverarsi la musica, la quale, insieme con le altre arti liberali contribuisce al gaudio spirituale e al diletto dell'animo. A ragione così scrive di essa Agostino: "La musica, cioè la dottrina e l'arte del ben modulare, a monito di grandi cose è stata concessa dalla divina liberalità anche ai mortali dotati di anima razionale".(3)

Nessuna meraviglia, dunque, che il sacro canto e l'arte musicale siano stati usati, come consta da molti documenti antichi e recenti, anche per ornamento e decoro delle cerimonie religiose sempre e dovunque, anche presso i popoli pagani; e che il culto soprattutto del vero e sommo Dio si sia avvalso fin dall'antichità, di quest'arte. Il popolo di Dio, scampato incolume dal Mar Rosso per miracolo della divina potenza, cantò a Dio un canto di vittoria; e Maria, sorella del condottiero Mosè dotata di spirito profetico, cantò al suono dei timpani accompagnata dal canto del popolo (cf. Es 15,1-20). In seguito, mentre si conduceva l'arca di Dio dalla casa di Abinadab alla città di Davide, il re stesso e "tutto Israele danzavano davanti a Dio con strumenti di legno lavorato, cetre, lire, timpani, sistri e cembali" (2Sam 6,5). Lo stesso re Davide fissò le regole della musica da usarsi nel culto sacro e del canto (cf. 1Cron 23,5; 25,2-31); regole che furono ristabilite dopo il ritorno del popolo dall'esilio e conservate fedelmente fino alla venuta del divin Redentore. Che nella chiesa, poi, fondata dal divin Salvatore, il canto sacro fosse fin da principio in uso e onore viene chiaramente indicato da san Paolo apostolo, quando agli efesini così scrive: "Siate ripieni di Spirito Santo recitando tra voi salmi e inni e canti spirituali" (Ef 5,18s; cf. Col 3,16); e che quest'uso di cantare salmi fosse in vigore anche nelle adunanze dei cristiani egli indica con queste parole: "Quando vi adunate alcuni tra voi cantano il salmo" (1Cor 14,26). Che lo stesso avvenisse dopo l'età apostolica è attestato da Plinio, il quale scrive che coloro che avevano rinnegato la fede avevano affermato "che questa era la sostanza della colpa di cui erano accusati, essere soliti adunarsi in un dato giorno prima dell'apparire della luce e cantare un inno a Cristo come a Dio".(4) Queste parole del proconsole romano di Bitinia mostrano chiaramente che neppure al tempo della persecuzione taceva del tutto la voce del canto della chiesa; ciò conferma Tertulliano quando narra che nelle adunanze dei cristiani "si leggono le Scritture, si cantano salmi, si tiene la catechesi".(5)

Restituita alla chiesa la libertà e la pace, si hanno molte testimonianze dei padri e degli scrittori ecclesiastici, le quali confermano essere i salmi e gli inni del culto liturgico di uso pressoché quotidiano. Anzi a poco a poco si sono create anche nuove forme ed escogitati nuovi generi di canti, sempre più perfezionati dalle scuole di musica, specialmente a Roma. Il nostro predecessore di f.m. san Gregorio Magno, secondo la tradizione, radunò con cura quanto era stato tramandato e vi diede un saggio ordinamento, provvedendo con opportune leggi e norme ad assicurare la purezza e l'integrità del canto sacro. Dall'alma città la modulazione romana del canto a poco a poco s'introdusse in altre regioni dell'occidente, e non solo vi si arricchì di nuove forme e melodie, ma si incominciò anche a usare una nuova specie di canto sacro, l'inno religioso, talora in lingua volgare. Lo stesso canto corale, che dal suo restauratore san Gregorio cominciò a chiamarsi "gregoriano", a partire dai secoli VIII e IX in quasi tutte le regioni dell'Europa cristiana acquistò nuovo splendore, con l'accompagnamento dello strumento musicale chiamato "organo".

A cominciare dal secolo IX a poco a poco a questo canto corale si aggiunse il canto polifonico, di cui nei secoli successivi sempre più si precisarono la teoria e la pratica e che, soprattutto nei secoli XV e XVI, raggiunse per opera di sommi artisti ammirabile perfezione. La chiesa ebbe sempre in grande onore anche questo canto polifonico e di buon grado lo ammise a maggior decoro dei sacri riti nelle stesse basiliche romane e nelle cerimonie pontificie. Se ne accrebbero l'efficacia e lo splendore, perché alla voce dei cantori si aggiunse, oltre l'organo, il suono di altri strumenti musicali.

In tal modo, per impulso e sotto l'auspicio della chiesa, l'ordinamento della musica sacra nel decorso dei secoli ha fatto lungo cammino, in cui, sebbene talvolta con lentezza e a fatica, tuttavia è salito a poco a poco a maggior perfezione: dalle semplici ed ingenue melodie gregoriane fino alle grandi e magnifiche opere d'arte, nelle quali non solo la voce umana, ma altresì l'organo e gli altri strumenti aggiungono dignità, ornamento e prodigiosa ricchezza. Il progresso di quest'arte musicale, mentre chiaramente dimostra quanto la chiesa si sia preoccupata di rendere sempre più splendido e gradito al popolo cristiano il culto divino, d'altra parte spiega come mai la chiesa medesima abbia talvolta dovuto impedire che si oltrepassassero i giusti limiti e che, insieme con il vero progresso, s'infiltrasse nella musica sacra, depravandola, alcunché di profano e alieno dal culto sacro.

A tale dovere di premurosa vigilanza sempre furono fedeli i sommi pontefici; anche il concilio di Trento saggiamente proscrisse "quelle musiche in cui o nell'organo o nel canto si mescola qualcosa di sensuale o impuro".(6) Per tralasciare non pochi altri papi, il nostro predecessore di f.m. Benedetto XIV con lettera enciclica del 19 febbraio 1749, in preparazione all'anno giubilare, con abbondante dottrina e copia di argomenti, esortò in modo particolare i vescovi a proibire con ogni mezzo i riprovevoli abusi che si erano indebitamente introdotti nella musica sacra.(7) Seguirono la stessa via i nostri predecessori Leone XII, Pio VIII,(8) Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII.(9) Tuttavia si può affermare a buon diritto che è stato il Nostro predecessore di i.m. san Pio X a compiere un'organica restaurazione e riforma della musica sacra, tornando a inculcare i principi e le norme tramandati dall'antichità e opportunamente riordinandoli secondo le esigenze dei tempi moderni.(10) Infine, come il nostro immediato predecessore Pio XI di f.m., con la costituzione apostolica Divini cultus sanctitatem
del 20 dicembre 1929,(11) così Noi stessi, con l'enciclica Mediator Dei del 20 novembre 1947, abbiamo ampliate e corroborate le prescrizioni dei precedenti pontefici.(12)

 

II

A nessuno certamente recherà meraviglia il fatto che la chiesa con tanta vigilanza s'interessi della musica sacra. Non si tratta, infatti, di dettare leggi di carattere estetico o tecnico nei riguardi della nobile disciplina della musica; è intenzione della chiesa, invece, che questa venga difesa da tutto ciò che potrebbe menomarne la dignità, essendo chiamata a prestare servizio in un campo di così grande importanza qual è quello del culto divino.

In ciò la musica sacra non ubbidisce a leggi e norme diverse da quelle che regolano ogni arte religiosa, anzi l'arte stessa in generale. Invero non ignoriamo che in questi ultimi anni alcuni artisti, con grave offesa della pietà cristiana, hanno osato introdurre nelle chiese opere prive di qualsiasi ispirazione religiosa e in pieno contrasto anche con le giuste regole dell'arte. Essi cercano di giustificare questo deplorevole modo di agire con argomenti speciosi, che pretendono far derivare dalla natura e dall'indole stessa dell'arte. Vanno, infatti, dicendo che l'ispirazione artistica è libera, che non è lecito sottoporla a leggi e norme estranee all'arte, siano queste morali o religiose, perché in tal modo si verrebbe a ledere gravemente la dignità dell'arte e a ostacolare con vincoli e legami il libero corso dell'azione dell'artista sotto il sacro influsso dell'estro.

Con tali argomenti viene sollevata una questione senza dubbio grave e difficile, che riguarda qualsiasi manifestazione d'arte e ogni artista; questione che non può essere risolta con argomenti tratti dall'arte e dall'estetica, ma che invece dev'essere esaminata alla luce del supremo principio del fine ultimo, regola sacra e inviolabile di ogni uomo e di ogni azione umana. L'uomo, infatti, dice ordine al suo fine ultimo - che è Dio - in forza di una legge assoluta e necessaria fondata sulla infinita perfezione della natura divina, in maniera così piena e perfetta che neppure Dio potrebbe esimere qualcuno dall'osservarla. Con questa legge eterna ed immutabile viene stabilito che l'uomo e tutte le sue azioni devono manifestare, a lode e gloria del Creatore, l'infinita perfezione di Dio e imitarla per quanto è possibile. L'uomo, perciò, destinato per natura sua a raggiungere questo fine supremo, nel suo operare deve conformarsi al divino archetipo e orientare in questa direzione tutte le facoltà dell'animo e del corpo, ordinandole rettamente tra loro e debitamente piegandole verso il conseguimento del fine. Pertanto anche l'arte e le opere artistiche devono essere giudicate in base alla loro conformità con il fine ultimo dell'uomo; e l'arte certamente è da annoverarsi fra le più nobili manifestazioni dell'ingegno umano, perché riguarda il modo di esprimere con opere umane l'infinita bellezza di Dio, di cui essa è quasi il riverbero. Per la qual cosa, la nota espressione "l'arte per l'arte" - con cui, messo in disparte quel fine che è insito in ogni creatura, erroneamente si afferma che l'arte non ha altre leggi che quelle che promanano dalla sua natura - o non ha valore alcuno o reca grave offesa a Dio stesso, creatore e fine ultimo. La libertà poi dell'artista - che non è un istinto cieco nell'azione, regolato solo dall'arbitrio o da una certa sete di novità - per il fatto che è soggetta alla legge divina, in nessun modo viene coartata o soffocata, ma piuttosto nobilitata e perfezionata.

Ciò, se vale per ogni opera d'arte, è chiaro che deve applicarsi anche nei riguardi dell'arte sacra e religiosa. Anzi l'arte religiosa è ancor più vincolata a Dio e diretta a promuovere la sua lode e la sua gloria, perché non ha altro scopo che quello di aiutare potentemente i fedeli a innalzare piamente la loro mente a Dio, agendo per mezzo delle sue manifestazioni sui sensi della vista e dell'udito. Perciò l'artista senza fede o lontano da Dio con il suo animo e con la sua condotta, in nessuna maniera deve occuparsi di arte religiosa; egli, infatti, non possiede quell'occhio interiore che gli permette di scorgere quanto è richiesto dalla maestà di Dio e dal suo culto. Né si può sperare che le sue opere prive di afflato religioso - anche se rivelano la perizia e una certa abilità esteriore dell'autore - possano mai ispirare quella fede e quella pietà che si addicono alla maestà della casa di Dio; e quindi non saranno mai degne di essere ammesse nel tempio dalla chiesa, che è la custode e l'arbitra della vita religiosa.

L'artista invece che ha fede profonda e tiene una condotta degna di un cristiano, agendo sotto l'impulso dell'amore di Dio e mettendo le sue doti a servizio della religione, per mezzo dei colori, delle linee e dell'armonia dei suoni farà ogni sforzo per esprimere la sua fede e la sua pietà con tanta perizia, eleganza e soavità, che questo sacro esercizio dell'arte costituirà per lui un atto di culto e di religione, e stimolerà grandemente il popolo a professare la fede e a coltivare la pietà. Tali artisti sono stati e saranno sempre tenuti in onore dalla chiesa; essa aprirà loro le porte dei templi, poiché si compiace del contributo non piccolo che essi con la loro arte e con la loro operosità danno per un più efficace svolgimento del suo ministero apostolico.

Queste leggi dell'arte religiosa vincolano con un legame ancora più stretto e più santo la musica sacra, poiché essa è più vicina al culto divino che le altre arti belle, come l'architettura, la pittura e la scultura; queste cercano di preparare una degna sede ai riti divini, quella invece occupa un posto di primaria importanza nello svolgimento stesso delle cerimonie e dei riti sacri. Per questo la chiesa deve con ogni diligenza provvedere a rimuovere dalla musica sacra, appunto perché questa è l'ancella della sacra liturgia, tutto ciò che disdice al culto divino o impedisce ai fedeli di innalzare la mente a Dio.

E, infatti, in ciò consiste la dignità e l'eccelsa finalità della musica sacra, che cioè per mezzo delle sue bellissime armonie e della sua magnificenza apporta decoro e ornamento alle voci sia del sacerdote offerente sia del popolo cristiano che loda il sommo Dio eleva i cuori dei fedeli a Dio per una sua intrinseca virtù rende più vive e fervorose le preghiere liturgiche della comunità cristiana, perché Dio uno e trino da tutti possa essere lodato e invocato con più intensità ed efficacia. Per opera della musica sacra, dunque, viene accresciuto l'onore che la chiesa porge a Dio in unione con Cristo suo capo; e viene altresì aumentato il frutto che i fedeli, stimolati dai sacri concenti, percepiscono dalla sacra liturgia e sogliono manifestare con una condotta di vita degnamente cristiana, come dimostra l'esperienza quotidiana e confermano molte testimonianze di scrittori antichi e recenti. Sant'Agostino, parlando dei canti "eseguiti con voce limpida e con appropriate modulazioni", così si esprime: "Sento che le anime nostre assurgono nella fiamma della pietà con un ardore e una devozione maggiore per quelle sante parole, quando sono accompagnate dal canto, e tutti i diversi sentimenti del nostro spirito trovano nel canto una loro propria modulazione, che li risveglia in forza di non so quale occulto, intimo rapporto".(13)

Da qui facilmente si può comprendere come la dignità e l'importanza della musica sacra sia tanto più grande, quanto più da vicino la sua azione riguarda l'atto supremo del culto cristiano, cioè il sacrificio eucaristico dell'altare. Essa, dunque, nulla può compiere di più alto e di più sublime dell'ufficio di accompagnare con la soavità dei suoni la voce del sacerdote che offre la vittima divina, di rispondere gioiosamente alle sue domande insieme col popolo che assiste al sacrificio, e di rendere più splendido con la sua arte tutto lo svolgimento del rito sacro. Alla dignità di questo eccelso servizio si avvicinano poi gli uffici che la stessa musica sacra compie quando accompagna ed abbellisce le altre cerimonie liturgiche, e in primo luogo la recita dell'Ufficio divino nel coro. Questa musica "liturgica", perciò, merita sommo onore e lode.

Ciononostante si deve tenere in grande stima anche quella musica che, pur non essendo destinata principalmente al servizio della sacra liturgia, tuttavia, per il suo contenuto e per le sue finalità reca molti vantaggi alla religione, e perciò a buon diritto viene chiamata musica "religiosa". Invero anche questo genere di musica sacra - che è detto "popolare" e che ebbe origine in seno alla chiesa e sotto i suoi auspici poté felicemente svilupparsi - è in grado, come l'esperienza dimostra, di esercitare negli animi dei fedeli un grande e salutare influsso, sia che venga usata nelle chiese durante le funzioni e le sacre cerimonie non liturgiche, sia fuori di chiesa nelle varie solennità e celebrazioni. Infatti, le melodie di questi canti, composti per lo più in lingua volgare, si fissano nella memoria quasi senza sforzo e fatica e nello stesso tempo anche le parole e i concetti si imprimono nella mente, sono spesso ripetuti e più profondamente vengono compresi. Ne segue che anche i fanciulli e le fanciulle, imparando nella tenera età questi canti sacri, sono molto aiutati a conoscere, a gustare e a ricordare le verità della nostra fede e così l'apostolato catechistico ne trae non lieve vantaggio. Questi canti religiosi, poi, agli adolescenti e agli adulti, mentre ricreano l'animo, offrono un puro e casto diletto, danno un certo tono di maestà religiosa ai convegni e alle adunanze più solenni, e anzi nelle stesse famiglie cristiane apportano santa letizia, dolce conforto e spirituale profitto. Per la qual cosa anche questo genere di musica religiosa popolare costituisce un valido aiuto per l'apostolato cattolico, e quindi deve con ogni cura essere coltivato e sviluppato.

Pertanto, quando esaltiamo i pregi molteplici della musica sacra e la sua efficacia nei riguardi dell'apostolato, facciamo cosa che può tornare di sommo gaudio e conforto a tutti coloro che in qualsiasi maniera si sono dedicati a coltivarla e a promuoverla. Infatti, quanti o compongono musica, secondo il proprio talento artistico, o la dirigono, o la eseguono sia vocalmente sia per mezzo di strumenti musicali, tutti costoro senza dubbio esercitano un vero e proprio apostolato, anche se in modo vario e diverso, e riceveranno perciò in abbondanza da Cristo Signore le ricompense e gli onori riservati agli apostoli, nella misura con cui ognuno avrà fedelmente adempiuto il suo ufficio. Essi perciò stimino grandemente questa loro mansione, in virtù della quale non sono solamente artisti e maestri di arte, ma anche ministri di Cristo Signore e collaboratori nell'apostolato, e si sforzino di manifestare anche con la condotta della vita la dignità di questo loro ufficio.

 

III

Tale essendo, come abbiamo ora detto, la dignità e l'efficacia della musica sacra e del canto religioso, è oltremodo necessario curarne diligentemente la struttura in ogni parte, per ricavarne utilmente i salutari frutti.

È necessario anzitutto che il canto e la musica sacra, più intimamente congiunti con il culto liturgico della chiesa, raggiungano l'alto fine loro prefisso. Perciò tale musica - come già saggiamente ammoniva il Nostro predecessore san Pio X - "deve possedere le qualità proprie della liturgia, in primo luogo la santità e la bontà della forma; onde di per sé si raggiunge un'altra caratteristica, la universalità".(14)

Deve essere santa; non ammetta in sé ciò che sa di profano, né permetta che si insinui nelle melodie con cui viene presentata. A questa santità soprattutto si presta il canto gregoriano, che da tanti secoli si usa dalla chiesa, sì da poterlo dire di suo patrimonio. Questo canto, per la intima aderenza delle melodie con le parole del sacro testo, non solo vi si addice pienamente; ma sembra quasi interpretarne la forza e l'efficacia, istillando dolcezza all'animo di chi ascolta; e ciò con mezzi musicali semplici e facili, ma pervasi di così sublime e santa arte, da suscitare in tutti sentimenti di sincera ammirazione e da divenire per gli stessi intenditori e maestri di musica sacra fonte inesauribile di nuove melodie. Conservare con cura questo prezioso tesoro del canto gregoriano e farne ampiamente partecipe il popolo spetta a tutti coloro, ai quali Gesù Cristo affidò di custodire e di dispensare le ricchezze della chiesa. Però, quello che i Nostri predecessori san Pio X, a buon diritto chiamato restauratore del canto gregoriano,(15) e Pio XI(16) hanno sapientemente ordinato e inculcato, ancor Noi vogliamo e prescriviamo che si faccia, portando l'attenzione a quelle caratteristiche che sono proprie del genuino canto gregoriano; che cioè nella celebrazione dei riti liturgici si faccia largo uso di tale canto, e si provveda con ogni cura affinché sia eseguito con esattezza, dignità e pietà. Che se per le feste introdotte di recente si debbano comporre nuove melodie, ciò si faccia da maestri veramente competenti, in modo da osservare fedelmente le leggi proprie del vero canto gregoriano e le nuove composizioni gareggino per valore e purezza con le antiche.

Se queste norme saranno realmente osservate in tutto, si verrà altresì a soddisfare nel modo dovuto a un'altra proprietà della musica sacra, che sia cioè vera arte; e se in tutte le chiese cattoliche del mondo risonerà incorrotto e integro il canto gregoriano, esso pure, come la liturgia romana, avrà la nota di universalità, in modo che i fedeli in qualunque parte del mondo sentano come familiari e quasi di casa propria quelle armonie, sperimentando così con spirituale conforto la mirabile unità della chiesa. È questo uno dei motivi principali per cui la chiesa mostra così vivo desiderio che il canto gregoriano sia intimamente legato con le parole latine della sacra liturgia.

Sappiamo bene che dalla stessa sede apostolica sono state concesse al riguardo per gravi motivi alcune ben determinate eccezioni, le quali peraltro vogliamo che non siano estese e applicate ad altri casi, senza la debita licenza della medesima Santa Sede. Anzi anche là dove ci si può avvalere di tali concessioni, gli ordinari e gli altri sacri pastori curino attentamente che i fedeli fin dall'infanzia imparino le melodie gregoriane più facili e più in uso e se ne sappiano valere nei sacri riti liturgici, di modo che anche in ciò sempre più risplenda l'unità e l'universalità della chiesa.

Dove, tuttavia, una consuetudine secolare o immemorabile permette che nel solenne sacrificio eucaristico, dopo le parole liturgiche cantate in latino, si inseriscano alcuni canti popolari in lingua volgare, gli ordinari permetteranno ciò "qualora giudichino che, per le circostanze di luogo e di persone, tale (consuetudine) non possa prudentemente venire rimossa",(17) ferma restando la norma che non si cantino in lingua volgare le parole stesse della liturgia, come già sopra è stato detto.

Affinché poi i cantori e il popolo cristiano capiscano bene il significato delle parole liturgiche legate alla melodia musicale, facciamo Nostra l'esortazione rivolta dai padri del concilio di Trento specialmente "ai pastori e ai singoli aventi cura di anime, che spesso durante la celebrazione della messa spieghino o direttamente o per mezzo di altri qualche parte di ciò che si legge nella messa, e tra l'altro illustrino qualche mistero di questo santo sacrificio, specialmente la domenica e nei giorni festivi",(18) e ciò facciano soprattutto nel tempo in cui si spiega il catechismo al popolo cristiano. Ciò diviene più facile e agevole oggi che non nei secoli passati, perché si hanno le parole della liturgia tradotte in volgare e la loro spiegazione in manuali e libriccini, che, preparati da competenti in quasi tutte le nazioni, possono efficacemente aiutare e illuminare i fedeli, affinché anch'essi comprendano e quasi prendano parte a quanto dicono i ministri sacri in lingua latina.

È ovvio che quanto abbiamo qui esposto brevemente circa il canto gregoriano riguarda soprattutto il rito latino romano della chiesa; ma può rispettivamente applicarsi ai canti liturgici di altri riti, sia dell'occidente, come l'ambrosiano, il gallicano, il mozarabico, sia ai vari riti orientali. Tutti questi riti, infatti, mentre dimostrano la mirabile ricchezza della chiesa nell'azione liturgica e nelle formule di preghiera, d'altra parte per i diversi canti liturgici conservano tesori preziosi, che occorre custodire e impedirne non solo la scomparsa, ma anche ogni attenuazione e depravazione. Tra i più antichi e importanti documenti della musica sacra, hanno senza dubbio un posto considerevole i canti liturgici nei vari riti orientali, le cui melodie ebbero molto influsso nella formazione di quelle della chiesa occidentale, con i dovuti adattamenti all'indole propria della liturgia latina. È Nostro desiderio che una scelta di canti dei riti sacri orientali - a cui sta alacremente lavorando il Pontificio Istituto per gli studi orientali, con l'aiuto del Pontificio Istituto per la musica sacra - sia felicemente condotta a termine, tanto per la parte dottrinale quanto per quella pratica; di modo che i seminaristi di rito orientale, ben preparati anche nel canto sacro, divenuti un giorno sacerdoti, possano validamente contribuire anche in questo ad accrescere il decoro della casa di Dio.

Non è Nostra intenzione, con ciò che abbiamo detto per lodare e raccomandare il canto gregoriano, rimuovere dai riti della chiesa la polifonia sacra, la quale, purché ornata delle debite qualità, può giovare assai per la magnificenza del culto divino e per suscitare pii affetti nell'animo dei fedeli. È ben noto infatti che molti canti polifonici, composti soprattutto nel secolo XVI, risplendono per tale purezza d'arte e tale ricchezza di melodie, da essere del tutto degni di accompagnare e quasi illuminare i riti della chiesa. Che se la genuina arte della polifonia nel corso dei secoli a poco a poco è decaduta e non di rado vi si sono mescolate melodie profane, negli ultimi decenni, per l'opera indefessa di insigni maestri, essa felicemente si è come rinnovata, con un più accurato studio delle opere degli antichi maestri, proposte all'imitazione ed emulazione degli odierni compositori.

In tal modo avviene che nelle basiliche, nelle cattedrali, nelle chiese dei religiosi si possono eseguire sia i capolavori degli antichi maestri sia composizioni polifoniche di autori recenti, con decoro del sacro rito; sappiamo anzi che anche nelle chiese minori non di rado si eseguono canti polifonici più semplici, ma composti con dignità e vero senso d'arte. La chiesa favorisce tutti questi sforzi; essa, infatti, secondo le parole del Nostro predecessore di b. m. san Pio X, "sempre ha favorito il progresso delle arti e lo ha aiutato, accogliendo nell'uso religioso tutto ciò che l'ingegno umano ha creato di buono e di bello nel corso dei secoli, purché restassero salve le leggi liturgiche".(19) Queste leggi esigono che su questa importante materia si usi ogni prudenza e si abbia ogni cura, affinché non si introducano in chiesa canti polifonici che, per il modo turgido e ampolloso, o vengano a oscurare con la loro prolissità le parole sacre della liturgia o interrompano l'azione del sacro rito oppure avviliscano l'abilità dei cantori con disdoro del culto divino.

Queste norme devono applicarsi altresì all'uso dell'organo e degli altri strumenti musicali. Fra gli strumenti a cui è aperto l'adito al tempio viene a buon diritto in primo luogo l'organo, perché è particolarmente adatto ai canti sacri e sacri riti e dà alle cerimonie della chiesa notevole splendore e singolare magnificenza, commuove l'animo dei fedeli con la gravità e la dolcezza del suono, riempie la mente di gaudio quasi celeste ed eleva fortemente a Dio e alle cose celesti.

Oltre l'organo vi sono altri strumenti che possono efficacemente venire in aiuto a raggiungere l'alto fine della musica sacra, purché non abbiano nulla di profano, di chiassoso, di rumoroso, cose disdicevoli al sacro rito e alla gravità del luogo. Tra essi vengono in primo luogo il violino e altri strumenti ad arco, i quali, o soli, o insieme con altri strumenti e con l'organo, esprimono con indicibile efficacia i sensi di mestizia o di gioia dell'animo. Del resto, circa le melodie musicali non ammissibili nel culto cattolico, già abbiamo parlato chiaramente nell'enciclica Mediator Dei. "Quando essi nulla abbiano di profano o disdicevole alla santità del luogo e dell'azione liturgica e non vadano in cerca dello stravagante e dello straordinario, abbiano pure accesso nelle nostre chiese, potendo contribuire non poco allo splendore dei sacri riti, a elevare l'animo verso l'alto e a infervorare la vera pietà dell'animo".(20) È appena il caso di ammonire che, quando manchino la capacità e i mezzi per tanto impegno, è meglio astenersi da simili tentativi, piuttosto che fare cosa meno degna del culto divino e delle adunanze sacre.

A questi aspetti che hanno più stretto legame con la liturgia della chiesa si aggiungono, come abbiamo detto, i canti religiosi popolari, scritti per lo più in lingua volgare, i quali prendono origine dal canto liturgico stesso, ma, essendo più adatti all'indole e ai sentimenti dei singoli popoli, differiscono non poco tra di loro, secondo il carattere delle genti e l'indole particolare delle nazioni. Affinché tali canti religiosi portino frutto spirituale e vantaggio al popolo cristiano, devono essere pienamente conformi all'insegnamento della fede cristiana, esporla e spiegarla rettamente, usare un linguaggio facile e una melodia semplice, aborrire dalla profusione di parole gonfie e vuote e, infine, pur essendo brevi e facili, avere una certa religiosa dignità e gravità. Quando abbiano tali doti, questi canti sacri, sgorgati quasi dal più profondo dell'anima del popolo, commuovono fortemente i sentimenti e l'animo ed eccitano pii affetti; quando si cantano nelle funzioni religiose dalla folla radunata elevano l'animo dei fedeli alle cose celesti. Perciò, sebbene, come abbiamo detto, nelle messe cantate solenni non possono usarsi senza speciale permesso della Santa Sede, tuttavia nelle messe celebrate in forma non solenne possono mirabilmente giovare, affinché i fedeli assistano al santo sacrificio non tanto come spettatori muti e quasi inerti, ma, accompagnando l'azione sacra con la mente e con la voce, uniscano la propria devozione con le preghiere del sacerdote, purché tali canti siano ben adatti alle varie parti del sacrificio, come Ci è noto che già si fa in molte parti del mondo cattolico con grande gaudio.

Quanto alle cerimonie non strettamente liturgiche, tali canti religiosi, purché corrispondano alle condizioni suddette, possono egregiamente giovare ad attirare salutarmente il popolo cristiano, ad ammaestrarlo, a formarlo a sincera pietà ed a riempirlo di un santo gaudio; e ciò tanto nelle processioni e nei pellegrinaggi ai santuari, quanto pure nei congressi religiosi nazionali ed internazionali. Saranno utili in special modo quando si tratta di istruire nella verità cattolica i fanciulli e le fanciulle, così pure nelle associazioni giovanili e nelle adunanze dei pii sodalizi, come l'esperienza spesso chiaramente dimostra.

Non possiamo perciò fare a meno di esortare vivamente Voi, venerabili Fratelli, a volere con ogni cura e ogni mezzo favorire e promuovere questo canto popolare religioso nelle vostre diocesi. Non vi mancheranno uomini esperti, per raccogliere e riunire insieme, dove già non sia stato fatto, questi canti, perché da tutti i fedeli possano più facilmente venire imparati, cantati con speditezza e bene impressi nella memoria. Coloro cui è affidata la formazione religiosa dei fanciulli e delle fanciulle, non trascurino di avvalersi nel debito modo di questi validi aiuti, e gli assistenti della gioventù cattolica ne usino rettamente nel grave compito loro affidato. In tal modo si può sperare di ottenere anche un altro vantaggio, che è nel desiderio di tutti, che siano tolte di mezzo quelle canzoni profane che o per mollezza del ritmo o per le parole spesso voluttuose e lascive che lo accompagnano, sogliono essere pericolose ai cristiani, ai giovani specialmente, e siano sostituite da quelle altre che danno un piacere casto e puro e insieme nutrono la fede e la pietà; sicché già qui in terra il popolo cristiano incominci a cantare quel canto di lode che canterà eternamente nel cielo: "A Colui che siede sul trono e all'Agnello sia benedizione, onore, gloria e potestà nei secoli dei secoli" (Ap 5,13).

Ciò che abbiamo esposto finora vale soprattutto per quelle nazioni appartenenti alla chiesa, nelle quali la religione cattolica è già saldamente stabilita. Nei paesi di missione non sarà certo possibile mettere tutto ciò in pratica, prima che sia cresciuto sufficientemente il numero dei cristiani, si siano costruite chiese spaziose, le scuole fondate dalla chiesa siano convenientemente frequentate dai figli dei cristiani e infine vi sia un numero di sacerdoti pari al bisogno. Tuttavia esortiamo vivamente gli operai apostolici, che faticano in quelle vaste estensioni della vigna del Signore, a volersi occupare seriamente, tra le gravi cure del loro ufficio, anche di questa incombenza. È meraviglioso vedere quanto si dilettino delle melodie musicali i popoli affidati alla cura dei missionari e quanta parte abbia il canto nelle cerimonie dedicate al culto degli idoli. Sarebbe pertanto improvvido che questo efficace sussidio per l'apostolato venisse tenuto in poco conto o addirittura trascurato dagli araldi di Cristo vero Dio. Perciò i messaggeri dell'evangelo nelle regioni pagane, nell'adempimento del loro ministero, dovranno largamente fomentare questo amore del canto religioso, che è coltivato dagli uomini affidati alle loro cure, in modo che questi popoli, ai canti religiosi nazionali, che non di rado vengono ammirati anche dalle nazioni civili, contrappongano analoghi canti sacri cristiani nei quali si esaltano le verità della fede, la vita del Signore Gesù Cristo, della beata Vergine e dei santi nella lingua e nelle melodie famigliari a quelle genti.

Si ricordino altresì i missionari che la chiesa cattolica, fin dai tempi antichi, inviando gli araldi dell'evangelo in regioni non ancora rischiarate dal lume della fede, insieme con i sacri riti ha voluto che essi portassero anche i canti liturgici, tra cui le melodie gregoriane, e ciò affinché i popoli da chiamare alla fede, allettati dalla dolcezza del canto, fossero più facilmente mossi ad abbracciare le verità della religione cristiana.

 

IV

Affinché tutto quello che, seguendo le orme dei Nostri predecessori, Noi in questa lettera enciclica abbiamo raccomandato o prescritto ottenga il desiderato effetto, voi, o venerabili fratelli, con premuroso impegno prenderete tutte quelle disposizioni che l'alto ufficio a voi affidato da Cristo e dalla chiesa vi impone e che, come risulta dall'esperienza, con grande frutto in molte chiese del mondo cristiano sono messe in pratica.

Innanzi tutto datevi cura perché nella chiesa cattedrale e, in quanto dalle circostanze è consentito, nelle maggiori chiese della vostra giurisdizione, ci sia una scelta Schola cantorum, la quale riesca agli altri di esempio e di stimolo a coltivare e a eseguire con diligenza il canto sacro. Dove poi non si possono avere le Scholae cantorum né si può adunare un conveniente numero di Pueri cantores, si concede che "un gruppo di uomini e di donne o fanciulle in luogo a ciò destinato, posto fuori della balaustra, possa cantare i testi liturgici della messa solenne, purché gli uomini siano del tutto separati dalle donne e fanciulle e sia evitato ogni inconveniente, onerata in ciò la coscienza degli ordinari".(21)

Con grande sollecitudine è da provvedere che quanti nei seminari e negli istituti missionari religiosi si preparano ai sacri ordini, siano rettamente istruiti secondo le direttive della chiesa nella musica sacra e nella conoscenza teorica e pratica del canto gregoriano da maestri esperimentati in tali discipline, che apprezzino tradizioni e usi e ubbidiscano in tutto alle norme precettive della Santa Sede.

Che se tra gli alunni dei seminari e dei collegi religiosi ve ne sia qualcuno fornito di particolare tendenza e passione verso quest'arte, i rettori dei seminari o dei collegi non trascurino d'informarvi di questo, perché possiate offrirgli occasione di coltivare meglio tali doti e lo possiate inviare al Pontificio Istituto di musica sacra in questa città o in qualche altro ateneo del genere, purché si distingua per costumatezza e virtù e con ciò dia motivo a sperare che riuscirà ottimo sacerdote.

Oltre a ciò converrà provvedere che gli ordinari e i superiori maggiori degli istituti religiosi scelgano qualcuno del cui aiuto si servano in cosa di tanta importanza, a cui essi, fra tante e così gravi altre loro occupazioni, per forza di circostanze non potranno facilmente attendere. Cosa ottima a questo fine è che nel consiglio diocesano di arte sacra ci sia qualcuno esperto in musica sacra e in canto, che possa solertemente vigilare nella diocesi in tale campo e informare l'ordinario di quanto si è fatto e si debba fare e accogliere e far eseguire le sue prescrizioni e disposizioni. Che se in qualche diocesi esiste qualcuna di quelle associazioni che sono state sapientemente fondate per coltivare la musica sacra, e sono state lodate e raccomandate dai sommi pontefici, l'ordinario nella sua prudenza se ne potrà giovare per soddisfare alle responsabilità di tale suo ufficio.

Tali pii sodalizi, costituiti per l'istruzione del popolo nella musica sacra o per approfondire la cultura di quest'ultima, i quali con la diffusione delle idee e con l'esempio molto possono contribuire a dare incremento al canto sacro, sosteneteli, o venerabili fratelli, e promoveteli col vostro favore, perché essi fioriscano di vigorosa vita e ottengano ottimi valenti maestri, e in tutta la diocesi diligentemente diano sviluppo alla musica sacra e all'amore e alla consuetudine dei canti religiosi, con la debita obbedienza alle leggi della chiesa e alle Nostre prescrizioni.

*****

Tutto questo, mossi da una sollecitudine tutta paterna, abbiamo voluto trattare con una certa ampiezza; e nutriamo piena fiducia che voi, venerabili fratelli, rivolgerete tutta la vostra cura pastorale a tale questione d'interesse religioso, molto importante per la celebrazione più degna e più splendida del culto divino. Quelli poi che nella chiesa, sotto la vostra condotta, hanno nelle loro mani la direzione di quanto concerne la musica, speriamo che da questa Nostra lettera enciclica troveranno incitamento a promuovere con nuovo appassionato ardore e con generosità operosamente solerte tale importante apostolato. Così, come auspichiamo, avverrà che arte tanto nobile molto apprezzata in tutte le epoche della chiesa, anche ai nostri giorni sarà coltivata in modo da essere ricondotta ai genuini splendori di santità e di bellezza e conseguirà perfezione sempre più alta, e col suo contributo produrrà questo felice effetto che i figli della chiesa con fede più ferma, con speranza più viva, con carità più ardente, rendano nelle chiese il dovuto omaggio di lodi a Dio uno e trino, e che anzi anche fuori degli edifici sacri, nelle famiglie e nei convegni cristiani, si avveri quello che san Cipriano a Donato faceva oggetto di una famosa esortazione: "Risuoni di salmi il sobrio banchetto: e se hai tenace memoria e voce canora, assumiti questo ufficio secondo l'invalsa consuetudine: tu a persone a te carissime offri maggior nutrimento, se da parte nostra c'è un'audizione spirituale e se la dolcezza religiosa diletta il nostro udito".(22)

Frattanto nell'attesa di risultati sempre più ricchi e lieti, che speriamo avranno origine da questa Nostra esortazione, in attestato del Nostro paterno affetto e in auspicio di doni celesti, impartiamo con effusione d'animo la benedizione apostolica a voi, venerabili fratelli, a quanti presi singolarmente e collettivamente appartengono al gregge a voi affidato, e in modo particolare a coloro che, assecondando i Nostri voti, si curano di dare incremento alla musica sacra.

Roma, presso San Pietro, 25 dicembre, Natale di nostro Signore Gesù Cristo, nell'anno 1955, XVII del Nostro pontificato.

PIO PP. XII

(1) PIUS XII, Litt. enc. Musicae sacrae disciplina de musica sacra, [Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios, pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 25 dec. 1955: AAS 48(1956), pp. 5-25.

Origine e sviluppo della musica sacra, specie gregoriana. Motivi che ne debbono regolare ogni manifestazione, affinché sia di aiuto efficace al servizio divino e all'edificazione dei fedeli. Sue caratteristiche, che saranno quelle proprie della li turgia, inculcando l'uso universale del canto gregoriano, non respingendo altre forme, soprattutto polifoniche, purché ornate delle debite qualità, e disciplinando l'uso dell'organo e degli altri strumenti musicali nelle chiese, come pure dei canti in lingua volgare, anche nelle missioni. Raccomandata l'educazione musicale delle masse mediante la formazione di "scholae cantorum" e di pii sodalizi tra i fedeli, e l'istruzione teorico-pratica nei seminari e istituti missionari. Esortazione a promuovere sempre più quest'importante ramo della liturgia.

(2) Motu proprio Fra le sollecitudini: Acta Pii X, vol. I, p. 77.

(3) Epist. 161: De origine animae hominis, 1, 2: PL 33, 725.

(4) PLINIUS, Epist., X, 96, 7.

(5) Cf. TERTULLIANUS, De anima, c. 9: PL 2, 701; et Apol., 39: PL 1, 540.

(6) CONC. TRID., sess. XXII, Decretum de observandis et evitandis in celebratione Missae: COD 737(7-8).

(7) Cf. BENEDICTUS XIV, Litt. enc. Annus qui: Opera omnia, ed. Prati, vol, 17, 1, p. 16; EE 1/213ss.

(8) Cf. Litt. apost. Bonum est confiteri Domino (2 aug.1828): Bullarium Romanum, ed. Prati, ex Typ. Aldina, t. IX, p. 139s.

(9) Cf. Acta Leonis XIII 14(1895), pp. 237-247; ASS 27(1894), pp. 42-49.

(10) Cf. Acta Pii X, vol. I, pp. 75-87; ASS 36(1903-04), pp. 329-339, 387-395.

(11) Cf. AAS 21(1929), p. 33s.

(12) Cf. AAS 39(1947), pp. 521-595; EE 6/430ss.

(13) S. AUGUSTINUS, Confess., 1. X, c. 33: PL 32, 799s.

(14) Acta Pii X, vol. I, p. 78.

(15) Lettera al Card. Respighi: Acta Pii X, vol. I, pp. 68-74; v. p. 73s; AAS 36 (1903-04), pp. 325-329, 395-398, v. 398.

(16) PIUS XI, Const. apost. Divini cultus: AAS 21(1929), p. 33s.

(17) CIC, can. 5.

(18) CONC. TRID., sess. XXII, De sacrificio Missae, c. VIII: COD 735(14-15).

(19) Acta Pii X, vol. I, p. 80.

(20) AAS 39(1947), p. 590; EE 6/616.

(21) Decr. S. C. Rituum, nn. 3964, 4201, 4231.

(22) S. CYPRIANUS, Epist. ad Donatum (Epist. 1, n. 16): PL 4, 227.

* * *


La versione ufficiale si trova sul sito internet del Vaticano al seguente indirizzo:

http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_25121955_musicae-sacrae_it.html

Caterina63
00domenica 20 settembre 2009 21:22
MOTU PROPRIO
TRA LE SOLLECITUDINI
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO X
SULLA MUSICA SACRA

22 novembre 1903

  

Tra le sollecitudini dell’officio pastorale, non solamente di questa Suprema Cattedra, che per inscrutabile disposizione della Provvidenza, sebbene indegni, occupiamo, ma di ogni Chiesa particolare, senza dubbio è precipua quella di mantenere e promuovere il decoro della Casa di Dio, dove gli augusti misteri della religione si celebrano e dove il popolo cristiano si raduna, onde ricevere la grazia dei Sacramenti, assistere al santo Sacrificio dell’Altare, adorare l’augustissimo Sacramento del Corpo del Signore ed unirsi alla preghiera comune della Chiesa nella pubblica e solenne officiatura liturgica. 

Nulla adunque deve occorrere nel tempio che turbi od anche solo diminuisca la pietà e la devozione dei fedeli, nulla che dia ragionevole motivo di disgusto o di scandalo, nulla soprattutto che direttamente offenda il decoro e la santità delle sacre funzioni e però sia indegno della Casa di Orazione e della maestà di Dio.

Non tocchiamo partitamente degli abusi che in questa parte possono occorrere. Oggi l’attenzione Nostra si rivolge ad uno dei più comuni, dei più difficili a sradicare e che talvolta si deve deplorare anche là dove ogni altra cosa è degna del massimo encomio per la bellezza e sontuosità del tempio, per lo splendore e per l’ordine accurato delle cerimonie, per la frequenza del clero, per la gravità e per la pietà dei ministri che celebrano. Tale è l’abuso nelle cose del canto e della musica sacra. Ed invero, sia per la natura di quest’arte per sé medesima fluttuante e variabile, sia per la successiva alterazione del gusto e delle abitudini lungo il correr dei tempi, sia per funesto influsso che sull’arte sacra esercita l’arte profana e teatrale, sia pel piacere che la musica direttamente produce e che non sempre torna facile contenere nei giusti termini, sia infine per i molti pregiudizi che in tale materia di leggeri si insinuano e si mantengono poi tenacemente anche presso persone autorevoli e pie, v’ha una continua tendenza a deviare dalla retta norma, stabilita dal fine, per cui l’arte è ammessa al servigio del culto, ed espressa assai chiaramente nei canoni ecclesiastici, nelle Ordinazioni dei Concilii generali e provinciali, nelle prescrizioni a più riprese emanate dalle Sacre Congregazioni romane e dai Sommi Pontefici Nostri Predecessori.

Con vera soddisfazione dell’animo Nostro Ci è grato riconoscere il molto bene che in tal parte si è fatto negli ultimi decenni anche in questa Nostra alma Città di Roma ed in molte Chiese della patria Nostra, ma in modo più particolare presso alcune nazioni, dove uomini egregi e zelanti dal culto di Dio, con l’approvazione di questa Santa Sede e sotto la direzione dei Vescovi, si unirono in fiorenti Società e rimisero in pienissimo onore la musica sacra pressoché in ogni loro chiesa e cappella.

Codesto bene tuttavia è ancora assai lontano dall’essere comune a tutti, e se consultiamo l’esperienza Nostra personale e teniamo conto delle moltissime lagnanze che da ogni parte Ci giunsero in questo poco tempo, dacché piacque al Signore di elevare l’umile Nostra Persona al supremo apice del Pontificato romano, senza differire più a lungo, crediamo Nostro primo dovere di alzare subito la voce a riprovazione e condanna di tutto ciò che nelle funzioni del culto e nell’offìciatura ecclesiastica si riconosce difforme dalla retta norma indicata. 

Essendo, infatti, Nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca per ogni modo e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima ed indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa. Ed è vano sperare che a tal fine su noi discenda copiosa la benedizione del Cielo, quando il nostro ossequio all’Altissimo, anziché ascendere in odore di soavità, rimette invece nella mano del Signore i flagelli, onde altra volta il Divin Redentore cacciò dal tempio gli indegni profanatori.


Per la qual cosa, affinché niuno possa d’ora innanzi recare a scusa di non conoscere chiaramente il dover suo e sia tolta ogni indeterminatezza nell’interpretazione di alcune cose già comandate, abbiamo stimato espediente additare con brevità quei principii che regolano la musica sacra nelle funzioni del culto e raccogliere insieme in un quadro generale le principali prescrizioni della Chiesa contro gli abusi più comuni in tale materia. 

E però di moto proprio e certa scienza pubblichiamo la presente Nostra Istruzione, alla quale, quasi a codice giuridico della musica sacra, vogliamo dalla pienezza della Nostra Autorità Apostolica sia data forza di legge, imponendone a tutti col presente Nostro Chirografo la più scrupolosa osservanza.

                                                       

  

ISTRUZIONE SULLA MUSICA SACRA

I  Principii generali.

1. La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione e edificazione dei fedeli. Essa concorre ad accrescere il decoro e lo splendore delle cerimonie ecclesiastiche, e siccome suo officio principale è dì rivestire con acconcia melodia il testo liturgico che viene proposto all’intelligenza dei fedeli, così il suo proprio fine è di aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo, affinché i fedeli con tale mezzo siano più facilmente eccitati alla devozione e meglio si dispongano ad accogliere in sé i frutti della grazia, che sono propri della celebrazione dei sacrosanti misteri.
 

2. La musica sacra deve per conseguenza possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità.

Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità, non solo in se medesima, ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori.

Deve essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull’animo di chi l’ascolta quell’efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni.
Ma dovrà insieme essere universale in questo senso, che pur concedendosi ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione all’udirle debba provarne impressione non buona.
    

II   Generi di musica sacra.

3. Queste qualità si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto ch’essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici, che come suo direttamente propone ai fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza.

Per tali motivi il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme.

L’antico canto gregoriano tradizionale dovrà dunque restituirsi largamente nelle funzioni del culto, tenendosi da tutti per fermo, che una funzione ecclesiastica nulla perde della sua solennità, quando pure non venga accompagnata da altra musica che da questo Soltanto.

In particolare si procuri di restituire il canto gregoriano nell’uso del popolo, affinché i fedeli prendano di nuovo parte più attiva all’officiatura ecclesiastica, come anticamente solevasi.
 

4. Le anzidette qualità sono pure possedute in ottimo grado dalla classica polifonia, specialmente della Scuola Romana, la quale nel secolo XVI ottenne il massimo della sua perfezione per opera di Pier Luigi da Palestrina e continuò poi a produrre anche in seguito composizioni di eccellente bontà liturgica e musicale. La classica polifonia assai bene si accosta al supremo modello di ogni musica sacra che è il canto gregoriano, e per questa ragione meritò di essere accolta insieme col canto gregoriano, nelle funzioni più solenni della Chiesa, quali sono quelle della Cappella Pontificia. Dovrà dunque anche essa restituirsi largamente nelle funzioni ecclesiastiche, specialmente nelle più insigni basiliche, nelle chiese cattedrali, in quelle dei seminari e degli altri istituti ecclesiastici, dove i mezzi necessari non sogliono fare difetto.
 

5. La Chiesa ha sempre riconosciuto e favorito il progresso delle arti, ammettendo a servizio del culto tutto ciò che il genio ha saputo trovare di buono e di bello nel corso dei secoli, salve però sempre le leggi liturgiche. Per conseguenza la musica più moderna è pure ammessa in chiesa, offrendo anch’essa composizioni di tale bontà, serietà e gravità, che non sono per nulla indegne delle funzioni liturgiche.

Nondimeno, siccome la musica moderna è sorta precipuamente a servigio profano, si dovrà attendere con maggior cura, perché le composizioni musicali di stile moderno, che si ammettono in chiesa, nulla contengano di profano, non abbiano reminiscenze di motivi adoperati in teatro, e non siano foggiate neppure nelle loro forme esterne sull’andamento dei pezzi profani.

6. Fra i vari generi della musica moderna, quello che apparve meno acconcio ad accompagnare le funzioni del culto è lo stile teatrale, che durante il secolo scorso fu in massima voga, specie in Italia. Esso per sua natura presenta la massima opposizione al canto gregoriano ed alla classica polifonia e però alla legge più importante di ogni buona musica sacra. Inoltre l’intima struttura, il ritmo e il cosiddetto convenzionalismo di tale stile non si piegano, se non malamente, alle esigenze della vera musica liturgica.
   

III  Testo liturgico.

7. La lingua propria della Chiesa Romana è la latina. È quindi proibito nelle solenni funzioni liturgiche di cantare in volgare qualsivoglia cosa; molto più poi di cantare in volgare le parti variabili o comuni della Messa e dell’Officio.

8. Essendo per ogni funzione liturgica determinati i testi che possono proporsi in musica, e l’ordine con cui devono proporsi, non è lecito né di confondere quest’ordine, né di cambiare i testi prescritti in altri di propria scelta, né di ometterli per intero od anche solo in parte, se pure le rubriche liturgiche non consentano di supplire con l’organo alcuni versetti del testo, mentre questi vengono semplicemente recitati in coro. Soltanto è permesso, giusta la consuetudine della Chiesa Romana, di cantare un mottetto al SS. Sacramento dopo il Benedictus della Messa solenne. Si permette pure che, dopo cantato il prescritto offertorio della Messa, si possa eseguire, nel tempo che rimane, un breve mottetto sopra parole approvate dalla Chiesa.
 

9. Il testo liturgico deve essere cantato come sta nei libri, senza alterazione o posposizione di parole, senza indebite ripetizioni, senza spezzarne le sillabe e sempre in modo intelligibile ai fedeli che ascoltano.
    

IV  Forma esterna delle sacre composizioni

10. Le singole parti della Messa e dell’officiatura devono conservare anche musicalmente quel concetto e quella forma che la tradizione ecclesiastica ha loro dato, e che trovasi assai bene espressa nel canto gregoriano. Diverso dunque è il modo di comporre un introito, un graduale, un’antifona, un salmo, un inno, un Gloria in excelsis, ecc.

11. In particolare si osservino le norme seguenti:

a) Il Kyrie, Gloria, Credo, ecc. della Messa devono mantenere l’unità di composizione, propria del loro testo. Non è dunque lecito di comporli a pezzi separati, così che ciascuno di tali pezzi formi una composizione musicale compiuta e tale che possa staccarsi dal rimanente e sostituirsi con altra.

b) Nell’officiatura dei Vesperi si deve ordinariamente seguire la norma del Caerimoniale Episcoporum, che prescrive il canto gregoriano per la salmodia, e permette la musica figurata per i versetti del Gloria Patri e per l’inno.

Sarà nondimeno lecito, nelle maggiori solennità, di alternare il canto gregoriano del coro coi cosiddetti falsibordoni o con versi in simile modo convenientemente composti.

Si potrà eziandio concedere qualche volta che i singoli salmi si propongano per intero in musica, purché in tali composizioni sia conservata la forma propria della salmodia; cioè, purché i cantori sembrino salmeggiare tra loro, o con nuovi motivi, o con quelli presi dal canto gregoriano, o secondo questo imitati.

Restano dunque per sempre esclusi e proibiti i salmi cosiddetti di concerto.

c)   Negli inni della Chiesa si conservi la forma tradizionale dell’inno. Non è quindi lecito di comporre p. es. il Tantum ergo per modo che la prima strofa presenti una romanza, una cavatina, un adagio, e il Genitori un allegro.

d) Le antifone dei Vesperi devono essere proposte d’ordinario con la melodia gregoriana loro propria. Se però in qualche caso particolare si cantassero in musica, non dovranno mai avere né la forma di una melodia di concerto, né l’ampiezza di un mottetto e di una cantata.
    

V  Cantori.

12. Tranne le melodie proprie del celebrante all’altare e dei ministri, le quali devono essere sempre in solo canto gregoriano senza alcun accompagnamento d’organo, tutto il resto del canto liturgico è proprio del coro dei leviti, e però i cantori di chiesa, anche se sono secolari, fanno propriamente le veci del coro ecclesiastico. Per conseguenza le musiche che propongono devono, almeno nella loro massima parte, conservare il carattere di musica da coro.

Con ciò non s’intende del tutto esclusa la voce sola. Ma questa non deve mai predominare nella funzione, così che la più gran parte del testo liturgico sia in tale modo eseguita; piuttosto deve avere il carattere di semplice accenno o spunto melodico ed essere strettamente legata al resto della composizione a forma di coro.

13. Dal medesimo principio segue che i cantori hanno in chiesa vero officio liturgico e che però le donne, essendo incapaci di tale officio, non possono essere ammesse a far parte del Coro o della cappella musicale. Se dunque si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa.


14. Per ultimo non si ammettano a far parte della cappella di chiesa se non uomini di conosciuta pietà e probità di vita, i quali, col loro modesto e devoto contegno durante le funzioni liturgiche, si mostrino degni del santo officio che esercitano. Sarà pure conveniente che i cantori, mentre cantano in chiesa, vestano l’abito ecclesiastico e la cotta, e se trovansi in cantorie troppo esposte agli occhi del pubblico, siano difesi da grate.
              

VI  Organo ed instrumenti musicali.
 

15. Sebbene la musica propria della Chiesa sia la musica puramente vocale, nondimeno è permessa eziandio la musica con accompagnamento d’organo. In qualche caso particolare, nei debiti termini e coi convenienti riguardi, potranno anche ammettersi altri strumenti, ma non mai senza licenza speciale dell’Ordinario, giusta la prescrizione del Caerimoniale Episcoporum.
 

16. Siccome il canto deve sempre primeggiare, così l’organo o gli strumenti devono semplicemente sostenerlo e non mai opprimerlo.

17. Non è permesso di premettere al canto lunghi preludi o d’interromperlo con pezzi di intermezzo.

18. Il suono dell’organo negli accompagnamenti del canto, nei preludi, interludi e simili, non solo deve essere condotto secondo la propria natura di tale strumento, ma deve partecipare di tutte le qualità che ha la vera musica sacra e che si sono precedentemente annoverate.


19. È proibito in chiesa l’uso del pianoforte, come pure quello degli strumenti fragorosi o leggeri, quali sono il tamburo, la grancassa, i piatti, i campanelli e simili.


20. È rigorosamente proibito alle cosiddette bande musicali di suonare in chiesa; e solo in qualche caso speciale, posto il consenso dell’Ordinario, sarà permesso di ammettere una scelta limitata, giudiziosa e proporzionata all’ambiente, di strumenti a fiato, purché la composizione e l’accompagnamento da eseguirsi sia scritto in stile grave, conveniente e simile in tutto a quello proprio dell’organo.


21. Nelle processioni fuori di chiesa può essere permessa dall’Ordinario la banda musicale, purché non si eseguiscano in nessun modo pezzi profani. Sarebbe desiderabile in tali occasioni che il concerto musicale si restringesse ad accompagnare qualche cantico spirituale in latino o volgare, proposto dai cantori o dalle pie Congregazioni che prendono parte alla processione.
   

VII   Ampiezza della musica liturgica.

22. Non è lecito, per ragione del canto o del suono, fare attendere il sacerdote all’altare più di quello che comporti la cerimonia liturgica. Giusta le prescrizioni ecclesiastiche, il Sanctus della Messa deve essere compiuto prima della elevazione, e però anche il celebrante deve in questo punto avere riguardo ai cantori. Il Gloria ed il Credo, giusta la tradizione gregoriana, devono essere relativamente brevi.

23. In generale è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella.

   
VIII  Mezzi precipui

24. Per l’esatta esecuzione di quanto viene qui stabilito, i Vescovi, se non l’hanno già fatto, istituiscano nelle loro diocesi una Commissione speciale di persone veramente competenti in cose di musica sacra, alla quale, nel modo che giudicheranno più opportuno, sia affidato l’incarico d’invigilare sulle musiche che si vanno eseguendo nelle loro chiese. Né badino soltanto che le musiche siano per sé buone, ma che rispondano altresì alle forze dei cantori e vengano sempre bene eseguite.

25. Nei seminari dei chierici e negli istituti ecclesiastici, giusta le prescrizioni tridentine, si coltivi da tutti con diligenza ed amore il prelodato canto gregoriano tradizionale, ed i superiori siano in questa parte larghi di incoraggiamento e di encomio coi loro giovani sudditi. Allo stesso modo, dove torni possibile, si promuova tra i chierici la fondazione di una Schola Cantorum per l’esecuzione della sacra polifonia e della buona musica liturgica.


26. Nelle ordinarie lezioni di liturgia, di morale, di gius canonico che si danno agli studenti di teologia, non si tralasci di toccare quei punti che più particolarmente riguardano i principii e le leggi della musica sacra, e si cerchi di compierne la dottrina con qualche particolare istruzione circa l’estetica dell’arte sacra, affinché i chierici non escano dal seminario digiuni di tutte queste nozioni, pur necessarie alla piena cultura ecclesiastica.


27. Si abbia cura di restituire, almeno presso le chiese principali, le antiche Scholae Cantorum, come si è già praticato con ottimo frutto in buon numero di luoghi. Non è difficile al clero zelante d’istituire tali Scholae perfino nelle chiese minori e di campagna, anzi trova in esse un mezzo assai facile d’adunare intorno a sé i fanciulli e gli adulti, con profitto loro proprio e edificazione del popolo.


28. Si procuri di sostenere e promuovere in ogni miglior modo le scuole superiori di musica sacra dove già sussistono, e di concorrere a fondarle dove non si possiedono ancora. Troppo è importante che la Chiesa stessa provveda all’istruzione dei suoi maestri, organisti e cantori, secondo i veri principii dell’arte sacra.
   

IX Conclusione.

29. Per ultimo si raccomanda ai maestri di cappella, ai cantori, alle persone del clero, ai superioni dei seminari, degli istituti ecclesiastici e delle comunità religiose, ai parroci e rettori di chiese, ai canonici delle colleggiate e delle cattedrali, e soprattutto agli Ordinari diocesani di favorire con tutto lo zelo queste sagge riforme, da molto tempo desiderate e da tutti concordemente invocate, affinché non cada in dispregio la stessa autorità della Chiesa, che ripetutamente le propose ed ora di nuovo le inculca.


Caterina63
00domenica 20 settembre 2009 21:24
In Sacramentum caritatis, Benedetto XVI afferma:

"La Chiesa, nella sua bimillenaria storia, ha creato, e continua a creare, musica e canti che costituiscono un patrimonio di fede e di amore che non deve andare perduto. Davvero, in liturgia non possiamo dire che un canto vale l'altro.

A tale proposito, occorre evitare la generica improvvisazione o l'introduzione di generi musicali non rispettosi del senso della liturgia. In quanto elemento liturgico, il canto deve integrarsi nella forma propria della celebrazione. Di conseguenza tutto - nel testo, nella melodia, nell'esecuzione - deve corrispondere al senso del mistero celebrato, alle parti del rito e ai tempi liturgici.

Infine, pur tenendo conto dei diversi orientamenti e delle differenti tradizioni assai lodevoli, desidero, come è stato chiesto dai Padri sinodali, che venga adeguatamente valorizzato il canto gregoriano, in quanto canto proprio della liturgia romana"
(numero 42).




Caterina63
00domenica 20 settembre 2009 22:07
Brani tratti da: Joseph Ratzinger, La festa della fede, Jaca Book, 1983

www.jacabook.it/english/main-eventi.htm

1.Fondamento teologico della musica sacra
Cenni riassuntivi della disputa postconciliare sulla musica sacra




Nell'edizione in lingua tedesca, largamente diffusa, dei testi del Concilio Vaticano II a cura di Karl Rahner e Herbert Vorgrimler, il breve commento al capitolo della costituzione liturgica sulla musica è introdotto dalla stupefacente osservazione che l'arte pura, com'essa si trova nella musica sacra, "è difficilmente conciliabile, partendo dalla sua natura esoterica (nel senso corretto del termine), con la natura della liturgia e con il supremo principio della riforma liturgica" (1).
Questa tesi è stupefacente, in quanto il testo che essa - commenta la Costituzione Liturgica - ravvisa nella musica sacra "non soltanto un accessorio e un abbellimento della liturgia", ma è essa stessa liturgia, parte costitutiva e integrante di tutta l'azione liturgica (2).

Certamente Rahner e Vorgrimler non intendono escludere dal culto divino ogni tipo di musica; ciò che pare loro incompatibile con la sua natura è soltanto l'arte vera e propria, cioè la musica tradizionale della Chiesa occidentale. Essi ritengono pertanto che la raccomandazione del Concilio, che "si deve conservare e curare con la massima diligenza il tesoro della musica sacra" (3), non dica che "ciò debba avvenire nell'ambito della liturgia" (4).

Per conseguenza, anche con riferimento alla raccomandazione conciliare dei cori vocali, si mette particolarmente in rilievo che essa si riferirebbe "soprattutto" alle chiese cattedrali, e che da tutto il contesto si ricava l'impressione che il Concilio tenda veramente a volerla vedere lì soltanto, e anche ciò con la limitazione che essa non ostacoli la attiva partecipazione del popolo s. Secondo Rahner e Vorgrimler fa perciò normalmente parte della liturgia non la "musica sacra vera e propria", ma la "cosiddetta musica d'uso" (6).

Ora si deve ammettere che in tutto il testo conciliare si può individuare una certa tensione, nella quale si rispecchia anzitutto la tensione in atto fra le diverse forze dell'assemblea, ma con una carica forse anche maggiore la tensione dell'argomento stesso. C'è in questo testo una raccomandazione molto chiara di ciò che Rahner e Vorgrimler chiamano "vera e propria musica sacra": accanto alle proposizioni già menzionate, si deve tenere presente l'energia con cui si insiste per la formazione alla musica sacra dei sacerdoti, dei maestri di cappella e specialmente dei pueri chorales; si raccomanda in proposito di "creare istituti superiori di musica sacra" (7). Vi si aggiunge la particolare raccomandazione del corale, ma anche l'esplicito assenso alla polifonia (8); un elogio quasi entusiastico all'organo, la cui formulazione induce J.A. Jungmann a rilevare che questo antichissimo strumento della musica sacra è qui esaltato con termini "che in certo modo si staccano dal sobrio linguaggio giuridico usato quanto al resto" (9). Tra le consuetudini consacrate dalla tradizione sono però affermati nella musica sacra anche altri strumenti (10). D'altra parte non si deve dimenticare che, con questo consenso alla crescente dovizia di pretese molto elevate, si collega l'esigenza dell'incondizionata chiarezza della liturgia per tutti e della cooperazione di tutti nel fatto liturgico, e quindi anche nel canto, e con ciò si rendono attivi degli elementi che costituiscono una rémora per l'affermazione del fatto artistico.

Ora, se si confronta lo stesso testo conciliare con il commento di Rahner e di Vorgrimler, si riscontra tra i due un rapporto che, di là da questo caso particolare, può essere considerato sintomatico per la differenza tra il proprio dei testi conciliari e la maniera di appropriarsene nella Chiesa postconciliare. Nel dibattito conciliare si provoca la sensibilizzazione per un problema finora mai avvertito con tale acutezza: la tensione fra l'esigenza dell'arte e la semplicità della liturgia si fa cosciente; nella contrapposizione tra specialisti e curatori d'anime emerge una prevalenza della sollecitudine pastorale, che inizia a spostare unilateralmente la visuale d'insieme. Il testo stesso conserva, nello sforzo per l'univocità, un arduo equilibrio, ma viene poi magari letto partendo da una nuova sensibilità per un solo lato del problema, e così l'equilibrio diviene una ricetta molto manipolabile: musica d'uso per la liturgia; la "vera e propria musica sacra" la si può curare in altro modo: essa non si adatta più alla liturgia.

Solo che occorre allora rendersi anzitutto conto che la "vera e propria musica sacra" non è affatto musica sacra, e che una "vera e propria musica sacra" non esiste veramente più. Negli anni trascorsi da allora è innegabile che si è fatto sempre più tristemente percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si mostra la porta al bello ateleologico nella chiesa e in suo luogo ci si assoggetta esclusivamente all'"uso". Ma i brividi che incute la liturgia postconciliare, fattasi opaca, o semplicemente la noia che essa provoca con il suo gusto per il banale e con la sua mediocrità artistica non chiariscono la questione; questa evoluzione ha comunque creato una situazione nella quale si è sempre e di bel nuovo nella necessità di porsi dei problemi.

Seguiamo quindi la questione: l'arte pura, sostengono Rahner e Vorgrimler, è "esoterica nel senso corretto del termine"; la liturgia è semplice e dev'essere praticabile da tutti e da ciascuno, anche da un uomo modesto. Sopporta quindi la liturgia una vera e propria musica sacra, forse la reclama addirittura, oppure la esclude? Chi cerca nella tradizione teologica una risposta a questi interrogativi non ha l'avventura di imbattersi in una eccezionale profusione in argomento. Il rapporto tra teologia e musica sacra sembra sia stato sempre in certo qual modo freddo. Si deve tuttavia cercare, nell'area dell'identità storica del cristianesimo, cioè nello spazio della tradizione, una risposta che abbia senso, perché solo allora il problema è ammesso e perché solo allora esso occupa una posizione nei confronti delle realtà affrontate, della liturgia maturata nella storia e della musica sacra sviluppatasi nella storia stessa.

Certamente, nel corso del tempo, gli aspetti del problema sono mutati: nell'opposizione tra l'"esoterico" e l'"usuale" è assodato che il voto va, per Rahner-Vorgrimler, a favore di quest'ultimo. Non si doveva forse scomodare troppo la filosofia in questa messa a punto; essa è un riflesso della media dell'atteggiamento pastorale; se vi si presta attenzione, se ne può eruire la controversia del pratico e del pragmatico con lo specialista. Esistono certamente profonde correlazioni storico-spirituali: al naturale entusiasmo per la musica barocca aveva fatto seguito l'illuminismo, con la sua tendenza al pedagogico, all'intellettuale e all'informativo; al cecilianismo tenne dietro il movimento liturgico, prima con l'enfasi piuttosto esagerata per il corale, che corrispose alla linea arcaizzante di larga parte di questo movimento; poi nuovamente con la tendenza all'usuale, all'asolo, alla partecipazione di tutti a tutto.

Può avere qui influito la particolare situazione di un tempo in cui l'arte si rifugia sempre più nello specialistico, nella prestazione sovraccarica ad alto rendimento, e - accanto ad astruserie ed astrattezze quantitative - ammette come via di uscita soltanto il canto sdolcinato.

Può essere qui profondamente avvertibile la miseria di un'epoca lacerata, la cui razionalità ha posto il dilemma tra specialità e banalità e il cui funzionalismo, a lungo andare, con il senso per il tutto sottrae ampiamente il terreno anche alla primigenia e vitale espressione artistica. Si può infine qui avvertire un'idea di attività, di comunità e di uguaglianza in cui non è più sperimentata come realtà la potenza unificante della audizione comune, della comune meraviglia, della comune commozione in una profondità negata alla parola. Comunque stiano le cose, le esperienze degli ultimi anni hanno messo in evidenza che il ripiegamento sull'usuale non ha reso la liturgia più aperta, ma solo più povera. La necessaria semplicità non la si deve ottenere con l'impoverimento. [SM=g1740733]

La musica sacra come problema teologico nell'opera di Tommaso d'Aquino e delle sue autorità

Sarebbe troppo facile voler ritenere che con questa esperienza il problema abbia già avuto una risposta. Come già detto, l'antitesi formulata da Rahner-Vorgrimler tra l'esoterico e l'usuale è soltanto una variante, improntata alle condizioni del nostro secolo, di un problema che risale agli esordi del cristianesimo e che noi dobbiamo ora esaminare per giungere in certo qual modo alle radici, almeno a una precoce forma rappresentativa.

Un'ampia esposizione storica sulla trattazione della musica nella teologia è stata presentata alcuni anni or sono da W. Kurzschenkel, che in verità non ha concluso ma appena aperto l'esame dell'argomento (11).

Vorrei qui gettare uno sguardo sulla controversia storica, con un'analisi delle relative Quaestiones trattate da Tommaso d'Aquino. Ciò si raccomanda da sé, in quanto la grandezza della sua opera consiste proprio nel fatto che essa offre uno specchio di tutte le forze essenziali della tradizione. Tommaso tratta il problema nel quadro della sua analisi del concetto e della natura della "religio", con cui egli non intende la "religione" nel significato odierno della parola, ma l'area globale del culto e dell'adorazione (12).

A questo proposito è dedicata al problema della "lode di Dio con la voce esteriore" un'unica Questio, e si ricerca poi in un secondo articolo dopo quello introduttivo se abbia in genere un significato la lode orale di Dio, "se sia da accettare il canto in lode di Dio" (13).

Ora, la Chiesa canta fin dai tempi di Gesù e degli apostoli, che cantavano insieme nella sinagoga, il cui canto hanno portato con sé nella Chiesa (14). Il problema, fino a questo punto, era ed è in linea di principio risolto. Si ebbero tuttavia importanti voci in contrario che, se non intendevano escludere proprio il canto, gli imponevano però dei limiti molto rigidi, perché la concezione che avevano dell'essenza del cristianesimo non consentiva che una esplicazione molto ristretta del canto sacro.

1. La musica sacra messa in questione dalle "auctoritates" della teologia

Tommaso si trovò anzitutto di fronte a tre importanti testimonianze della tradizione che si erano espresse criticamente sulla musica sacra; due di queste erano entrate nei Decreti di Graziano ed erano così divenute quasi un diritto vigente.

Ecco anzitutto l'ascetismo alquanto brutale di San Girolamo, al quale Graziano aveva accordato l'accesso nel suo manuale. Girolamo aveva scritto, a proposito delle parole che si leggono nella lettera agli Efesini, che i cristiani dovrebbero cantare e salmeggiare a Dio nei loro cuori (5, 9): "I giovani che nelle chiese attendono al servizio delle salmodie, devono sapere che non si deve cantare per Dio con la voce, ma con i cuori; non spalmare la gola e la voce con medicamenti, siccome si usa fare nei teatri, così che in chiesa risuonino teatralmente melodie e canzoni tornite" (15). Non si può tuttavia arguire da questa rozza sortita del discutibile esegeta che si sia avuta ai suoi tempi una musica sacra artisticamente evoluta.

A Girolamo si aggiunge papa Gregorio Magno, che nell'ambito di un sinodo romano aveva emanato l'ordine, sotto pena addirittura di scomunica, per cui i chierici - dal diaconato in poi - non potevano più esercitare la funzione di cantori, per non essere sottratti ai compiti loro propri: la predicazione e l'assistenza ai bisognosi. Gregorio inoltre vi ravvisa anche dei pericoli morali: potrebbe sorgere facilmente un rischioso contrasto tra la bella voce e il modo di vivere, tra l'ammirazione degli ascoltatori e l'apprezzamento da parte di Dio. In conformità alla sua direttiva, i chierici degli ordini superiori devono così limitare la loro attività musicale al canto del Vangelo nella Messa; tutte le altre incombenze musicali - salmodie e rimanenti letture - devono essere curate dai chierici inferiori, suddiaconi e in caso di necessità dai titolari di ordini minori (16). I fanatici trovarono evidentemente in questo canone un sostegno al loro atteggiamento ostile alla musica sacra.

Ma l'argomento più importante proviene dalla tradizione ermeneutica dello stesso Nuovo Testamento, di cui abbiamo imparato a conoscere in Girolamo soltanto una forma particolarmente spinta. Se nella lettera ai Colossesi (3, 6) leggiamo che si deve lodare Dio con "cantici spirituali", ciò costituiva dà ogni lato, per l'esegesi del testo, un chiaro sostegno della massima generale che "Deus mente magis colitur quam ore" (17).

Desta infine interesse un'osservazione che Tommaso inserisce solo incidentalmente come cosa ovvia: "La Chiesa non conosce per la lode di Dio l'uso di strumenti musicali..., anche per non ridestare l'impressione di una ricaduta nel giudaismo" (18). La musica strumentale è indiscutibilmente tagliata fuori dalla liturgia, come un modo di "giudaizzare"; la musica strumentale del tempio giudaico viene liquidata come una concessione fatta alla durezza e alla carnalità del popolo di allora. Ciò che dice in proposito l'Antico Testamento non potrebbe avere più alcun valore diretto, ma dovrebbe essere letto allegoricamente e interpretato in senso spirituale. Tommaso non poteva sapere che proprio il rifiuto della musica strumentale e la rigida limitazione della musica vocale esprimono la continuità della Chiesa con il giudaismo primitivo: fu conseguenza della sua corrispondenza musicale con la sinagoga e perciò anche col puritanesimo dei farisei, che rifiutavano recisamente la musica strumentale (19). Questa decisione fu in realtà coerente per la Chiesa, in quanto era impossibile un immediato collegamento col tempio, e la liturgia ecclesiale non poteva praticamente svolgersi, in un primo tempo, che sulla falsariga della liturgia sinagogale, non del culto del tempio. In Tommaso (o piuttosto nella tradizione da lui rilevata) questa decisione di fatto riveste certamente un'importanza fondamentale: la musica strumentale è posta nella morsa della legge, che non può valere nella lettera, ma solo nello spirito; la problematica della musica sacra è in questo modo coinvolta nella problematica tra legge e Vangelo, il cui confronto presenta il luogo teologico dal quale si esamina il problema. Il confinamento della musica sacra nella "legge" riceve il suo significato concreto dal fatto che, nella tradizione platonica interpretata dai Padri, il confronto fra legge e Vangelo si identifica largamente con il confronto filosofico tra sensibile e spirituale; allora la musica (e specialmente quella strumentale) entra nell'ambito del sensibile, e la spiritualizzazione del Vangelo dev'essere allora intesa più o meno come un abbandono della realtà sensibile dei toni a favore del puro spirituale, della nuda parola.

2. Fondamenti e retroscena della critica musicale da parte della teologia

Ci siamo ormai inoltrati, passando per il problema delle "auctoritates", in quello più profondo dei fondamenti oggettivi, che dobbiamo ora ulteriormente prendere in esame per poter valutare, partendo da qui, il significato e i limiti della teologia positiva attinente alla musica sacra, che l'Aquinate fonda in opposizione alle "auctoritates" negative. Se si analizzano i testi critici della o addirittura ostili alla musica che non difettano nei Padri della Chiesa, si possono chiaramente stabilire due principali, ininterrotti motivi:

a) In primo luogo si nota una concezione unilateralmente spirituale del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, tra Legge e Vangelo. In realtà il passaggio da Israele alla Chiesa dei gentili era decisamente preparato, storicamente e spiritualmente, dalle correnti in cui da un pezzo la fede giudaica si incontrava con la religiosità filosofica, nella quale il pensiero greco si lasciava alle spalle il politeismo e i suoi culti, e riusciva così, spinto dalla nostalgia per il monoteismo e dalla ricerca di interiorità, a compenetrarsi dello spirito giudaico, che da parte sua doveva apprendere nella diaspora a interrogarsi con maggiore profondità sulla sua forma universale, ma che pure nella stessa Palestina tendeva, con la crescente importanza della sinagoga, nonché col progresso dei movimenti critici nei confronti del tempio, alla spiritualizzazione dei suoi contenuti storici (20).

Questa tendenza alla spiritualizzazione fu certamente un deciso presupposto dell'allegoria, nella quale Paolo espresse la libertà dalla Legge (Gal 4, 24); leggere l'Antico Testamento partendo dal Cristo significa per Paolo leggerlo nello spirito (21). Tuttavia la "cristianizzazione" dell'Antico Testamento non è semplicemente spiritualizzazione: essa significa pure un'incarnazione (22). I Padri della Chiesa ne erano per principio assolutamente consapevoli; la lotta contro la Gnosi, ma anche quella contro Ario, è una lotta contro una comprensione esclusivamente "spirituale" del cristianesimo, che l'avrebbe trasformato da una fede concreta in una filosofia della religione.

Più tardi si dovrà nondimeno dire che nemmeno i Padri potevano sottrarsi senz'altro al clima spirituale del tempo e che gli resero un tributo che andava oltre a ciò che era necessario e adeguato al fatto cristiano. Si deve ancora una volta riaffermare che esisteva ed esiste assolutamente una legittima comunicazione tra cristianesimo e platonismo. L'allegoria dell'Antico Testamento, da cui dipende il cristianesimo, si trova in intimo rapporto con l'allegoria che deriva dal pensiero platonico, o (detto più semplicemente) il movimento del cristianesimo quale via alla spiritualizzazione coincide con il movimento che è alla base del platonismo, superandolo di gran lunga. La "spiritualizzazione cristiana" però non è semplicemente opposizione al mondo dei sensi, come la mistica del platonismo, ma accostamento ed elevazione al Signore che "è Spirito" (1 Cor 3, 17; cfr. 1 Cor 15, 45). In questa spiritualizzazione è pertanto coinvolto anche il corpo; il Signore è "lo Spirito", proprio come è spirito colui il cui corpo non rimane nella corruzione (Sal 15, 9s LXX; At 2, 26), ma che è stato investito dalla forza vitale dello spirito. La cristologia sottolinea la fondamentale distinzione dalla dottrina platonica della spiritualizzazione; il suo sfondo è però la teologia della creazione, la cui intrinseca unità non è compromessa dalla cristologia, ma anzi confermata.

Si connette con ciò un altro fatto. Come abbiamo visto, la liturgia cristiana si è collegata oggettivamente e storicamente non al tempio, ma alla sinagoga. Essa era cosi associata a un modello più o meno puritano. Agli esordi ciò era inevitabile, perché soltanto cosi si poteva esprimere lo iato fondamentale nei confronti della Legge, che trovava la sua solida concentrazione nel culto del tempio. Soltanto con una rottura oggettiva anche sul piano istituzionale si poteva sostenere che nel culto cristiano si trattava non di un semplice doppione del tempio, ma di una rottura che portava a un piano diverso. Vi si aggiunse del resto il fatto che nei primi decenni dell'evento del cristianesimo il tempio esisteva ancora con tutti i suoi ordinamenti e che era ancora e sempre in atto una partecipazione di diritto dei giudei-cristiani alla sua vita; già da questo stato di cose non si poteva tenere conto di una imitazione del tempio a certe condizioni, che erano per la verità soltanto quelle della sinagoga. Ci si deve pure chiedere oggettivamente in che misura un testo così rilevante come quello di Giovanni (2, 13-22) con la promessa di un nuovo tempio "in tre giorni" (2, 19; cfr. Mc 14, 58; Mt 26, 61) dovesse condurre a comprendere il cristianesimo, secondo una sua esigenza interna, dal tempio e in un'assunzione della sua realtà (23).

Questo quesito è di rilevante importanza per il problema dell'ufficio sacerdotale: l'effettivo collegamento della Chiesa primitiva soltanto alla sinagoga significa una rottura definitiva, rigorosa, categorica con l'idea del sacerdozio, oppure l'autentica eredità del tempio deve continuare anche attraverso la trasformazione cristologica? Ecco uno degli esempi dai quali si comprende quanto poco è sentito in definitiva il problema di un'esatta determinazione dei rapporti fra i due Testamenti. Un altro, che diviene sempre più di attualità, è il problema della legittimità della edificazione della chiesa, del fabbricato "sacrale"; vi appartiene però anche la questione delle immagini, per la quale la Chiesa ha subito più di un terremoto, che si è scatenato dallo stesso epicentro.

Ora, la teologia patristica ha travasato del tutto l'idea del tempio nell'evento cristiano e l'ha elevata a categoria per la comprensione del cristianesimo stesso (24). Ma ciò si è verificato in larga misura soltanto "allegoricamente", in una severa teologia della spiritualizzazione; solamente nella questione delle immagini la passione della Chiesa greca per la rappresentazione plastica ha provocato una rottura, nella quale ormai l'evento storico del fatto cristiano porta con pieno diritto a una direzione nettamente opposta: dall'assenza di immagini nell'Antico Testamento alla glorificazione di Dio nell'immagine (25).

Il fatto che questa decisione sia stata ampiamente dibattuta nella Chiesa postconciliare e l'assenza di immagini venga propagandata come l'unica cosa possibile, corrisponde allo stesso atteggiamento dello spirito che intende estromettere la "vera e propria musica sacra" dal culto divino; esso dimostra parimenti come i problemi di ieri e di oggi si tocchino da vicino, qualora si scenda dalla superficie alle radici.

Ne consegue così anche una strabiliante analogia nei risultati. L'idea che si debba effettivamente lodare Dio soltanto nel cuore non può attribuire all'articolazione vocale di questa lode nella musica alcun valore intrinseco nell'atto di lodare, secondo la maniera cristiana di onorare Dio. Siccome però sussistono pur ora e lo svolgimento orale della lode divina e il canto cultuale, si deve collocarli per cos1 dire su di un piano secondario.

Un bell'esempio ci presenta Agostino, la cui sensibilità musicale si trasforma in tormento per la tirannia di una teologia della spiritualizzazione che deve dare significato al Vecchio Testamento, all'Uomo Vecchio e al Vecchio Mondo: egli teme di "peccare in modo da meritare una pena" se "la musica lo commuove più che la realtà cantata": egli "preferirebbe allora non sentir cantare". Il ricordo della profonda commozione spirituale provata nel suo primo incontro con la musica sacra milanese ammorbidisce per fortuna il suo rigorismo, e anche se non osa prendere alcuna decisione definitiva è tuttavia più incline "ad approvare l'uso del canto nella chiesa; lo spirito ancora debole deve trovare, con il piacere dell'udito, lo slancio verso il mondo della devozione" (26).

Tommaso poté ravvisare a buon diritto in questa espressione una coincidenza con la teoria musicale di Boezio e riassumere la sua motivazione della musica sacra nella proposizione: "affinché il senso dei deboli venga provocato di più alla pietà" (27).

La musica sacra è così collocata sul piano dell'utilità pedagogica e praticamente sottoposta al criterio dell'"usuale". Si dimostrerà che sia Tommaso sia Agostino sanno poi dire in effetti anche cose molto diverse. Non mancano certamente esperienze e nozioni che conducono molto più in là. Certamente lo schema della spiritualizzazione, che era collegato con il problema del rapporto tra i due Testamenti e così con quanto c'è di specificamente cristiano, impediva un perfezionamento coerente di questa nozione.

b) Prima di riprendere questo filo si deve anzitutto dare uno sguardo a un altro insieme di motivi che impedivano una valutazione positiva della musica sacra, perché soltanto se esaminiamo a fondo la tesi negativa nelle sue motivazioni noi possiamo far valere gli aspetti positivi della tesi opposta. Ciò che s'intende appare chiaro soprattutto nell'articolo fondamentale di Tommaso sull'esecuzione orale della lode di Dio, in primo luogo nella proposizione seguente: "La lode orale è necessaria non per Dio stesso, ma per chi lo loda" (28). Qui si vede con quanta forza sia entrato nel pensiero cristiano, tramite la filosofia classica, l'antico concetto dell'assoluta immutabilità e intangibilità di Dio, e come si sia trasformato in una barriera contro un'appagante teologia non soltanto della musica sacra, ma anche della preghiera in genere.

In Aristotele questo concetto di Dio aveva coerentemente portato a identificare la religiosità con la cura del mio Io, più precisamente con la cura di ciò che gli dèi amano di più: l'intelletto (29). La teologia cristiana, dominata da questo principio dell'immutabilità, non ha saputo liberarsi che con difficoltà dall'ombra di queste idee; la ricaduta in una teoria della preghiera, in cui si tratta soltanto dell'attivazione delle forze dell'uomo che passano per le migliori, assume oggi una dimensione addirittura impressionante. La teologia classica è certamente distante mille miglia da tale razionalismo e sa di essere aperta nel Cristo, Parola di Dio, al discorso con Dio; ma nella costruzione filosofica il peso dell'antico concetto di Dio non è abbastanza scaricato, e così permane sulla teoria della liturgia un'ombra razionalistica.

3. Fondamenti teologici della musica sacra

Se si deve definire il legame con lo schema della spiritualizzazione e con l'antico concetto di Dio come il peso della tradizione teologica, essa riceve d'altra parte la sua libertà e la sua dimensione da due fonti intrinsecamente cristiane: dalla viva esperienza liturgica e dalla teologia dei salmi. Il canto cultuale si era sviluppato nel passaggio dalla sinagoga alla Chiesa; ai salmi si erano aggiunti molto precocemente dei "canti" (30). I salmi, con la loro esultanza musicale tutt'altro che puritana, nonostante l'ammorbidimento del metodo allegorico non potevano restare inefficaci nei confronti della teologia. Il fatto che questi canti di Israele si continuavano a pregare e a cantare come canti della Chiesa significava che tutta la ricchezza sentimentale della preghiera d'Israele rimaneva tuttora presente. Anche Tommaso conclude così le sue considerazioni sullo svolgimento orale della preghiera con le parole del salmo, che va ben di là dalle riflessioni precedenti: "...la sua lode sia sempre sulla mia bocca!... I poveri devono ascoltarla e rallegrarsene! Glorificate con me il Signore!" (31).

Il gaudio nel Signore si manifesta qui in tutto il suo significato e in tutta la sua bellezza; rallegrarsi nella comune esaltazione encomiastica di lui, essere intimamente convinti che egli se la merita ed esprimere questo sentimento con una musica festosa, sono fatti che si giustificano da sé, di là da ogni teoria. Con la ripresa di questa parola del salmo, Tommaso dice realmente di sì alla gioia che si esprime e che, in quanto espressa, unifica anche e proprio coloro che coinvolge: gli "ascoltatori"; la sua espressione sembra però quasi una presenza della magnificenza, che è Dio: rispondendo a questa magnificenza, essa stessa ne partecipa. Non sarebbe troppo difficile approfondire questo motivo della "glorificazione", che nell'Antico Testamento è attinente alla teologia della creazione, sia sotto il profilo cristologico (il Cristo, quale magnificenza di Dio accessibile all'uomo), sia sotto il profilo pneumatologico (il Pneuma parla, sospira e rende grazie in noi) (32).Di fronte a una teoria dell'annuncio strettamente razionalistica si dovrebbe rimandare a quell'idea cosmica dell'annuncio che ricorre nelle parole del salmo 19: I cieli annunciano la gloria di Dio. La gloria del Creatore non si può proclamare soltanto con la parola, ma deve pur esprimersi nella musica della creazione e nella sua ideale trasformazione ad opera degli uomini che credono e che contemplano. Si dovrebbe poi ovviamente aggiungere con un certo rilievo che i salmi - come preghiera dei poveri, preghiera del giusto crocefisso - sono anche largamente lamentazioni, ma riassumono qui anche la doglianza della creazione che supera tutte le parole, le trasforma in toni, nei quali il lamento si trasforma in preghiera implorante e parimenti in segnale di speranza e in forma appassionata di glorificazione.

"Glorificazione" è il motivo centrale per cui la liturgia cristiana dev'essere liturgia cosmica e il mistero del Cristo deve per cosi dire intonarsi con le voci della creazione (33).

Gli altri motivi che si trovano nella tradizione rappresentata da Tommaso si possono inquadrare in questo contesto e lo perfezionano. Così, ad esempio, quando Tommaso dice: con la lode tributata a Dio l'uomo si eleva fino a Dio (34). Lodare è anche un movimento, un cammino; è più che comprendere, sapere, fare: è un'"ascendere" per raggiungere colui il quale dimora nel coro encomiastico degli angeli. Tommaso vi aggiunge un altro punto di vista quando scrive: tale ascesa strappa l'uomo da ciò che è contro Dio. La sa bene chi ha sempre sperimentato la forza trasformatrice della grande liturgia, della grande arte, della grande musica.

La lode sonora porta noi e gli altri al timore riverenziale, osserva inoltre Tommaso (35). Essa ridesta l'uomo interiore (36): e Agostino ha provato proprio questo a Milano, dove l'esperienza vissuta della Chiesa che canta divenne per lui un'emozione che lo pervase tutto intero, e portò sulla via della Chiesa lui, l'accademico, che valutava il cristianesimo come una filosofia, e che non poteva vedere che con un certo disagio la Chiesa, come alcunché di largamente volgare (37). Diviene da qui significativo e comprensibile il resto, il pedagogico, "il coinvolgimento degli altri nella lode di Dio" (38). Se si è inoltre a conoscenza di ciò che la pedagogia significava per gli antichi - guida all'interiorità, anzi processo di riscatto e di liberazione - non si metterà da parte come insignificante nemmeno questa riflessione (39).

4. Significato positivo della critica teologica della musica

Chi si accinge a rilevare e a ripensare le ragioni positive della tradizione, non può nemmeno sottrarsi al quesito di quale persistente importanza rivestano i suoi interrogativi critici. Chiaramente, già l'ampiezza di questo elemento della tradizione e le ragioni oggettive che noi abbiamo individuato con tutte le limitazioni, escludono questo metodo. Il motivo di base che sta dietro a tutte e alle singole osservazioni critiche noi l'abbiamo indicato nell'idea di spiritualizzazione, in cui si espresse il passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento nonché la direttrice di marcia dell'evento cristiano. Abbiamo dovuto sostenere che questo motivo è equivocato quando equivale alla negazione in genere del "sensibile", alla negazione della corporeità dell'uomo e alla trascuranza della pienezza della creazione.

Ma è rettamente inteso, se il movimento della spiritualizzazione si compie nella creazione, nell'accoglimento della creazione nel modo di essere dello Spirito Santo e nella trasformazione della creazione con il suo accoglimento nello Spirito, come è avvenuto pienamente prima nel Cristo crocifisso e resuscitato. In questo senso l'accettazione della musica nella liturgia dev'essere un'accettazione nello spirito, una trasformazione, che significa parimenti morte e resurrezione. Per questa ragione la Chiesa dovette essere critica nei confronti della musica che essa aveva già trovato presso i vari popoli; essa non poteva ammettersi immutata nel santuario: il culto musicale delle religioni pagane ha, nell'esistenza umana, un altro posto e un altro valore, diversi dalla musica della glorificazione di Dio tramite la creazione.

Essa tende in molti casi, attraverso il ritmo e la melodia, a provocare l'estasi dei sensi; con ciò non innalza però veramente i sensi allo spirito, ma tenta di avviluppare lo spirito nei sensi e di liberarlo con questo tipo di estasi. Ma in siffatta distrazione dei sensi, che ritorna nella moderna musica ritmica, "Dio" e la salvezza dell'uomo sono collocati assolutamente altrove che nella fede cristiana. La coordinata dell'esistenza e del cosmo nel suo complesso è tracciata diversamente, anzi in senso inverso. Qui la musica può effettivamente trasformarsi in una "tentazione" che conduce l'uomo a una meta sbagliata. Qui non si fa della musica diretta alla purificazione, ma allo stordimento. Se residui della musica pagana dell'Africa passano così facilmente nella musica pagana postcristiana, se ne può trovare la ragione estrinseca nell'analogia di determinati elementi formali; la motivazione più profonda consiste però nel contatto fra impostazioni spirituali di fondo, di una concezione della realtà che può essere in definitiva "pagana" e pertanto primitiva nel bel mezzo dell'illuminismo di un mondo dominato dalla tecnologia. La musica che intende diventare mezzo di adozione abbisogna di purificazione; soltanto così può essa stessa purificare ed "elevare".

In tutta la storia della Chiesa si è combattuto per l'ortodossia di questa spiritualizzazione: e anche se il puritanesimo dei teologi quanto a musica non di rado era tutt'altro che illuminato, la grande musica sacra occidentale è pur maturata come frutto di questa lotta; l'opera di un Palestrina come quella di un Mozart non sarebbero pensabili senza questo processo drammatico, nel quale la creazione divenne strumento dello spirito, ma anche lo spirito divenne nota e suono nella creazione materiale e raggiunse così un'elevatezza che quale "puro" spirito non potrebbe mai avere. La spiritualizzazione dei sensi è la vera spiritualizzazione dello spirito. Nessuno poteva prevedere o presentire, all'inizio di questo cammino, a quali frutti esso avrebbe portato, in quanto è impossibile indicare a priori criteri fissi di ciò che tale spiritualizzazione musicalmente esige e di ciò che essa esclude, benché sia certamente più facile definire i criteri negativi di quelli positivi.

Il Concilio Vaticano II ha perciò saggiamente deliberato di indicare soltanto criteri assolutamente generali: la musica deve corrispondere allo spirito dell'azione liturgica (40); dev'essere adatta all'impiego sacro che se ne fa oppure potervisi adattare (41); deve corrispondere alla dignità della casa di Dio e promuovere veramente l'edificazione dei fedeli (42).

La tradizione impersonata da Tommaso è qui più perspicua. Nel testo analizzato ci siamo imbattuti in due chiare limitazioni:
1- Tommaso, sulla scia di una tradizione a quanto pare indiscussa, reclama un carattere rigidamente vocale della musica sacra.
2- Dietro il chiasso di Girolamo si nascondono l'esasperato conflitto della Chiesa antica con il fascino dell'antico teatro e la delimitazione nei confronti della sua musica, alla quale del resto Girolamo rimprovera non il carattere estatico della musica cultuale di un tempo, ma la vanità e la ricerca degli effetti nell'autoesibizione degli artisti.
Il consenso con il Padre della Chiesa si fa qui senza riserve: la musica liturgica dev'essere sommessa; il suo scopo non è l'applauso ma l'"edificazione". Corrisponde esattamente alla sua natura il fatto che, nella disposizione delle cantorie nella casa di Dio, l'esecutore - diversamente dalle sale di concerto - rimane per lo più invisibile.

Ma che si deve dire della forte opzione della tradizione per la musica vocale? Dalle considerazioni che abbiamo fatto finora dovrebbe risultare chiaro che essa, nell'esclusività in cui Tommaso la sostiene, poggia storicamente ed oggettivamente su di un equivoco. Mi sembrerebbe d'altronde pericoloso mettere da parte come del tutto inconsistente una tradizione radicata da tanto tempo. Si dovrà pur dire: la liturgia della Parola Incarnata è necessariamente orientata in maniera specifica verso la parola. Ciò non significa affatto adesione a quel banale razionalismo postconciliare che ritiene degno della liturgia soltanto ciò che è per tutti razionalmente praticabile, e che è cosi giunto alla proscrizione dell'arte, nonché a ulteriori e sempre più temerarie banalizzazioni verbali.

Contro siffatti malintesi vale ancora la parola definitiva dell'Aquinate (che pone in tal senso un chiarimento definitivo) nella Questio sulla musica; egli si era confrontato con la obiezione: quando si canta qualche cosa "può darsi che essa sia compresa dagli altri peggio di come lo sarebbe se fosse eseguita senza canto". Egli risponde: "Anche se gli uditori di quando in quando non capiscono ciò che viene cantato, essi tuttavia comprendono per quale motivo si canta: per lodare Dio. E ciò è sufficiente per aprire l'uomo a Dio" (43). [SM=g1740722]
Ciò che resta è però un rapporto di massima con la parola; si deve forse aggiungere pure che l'alienazione dello spirito è più possibile e più facile con lo strumento che con la voce; che il suono può tanto più facilmente sfuggire allo spirito, oppure rivolgerglisi entro, quanto più si scosta dall'uomo. Ma anche qui si dovrà d'altra parte dire ancora una volta che questa necessità di purificazione, da cui si sono sviluppati gli strumenti della musica occidentale, ha offerto all'umanità doni preziosi, dei quali essa ritorna in possesso nella misura in cui riesce a superare la sollecitazione del senso in virtù dello spirito di fede. La lotta della fede con la musica del mondo è stata fruttuosa (44).

Conclusione: principi di massima nella crisi del presente

A conclusione di queste riflessioni vorrei fissare qui alcuni principi informatori, che si prefiggono di mettere in relazione i criteri scaturienti dal dialogo con la storia con quei problemi del presente che erano al punto di partenza.

1. La liturgia esiste per tutti. Dev'essere "cattolica", cioè comunicabile a tutti i credenti, senza distinzione di luogo, di provenienza, di cultura. Dev'essere pertanto "semplice". Ma semplice non significa a buon mercato. C'è la semplicità del banale e c'è la semplicità che è espressione di maturità. Nella Chiesa può tuttavia trattarsi soltanto di quest'ultima, della vera semplicità. La più alta tensione dello spirito, la più alta purificazione, la più alta maturità generano la semplicità autentica. L'esigenza del semplice, a guardare bene, è identica all'esigenza del pulito e del maturo, che si può avere a molti livelli, ma mai a quello della semplicità psichica.

2. Cattolicità non significa uniformità. Il risalto dato alla particolare funzione della cattedrale nella Costituzione Liturgica del Concilio Vaticano II non è privo di fondamento. La cattedrale può e deve rappresentare la festosità e la bellezza del culto divino in maniera più imponente di quanto possa normalmente farlo la chiesa parrocchiale, e anche qui l'impegno dell'arte avrà, a seconda dei casi e delle circostanze, livelli diversificati. Non è detto che ognuno debba essere tutto; tutti insieme soltanto costituiscono il complesso. Il pluralismo postconciliare si è dimostrato stranamente uniformante per lo meno in un punto: esso non intende consentire più un livello di espressione definito. In corrispondenza a ciò, la differenza delle prospettive, nell'unità della liturgia cattolica, dev'essere restituita al suo diritto.

3. Una delle parole-guida della riforma liturgica conciliare è stata a ragione la "partecipatio actuosa", la fattiva partecipazione alla liturgia di tutto il "popolo di Dio". Questo concetto ha tuttavia subito dopo il Concilio una fatale restrizione. Sorse l'impressione che si avesse una partecipazione fattiva soltanto dove ci fosse un'attività esteriore verificabile: discorsi, canti, prediche, assistenza liturgica. Gli articoli 28 e 30 della Costituzione Liturgica, che definiscono la partecipazione fattiva, possono aver prestato il fianco a siffatte restrizioni, basando la partecipazione stessa, in larga misura, su azioni esteriori. Comunque, anche il silenzio è ricordato come "partecipatio actuosa". Riallacciandosi a questo ci si deve chiedere: come mai dev'essere solo il discorrere e non anche l'ascoltare, il percepire con i sensi e con lo spirito, una compartecipazione spirituale attiva? Non v'è nulla di attivo nel percepire, nel captare, nel commuoversi? Non c'è qui oltre tutto un impicciolimento dell'uomo, che viene ridotto alla pura espressione orale, benché noi oggi tutti sappiamo che quanto v'è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto l'estremità di un iceberg nei confronti di ciò che l'uomo è nel suo complesso? Saremo ancora più concreti: ci sono ormai non pochi uomini che riescono a cantare più "col cuore" che "con la bocca", ma ai quali il canto di coloro cui è dato cantare anche con la bocca può veramente far cantare il cuore, in modo che essi cantano per così dire anche in quelli stessi e l'ascolto riconoscente come l'esecuzione dei cantori diventano insieme un'unica lode a Dio. Si deve necessariamente costringere alcuni a cantare là dove essi non possono e zittire così a loro e agli altri il cuore? Ciò non dice proprio nulla contro il canto di tutto il popolo credente, che ha nella chiesa una sua funzione inalterata, ma dice tutto contro un'esclusività che non può essere giustificata né dalla tradizione né dalle circostanze.

4. Una chiesa che faccia soltanto della "musica d'uso" cade nell'inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha un'incombenza ben più alta: ha il dovere come si dice del tempio veterotestamentario - di essere città della "gloria", nonché città nella quale sono portati agli orecchi di Dio i lamenti dell'umanità. La Chiesa non può appagarsi dell'ordinario e dell'usuale: deve ridestare la voce del cosmo, glorificando il Creatore e svelando al cosmo la sua magnificenza, renderlo splendido, e quindi bello, abitabile, amabile. L'arte che la Chiesa ha espresso è, accanto ai santi che vi sono maturati, l'unica reale "apologia" che essa può esibire per la sua storia. La magnificenza che esplose ad opera sua accredita il Signore, e non le acute scappatoie che la teologia escogita per gli aspetti terribili di cui purtroppo tanto abbonda la sua storia. Se la Chiesa deve convertire, migliorare, "umanizzare" il mondo, come può farlo e rinunciare nel con tempo alla bellezza, che fa tutt'uno con l'amore e con esso è la vera consolazione, il massimo accostamento possibile al mondo della resurrezione? La Chiesa non deve accontentarsi facilmente; dev'essere un focolare del bello, guidare la lotta per la "spiritualizzazione", senza la quale il mondo diventa "il primo cerchio dell'inferno". Perciò il problema dell'"adatto" deve essere anche e sempre il problema del "degno" e la provocazione a cercare questo "degno".

5. La Costituzione Liturgica contiene l'indicazione di dimostrare "il meritato apprezzamento" della tradizione musicale di "alcuni paesi, specialmente nelle missioni", tanto più dove tale tradizione "ha grande importanza nella vita religiosa e sociale" (45). Ciò risponde all'idea di cattolicità del Concilio, la quale non solo non vuole veder distrutto, ma sanato, elevato e perfezionato "ogni elemento di bene presente e riscontrabile nel cuore e nell'anima umana e negli usi e civiltà particolari dei popoli" (46). Queste espressioni sono state giustamente accolte con favore nella teologia e nella pastorale, sebbene non si sia a volte riflettuto abbastanza che non si è con ciò dispensati dallo sforzo della purificazione. Colpisce però notevolmente il fatto che mentre giustamente ci si rallegra per l'apertura alle culture straniere, sembra si sia non di rado dimenticato che anche i paesi dell'Europa devono esibire una tradizione musicale che "ha una grande importanza nella vita religiosa e sociale", e che esiste anzi qui una musica che è maturata dal cuore della Chiesa e dalla sua stessa fede. Non si può certamente sentenziare che questa grande musica sacra dell'Europa sia in genere musica della Chiesa, e non se ne può certo dichiarare conclusa la storia, a causa della sua grandezza.

Ciò è impossibile, come è impossibile dichiarare concluse in genere le grandi figure della teologia latina per il magistero della Chiesa e per la struttura finale e definitiva della teologia. Ma è altrettanto chiaro che siffatta ricchezza, maturata dalla fede e che costituisce parimenti una ricchezza per tutta l'umanità, non dev'essere perduta per la Chiesa (47). O il timore riverenziale e uno "spazio proporzionato" nella liturgia (art. 119) dovrebbero spettare soltanto alla tradizione non cristiana? Si oppone fortunatamente a questa logica assurda lo stesso Concilio, che pretende la "massima diligenza" nella "conservazione e nella cura" di questo tesoro (art. 114). Ma si può veramente custodire e curare ciò che questa musica è soltanto se essa continua a essere preghiera sonora, gesto e glorificazione, se essa risuona là dove è nata, nel culto divino della Santa Chiesa.

[fine capitolo]

Note

1) K. Rahner-H. Vorgrimler, Kleines Konzilskompendium, Freiburg 1967(2), p. 48.

2) Così J.A. Jungmann, in: Das zweite Vatikanische Konzil. Dokumente und Kommentare I (LThk Erganzungsband I), pp. 95s.

3) Cost. Lit. cap. 6, art. 114.

4) L.c., 48.

5) V. p. 48. Cfr. Costituzione sulla sacra liturgia, art. 114: "Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio dalla musica sacra. Si promuovano con impegno le "scholae cantorum" in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d'anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l'assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente...".

6) V. p. 48.

7) Costituzione sulla sacra liturgia, art. 115.

8) Art. 116.

9) L.c., 99; sull'argomento, art. 120 della Costituzione.

10) Art. 120.

11) W. Kurzschenkel, Die theologische Bestimmung der Musik, Trier 1971. Importante materiale sull'argomento si trova ovviamente anche in K.G. Fellerer (a cura di), Geschichte dr katholischen Kirchenmusik I, Kassel 1972; II, 1976; citato in seguito; K.G. Fellerer, Geschichte (tutte le citazioni si riferiscono al I volume). .

12) Cfr. H.J. Burbach, Studien zur Musikanschauung des Thomas von Aquin, Regensburg 1966; dello stesso, Thomas von Aquin und die Musik, in: "Musica sacra", 94 (1974), pp. 80-82. Un'analisi del trattato tomistico sulla "religio" è presentato da E. Heck, Der Begriff religio bei Thomas von Aquin, Paderborn 1971. È pure utile l'edizione commentata delle relative Quaestiones 81-200 della Summa Theologica 2a -2ae di F. Mennessier: St. Thomas d'Aquin, La religion, I e II, Paris 1953.

13) V. Summa Teologica 2a-2ae q 91 a 1 e 2, in Mennessier op. cit., II 136-148; Kommentar p. 391-393. Un'interpretazione esauriente del testo, a mio parere però troppo soggettiva, è presentata da D. Sertillanges, Prière et Musique, in: "Vie Intellectuelle", 7 (1930), pp. 130-164.

14) Cfr. K.G. Fellerer, "Die katholische Kirchenmusik in Geschichte und Gegenwart" in Fellerer, Geschichte, pp. 1ss: "Il grande Hallel (sal 113-118) dell'Ultima Cena (Mt 26,30; Mc 14,26) significa l'inizio del canto culturale cristiano". Cfr. inoltre il saggio estremamente istruttivo di Eric Werner, "Die jiidischen Wurzeln der christlichen Kirchenmusik", ibidem, pp. 2-30, spec. p. 26.

15) Comm. in ep. ad Eph III 5 PL 26, 528 C-D; Dcr. Gratiani I disto 92 c 1; Thomas V. A. 2a-2ae q 91 a 2 opp. 2. Il testo è citato pure da H. Hiischen, "Musik der Anbetung im Geiste", in: K.G. Pellerer, Geschichte, p. 36. La traduzione del termine "moduli" con melodie si riferisce a Huschen.

16) Graziano, Decr. I d 92 c 2: Tommaso q 91 a 2 opp. 3; cfr. PL 77, 1335 A-B (Appendix, v Decreta Sancti Gregorii Papae I).

17) q 91 a 1 opp. 2. Cfr. l'esauriente esposizione di questa linea tradizionale in H. Hiischen, 1.c. 31-36.

18) q 91 a 2 opp. 4. L'VIII libro della Politica aristotelica, la cui esegesi avrebbe probabilmente costretto Tommaso a un confronto più approfondito con questo problema, non è stato purtroppo commentato dallo stesso maestro; il commento attribuito a Tommaso è dovuto alla penna del suo discepolo Pietro di Auvergne (cfr. H.J. Burbach, loc. cit. 14), e si limita in ampia misura a una parafrasi del testo, senza entrare oggettivamente nel problema. Un certo adattamento della concezione aristotelica sulla musica, politicamente qualificata, alla nuova situazione musicale del medioevo, promossa dalla Chiesa, è tentato da Tommaso nel suo commento al salmo 32,2, senza però tenere conto del diverso significato della tonalità (dorica, frigia, "ippolidica", com'egli scrive) così che nemmeno questo testo sviluppa fondamentalmente il problema. Cfr. H.J. Burbach, loc. cit. 50-58; Mennessier, op. cit., p. 394; cfr. su Aristotele, in questo saggio, le nn. 27 e 44.

19) Cfr. E. Werner, loc. cit. (v. n. 14), pp. 25ss.

20) Cfr. il materiale in C.K. Barret, Die Umwelt des Neuen Testaments. Ausgewalte Quellen, Tiibingen 1959. Un orientamento panoramico per l'area giudaica si trova in M. Simon, Die judischen Sekten zur Zeit Cbristi, Einsiedeln 1964; per il problema nel suo complesso cfr. anche H.A. Wolfson, The philosophy of tbe Church Fathers I, Cambridge, Mass. 1966; O. Gigon, Die antike Kultur und das Christentum, Gutersloh 1966, nonché il ricco materiale in Hiischen, op. cit., pp. 31-36.

21) Cfr. su questi problemi H. de Lubac, Der Geistige Sinn der Schrift, Einsiedeln 1952; ivi pure un'analisi del concetto di allegoria, tipologia, senso spirituale. Inoltre Lubac, Geist aus der Geschichte, Einsiedeln 1968. Sulla ripresa e l'ulteriore sviluppo del problema in Tommaso d'Aquino: M. Arias-Reyero, Thomas von Aquin als Exseget, Einsiedeln 1971. Cfr. pure i miei saggi sull'argomento, in: Internat. Theologenkommission, Die Einheit des Glaubens und der theologische Piuralismus, Einsiedeln 1973, pp. 22-29.

22) Internat. Theologenkommission, loc. cit., p. 26, con altra bibliografia. A questo proposito non mi sembra del tutto soddisfacente il pregevole libro di Th. Maertens, Heidnischiudische wurzeln der christlichen Feste, Mainz 1965, in quanto egli mette in evidenza il punto di vista della spiritualizzazione unilateralmente. La prospettiva specificamente cristiana è invece ben tracciata da J. Daniélou, Liturgie und Bibel. Die Symbolik der Sacramente bei den Kirehenvatern, Munchen 1963.

23) Cfr. sull'argomento la fondamentale ricerca di Y. Congar, Le Mystère du temple, Paris 1957. Pregevoli indicazioni sul problema deI sacerdozio, strettamente congiunto con questo, si trovano in A. FeuilIet, Le sacerdoce du Christ et ses ministres, Paris 1972.

24) Cfr. p.e. le mie indicazioni in: J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, Miinchen 1954 (tr. it.: Popolo e casa di Dio in S. Agostino, Jaca Book, Milano 1978).

25) Cfr. P. Evdokimov, L'art de l'icone. Theologie de la beauté, Desclée de Brower 1970; Chr. Schonborn, L'icone du Christ. Fondements théologiques, Fribourg 1976; pregevoli indicazioni anche in St. Harkianakis, Orthodoxe Kirche und Katholizismus, Munchen 1975, pp. 75-88.

26) Confessiones x 33, 50; Tommaso, q 91 a 2 resp.

27) Tommaso, ivi; cfr. Boezio, De institutione musica, Prol. P. 63, 1168. Tommaso si richiama a ragione anche all'VIII libro della Politica di Aristotele, senza però sfruttare in profondità le ricchezze del testo aristotelico. Basti pensare che Aristotele dedica alla musica quasi tutto l'VIII libro della sua Politica per comprendere la posizione che egli assegna all'arte dei suoni nella sua filosofia della comunità. Fra le quattro discipline che, secondo Aristotele, formano il nucleo dell'istruzione-scrittura, ginnastica, musica e disegno (VIII 3, Bekker II 1337 b, 24s), egli dedica alla musica una posizione particolare. Essa non è, come le altre tre discipline, ordinata a un'occupazione o a una finalità, ma insegna all'uomo il giusto otium, che non abbisogna di alcuna giustificazione esterna, ma contiene in se stessa il proprio fine (VIII 3, 1338 a 121). Sempre sull'argomento, un'altra bella espressione: "Cercare soprattutto l'utile non si adatta a un uomo sereno e a un uomo libero" (1338 b, 2ss). Nella filosofia della musica, contenuta nella Politica aristotelica, si rivela un aspetto della grecità, per lo più dimenticato, al quale rimanda energicamente H.J. Marrou: "I Greci, come ci appaiono attraverso la nostra particolare cultura classica, sono per noi soprattutto dei poeti, filosofi e matematici; se li onoriamo come artisti ravvisiamo in loro soprattutto degli scultori e dei pittori; la nostra formazione ed istruzione presentano minore attenzione alla loro musica che alla loro ceramica! Eppure essi erano e volevano essere in prima linea dei musicisti!" (Geschichte der Erziehung im klas:ischen Altertum, Freiburg-Miinchen 1957/68; tr. it.: Storia dell'educazione nell'antichità, Studium, Roma 21978). Il purismo di Platone (Politeia III 398a-400a) inaugura comunque una linea nuova, che si poteva difficilmente collegare nella tarda antichità al puritanesimo della sinagoga; cfr. anche n. 44. Non può non dispiacere che Tommaso non abbia approdato a questo problema, bloccato com'era dalle "auctoritates" patristiche, sviluppando in senso cristiano l'abbozzo aristotelico e che cosi l'Aristoteles christianus risulti carente nella teoria della musica sacra. Se si riflette che la Chiesa, par. tendo dalla sua posizione nella edificazione dell'esistenza, sotto molti aspetti ha preso per il cristiano il posto dell'antica polis, il collegamento aristotelico tra polis e musica avrebbe offerto un punto di avvio ideale per il problema della musica sacra. In Der kleine Pauli III 1485.1496 si trova una breve sintesi sullo sviluppo e la forma della musica greca.

28) q 91 a 1 resp.

29) Etica Nicomachea X 9, Bekker 1179a, 24ss. Cfr. in argomento il commento di F. Dirlmeier, Aristoteles, Nikomachische Ethik, Darmstadt 1956, pp. 598s, che mette parimenti in evidenza la prestazione filosofica di questo testo nella sublimante trasformazione del do ut des, cosi che Aristotele, nonostante l'assioma dell'egoismo degli dèi, perviene a una impressionante idea dell'amicizia del sapiente con Dio. Sulla problematica del principio di immutabilità nella teologia cristiana cfr. W. Maas, Unverandlichkeit Gottes. Zum Verhiiltniss von griechisch-philosophischer und christlicher Gotteslehre, Padernbom 1974. Cfr. su tutto il problema il primo saggio di questo volume.

30) Si accenna a questi canti nella 1 Cor 14,25.26; Col 3,16; Ef 5, 15 ss. Una serie di inni della cristianità primitiva è contenuta nel Nuovo Testamento, p.e. in Fil 2,5ss; Ef 2,14-16; 2 Tim 2,11-13. V. l'elenco complessivo in H. SchIier, Das Ende der Zeit, Freiburg 1971, pp. 2-12s (tr. it.: La fine del tempo, Paideia, Brescia 1978); cfr. anche S. Corbin, "Grundlegen und erste Entwicklung der christlichen Kulmusik", in: Fellerer, Geschichte, pp. 16-21. Ho cercato di presentare più dettagliatamente queste correlazioni nel mio saggio: Theologische Probleme der Kirchenmusik, in: "Internat. kath. Zeitschr.", 9 (1980), pp. 148-157.

31) Sal 33,2-4; Tommaso q 91 a 1 resp. Cfr. anche il commento di San Tommaso al salmo 33 (1-4), che sviluppa alquanto questi pensieri.

32) La dimensione trinitaria della musica sacra è ottimamente evidenziata dall'importante studio di F. Haberl, Zur Theologie der Kirchenmusik, in: "Musica sacra", 91 (1971), pp. 213219; cfr. lo stesso, "Die humane und sakrale Bedeutung der Musik", in: H. Lonnendonker, In charitate et veritate. Pubblicazione in onore di Joh. Overath, Saarbrucken 1973, pp. 17-23.

33) Cfr. in argomento il grande abbozzo di una teologia estetica di H. von Balthasar, Herrlichkeit, voI. I-III, Einsiedeln 1961-1969 (tr. it.: Gloria. Una estetica teologica, 7 volumi, Jaca Book, Milano 1975-1980); dello stesso, Kosmische Liturgie, Das Weltbild Maximus' des Bekenners, Einsiedeln 1961(2) (tr. it.: Liturgia cosmica, ed. Ave, Roma 1976).

34) ...homo per divinam laudem affectu ascendit in Deum: q 91 a 1 resp.

35) De nos ipsos et alios audientes ad eius reverentiam inducamur: ivi.

36) Valet tamen exterior laus oris ad excitandum interiorem affectum laudantis; q 91 a 1 ad 2.

37) Cfr. la bella descrizione Conf. IX 6,14: "Quanto piansi tra gli inni e i cantici, vivamente commosso alle voci della tua Chiesa soavemente echeggiante. Quelle voci si riversavano nei miei orecchi, stillavano la verità nel mio cuore; mi accendevano sentimenti di pietà; le lagrime, intanto, scorrevano e mi facevano bene". Per il concetto "suave" ("dolce") cfr. E. Werner in: Fellerer, Geschichte, p. 26. Dal cantore si pretendeva una voce "dolce", cioè altamente lirica, dal tono colorito. Le altre espressioni di Agostino sulla musica sacra sono nell'ombra della sua teoria della spiritualizzazione, di gran lunga inferiori a questa testimonianza. Oltre (cfr. Conf. x, 33, 50) è da menzionare pure la lettera 55 a Januarius si deve seguire la consuetudine delle singole chiese, che è da lodare se viene incontro alla debolezza dei semplici; questo principio si basava sul canto di inni e di salmi autorizzato dall'esempio del Signore e degli apostoli. È interessante l'accenno che i donatisti criticavano il puritanesimo musicale dei cattolici africani, che d'altra parte caratterizzava alcuni cattolici ancora più scettici nei confronti della musica sacra: XVIII, 34 CSEL, 34, 2 p. 208s. In corrispondenza al colorito del donatismo, di tinta marcatamente nazional-africana, se ne poteva ben dedurre un'abbondante assunzione di cultura musicale indigena nella liturgia donatista, cosi che dietro la riserva di Agostino in materia di musica sacra potrebbe trovarsi non soltanto la sua filosofia della spiritualizzazione, ma anche il contrasto cattolico-donatista). In II in ps 18,1 (C Chr XXXVIII, 105) Agostino distingue il canto umano dal canto degli uccelli: gli uccelli cantano ciò che non intendono. "Ma noi che abbiamo appreso a cantare in chiesa le parole divine dobbiamo riflettere su quanto è stato scritto: Beato il popolo che esulta con intelligenza. Perciò, o miei cari, noi dobbiamo comprendere e scrutare con un cuore veggente ciò che abbiamo cantato or ora all'unisono". Su Agostino e la liturgia milanese cfr. B. Baroflio, in: Fellerer, Geschichte 192. Sull'itinerario di Agostino dall'Accademia al cristianesimo cfr. F. van der Meer, Augustinus als Seelsorger, Koln 1951, pp. 25ss; J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, pp. 1-12 (tr. it.: Popolo e casa di Dio in S. Agostino, Jaca Bòok, Milano 1978).

38) Tommaso d'A., q 91 a 1 ad 2: ...ad provocandum alios ad laudem Dei.

39) G. Greshake, in "Der Wandel der Erlosungsvorstellungen in der Theologiegeschichte", in: L. Scheffczyk, Erlosung und Emanzipation, Freiburg 1973, pp. 76ss, richiama alla fine insistentemente sulla profonda religiosità del concetto di Paideia. Esiste effettivamente una teoria della musica che Aristotele sviluppa in Politica VIII, tutta dominata dall'idea conduttrice della Paideia, che nella cultura musicale si innalza al di sopra dell'avviamento all'utile e al necessario, per abili. tare al giusto "otium" e così si trasforma in un'educazione alla libertà e alla bellezza.

40) Art. 116, capoverso 2.

41) Art. 120, capoverso 2.

42) Ibidem.


43) q 91 a 2 opp. 5e ad 5.

44) Un'analoga trattazione in argomento si trova d'altro canto già in Aristote1e, che distingue la musica dorica, in quanto musica "etica", da quella frigia "orgiastica e patetica", ed esclude quest'ultima dall'educazione (VIII 7, Bekker 1341s), per cui egli si serve significativamente anche del mito del rifiuto del flauto da parte di Atene; egli vede tale musica in con. trasto con l'umanità spiritualizzata simboleggiata da Atene (VIII 6, Bekker 1341 b, 2ss). Si rende qui evidente l'eco di antichi contrasti culturali e cultuali. La musica della Lidia è invece per Aristotele utile sotto il profilo pedagogico per l'abbinamento del contenuto estetico a quello pedagogico (VIII 7 Bekker 1342b, 31s). Corrisponde al suo atteggiamento superiore e aperto il fatto che egli, per la distensione (catarsi), ammette anche la musica frigia. Con questo suo atteggiamento di tolleranza, Aristotele si pone coscientemente in contrasto con il Platone della Politeia, che voleva escludere dallo stato ideale il tono lidico misto, illidico solenne, lo ionico e il lidico, e intendeva che rimanesse soltanto la musica dorica e la frigia; quanto a strumenti, dovevano restare soltanto la lira e la cetra in città, e una specie di zufolo in campagna. Appare qui evidente, dietro la deduzione filosofica, un fondamento mitico-re1igioso: "Non facciamo qui, o mio caro, nulla di nuovo, riconoscendo ad Apollo e ai suoi strumenti la preminenza su Marsia e i suoi strumenti" (Repubblica III 39ge, per l'insieme III 398d-400a).


45) Art. 119.

46) Ad gentes I 9 .

47) Cfr. la bella espressione di F. Haberl, Zur Theologie der Kirchenmusik, l.c. 218: "La musica sacra dev'essere un'arte tradizionale e progressiva". Cfr. per l'insieme anche il pregevole saggio di J.F. Doppelbauer, Kompositorische Fragen und Augaben, in: Overath, Magna gloria Domini, Altotting 1972, 148-156, in cui trovo sviluppato riguardo alla musica ciò che è qui colto ricavandolo da fonti teologiche.


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Caterina63
00domenica 20 settembre 2009 22:27
Dal fantastico libro-intervista che qui troverete integralmente:

RAPPORTO SULLA FEDE (il capolavoro di Messori nell'intervista a Ratzinger


riportiamo la parte riguardante la musica sacra in modo da avere, con i testi sopra, un quadro abbastanza completo ed omogeneo di quanto ha sempre sostenuto Ratzinger oggi Benedetto XVI....
tra l'altro, gran parte delle affermazioni di Ratzinger alle domande di Messori si ritrovano nel testo postato precedentemente...

Suoni e arte per l'Eterno

E qui si aggancia un suo discorso sulla musica sacra, quella musica tradizionale dell'Occidente cattolico alla quale il Vaticano Il non ha certo misurato le lodi, esortando non solo a salvare ma a incrementare "con la massima diligenza" questo che chiama "il tesoro della Chiesa"; e, dunque, dell'umanità intera. Invece?

"Invece, molti liturgisti hanno messo da parte quel tesoro, dichiarandolo " accessibile a pochi ", l'hanno accantonato in nome della " comprensibilità per tutti e in ogni momento " della liturgia postconciliare. Dunque, non più " musica sacra " - relegata, semmai, per occasioni speciali, nelle cattedrali - ma solo " musica d'uso", canzonette, facili melodie, cose correnti".

Anche qui il Cardinale ha facile gioco nel mostrare l'allontanamento teorico e pratico dal Concilio "secondo il quale, oltretutto, la musica sacra è essa stessa liturgia, non ne è un semplice abbellimento accessorio". E, secondo lui, sarebbe anche facile mostrare come "l'abbandono della bellezza" si sia dimostrata, alla prova dei fatti, un motivo di "sconfitta pastorale".

Dice: "è divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all'utile. L'esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull'unica categoria del "comprensibile a tutti" non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere. Liturgia " semplice " non significa misera o a buon mercato: c'è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica". "Anche qui continua - si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della" partecipazione attiva ": ma questa " partecipazione " non può forse significare anche il percepire con lo spirito, con i sensi? Non c'è proprio nulla di " attivo " nell'ascoltare, nell'intuire, nel commuoversi? Non c'è qui un rimpicciolire l'uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità? Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo per far cantare tutto il popolo, opporsi alla " musica d'uso ": significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità pastorali".

Questo discorso sulla musica sacra - intesa anche come simbolo di presenza della bellezza " gratuita " nella Chiesa - sta particolarmente a cuore a Joseph Ratzinger che vi ha dedicato pagine vibranti: "Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica " corrente " cade nell'inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche " città della gloria ", luogo dove sono raccolte e portate all'orecchio di Dio le voci più profonde dell'umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano".

Anche qui, però, come già per il latino, mi parla di una "mutazione culturale", anzi, quasi di una "mutazione antropologica" soprattutto nei giovani, "il cui senso acustico è stato corrotto, degenerato, a partire dagli anni Sessanta, dalla musica rock e da altri prodotti simili". Tanto che (accenna qui anche a sue esperienze pastorali, in Germania) sarebbe oggi "difficile far ascoltare o, peggio, far cantare a molti giovani anche gli antichi corali della tradizione tedesca".

Il riconoscimento delle difficoltà obiettive non gli impedisce una appassionata difesa non solo della musica, ma dell'arte cristiana in generale e della sua funzione di rivelatrice della verità: "L'unica, vera apologia del cristianesimo può ridursi a due argomenti: i santi che la Chiesa ha espresso e l'arte che è germinata nel suo grembo. Il Signore è reso credibile dalla magnificenza della santità e da quella dell'arte esplose dentro la comunità credente, più che dalle astute scappatoie che l'apologetica ha elaborato per giustificare i lati oscuri di cui purtroppo abbondano le vicende umane della Chiesa. Se la Chiesa deve continuare a convertire, dunque a umanizzare il mondo, come può rinunciare nella sua liturgia alla bellezza, che è unita in modo inestricabile all'amore e insieme allo splendore della Resurrezione? No, i cristiani non devono accontentarsi facilmente, devono continuare a fare della loro Chiesa un focolare del bello - dunque del vero - senza il quale il mondo diventa il primo girone dell'inferno".

Mi parla di un teologo famoso, uno dei leaders del pensiero post-conciliare che gli confessava senza problemi di sentirsi un "barbaro". Commenta: "Un teologo che non ami l'arte, la poesia, la musica, la natura, può essere pericoloso. Questa cecità e sordità al bello non è secondaria, si riflette necessariamente anche nella sua teologia".

Solennità, non trionfalismo

Ancora in questa linea, Ratzinger non è affatto persuaso della validità di certe accuse di " trionfalismo -, nel nome delle quali si sarebbe gettato via con eccessiva facilità molto dell'antica solennità liturgica: "Non è affatto trionfalismo la solennità del culto con cui la Chiesa esprime la bellezza di Dio, la gioia della fede, la vittoria della verità e della luce sull'errore e sulle tenebre. La ricchezza liturgica non è ricchezza di una qualche casta sacerdotale; è ricchezza di tutti, anche dei poveri, che infatti la desiderano e non se ne scandalizzano affatto. Tutta la storia della pietà popolare mostra che anche i più miseri sono sempre stati disposti istintivamente e spontaneamente a privarsi persino del necessario pur di rendere onore con la bellezza, senza alcuna tirchieria, al loro Signore e Dio".

Si rifà, come esempio, a ciò che ha appreso in uno degli ultimi suoi viaggi in Nord America: "Le autorità della Chiesa anglicana di New York avevano deciso di sospendere i lavori della nuova cattedrale. La giudicavano troppo fastosa, quasi un insulto al popolo, tra il quale avevano deciso di distribuire la somma già stanziata. Ebbene, sono stati i poveri stessi a rifiutare quel denaro e a imporre la ripresa dei lavori, non capendo questa strana idea di misurare il culto a Dio, di rinunciare alla solennità e alla bellezza quando si è al suo cospetto".

Sotto l'accusa del cardinale sarebbero dunque certi intellettuali cristiani, certo loro schematismo aristocratico, elitario, staccato da ciò che il "popolo di Dio" davvero crede e desidera: "Per un certo modernismo neo-clericale il problema della gente sarebbe il sentirsi oppressa dai " tabù sacrali ". Ma questo, semmai, è il problema loro, di clericali in crisi. Il dramma dei nostri contemporanei è, al contrario, il vivere in un mondo sempre più di una profanità senza speranza. L'esigenza vera oggi diffusa non è quella di una liturgia secolarizzata, ma, al contrario, di un nuovo incontro con il Sacro, attraverso un culto che faccia riconoscere la presenza dell'Eterno".

Ma è sotto accusa per lui, anche quello che definisce "l'archeologismo romantico di certi professori di liturgia, Secondo i quali tutto ciò che si è fatto dopo Gregorio 1 Magno sarebbe da eliminare come un'incrostazione, un segno di decadenza. A criterio del rinnovamento liturgico non hanno posto la domanda: "Come deve essere oggi?", ma l'altra: "Come era allora?". Si dimentica che la Chiesa è viva, che la sua liturgia non può essere pietrificata in ciò che si faceva nella città di Roma prima del Medio Evo. In realtà, la Chiesa medievale (o anche, in certi casi, la Chiesa barocca) hanno proceduto a un approfondimento liturgico che occorre vagliare con attenzione prima di eliminare. Dobbiamo rispettare anche qui la legge cattolica della sempre migliore e più profonda conoscenza del patrimonio che ci è stato affidato. Il puro arcaismo non serve, così come non serve la pura modernizzazione".

Per Ratzinger, poi, la vita cultuale del cattolico non può essere ridotta al solo aspetto " comunitario ": deve continuare ad esserci un posto anche per la devozione privata, seppure ordinata al "pregare insieme", cioè alla liturgia.

Eucaristia: nel cuore della fede

Aggiunge poi: "La liturgia, per alcuni sembra ridursi alla sola eucaristia, vista quasi sotto l'unico aspetto del "banchetto fraterno". Ma la messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare l'ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il sacrificio comune

della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. È la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo: dunque, la sua efficacia salvifica si estende a tutti gli uomini, presenti e assenti, vivi e morti. Dobbiamo riprendere coscienza che l'eucaristia non è priva di valore se non si riceve la Comunione: in questa consapevolezza, problemi drammaticamente urgenti come l'ammissione al sacramento dei divorziati risposati possono perdere molto del loro peso opprimente".

Vorrei capire meglio, dico.

"Se l'eucaristia - spiega - è vissuta solo come il banchetto di una comunità di amici, chi è escluso dalla ricezione dei Sacri Doni è davvero tagliato fuori dalla fraternità. Ma se si torna alla visione completa della messa (pasto fraterno e insieme sacrificio del Signore, che ha forza ed efficacia in sé, per chi vi si unisce nella fede), allora anche chi non mangia quel pane partecipa egualmente, nella sua misura, dei doni offerti a tutti gli altri".

All'eucaristia e al problema del suo "ministro" (che può essere solo chi sia stato ordinato in quel "sacerdozio ministeriale o gerarchico" il quale, riconferma il Concilio, "differisce essenzialmente e non solo di grado" dal "sacerdozio comune dei fedeli", Lumen Gentium, n. 10) il card. Ratzinger ha dedicato uno dei primi documenti ufficiali a sua firma della Congregazione per la fede. Nel "tentativo di staccare l'eucaristia dal legame necessario con il sacerdozio gerarchico", vede un altro aspetto di certa " banalizzazione " del mistero del Sacramento.

È lo stesso pericolo che individua nella caduta dell'adorazione davanti al tabernacolo: "Si è dimenticato - dice - che l'adorazione è un approfondimento della comunione. Non si tratta di una devozione "individualistica" ma della prosecuzione o della preparazione, del momento comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione del Corpus Domini. Anche su questa gli " archeologi " della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella processione non c'era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi: al sensus fidei del popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire, di portare alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato".

"Non c'è solo la messa"

Aggiunge: "L'eucaristia è il nucleo centrale della nostra vita cultuale, ma perché possa esserne il centro abbisogna di un insieme completo in cui vivere. Tutte le inchieste sugli effetti della riforma liturgica mostrano che certa insistenza pastorale solo sulla messa finisce per svalutarla, perché è come situata nel vuoto, non preparata e non seguita com'è da altri atti liturgici. L'eucaristia presuppone gli altri sacramenti e ad essi rinvia. Ma l'eucaristia presuppone anche la preghiera in famiglia e la preghiera comunitaria extra-liturgica".

A cosa pensa in particolare?

"Penso a due delle più ricche e feconde preghiere della cristianità, che portano sempre e di nuovo nella grande corrente eucaristica: la Via Crucis e il Rosario. Dipende anche dal fatto che abbiamo disimparato queste preghiere se noi oggi ci troviamo esposti in modo così insidioso alle lusinghe di pratiche religiose asiatiche". Infatti, osserva, "se recitato come tradizione vuole, il Rosario porta a cullarci nel ritmo della tranquillità che ci rende docili e sereni e che dà un nome alla pace: Gesù, il frutto benedetto di Maria; Maria, che ha nascosto nella pace raccolta del suo cuore la Parola vivente e poté così diventare madre della Parola incarnata. Maria è dunque l'ideale dell'autentica vita liturgica. È la Madre della Chiesa anche perché ci addita il compito e la meta più alta del nostro culto: la gloria di Dio, da cui viene la salvezza degli uomini".
 



Caterina63
00domenica 20 settembre 2009 22:31
VISITA AL PONTIFICIO ISTITUTO DI MUSICA SACRA , 13.10.2007

Alle ore 11 di questa mattina, il Santo Padre Benedetto XVI si reca in visita al Pontificio Istituto di Musica Sacra. Al Suo arrivo è accolto dal Gran Cancelliere del Pontificio Istituto, Em.mo Card. Zenon Grocholewski, e dal Preside, Mons. Valentín Miserachs Grau. Quindi il Papa fa il suo ingresso nella chiesa dove si trovano i Docenti e gli Studenti dell’Istituto insieme ai Benefattori e agli invitati. Dopo un momento di Adorazione del Santissimo Sacramento, introdotto dall’indirizzo di saluto dell’Em.mo Card. Zenon Grocholewski, il Santo Padre pronuncia il discorso che riportiamo di seguito:


DISCORSO DEL SANTO PADRE

Venerati fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,

cari Professori ed Allievi
del Pontificio Istituto di Musica Sacra
!

Nel memorabile giorno del 21 novembre 1985 il mio amato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, si recò in visita in queste "aedes Sancti Hieronymi de Urbe", dove, sin dalla fondazione, nel 1932, ad opera del Papa Pio XI, un’eletta comunità di monaci benedettini aveva alacremente lavorato alla revisione della Biblia Vulgata. Era il momento in cui, per volontà della Santa Sede, il Pontificio Istituto di Musica Sacra si era qui trasferito, pur conservando nella vecchia sede del Palazzo dell'Apollinare la storica Sala Gregorio XIII, la Sala Accademica o Aula Magna dell'Istituto, che è tuttora, per così dire, il "santuario" ove si svolgono le solenni accademie e i concerti. Il grande organo, donato a Papa Pio XI da M.me Justine Ward nel 1932, è stato ora integralmente restaurato con il generoso contributo del Governo della "Generalitat de Catalunya". Sono lieto di salutare in questo momento i rappresentanti del suddetto Governo qui presenti.

Sono venuto con gioia nella sede didattica del Pontificio Istituto di Musica Sacra, completamente rinnovata. Con questa mia visita vengono inaugurati e benedetti gli imponenti lavori di restauro effettuati in questi ultimi anni per iniziativa della Santa Sede e con il significativo contributo di vari benefattori, tra cui spicca la "Fondazione Pro Musica e Arte Sacra", che ha curato il restauro integrale della Biblioteca. Intendo idealmente inaugurare e benedire anche i restauri effettuati nella Sala Accademica ove, sul palco, accanto al menzionato grande organo, è stato collocato un magnifico pianoforte, dono di Telecom Italia Mobile all'amato Papa Giovanni Paolo II per il "suo" Istituto di Musica Sacra.

Desidero ora esprimere la mia riconoscenza al Signor Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica e vostro Gran Cancelliere, per le cortesi espressioni augurali che, anche a nome vostro, ha voluto rivolgermi. Confermo volentieri in questa circostanza la mia stima e il mio compiacimento per il lavoro che il Corpo accademico, stretto intorno al Preside, svolge con senso di responsabilità e con apprezzata professionalità. Il mio saluto va a tutti i presenti: i familiari, con i loro bambini, e gli amici che li accompagnano, gli officiali, il personale, gli allievi e i residenti, come pure i rappresentanti della Consociatio Internationalis Musicae Sacrae e della Foederatio Internationalis Pueri Cantores.

Il vostro Pontificio Istituto si sta avviando a grandi passi verso il centenario della sua fondazione ad opera del Santo Pontefice Pio X, il quale eresse nel 1911 con il Breve Expleverunt desiderii la "Scuola Superiore di Musica Sacra"; questa, dopo successivi interventi di Benedetto XV e di Pio XI, divenne poi, con la Costituzione apostolica Deus scientiarum Dominus dello stesso Pio XI, Pontificio Istituto di Musica Sacra, attivamente impegnato anche oggi nell’adempimento della sua missione originaria a servizio della Chiesa universale. Numerosi studenti, qui convenuti da ogni parte del mondo per formarsi nelle discipline della musica sacra, diventano a loro volta formatori nelle rispettive Chiese locali. E quanti sono stati nell'arco di quasi un secolo! Sono lieto in questo momento di rivolgere un caro saluto a chi, nella sua splendida longevità, rappresenta un po’ la "memoria storica" dell'Istituto e impersona tanti altri che qui hanno operato: il Maestro Mons. Domenico Bartolucci.

Mi è caro, in questa sede, rammentare ciò che dispone in merito alla musica sacra il Concilio Vaticano II: muovendosi nella linea di una secolare tradizione, il Concilio afferma che essa "costituisce un tesoro di inestimabile valore che eccelle tra le altre espressioni dell'arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne" (Sacrosanctum Concilium, 112). Quanto è ricca la tradizione biblica e patristica nel sottolineare l'efficacia del canto e della musica sacra per muovere i cuori ed elevarli a penetrare, per così dire, nella stessa intimità della vita di Dio! Ben consapevole di ciò, Giovanni Paolo II osservava che, oggi come sempre, tre caratteristiche distinguono la musica sacra liturgica: la "santità", l’"arte vera", l’"universalità", la possibilità cioè di essere proposta a qualsiasi popolo o tipo di assemblea (cfr chirografo "Mosso dal vivo desiderio" del 22 novembre 2003).

Proprio in vista di ciò, l’Autorità ecclesiastica deve impegnarsi ad orientare sapientemente lo sviluppo di un così esigente genere di musica, non "congelandone" il tesoro, ma cercando di inserire nell’eredità del passato le novità valevoli del presente, per giungere ad una sintesi degna dell’alta missione ad essa riservata nel servizio divino. Sono certo che il Pontificio Istituto di Musica Sacra, in armonica sintonia con la Congregazione per il Culto Divino, non mancherà di offrire il suo contributo per un "aggiornamento" adatto ai nostri tempi delle preziose tradizioni di cui è ricca la musica sacra. A voi, dunque, carissimi professori ed allievi di questo Pontificio Istituto, affido questo compito esigente ed insieme appassionante, nella consapevolezza che esso costituisce un valore di grande rilevanza per la vita stessa della Chiesa.

Nell’invocare su di voi la materna protezione della Madonna del Magnificat e l’intercessione di San Gregorio Magno e di Santa Cecilia, vi assicuro da parte mia un costante ricordo nella preghiera. Mentre auguro che il nuovo anno accademico che sta per iniziare sia ricolmo di ogni grazia, a tutti imparto di cuore una speciale Benedizione Apostolica.

                   -------------------------------------------------------------------------




La musica sacra nelle parole di Benedetto XVI

Parlando di quanto Benedetto XVI ha detto nel corso del suo pontificato intorno alla musica sacra, non si può non ricordare come ,ventidue anni dopo la visita di Giovanni Paolo II, sia stato proprio Benedetto XVI a visitare il Pontificio Istituto di Musica Sacra. Era il 13 ottobre del 2007. Benedetto XVI ha inaugurato le aree profondamente ristrutturate dell’Istituto, tornando a ribadire l’importanza del canto e della musica in ambito liturgico, il cui «antico tesoro» – ha detto – deve poter raggiungere una sintesi con la migliore evoluzione della melodia sacra moderna.

Ha tre caratteristiche la musica «che canta con gli angeli», la melodia sacra deputata all’accompagnamento liturgico: la «santità», l’«arte vera», l’«universalità».

Benedetto XVI ha ripetuto le tre qualità definite nel suo chirografo di quattro anni da Giovanni Paolo II, ultimo Pontefice a visitare il Pontificio Istituto di Musica Sacra nel 1985. Ed ha aggiunto un auspicio: che la grande «eredità del passato» possa aprirsi alle «novità valevoli del presente», in un settore – quello della musica e del canto liturgico – che negli ultimi cento anni in particolare i Papi hanno preso a curare con grande attenzione.

Fu infatti Pio X – ha ricordato il Papa nel suo discorso ai docenti e agli studenti dell’Istituto – a creare nel 1911 la “Scuola superiore di musica sacra”, che successivamente Benedetto XV prima e Pio XI poi modificarono fino a raggiungere, sotto lo stesso Papa Ratti, l’attuale assetto di Pontificio Istituto.

Benedetto XVI, durante la sua visita, ha ringraziato il cardinale Zenon Grocholewski, gran cancelliere dell’Istituto, quindi l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica e i numerosi benefattori, tra i quali la “Fondazione pro Musica e Arte Sacra”, che a vario titolo hanno finanziato gli «imponenti lavori di restauro» inaugurati dal Papa. Ristrutturazioni e ammodernamenti che hanno riguardato la Biblioteca, la storica Sala Accademica – situata nell’antica sede dell’Istituto di Palazzo Apolinnare – e il grande organo posto sul palco della sala, donato nel 1932 a Pio XI da M.me Justine Ward.

In questa cornice, il Papa ha dunque ribadito quale sia la «missione» di una simile istituzione all’interno della Chiesa universale, già delineata dai documenti del Vaticano II: «Muovendosi nella linea di una secolare tradizione, il Concilio afferma che essa “costituisce un tesoro di inestimabile valore che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne”». «Ben consapevole di ciò – ha proseguito il Papa – Giovanni Paolo II osservava che, oggi come sempre, tre caratteristiche distinguono la musica sacra liturgica»: «La ‘santità’, l’‘arte vera’, l’‘universalità’, la possibilità cioè di essere proposta a qualsiasi popolo o tipo di assemblea. Proprio in vista di ciò, l’Autorità ecclesiastica deve impegnarsi ad orientare sapientemente lo sviluppo di un così esigente genere di musica, non ‘congelandone’ il tesoro, ma cercando di inserire nell’eredità del passato le novità valevoli del presente, per giungere ad una sintesi degna dell’alta missione ad essa riservata nel servizio divino».

«Sono certo – ha concluso Benedetto XVI – che il Pontificio Istituto di Musica Sacra, in armonica sintonia con la Congregazione per il Culto Divino, non mancherà di offrire il suo contributo per un “aggiornamento” adatto ai nostri tempi delle preziose tradizioni di cui è ricca la musica sacra».

Ma Benedetto XVI aveva detto parole importanti intorno alla musica sacra anche il 1 dicembre del 2005, nel Messaggio per la Giornata di studio e musica sacra, che si era svolta in Vaticano, su iniziativa della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: i vescovi incoraggino lo studio del rapporto tra musica e liturgia, vigilando sulle modalità di applicazione della melodia sacra e in particolare sulle sue innovazioni. È la raccomandazione espressa in quell’occasione da Benedetto XVI.


Appassionato cultore, com’è noto, di musica classica e di canto gregoriano, Benedetto XVI nel suo Messaggio al Simposio si è rifatto al Chirografo che Giovanni Paolo II scrisse nel 2003, in occasione dei cento anni trascorsi dal Motu proprio di San Pio X, intitolato “Tra le sollecitudini”, con il quale si affrontava la necessità di rinnovare la musica sacra in relazione al culto. «Facendo mia l’istanza dell’amato predecessore – afferma Benedetto XVI – desidero incoraggiare i cultori della musica sacra a proseguire su tale cammino. È importante stimolare, come è intenzione anche del presente Simposio, la riflessione e il confronto sul rapporto tra musica e liturgia, sempre vigilando sulla prassi e sulle sperimentazioni, in costante intesa e collaborazione con le Conferenze episcopali delle varie nazioni».

Aprendo il convegno, lo stesso cardinale Francis Arinze, presidente del dicastero organizzatore del Simposio, aveva sottolineato l’importanza data dal Magistero ecclesiale al ruolo della musica sacra nella liturgia: «La musica sacra deve essere consona alla grandezza dell’atto liturgico che celebra i misteri di Cristo; deve essere caratterizzata da un senso di preghiera, bellezza e dignità. In nessun modo deve cedere a leggerezza, superficialità o teatralità».

Già il 21 ottobre sempre del 2005, al termine di un concerto di musica classica eseguito in suo onore nell’Aula Paolo VI, il Papa si era soffermato sull’importanza universale della musica. «Formulo voti – aveva detto – che l’armonia del canto e della musica, che non conosce barriere sociali e religiose, rappresenti un costante invito per i credenti e per tutte le persone di buona volontà, a ricercare insieme l’universale linguaggio dell’amore che rende gli uomini capaci di costruire un mondo di giustizia e di solidarietà, di speranza e di pace».

Intervista a padre Valentino Miserach-Grau, Preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra


Monsignore, quali scopi ha all’interno della Santa Sede il Pims?


Il Pims, fondato da S. Pio X nel 1910 come “Scuola Superiore di Musica Sacra”, diventa “pontificio” nel 1914, viene incluso fra le università e facoltà pontificie il 24 maggio del 1931. Il Pims, istituzione accademica e scientifica eretta dalla Sede Apostolica, si regge sulle norme del diritto canonico, sulla costituzione apostolica “Sapientia christiana” e sui propri statuti e norme. I suoi scopi sono quelli di insegnare le discipline liturgico-musicali sotto il profilo pratico, teorico, storico; promuovere la conoscenza e diffusione del patrimonio tradizionale della musica sacra, e favorire espressioni artistiche adeguate alle odierne culture; rendere, per incarico della Chiesa madre di Roma, un servizio alle chiese locali di tutto il mondo, in vista della formazione dei musicisti di Chiesa e dei futuri insegnanti nell’ambito della musica sacra.

Quali azioni occorre mettere in campo perché il patrimonio della musica sacra non vada perduto?


Non basta conservare il “patrimonio” in archivi, biblioteche ed esecuzioni concertistiche, ma occorre salvarlo, nella misura del possibile, e secondo le opportunità di tempo e luogo, nel contesto liturgico, per quanto riguarda la musica specificamente destinata alla liturgia, “in primis” il canto gregoriano, la polifonia classica e la musica strumentale (specie organistica). Tale patrimonio va incrementato con le nuove composizioni in sintonia con la tradizione.

Benedetto XVI ha più volte sottolineato l’importanza del canto e della musica nella liturgia. In particolare l’importanza del canto gregoriano? Secondo lei la Chiesa è in grado di non disperdere questo patrimonio?


Ho sempre pensato che la Chiesa ha bisogno di un organismo pontificio dotato di autorità normativa, il quale potrebbe giovare enormemente nella conservazione e crescita del “patrimonio” della musica sacra liturgica, operando una riforma vera e propria, la cui necessità è agli occhi di tutti.

Esiste un rapporto tra musica e missione? Ovvero: la musica sacra è uno strumento di evangelizzazione  e di testimonianza della fede?


Riporto le parole che Benedetto XVI ha pronunciato nella sua visita al Pims il 13 ottobre 2007: «Il Concilio Vaticano II afferma che la musica sacra “costituisce un tesoro di inestimabile valore che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alla parola, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne (S.C. n.112)”. Quanto è ricca la tradizione biblica e patristica nel sottolineare l’efficacia del canto e della musica sacra per muovere i cuori ed elevarli a penetrare, per così dire, nella stessa intimità della vita di Dio!”.
 

(da Agenzia Fides)

Caterina63
00domenica 20 settembre 2009 22:56
Quanto segue ripete in sostanza concetti già espressi dall'allora card. Ratzinger, ma ciò sottolinea di come l'allora Prefetto per la vera Fede, oggi Sommo Pontefice, da oltre 40 anni mantiene fede alla Tradizione della Chiesa ed anche una insistente catechesi sulla CONTINUITA' fra il prima del Concilio e il dopo...il collante è proprio il Magistero... [SM=g1740733]

LITURGIA E MUSICA SACRA



Premessa

Tra la liturgia e la musica sin dagli inizi c’è stato un rapporto fraterno. Quando l’uomo loda Dio, la sola parola è insufficiente. La parola rivolta a Dio trascende i limiti del linguaggio umano. Per questo moti­vo tale parola in ogni tempo, proprio in forza della sua natura, ha invo­cato in aiuto la musica, il cantare e la voce del creato nel suono degli strumenti. Infatti, alla lode di Dio non partecipa soltanto l’uomo. La.li­turgia quale servizio di Dio è l’inserirsi in ciò di cui parlano tutte le cose.

Per quanto la liturgia e la musica in forza della loro natura siano strettamente congiunte tra di loro, la loro relazione è sempre stata dif­ficile, soprattutto nei momenti nodali di transizione nella storia e nella cultura. Non v’è perciò da meravigliarsi, che anche oggi sia di nuovo po­sto in discussione il problema di una forma adeguata della musica nel­la celebrazione liturgica. Nelle dispute del Concilio e subito dopo pare­va che si trattasse semplicemente della divergenza tra persone dedite alla prassi pastorale da un lato e musicisti di chiesa dall’altro lato. Que­sti ultimi non volevano lasciarsi coartare da una formalità puramente pastorale, mentre si sforzavano di affermare la dignità intrinseca della musica quale misura di un proprio valore pastorale e liturgico. Si aveva pertanto l’impressione che il conflitto per la massima parte riguardasse unicamente l’ambito dell’uso della musica. Nel frattempo, tuttavia, la spaccatura si fa più profonda.

La seconda ondata della riforma liturgica spinge il problema sino a raggiungere i suoi fondamenti. Si tratta ora della natura dell’azione liturgica in quanto tale, delle sue basi antropologiche e teologiche. Il conflitto che investe la musica sacra è sintomatico e scopre un proble­ma più profondo, e cioè: che cosa sia la liturgia.



1. SUPERARE IL CONCILIO? UNA NUOVA CONCEZIONE DEL­LA LITURGIA


La nuova fase in cui si afferma la volontà di una riforma liturgica considera esplicitamente suo fondamento non più le parole del Concilio Vaticano Il, bensì il suo «spirito». Utilizzo quale testo paradigmatico l’articolo ben informato e coerente, su «Canto e musica nella Chiesa» del Nuovo Dizionario di Liturgia. Qui non si mette affatto in discussio­ne l’alto valore artistico del canto gregoriano o della polifonia classica. E non si tratta neppure di opporre l’una contro l’altra l’attività dell’as­semblea e un’arte di élite. Punto nodale della discussione non è nean­che il rifiuto di un irrigidimento storico che copia soltanto il passato e perciò stesso rimane senza presente e senza futuro. Si tratta piuttosto di una nuova concezione di fondo della liturgia, con cui si vuole supe­rare il Concilio, la cui Costituzione Iiturgica avrebbe racchiuso «due anime» (p. 211 a, cE 212 a).



Gruppo o Chiesa?

Cerchiamo brevemente di conoscere questa concezione nelle sue li­nee maestre. Il punto di partenza della liturgia — così ci viene detto —è il riunirsi di due o tre che stanno insieme nel nome di Cristo (199 a). Questo riferimento alla parola del Signore (Mt 18, 20) di primo acchito sembra innocuo e tradizionale. Ma tale parola acquista una portata ri­voluzionaria per il fatto che la citazione biblica è tolta dal suo contesto e viene fatta risaltare per contrasto sullo sfondo di tutta la tradizione liturgica. Perché i «due o tre» sono messi ora in opposizione nei con­fronti di un’istituzione con ruoli istituzionalizzati e nei confronti di ogni «programma codificato ». Così tale definizione significa quanto segue: non è la Chiesa che precede il gruppo, bensì il gruppo precede la Chiesa. [SM=g1740730]
Non la Chiesa nel suo insieme fa da supporto alla liturgia dei singoli gruppi e comunità, bensì il gruppo stesso è il luogo dove di volta in volta nasce la liturgia. La liturgia perciò non si sviluppa neppure par­tendo da un modello comune, da un «rito» (ridotto, in quanto «pro­gramma codificato», all’immagine negativa della mancanza di libertà); la liturgia nasce nel momento e nel luogo concreto grazie alla creatività di quanti sono riuniti. In tale linguaggio sociologico il sacramento del sacerdozio viene considerato un ruolo istituzionalizzato che si è procu­rato un monopolio (206 w) e, grazie all’istituzione (cioè alla Chiesa) ha dissolto l’unità primitiva e la comunitarietà dei gruppi. In tale contesto la musica, così ci viene detto, come pure il latino, sono divenuti un lin­guaggio da iniziati, «la lingua di un’altra Chiesa, cioè dell’istituzione e del suo clero».



Due Chiese?

L’aver isolato il passo di Mt 18, 20 dall’intera tradizione biblica ed ecclesiale della preghiera comune della Chiesa, come si vede, mostra ora gravi conseguenze: a partire dalla promessa che il Signore ha fatto a quanti pregano in ogni luogo, si è fatta una dogmatizzazione dei gruppi autonomi. La comunanza della preghiera è stata esasperata sino a divenire un appiattimento che considera lo sviluppo del ministero sacerdo­tale il sorgere di un’altra Chiesa. Da questo punto di vista ogni propo­sta che viene dalla Chiesa universale è giudicata una catena contro cui bisogna insorgere per amore della novità e libertà della celebrazione li­turgica. Non l’ubbidienza di fronte a un tutto, bensì la creatività del mo­mento diviene la forma determinante.

Mistificazioni?

E’ evidente che insieme all’adozione di un linguaggio sociologico si è avuta pure l’assunzione di valori: la gerarchia di valori che ha dato forma al linguaggio sociologico costruisce una nuova visione della sto­ria e del presente. Così alcuni concetti consueti (per di più anche con­ciliari!) — come «il grande patrimonio della musica sacra ». «l’organo re degli strumenti », «l’universalità del canto gregoriano» — sono bol­lati quali «mistificazioni» usate allo scopo di «conservare una determi­nata forma di potere e di visione ideologica» (p 200 a).

Un certo modo di amministrare il potere (così ci viene detto) si sen­te minacciato dai processi di trasformazione culturali e «reagisce, fino a mascherare come amore alla tradizione il desiderio di autoconserva­zione» (p 205 n). Il canto gregoriano e Palestrina sarebbero i «numi tu­telari» di un antico repertorio mitizzato (210 b), elementi di una «con­tro-cultura cattolica» che si appoggia ad essi Quali «archetipi remitiz­zati e supersacralizzati” (208 a), come d’altronde alla liturgia storica sta a cuore più la rappresentazione di una burocrazia del culto che non l’azione corale di un popolo (206 a). Il contenuto del Motu proorio di Pio X sulla musica sacra viene infine considerato «una ideologia cul­turalmente miope e teologicamente fumosa di una «musica sacra» (211 a).

Qui, evidentemente, non è più soltanto il sociologismo all’opera, ma siamo di fronte a una totale separazione del Nuovo Testamento dal­la storia della Chiesa, che si unisce a una teoria della decadenza caratte­ristica di molte situazioni illuministiche: le realtà nel loro stato puro si incontrano soltanto negli inizi primordiali gesuanici; tutto il resto della storia appare una «vecchia avventura musicale» con «esperienze disorientate ed impazzite», che ora deve «essere chiusa», per riprende­re finalmente la via giusta (212 a).

Materialismo

Ma come si configura questa realtà nuova e migliore? I principi ba­se sono già stati sfiorati in precedenza; ora dobbiamo prestare atten­zione alla loro concretizzazione particolare. Sono formulati in modo chiaro due valori di fondo. Il «valore primario» di una liturgia rinno­vata, come ci è detto, sarebbe «l’agire delle persone (tutte) in pienez­za ed autenticità» (211 b). Di conseguenza la musica di Chiesa in primo luogo significherebbe che il «popolo di Dio” rappresenta la sua iden­tità cantando. Con ciò è chiamato in causa anche già il secondo criterio di valore che qui è attivo: la musica risulta essere la forza che opera la coesione del gruppo (217 xv). I canti familiari a una comunità ne diven­tano, per così dire, il suo distintivo. Da queste premesse scaturiscono le categorie principali della strutturazione musicale della liturgia: il pro­getto, il programma, l’animazione, la regia. Più importante del che cosa (così ci è detto) sarebbe il come (217 w). Essere in grado di celebrare sarebbe soprattutto «essere in grado di fare ». La musica dovrebbe so­prattutto essere «fatta »...

Per non essere ingiusto, devo aggiungere che si mostra tuttavia nel­l’articolo in questione comprensione per le diverse situazioni culturali e che rimane anche dello spazio aperto per l’assunzione del patrimonio storico. E soprattutto è sottolineato il carattere pasquale della liturgia cristiana il cui canto non soltanto rappresenta l’identità del popolo di Dio, ma dovrebbe rendere anche conto della speranza e annunciare a tutti il volto del Padre di Gesù Cristo.

Errata interpretazione del Concilio [SM=g1740733]

Permangono così elementi di continuità nella grossa rottura: essi permettono il dialogo e infondono speranza che si possa ritrovare l’unità nella comprensione basilare della liturgia che tuttavia minaccia di sfug­gire, quando si fa derivare la liturgia dal gruppo invece che dalla Chie­sa — non soltanto sul piano teoretico, bensì nella prassi liturgica con­creta. Non mi dilungherei tanto su questo testo pubblicato in un dizio­nario prestigioso, se pensassi che tali idee siano da attribuire unicamente ad alcuni singoli teorici. Ancorché sia fuori dubbio che essi non si pos­sono appoggiare a nessun testo del Vaticano II. in alcuni uffici e orga­ni liturgici si è consolidata l’opinione che lo spirito del Concilio orienta in tale direzione. Un’opinione fin troppo diffusa suggerisce oggi le con­cezioni or ora esposte che, cioè, le categorie proprie della comprensione conciliare della liturgia siano appunto la cosiddetta creatività, l’agire di tutti i presenti e il riferimento a un gruppo di persone che si conoscono e interpellano a vicenda. Non solo giovani preti, ma talvolta anche ve­scovi hanno la sensazione di non essere fedeli al Concilio, se pregano tutto così come sta nel Messale. Deve esserci almeno una formula «crea­tiva», per banale che sia. E il saluto «civile» dei presenti, possibilmen­te anche i cordiali saluti al congedo, sono già divenuti parti d’obbligo dell’azione sacra, cui quasi nessuno osa sottrarsi.



2. IL FONDAMENTO FILOSOFICO DEL CONCETTO E LA SUA MESSA IN QUESTIONE


Con tutto ciò non si è tuttavia ancora sfiorato il nocciolo del pro­blema, della mutazione cioè di valore. Tutto quanto si è detto deriva dal­l’aver preposto il gruppo alla Chiesa. Ma perché mai è avvenuto ciò? Il motivo sta nel fatto che si è sussunta la Chiesa nel concetto generico di «istituzione» e che il termine «istituzione» nel tipo di sociologia qui adottato, reca in sé una qualità negativa. Essa incarna il potere e il po­tere è il contrario della libertà. Dato che la fede (la sequela di Gesù) è concepita quale valore positivo, deve stare dalla parte della libertà e per sua natura deve quindi essere anche anti-istituzionale. Di conseguenza anche la liturgia non può essere un sostegno o una parte dell’istitu­zione; deve invece costituire una forza contrastante che aiuti a rovescia­re i potenti dal trono. La speranza pasquale, di cui la liturgia deve da­re testimonianza, sviluppandosi da questo punto di partenza può dive­nire molto terrena. Essa diviene speranza nel superamento delle istitu­zioni e diventa pure mezzo di lotta contro il potere. Colui che conosce la Missa Nicaraguensis anche per averne soltanto letto i testi, può farsi un’idea di questo slittamento della speranza e del realismo che la litur­gia acquisisce qui in quanto strumento di una promessa militante. Si può anche vedere quale significato e importanza si attribuisce alla musica nella nuova concezione. La forza d’urto dei canti rivoluzionari comunica un entusiasmo e una convinzione che non potrebbero derivare da una liturgia semplicemente recitata. Qui non vi è più nessuna opposizione alla musica liturgica. Essa ha ottenuto un nuovo ruolo insostituibile nel risvegliare le energie irrazionali e lo slancio comunitario cui tutto tende. Ma parimenti la musica è formazione delle coscienze, perché la parola cantata si comunica in modo progressivo e molto più efficace allo spiri­to che non la parola letta o solo pensata. Del resto, nel cammino che por­ta alle liturgie di gruppo intenzionalmente si supera il limite della comunità locale: grazie alla forma liturgica e alla sua musica si costituisce una nuova solidarietà, per mezzo della quale deve formarsi un nuovo popolo, che si autodefinisce popolo di Dio, mentre di fatto per Dio in­tende se stesso e le energie storiche, che si sono sviluppate in sé.



Liturgia e libertà

Ritorniamo ancora all’analisi dei valori che sono diventati determi­nanti nella nuova coscienza liturgica. Si tratta da un lato della qualità negativa del concetto di istituzione e della considerazione della Chiesa esclusivamente sotto questo aspetto sociologico, per di più non nell’ot­tica di una sociologia empirica, bensì da un punto di vista che deriva dai cosiddetti maestri del sospetto. Si vede che hanno compiuto la loro opera in modo molto efficace. Hanno infatti raggiunto una determina­zione delle coscienze che è attiva anche là dove non si sa nulla di que­sta origine. Il sospetto d’altronde non avrebbe potuto avere una tale for­za incendiaria, se non fosse accompagnato da una promessa, il cui fa­scino è quasi inevitabile: dall’idea, cioè, della libertà quale diritto au­tentico della dignità dell’uomo. Sotto questo aspetto il nocciolo della discussione deve essere la domanda: Che cosa è il vero concetto della libertà? Con ciò la disputa sulla liturgia è ricondotta al suo punto essen­ziale, poiché nella liturgia, infatti, si tratta della presenza della salvezza, dell’adito alla vera libertà. Nell’aver messo in luce il nocciolo della que­stione sta senza dubbio l’elemento positivo della nuova disputa.



Liturgia senza la Chiesa?

Contemporaneamente si è manifestato ciò che oggi costituisce il ve­ro disagio dei cristiani cattolici. Se la Chiesa ora appare soltanto come istituzione, come detentrice del potere e perciò come controparte della libertà, come impedimento alla salvezza, allora la fede contraddice se stessa; perché da un lato non può fare a meno della Chiesa, ma dall’al­tro è schierata fondamentalmente contro di essa. Ciò costituisce anche il paradosso davvero tragico di questo orientamento della riforma li­turgica, perché la liturgia senza la Chiesa è in sé una contraddizione. Là ove tutti agiscono affinché tutti diventino soggetto, svanisce — con la Chiesa soggetto comune — anche il vero «attore» della liturgia. Si dimentica, infatti, che essa dovrebbe essere «Opus Dei», in cui Egli stesso agisce per primo e in cui noi, proprio per mezzo della sua azione, siamo redenti. Dove il gruppo celebra se stesso, celebra in realtà un nulla, perché il gruppo non è un motivo per celebrare. Ed è per ciò che l’agire di tutti produce noia: non avviene in realtà nulla, se rimane as­sente Colui, che tutto il mondo attende. Il. passaggio ad intenti più con­creti, come si riflettono nella Missa Nicaraguensis, è così soltanto logico.



Morti seppelliscono altri morti

I sostenitori di questo modo di pensare devono perciò essere interrogati con ogni franchezza: E’ la Chiesa davvero soltanto istituzione, bu­rocrazia del culto, apparato di potere? E’ il ministero sacerdotale sol­tanto monopolizzazione di privilegi sacrali? Se non si riesce a superare queste concezioni anche sul piano affettivo e a vedere col cuore la Chie­sa in un altro modo, la liturgia allora non sarà rinnovata, bensì morti seppelliscono altri morti, e definiscono ciò riforma.



Riscoprire la Chiesa

Allora, naturalmente, non c’è neanche più la musica da Chiesa. An­zi, di diritto non si può neanche più parlare di liturgia, dato che essa presuppone la Chiesa: ciò che rimane sono rituali di gruppo che si ser­vono più o meno abilmente di mezzi espressivi musicali. Se la liturgia deve sopravvivere o persin essere rinnovata, è di necessità elementare che la Chiesa sia riscoperta nuovamente. E aggiungo: Se l’alienazione dell’uomo deve essere superata, se egli deve ritrovare la sua identità, è indispensabile che ritrovi la Chiesa. Essa, infatti, non è una istituzione misantropica, bensì quel nuovo Noi in cui finalmente l’Io può acquisire la sua base e la sua dimora.



Cristo e la Chiesa

Sarebbe benefico rileggere in questo contesto con molta attenzione il libretto con cui Romano Guardini, il grande pioniere del rinnovamen­to liturgico, ha concluso la sua opera letteraria nell’ultimo anno conci­liare. Egli stesso sottolinea di aver scritto questo libro preoccupato dell’amore per la Chiesa, della quale conosceva benissimo la condizione umana e i suoi rischi. Ma egli aveva imparato a scoprire in quella umanità lo scandalo dell’incarnazione di Dio: aveva imparato a vedere in essa la presenza del Signore che ha reso la Chiesa suo corpo; Soltanto se così è, esiste una contemporaneità di Gesù Cristo con noi. E soltanto se c’è questa, esiste una liturgia reale che non è soltanto un ricordare il mistero pasquale, bensì è la sua presenza vera. E ancora, soltanto se così è, la liturgia è partecipazione al dialogo trinitario tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Soltanto in questo modo la liturgia non è il nostro «fa­re», bensì opus Dei, l’agire di Dio su di noi e in noi. Perciò Guardini ha sottolineato espressamente che nella liturgia non importa fare qualcosa bensì essere. Pensare che l’agire di tutti sia il valore centrale della liturgia è il contrario più radicale che si possa immaginare alla concezione di Guardini della liturgia. In verità, l’agire di tutti non sol­tanto non è il valore fondamentale della liturgia, ma come tale non èaffatto un valore.

Le tre dimensioni della Liturgia

Mi astengo dall’approfondire ulteriormente questi problemi; dob­biamo concentrarci allo scopo di trovare il punto di partenza e la nor­ma per una giusta unione di liturgia e musica. Infatti, anche da questo punto di vista, è di grande portata la constatazione che il vero soggetto della liturgia è la Chiesa e, più precisamente, la communio sanctorum di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Ne risulta non soltanto — come Guar­dini nel suo scritto giovanile «Liturgische Bildung» ha mostrato in mo­do particolareggiato — l’indisponibilità della liturgia nei confronti del­l’arbitrio del gruppo e del singolo (anche del clero e degli specialisti), insomma ciò che Guardini chiamava la sua oggettività e la sua positi­vità. Ne risultano soprattutto anche le tre dimensioni ontologiche in cui essa vive: il cosmo, la storia e il mistero. Il richiamo alla storia comprende uno sviluppo, cioè l’appartenenza a qualcosa di vitale, che ha un inizio, il quale continua a operare, rimane presente senza essere conchiuso, e vive nella misura in cui si sviluppa ulteriormente. Qualco­sa si atrofizza, qualcosa viene dimenticato e ritorna in seguito sotto nuova forma, sempre però lo sviluppo significa partecipazione a un ini­zio aperto in avanti.

Con questo abbiamo già toccato una seconda ca­tegoria che, messa in relazione col cosmo, acquisisce la sua importanza specifica: la liturgia compresa in tale modo viene nella forma fonda­mentale della partecipazione. Nessuno è il suo primo e unico creatore, per ognuno essa è partecipazione ad una realtà più ampia, che lo supera, ma ognuno è altrettanto anche un «attore», proprio perché è ri­cettore. Il riferimento al mistero, infine, significa che l’inizio dell’avve­nimento liturgico non sta mai in noi stessi. E’ risposta a una iniziativa dall’alto, a un appello e ad un atto d’amore che è mistero. I problemi esistono per essere chiariti; il mistero invece non si dischiude alla chia­rificazione, bensì soltanto quando lo si accetta nel Sì, che, sulla trac­cia della Bibbia, possiamo tranquillamente chiamare ubbidienza, an­che oggi.



Creatività assurda e falsa [SM=g1740733]

Con ciò siamo giunti ad un punto di grande importanza per il col­legamento con il fattore artistico. La liturgia di gruppo, infatti, non è cosmica in quanto vive appunto dall’autonomia del gruppo. Non ha sto­ria, ma è caratterizzata proprio dall’emancipazione dalla storia e dal fare da sé; anche se si lavora con scenari storici. Non conosce neppure il mistero, perché in essa tutto viene chiarito e deve essere chiarito. Per­ciò anche lo sviluppo e la partecipazione le sono altrettanto estranee quanto l’ubbidienza, cui si dischiude un senso che è più grande di quan­to può essere spiegato.

Al posto di tutto ciò si colloca ora la creatività in cui l’autonomia dell’emancipato tenta addirittura di confermarsi. Una tale creatività che vorrebbe essere la messa in atto di autonomia ed emancipazione, proprio per questo contrasta nettamente con ogni partecipazione. I suoi segni distintivi sono l’arbitrio quale forma necessaria di rifiuto di ogni forma o norma esistente: l’irripetibilità, perché la ripetizione sarebbe già dipendenza; l’artificialità, perché deve ben trattarsi di pura creazione dell’uomo. Così però diviene manifesto che la creatività umana, che non vuole essere né ricevere né partecipare, nella sua essenza è assurda e falsa, perché l’uomo unicamente ricevendo e partecipando può essere se stesso. Tale creatività è fuga dalla conditio umana e perciò falsità. Per questo motivo inizia la decadenza della cultura là dove, con la perdita fede in Dio, deve essere contestata anche una ragionevolezza che ci precede, inerente dall’essere.



Conseguenze

Riassumiamo quanto abbiamo finora acquisito, per poter poi tirare le conseguenze per il punto di partenza e per la forma fondamentale del­la musica da Chiesa. Si è visto che il primato del gruppo viene da una comprensione della Chiesa quale istituzione, basata su una idea di libertà ch­e non si presta ad essere collegata con l’idea e con la realtà dell’isti­tuzione e che non è più in grado di percepire la dimensione del mistero nella realtà della Chiesa. La libertà viene compresa a partire dalle idee guida di autonomia e di emancipazione. E si concretizza nell’idea della creatività, che su questo sfondo si pone in un contrasto netto con quel­la oggettività e positività che sono essenziali della liturgia ecclesiale. Il gruppo deve ogni volta inventarsi ex novo, soltanto allora è libero. Abbiam­o pure visto che a ciò è radicalmente opposta la liturgia, che merita ­questo nome. Essa sta contro l’arbitrio astorico, che non conosce alcuno sviluppo, camminando perciò nel vuoto; sta contro una irripetibi­lità che è anche esclusivismo e perdita di comunicazione al di là di ogni raggruppamento; non sta contro la tecnologia, bensì contro l’artificiosi­tà in cui l’uomo si crea il suo contro-mondo perdendo di vista e dal cuo­re il creato di Dio. I contrasti sono chiari; nel suo punto di partenza è anche chiara la motivazione intrinseca del modo di pensare del gruppo, dettato da un’idea di libertà compresa in modo autonomistico. Ora pe­rò dobbiamo interrogarci positivamente circa la concezione antropolo­gica su cui si basa la liturgia nel senso della fede della Chiesa.



3. IL MODELLO ANTROPOLOGICO DELLA LITURGIA ECCLE­SIALE

Due parole della Scrittura si presentano quali chiavi per rispondere alla nostra domanda. Paolo ha coniato il termine Loghiché latreia (Rom 12, 1), che si può difficilmente rendere in una delle nostre lingue moder­ne perché vi manca un equivalente reale del termine Logos. «Servizio liturgico determinato dallo Spirito» potremmo dire, rimandando pure alle parole di Gesù relative all’adorazione in Spirito e verità (Gv 4, 23). Ma si potrebbe anche tradurre «venerazione di Dio plasmata dalla Pa­rola», e in tal caso è naturale che il termine «Parola» nella sua accezione ­biblica (e anche del mondo greco) è più del semplice linguaggio: è una realtà creatrice. E tuttavia è anche più di una semplice idea e di mero spirito: è lo Spirito che si esprime, che si comunica. Da que­sta realtà di fondo in ogni epoca sono stati derivati, quali principi prelimina­ri, il riferimento alla Parola, la razionalità, la comprensibilità e la sobrietà della liturgia cristiana e della musica liturgica. Sarebbe un’interpretazione restrittiva e falsa, se si volesse comprendere con ciò un rigido riferimento al testo di ogni musica liturgica e se si volesse dichia­rare la comprensibilità del testo quale suo presupposto generale. La Pa­rola, in senso biblico, è infatti più di un «testo” e la comprensione è più ampia e profonda della banale comprensibilità di quanto uno vede subito con chiarezza, di quanto si può sistemare forzatamente nella ra­zionalità più generica.

Giusto è però che la musica che serve l’adorazione «in spirito e verità» non può essere estasi ritmica, non suggestione sensuale o stor­dimento, non sentimentalismo soggettivo, non intrattenimento super­ficiale, bensì è associata a un annuncio, a un’asserzione spirituale e nel senso più nobile ragionevole. Con altre parole: è dunque giusto che dal suo intimo la musica deve fondamentalmente corrispondere a questa «Parola», anzi, deve mettersi al suo servizio.



Incarnazione della Parola

Con ciò siamo però già condotti ad un altro testo biblico, quello fondamentale per il problema del culto. Questo testo ci dice più preci­samente che cosa significa la «parola” e quale rapporto abbia con noi. Alludo al passo del prologo giovanneo: «E il verbo si fece carne e ven­ne ad abitare in mezzo a noi e noi vedemmo la sua gloria» (Gv 1, 14). Parlando della «Parola» a cui si riferisce il servizio liturgico cristiano non si tratta in primo luogo di un testo, ma di una realtà viva: di un Dio, che è senso che si comunica e che si comunica diventando uomo egli stesso. Questa incarnazione è ora tenda sacra, punto di riferimento di ogni culto, che è un guardare la gloria di Dio e dargli onore. Queste asserzioni del prologo di Giovanni non sono però ancora tutto. Esse so­no state malintese se lette disgiunte dai discorsi di commiato in cui Ge­sù dice ai suoi: Io vado e ritornerò da voi. Se vado, di nuovo vengo. E’ bene che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il consolatore (Gv 14, 2 s; 14, 18 s; 16, 5 ss ecc.). L’incarnazione è soltanto la prima parte del movimento. Essa acquista senso e diventa definitiva soltanto sulla croce e nella resurrezione: dalla croce il Signore attira tut­to a sé e porta la carne, cioè l’uomo, e tutto il mondo creato nell’eter­nità di Dio.



La Parola si fa musica

A questa traiettoria è sottomessa la liturgia e questo movimento è, per così dire, il testo fondamentale a cui si riferisce ogni musica Iiturgica, quale sua misura. La musica liturgica è una conseguenza risultan­te dall’esigenza e dalla dinamica dell’incarnazione della Parola, perché questa significa che anche tra di noi la Parola non può essere semplice parlare. Il modo centrale con cui l’incarnazione continua ad operare so­no in primo luogo certamente gli stessi segni sacramentali. Ma essi ven­gono a mancare di un contesto vitale, se non sono immersi ina una liturgia che nella sua totalità segue questa espansione della Parola nella corporalità e nella sfera di tutti i nostri sensi. Da qui viene, a differenza dai tipi di culto giudaico ed islamico, il diritto, anzi, la necessità di usare delle immagini. E da qui viene anche la necessità di chiamare in causa quelle sfere più profonde del comprendere e del rispondere che si dischiudono nella musica. La fede che diventa musica è una parte del processo dell’incarnazione della Parola.

Ma questo divenire musica è contemporaneamente in modo del tutto unico abbinato a quella svolta interiore dell’evento dell’incarnazione, cui poc’anzi cercavo di accenna­re: sulla croce e nella risurrezione, l’incarnazione della Parola diviene carne fattasi Parola. Ambedue si compenetrano. L’incarnazione non vie­ne ritratta, diventa definitiva soltanto nel momento in cui il movi­mento, per così dire, si inverte: La carne stessa viene «fatta logos», ma proprio questo divenir Parola della carne crea una nuova unità di tutta la realtà, cui Dio evidentemente teneva talmente da pagarla con la cro­ce del Figlio. Il divenir musica della Parola è da un lato incarnazione, un trarre a sé forze prerazionali e metarazionali, che vengono anche rese sensibili, il trarre a sé il suono nascosto del creato, lo scoprire il can­to che riposa sul fondo delle cose. Ma così questo stesso divenire mu­sica è anche già la svolta nel movimento: non è soltanto incarnazione della Parola, ma nello stesso tempo spiritualizzazione della carne. Il le­gno e il metallo diventano suono, l’inconscio e l’insoluto diviene sonorità ordinata piena di significato. Si alternano una corporeizzazione che è spiritualizzazione e una spiritualizzazione che è corporeizzazione. La corporeizzazione cristiana è sempre anche spiritualizzazione e la spiri­tualizzazione cristiana è corporeizzazione che penetra nel corpo del logos incarnato.



4. LE CONSEGUENZE PER LA MUSICA LITURGICA


a) Considerazioni fondamentali


In quanto nella musica avviene questa coincidenza dei due movi­menti, essa serve in misura ottimale e in maniera insostituibile a quel­l’esodo interiore che la liturgia vuole sempre essere e divenire. Ciò pe­rò significa che la conformità della musica liturgica si misura in base alla sua corrispondenza intrinseca a questa forma-base antropologica e teologica. Una tale asserzione a tutta prima sembra essere ben lonta­na dalla concreta realtà musicale, ma diventa concreta immediatamente se prestiamo attenzione ai diversi modelli di musica cultuale cui prima ho già brevemente accennato. Pensiamo un momento al tipo di religio­ne dionisiaca e alla sua musica che Platone ha esaminato nell’ottica del­la sua religione e filosofia. In non poche forme religiose la musica è ab­binata all’ebbrezza, all’estasi. Il superamento del limite della condizione umana cui è indirizzata la fame dell’infinito insita nell’uomo, deve es­sere raggiunta per mezzo di frenesia sacra, di delirio del ritmo e degli strumenti. Una musica simile abbatte le barriere dell’individualità e del­la personalità; l’uomo si libera così dal peso della coscienza. La musi­ca diviene estasi, liberazione dall’Io, unificazione coll’universo.

Oggi sperimentiamo il ritorno profanizzato di questo modello nella musica Rock e Pop, i cui festivals sono un anticulto nella stessa dire­zione — smania di distruzione, abolizione delle barriere del quotidiano e illusione di redenzione nella liberazione dall’Io, nell’estasi furiosa del rumore e della massa. Si tratta di pratiche redentive simili alla droga nella loro forma di redenzione e fondamentalmente opposte alla conce­zione di redenzione della fede cristiana. Di conseguenza perciò dilagano oggi sempre di più, in questo ambito, culti e musiche satanistiche il cui potere pericoloso, in quanto volutamente tendente alla distruzione e al disfacimento della persona, non è preso ancora abbastanza sul serio. La disputa che Platone ha condotto tra la musica dionisiaca e quella apolli­nea non è la nostra, poiché Apollo non è Cristo. Ma la questione che egli ha posto ci tocca molto da vicino. In una forma che la generazione a noi precedente non poteva neppure immaginare la musica è diventata oggi il veicolo determinante di una controreligione e pertanto il palco­scenico della divisione degli spiriti. Cercando la salvezza mediante la li­berazione dalla personalità e dalla sua responsabilità, la musica Rock da un lato si inserisce perfettamente nelle idee di libertà anarchiche che oggi in occidente dominano più che non in oriente; ma proprio per que­sto si oppone radicalmente alla concezione cristiana della redenzione e della libertà, è anzi la sua perfetta contraddizione. Perciò non per mo­tivi estetici, non per ostinazione restaurativa, non per immobilismo sto­rico, bensì per motivi antropologici di fondo, questo tipo di musica de­ve essere esclusa dalla Chiesa. [SM=g1740733]

Potremmo concretizzare ulteriormente la nostra questione, se con­tinuassimo ad analizzare la base antropologica di vari tipi di musica.

Abbiamo della musica d’agitazione che anima l’uomo in vista di vari fi­ni collettivi. Esiste della musica sensuale, che introduce l’uomo nella sfera erotica oppure tende in altra maniera essenzialmente a sensazioni di piacere sensibili. Esiste della semplice musica leggera che non vuole dire nulla, bensì rompere soltanto il peso del silenzio. Esiste della mu­sica razionalistica in cui i suoni servono soltanto a delle costruzioni ra­zionali, ma non avviene una penetrazione reale dello spirito e dei sensi. Parecchi canti inconsistenti su testi catechetici, parecchi canti moderni costruiti in commissioni, sarebbero probabilmente da classificare in questo settore.

La musica invece adeguata alla liturgia di Colui che si è incarnato ed è stato elevato sulla croce, vive in forza di un’altra sintesi molto più grande e ampia di spirito, intuizione e suono. Si può dire che la musica occidentale dal canto gregoriano attraverso la musica delle cattedrali e la grande polifonia, la musica del rinascimento e del barocco fino a Bruckner e oltre proviene dalla ricchezza intrinseca di questa sintesi e l’ha sviluppata in un grande numero di possibilità.

Questa grandezza esiste soltanto qui, perché poteva nascere soltanto dal fondamento antropologico che collegava elementi spirituali e profani in un’ultima unità umana. Essa si dissolve nella misura in cui svanisce tale antropologia. La grandezza di questa musica rappresenta per me la verifica più immediata e più evidente dell’immagine cristiana dell’uomo e ella concezione cristiana della redenzione, che la storia ci offre. Colui he da essa è realmente colpito, sa in qualche modo, dal suo intimo, che la fede è vera, pur dovendo fare ancora molti passi per completare questa intuizione a livello razionale e volitivo.

Ciò significa che la musica liturgica della Chiesa deve soggiacere a quell’integrazione dell’essere umano, che ci si presenta nella realtà di fede dell’incarnazione. Questa redenzione richiede più fatica che non quel­la dell’ebrezza. Ma questa fatica è lo sforzo della verità stessa. Da un lato deve integrare i sensi nell’intimo dello spirito, deve corrispondere all’impulso del Sursum corda. Non vuole, tuttavia, la pura spiritualizza­zione, bensì l’integrazione di sensi e spirito, di modo che ambedue insie­me diventino la persona. Lo spirito non si avvilisce ricevendo in sé i sen­si, bensì soltanto questa unione gli apporta tutta la ricchezza del crea­to. E i sensi non vengono privati della loro realtà, se vi penetra lo spi­rito, bensì soltanto in questo modo possono partecipare alla sua di­mensione di infinito. Ogni piacere sensuale è strettamente limitato e, in ultima analisi, non suscettibile di accrescimento, perché l’atto dei sensi non può oltrepassare una determinata misura. Colui che da esso si aspetta la redenzione, viene deluso, «frustrato” — come si direbbe oggi —. Ma essendo integrati nello spirito, i sensi acquistano una nuova profondità e penetrano nell’infinito dell’avventura spirituale. Là solo es­si si realizzano totalmente.

Ciò però presuppone che anche lo spirito non rimanga chiuso. La musica della fede cerca nel Sursurn corda l’in­tegrazione dell’uomo, ma non trova questa integrazione in se stessa, bensì soltanto nell’autosuperamento, nell’intimo della Parola incarnata. La musica sacrale, ancorata in questa struttura di movimento, diventa purificazione dell’uomo, la sua ascensione. Non dobbiamo però dimen­ticare che questa musica non è l’opera di un momento, bensì partecipa­zione a una storia e suppone la comunione dal singolo individuo con le intuizioni fondamentali di questa storia. Così si esprime proprio in es­sa anche l’ingresso nella storia della fede, l’essere tutti membra del cor­po di Cristo. Dietro di sé lascia gioia, una modalità più alta di estasi, che non cancella la persona, bensì la unisce e nello stesso tempo la libera. Ci fa presentire ciò che è la libertà, che non distrugge, bensì rac­coglie e purifica.



b) Rilievi sulla situazione attuale


Al musico ora si presenta naturalmente un problema: Come si ot­tiene questo? In fondo, le grandi opere della musica sacra possono sem­pre soltanto essere donate, perché vi è in gioco quel superamento di se stessi di cui l’uomo da solo non è capace, mentre il delirio dei sensi, grazie ai noti meccanismi dell’ebbrezza, si può produrre. Il fare finisce dove inizia ciò che è veramente grande. E’ questa linea di demarcazio­ne che per prima dobbiamo vedere e riconoscere. Pertanto all’inizio del­la grande musica sacrale sta necessariamente il tremore, l’accettazione, l’umiltà che è disposta a servire nella partecipazione a ciò che di grande è già stato. Soltanto colui che almeno fondamentalmente vive in base alla struttura interiore di questa immagine di uomo, è in grado di crea­re anche la musica ad essa pertinente.

La Chiesa ha dato altre due indicazioni. La musica liturgica deve, nel suo carattere intimo, corrispondere alle esigenze dei grandi testi li­turgici: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Ciò non vuoi dire che debba essere soltanto musica per un testo; già l’ho detto. Ma essa tro­va nell’orientamento interno di questi testi una indicazione per la sua propria espressione. La seconda indicazione è il rimando al canto gre­goriano e a Palestrina. Questo rimando non significa però che tutta la musica della Chiesa debba essere imitazione di questa musica.
Su que­sto punto, di fatto, vi sono state interpretazioni anguste nel rinnova­mento della musica sacra nel secolo scorso, e anche nei documenti pon­tifici basati su di esso. Interpretando in modo giusto, si vuole così sem­plicemente dire che sono dati degli esempi che possono servire da orien­tamento. Non si può però stabilire in precedenza ciò che può nascere dall’assimilazione creativa di un tale orientamento.

Rimane ancora aperta questa domanda: possiamo, parlando uma­namente, attenderci in questo campo ancora nuove possibilità creative? E in che modo ciò potrà avvenire? La risposta alla prima domanda è facile; cioè se questa immagine dell’uomo è inesauribile, al contrario di quell’altra, essa apre sempre delle nuove possibilità, anche all’espres­sione artistica, e ciò tanto più quanto più vivamente determina lo spi­rito di un’epoca.

Ma proprio qui sta la difficoltà per la seconda questione. Nel nostro tempo la fede ha perduto molta della sua capacità di dare un’impronta alla realtà della vita pubblica. Come potrà essere creativa? Non è stata emarginata dappertutto come semplice sottocultura? Non di meno oc­corre dire che, almeno a quanto sembra, in Africa, in Asia e nell’Ame­rica Latina ci troviamo davanti a una nuova fioritura della fede, da cui potrebbero anche scaturire nuove forme di cultura.

Ma anche nel mondo occidentale il discorso della sottocultura non dovrebbe farci paura. Nella crisi culturale che viviamo, una nuova pu­rificazione e unificazione culturale può svilupparsi soltanto da isole di raccoglimento spirituale. Là ove in comunità vive vi sono nuovi risvegli della fede, si vede anche già formarsi una nuova cultura cristiana; si vede come l’esperienza comunitaria sia fonte di ispirazione e apra vie che prima non potevamo vedere, Del resto, F. Doppelbauer ha giusta­mente fatto notare che la musica liturgica ha spesso e non a caso il ca­rattere dell’opera tardiva, presuppone maturazioni precedenti. Inoltre è importante che ci siano gli spazi preliminari della religiosità popolare e della sua musica, come della musica religiosa in senso lato, che devo­no essere sempre in fecondo scambio con la musica liturgica. Da un la­to esse vengono fecondate e purificate da questa, ma dall’altro lato pre­parano anche nuovi tipi di musica liturgica. Dalle loro forme più libere potrà maturare ciò che potrà entrare nel patrimonio della liturgia di tutta la Chiesa. Questo è poi anche l’ambito ove il gruppo può cimen­tare la sua creatività, nella speranza che ne nasca ciò che in futuro po­trà fare parte del tutto.



Osservazione conclusiva: liturgia, musica e cosmo

Vorrei concludere le mie considerazioni con una bella parola di Mahatma Gandhi che ho trovato poco tempo fa su un calendario. Gan­dhi evidenzia tre spazi di vita del cosmo e mostra come ognuno di que­sti tre spazi vitali offra anche un proprio modo di essere. Nel mare vivo­no i pesci e tacciono. Gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L’uomo però partecipa di tutti e tre: egli porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l’altezza del cielo; perciò sono sue anche tutte e tre le proprietà: il tacere, il gri­dare e il cantare. Oggi vediamo che all’uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltan­to terra e cerca di far diventare sua terra anche il cielo e la profondità del mare. La vera liturgia, la liturgia della comunione dei santi, gli re­stituisce la sua totalità. Gli insegna di nuovo il tacere e il cantare, apren­dogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, l’essere dell’an­gelo; elevando il suo cuore fa risuonare di nuovo quel canto che in lui si era come assopito. Anzi, possiamo dire persino che la vera litur­gia si riconosce proprio dal fatto che essa ci libera dall’agire comune e ci restituisce la profondità e l’altezza, il silenzio e il canto. La vera litur­gia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Es­sa canta con gli angeli. Essa tace con la profondità dell’universo in at­tesa. E così essa redime la terra.



Joseph Card. Ratzinger


[SM=g1740722]
Caterina63
00martedì 1 dicembre 2009 01:19

Un antidoto alla povertà musicale delle nostre chiese

di Alessandro Sabatini*


Una insolita calda serata novembrina ad una settimana dalla festa di Santa Cecilia, tradizionalmente riconosciuta come patrona dei musicisti, l’Aula Accademica del PIMS in Piazza S. Agostino, a due passi della fragorosa Piazza Navona, una fila composta di persone di ogni età che silenziosamente occupavano i posti ancora rimasti dell’Auditorium.


È questo il delicato preludio che ha fatto da cornice all’alto momento musicale con cui è stato inaugurato l’Anno Accademico del Pontificio Istituto di Musica Sacra. Al centro della scena il Rossini Chamber Choir supportato dall’Orchestra Sinfonica “G. Rossini” di Pesaro che, con dovizia di particolari, ha dato vita ad alcune delle pagine più significative di Domenico Bartolucci, Direttore Perpetuo della Cappella Sistina. Dopo l’autorevole presentazione del Preside dell’Istituto, Mons. Valentino Miserachs, che ricordava al pubblico presente quanta e quale vera musica quelle volte avessero collezionato nel tempo, il concerto ha reso onore, al poemetto sinfonico “Baptisma”, eseguito per la prima volta il 2 maggio del 1947 proprio in quell’Auditorium.


Il poemetto è una emblematica prova di quanto il compositore toscano sia attento, con sistematica maniacalità, alla sostanza concettuale dei testi che si accinge a rivestire di suono. Per molto tempo, dopo i mutamenti degli orientamenti liturgici, l’opera rimase nel silenzio fino ad essere poi ripresa nel I Festival di Musica Sacra nel 1988. La vicenda del Baptisma (suddiviso in tre momenti: Introduzione-Battesimo-Ringraziamento) espone con esemplare spirito narrativo la trasposizione musicale del primo Sacramento della Chiesa e si apre con una immagine quasi angelica suggerita dagli archi nell’atteggiamento di attesa e si concretizza nelle note del coro femminile che riprendono la delicatezza del tema iniziale. Con notevole padronanza tecnica e vocale, dinamica curata in modo quasi maniacale, chiusure ed accenti tutt’altro che lasciati al caso, le voci femminili del coro, hanno reso tangibilmente manifesta questa idea serafica dell’attesa. Di grande effetto l’intervento del baritono Michele Govi, nel secondo momento, che si è distinto con ottimo apprezzamento di critica per la chiarezza timbrica ed una dizione di suggestiva precisione. “Fili quid petis ab Ecclesia Dei?” “Fidem” è la risposta decisa del soprano. Dirompente richiesta preparata dall’orchestra in mezzo forte che intesse un andante non troppo mosso su un ritmo di 5 quarti. Non da meno è risultato il trasporto emotivo profuso dal soprano Enrica Fabbri. E quindi il momento del Ringraziamento:“Isti sunt agni novelli qui annuntiaverunt: Alleluja!”. Con immagine musicalmente metaforica, il tempo ternario accompagna, quasi danzando, i nuovi agnelli che sono ora entrati nella Chiesa!


La seconda parte del ricco momento musicale ha lasciato spazio ad altrettante significative pagine “bartolucciane” delle musiche eseguite in Santa Maria Maggiore negli anni ’50 e ‘60. Esemplari mottetti che rappresentano oggi, per la diffusa povertà di linguaggio musicale, vere pillole analgesiche contro il frastuono di chitarre e percussioni tipiche delle feste di piazza alle quali buona parte dei credenti sono costretti ad assistere durante le celebrazioni domenicali. Degna di citazione l’esecuzione del Magnificat per Soli, Coro ed Orchestra che ha chiuso con eleganza la meritevole carrellata di “musica colta”.


Con grande proprietà di gesto, prassi interpretativa che nasconde studio rigoroso e conoscenza più che familiare con le pagine eseguite, il padrone incontrastato dell’evento, il M° Simone Baiocchi, ha diretto il tutto con la tipica ieraticità che la musica di Domenico Bartolucci richiede.


Un grande omaggio, insomma, alle note del “Maestro”, osservato con ammirazione quasi divina, da una folta schiera di giovani musicisti che scelgono la serietà e l’impegno per contrastare il fenomeno, tutt’altro che in via di estinzione, di una musica insipida, molto praticata da parroci “new age” e gruppi giovanili ed infarcita di testi “sentimentaloidi”, privi di contenuto, che mortificano troppo spesso le liturgie di parrocchie e chiese cattedrali. Simone Baiocchi, giovane musicista marchigiano, di poliedrica formazione e curriculum di tutto rispetto, è senza dubbio un autorevole rappresentante di questo “giardino di musicisti” che orientano le proprie competenze verso l’elevazione e non la mortificazione del Mistero che celebriamo nelle azioni liturgiche. Ne è stata ampia dimostrazione proprio l’ottima riuscita del concerto del 14 novembre in cui la carica emotiva, tecnica ed espressiva ha fornito la giusta vitalità interpretativa a tutte le opere. In prima fila, con una non ben nascosta commozione, proprio Domenico Bartolucci che, con il fare tipico di chi ha molto da raccontare, ha manifestato apprezzamenti compiaciuti nei confronti di solisti, coro ed orchestrali ed ha dimostrato la sua riconoscenza al M° Baiocchi proprio come un nonno farebbe ad un nipote… con uno schiaffetto sulla guancia. È questo il sentimento vero della musica.


* Direttore della Cappella Musicale della Cattedrale di Sulmona

Caterina63
00mercoledì 28 aprile 2010 19:50
Joseph Ratzinger e le sette note mortificate

La musica?
Una questione di educazione


È in uscita il volume Lodate Dio con arte (Venezia, Marcianum Press, 2010, pagine 264, euro 24) che raccoglie scritti e discorsi di Joseph Ratzinger - precedenti e posteriori alla sua elezione al soglio pontificio - dedicati all'arte e in particolare alla musica e al canto. Ne anticipiamo l'introduzione.

di Riccardo Muti

Senza dubbio non è necessario essere Papa per frequentare il mondo della musica come fa Papa Ratzinger che, alla sua veneranda età e con tutti gli impegni che suppongo comporti il suo alto incarico di Pastore di tutta la Chiesa, non disdegna mettersi lui stesso al pianoforte e alimentare il suo spirito suonando i suoi autori preferiti. È però un grande dono per l'umanità e per la Chiesa all'inizio del terzo millennio avere un Papa che rivendica spazio e rispetto nella Chiesa e nella società civile per quest'alta espressione umana.

Ha cominciato da bambino a frequentare e ad amare la musica e il canto fin dai bei tempi - lo ricorda lui stesso - in cui, grazie a suo fratello, poté integrarsi nella famiglia dei Domspatzen, i piccoli cantori di Ratisbona, che facevano servizio liturgico nella cattedrale. È stata un'esperienza che ha segnato la sua vita, come ha segnato la vita di tanti di noi musicisti. L'esperienza della musica, infatti, arricchisce l'esistenza umana e le apre orizzonti che sconfinano nell'infinito e nell'eterno. "Cantare è quasi un volare - confida il Papa in occasione di un concerto dei Domspatzen - un sollevarsi verso Dio, un anticipare in qualche modo il canto dell'eternità". Chi impara a cantare da piccolo, poi canta tutta la vita e tutta la vita diventa per lui canto.
 
Ha ragione il Papa quando in più circostanze lamenta il basso livello della musica da consumo, in particolare della musica e dei canti eseguiti nelle chiese in questi ultimi decenni soprattutto da noi in Italia. Ma la causa è l'inadeguatezza dell'educazione musicale. Quello che si fa nelle scuole è troppo poco e le attività alternative o sussidiarie sono solo per pochi fortunati. Nelle parrocchie, poi, almeno in Italia, l'educazione al canto dei cristiani penso sia una delle ultime preoccupazioni pastorali dei nostri parroci e forse anche dei nostri vescovi.

I libri di testo delle scuole primarie sono pieni di belle dichiarazioni d'intenti e di interessanti indicazioni metodologiche e programmatiche. Ma agli italiani delle ultime generazioni non sembra sia stata data un'adeguata educazione musicale. Musica e canto in Italia sono ancora lasciate per lo più all'iniziativa privata. Sono solo per chi ha predisposizione e talento, ha i mezzi finanziari per frequentare una scuola di musica privata o ha la fortuna di trovare un posto in un conservatorio.

Nel nostro Paese bisogna far da sé. Anche per la musica e il canto bisogna purtroppo "arrangiarsi". Più volte, in tantissime occasioni, l'ho denunciato. In una società evoluta l'educazione musicale non può essere trattata in questo modo. Significa non rispettare il valore culturale della musica. Soprattutto significa non riconoscere e non rispettare il valore antropologico del canto nella formazione di persone chiamate a vivere in società, a stare e a comunicare con gli altri. La pratica corale e strumentale, come la pratica dello scrivere e del leggere, dovrebbero accompagnare tutto l'arco della scolarità, dalla scuola materna alle superiori.

Come l'educazione all'espressione scritta e orale accompagna dall'inizio alla fine l'itinerario scolastico di una persona, arricchendosi gradualmente di elementi culturali differenti che forniscono le cose da dire e da scrivere per comunicare, non si capisce perché non debba avvenire la stessa cosa per l'educazione all'espressione musicale attraverso il canto e gli strumenti musicali.
Se si facesse qualcosa in questo senso, probabilmente si invertirebbe la tendenza a considerare la musica come un'attività per pochi eletti, uno dei possibili sbocchi professionali, una merce da vendere o semplicemente un passatempo. Sicuramente anche nelle nostre chiese si canterebbe di più e si canterebbe meglio.

Perciò non sarà di troppo auspicare anche da queste pagine un'educazione musicale che non solo non emargini nessuno dalla fruizione della musica e dal piacere dell'ascolto, ma soprattutto favorisca in tutti lo sviluppo della percezione di sé, che raggiunge il massimo di espressione e di autocomprensione proprio nel cantare insieme. Non sarà mai di troppo chiedere un'educazione musicale che non solo insegni ad ascoltare la musica, a decodificare i linguaggi e i messaggi e a farne un bagaglio culturale di valore; non solo insegni a leggere uno spartito e a suonare almeno uno strumento musicale, ma insegni soprattutto a cantare insieme, incarnandone con l'esercizio assiduo le regole e le esigenze, per riuscire a far coro anche nella vita.

Sono davvero grato al Papa per aver riportato al giusto posto, anche attraverso questo libro, l'attenzione alla musica dentro e fuori della Chiesa, ponendola semplicemente come fattore essenziale nella vita degli uomini.

I suoi studi sono illuminanti soprattutto per la musica sacra. Sgombrano il terreno da equivoci e assolutizzazioni fondamentaliste pro e contro, che in questi anni hanno creato scontro piuttosto che dialogo e ricerca comune per il bene della Chiesa e della sua liturgia. Rendono ragione del disagio che tanti provano andando a messa la domenica. Ma fanno anche sperare in una ripresa dell'arte musicale che faccia un buon servizio alla liturgia e alla vita di questo nostro mondo.

Condivido totalmente quanto Sua Santità afferma:  "Se la Chiesa deve trasformare, migliorare, "umanizzare" il mondo, come può far ciò e rinunciare nel contempo alla bellezza, che è tutt'uno con l'amore ed è con esso la vera consolazione, il massimo accostamento possibile al mondo della Risurrezione? La Chiesa dev'essere ambiziosa; dev'essere una casa del bello, deve guidare la lotta per la "spiritualizzazione", senza la quale il mondo diventa il "primo girone dell'inferno". Si cerchi pure ciò che è adatto alla liturgia e alla partecipazione dei fedeli, ma si faccia di tutto perché ciò che è adatto sia anche bello e degno della più importante azione ecclesiale in cui viene usato" (p. 33).


"Giustamente una Chiesa che faccia soltanto "musica d'uso" cade nell'inutile e diviene essa stessa inutile", afferma ancora il Papa. La Chiesa ha e deve svolgere un'incombenza molto più alta:  "Essa dev'essere luogo della "gloria" e così anche luogo in cui i lamenti dell'umanità sono portati all'orecchio di Dio. Essa non può appagarsi di ciò che è ordinario e utile:  deve destare la voce del cosmo glorificando il Creatore, svelare la di lui magnificenza al cosmo, e rendere il cosmo stesso glorioso, e quindi bello, abitabile, amabile".

E poi ancora:  "L'arte musicale è chiamata, in modo singolare, a infondere speranza nell'animo umano, così segnato e talvolta ferito dalla condizione terrena. Vi è una misteriosa e profonda parentela tra musica e speranza, tra canto e vita eterna:  non per nulla la tradizione cristiana raffigura gli spiriti beati nell'atto di cantare in coro, rapiti ed estasiati dalla bellezza di Dio. Ma l'autentica arte, come la preghiera, non ci estranea dalla realtà di ogni giorno, bensì a essa ci rimanda per "irrigarla" e farla germogliare, perché rechi frutti di bene e di pace" (p. 124).

Indubbiamente la rivoluzione culturale avvenuta nel secolo scorso ha messo in crisi anche i tradizionali codici di riferimento che, convenzionalmente, servivano a stabilire ciò che è bello e ciò che è brutto in musica. Il sistema tonale, eletto per secoli a rappresentare la complicità naturale tra il mondo dei suoni e la coscienza dell'uomo, è stato sistematicamente abbandonato e nuove strade sono state percorse e certamente si percorreranno in futuro; la musica, specialmente negli ultimi decenni del secolo scorso, ha assunto le caratteristiche di un fenomeno estremamente vario e variabile. È avvenuto un rinnovamento e un ampliamento del linguaggio musicale come c'è stato un rinnovamento teologico, liturgico, culturale ed esistenziale. È decaduta l'idea e la pretesa di un unico modello culturale e musicale e ne sono nati infiniti altri.
 
La musica ha cessato di essere una pratica ecclesiastica o del salotto borghese, asservita all'idea religiosa e politica dominante. Ogni idea ha la propria musica e ogni musica pretende il proprio spazio e il proprio riconoscimento alla pari di tante altre espressioni culturali. Giudicarne il valore non è possibile se non si entra nella dinamica umana e religiosa che la ispira e la esprime. E le dinamiche sono molte. Variano da popolo a popolo, da gruppo a gruppo.

Spesso perfino da uomo a uomo. Producono una grande varietà di espressioni e di stili, il cui obiettivo non è la trasgressione delle regole convenzionali o naturali, ma la composizione di musiche che meglio esprimano ciò che si vuole dire, pur essendo altro rispetto a quello che l'orecchio è abituato a sentire. Non si può formulare un giudizio di valore senza tener conto di questa pluralità di stili. Non esiste uno stile che possa vantare il primato sugli altri e al quale tutti gli altri debbano adeguarsi per essere legittimamente usati nella liturgia.

Tutti gli stili hanno diritto di cittadinanza nella cultura contemporanea e, oserei dire, anche nella liturgia, almeno se si pensa che dietro ogni stile non c'è solo il lavoro a tavolino del musicista, ma ci sono soprattutto degli uomini o addirittura dei popoli, che in quel determinato modo esprimono se stessi, la loro vita e la loro fede. Non sarebbe proprio giusto fare una selezione. Vorrebbe dire selezionare gli uomini e l'immagine di sé e di Dio, che essi coltivano e intendono comunicare.

Tuttavia, pur nella complessità del tempo presente e delle sue espressioni plurali, tutte legittime, oso sperare che mai vengano oscurati o dimenticati i principi ispiratori dell'autentica bellezza, evocati dal Papa, nel rispetto dei quali è stato creato quel patrimonio musicale che appartiene alla nostra cultura e alla nostra storia come un tesoro inestimabile e che riesce ancora in maniera esemplare a parlare al cuore e allo spirito dell'uomo contemporaneo, comprese le giovani generazioni.


(©L'Osservatore Romano - 29 aprile 2010)
Caterina63
00venerdì 30 aprile 2010 18:43
Benedetto XVI al termine del concerto offerto dal presidente della Repubblica italiana per il quinto anniversario di pontificato

Per le nuove generazioni uno straordinario impegno educativo


"Le condizioni attuali della società richiedono uno straordinario impegno educativo in favore delle nuove generazioni". Lo ha affermato il Papa giovedì sera, 29 aprile, al termine del concerto offerto nell'Aula Paolo vi dal presidente della Repubblica italiana per il quinto anniversario di pontificato.

Signor Presidente della Repubblica,
Signori Cardinali,
Onorevoli Ministri e Autorità,
Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel presbiterato,
Gentili Signori e Signore!

ancora una volta il Presidente della Repubblica Italiana, Onorevole Giorgio Napolitano, con tratto di squisita cortesia, ha voluto offrire a tutti noi la possibilità di ascoltare dell'ottima musica in occasione dell'anniversario di inizio del mio Pontificato. Nel salutarLa con deferenza, Signor Presidente, unitamente alla sua gentile Signora, desidero esprimere il mio vivo ringraziamento per l'omaggio davvero gradito di questo concerto e per le cordiali parole che Ella mi ha rivolto. In questo atto premuroso vedo anche un ulteriore segno dell'affetto che il popolo italiano nutre nei confronti del Papa, affetto che fu così fervido in santa Caterina da Siena, Patrona d'Italia, di cui oggi ricorre la festa. Sono lieto di salutare le altre Autorità dello Stato italiano, i Signori Ambasciatori, le diverse Personalità e tutti voi che avete preso parte a questo momento di alto valore culturale e musicale.
 
Desidero ringraziare quanti hanno generosamente cooperato alla realizzazione di questo evento, in particolare i Dirigenti della Fondazione Scuola di Musica di Fiesole, di cui è componente significativa l'Orchestra Giovanile Italiana, validamente diretta dal maestro Nicola Paszkowski. Certo di interpretare i sentimenti di tutti i presenti, rivolgo un sincero apprezzamento agli orchestrali, che hanno eseguito con abilità ed efficacia brani impegnativi del compositore milanese Giovanni Battista Sammartini, di Wolfgang Amadeus Mozart e di Ludwig van Beethoven.

Abbiamo avuto la gioia di ascoltare questa sera dei giovani concertisti allievi della Scuola musicale di Fiesole, fondata da Piero Farulli, che nel corso degli anni si è affermata quale eccellente centro nazionale di formazione orchestrale, offrendo a numerosi bambini, adolescenti, giovani e adulti la possibilità di compiere un qualificato percorso formativo teso alla preparazione di musicisti per le migliori orchestre italiane ed europee. Lo studio della musica riveste un alto valore nel processo educativo della persona, in quanto produce effetti positivi sullo sviluppo dell'individuo, favorendone l'armonica crescita umana e spirituale. Sappiamo come sia comunemente riconosciuto il valore formativo della musica nelle sue implicazioni di natura espressiva, creativa, relazionale, sociale e culturale.

Pertanto, l'esperienza ultra trentennale della Scuola di Musica di Fiesole assume una particolare rilevanza anche di fronte alla realtà quotidiana che ci dice come non sia facile educare. Nell'odierno contesto sociale, infatti, ogni opera di educazione sembra diventare sempre più ardua e problematica:  spesso tra genitori ed insegnanti si parla delle difficoltà che s'incontrano nel trasmettere alle nuove generazioni i valori basilari dell'esistenza e di un retto comportamento. Tale situazione problematica coinvolge sia la scuola sia la famiglia, come pure le varie agenzie che operano nel campo formativo.

Le condizioni attuali della società richiedono uno straordinario impegno educativo in favore delle nuove generazioni. I giovani, anche se vivono in contesti diversi, hanno in comune la sensibilità ai grandi ideali della vita, ma incontrano molte difficoltà nel viverli. Non possiamo ignorare i loro bisogni e le loro attese, nemmeno gli ostacoli e le minacce che incontrano. Essi sentono l'esigenza di accostarsi ai valori autentici quali la centralità della persona, la dignità umana, la pace e la giustizia, la tolleranza e la solidarietà. Ricercano anche, in modi a volte confusi e contraddittori, la spiritualità e la trascendenza, per trovare equilibrio e armonia. A tale riguardo, mi piace osservare che proprio la musica è capace di aprire le menti e i cuori alla dimensione dello spirito e conduce le persone ad alzare lo sguardo verso l'Alto, ad aprirsi al Bene e al Bello assoluti, che hanno la sorgente ultima in Dio.

La festosità del canto e della musica sono altresì un costante invito per i credenti e per tutti gli uomini di buona volontà ad impegnarsi per dare all'umanità un avvenire ricco di speranza. Inoltre, l'esperienza di suonare in un'orchestra aggiunge anche la dimensione collettiva:  le prove continue condotte con pazienza; l'esercizio dell'ascolto degli altri musicisti; l'impegno di non suonare "da soli", ma di far sì che i diversi "colori orchestrali" - pur mantenendo le proprie caratteristiche - si fondano insieme; la ricerca comune della migliore espressione, tutto questo costituisce una "palestra" formidabile, non solo sul piano artistico e professionale, ma sotto il profilo umano globale.
 
Cari amici, auspico che la grandezza e la bellezza dei brani musicali magistralmente eseguiti questa sera possano donare a tutti nuova e continua ispirazione per tendere a mete sempre più alte nella vita personale e sociale. Rinnovo al Signor Presidente della Repubblica Italiana, agli organizzatori e a tutti i presenti l'espressione della mia sincera gratitudine per questo apprezzato omaggio! Ricordatemi nelle vostre preghiere, perché iniziando il sesto anno del mio Pontificato, possa compiere sempre il mio Ministero come vuole il Signore. Egli, che è la nostra forza e la nostra pace, benedica tutti voi e le vostre famiglie.


(©L'Osservatore Romano - 1 ° maggio 2010)
Caterina63
00mercoledì 5 maggio 2010 21:54
L'attualità del canto gregoriano

Melodiare pallido e assorto



di Alberto Turco

La definizione esatta del gregoriano, estendibile ovviamente anche agli altri repertori liturgici antichi dell'Occidente, come l'ambrosiano, è quella di "monodia della Parola rituale"
.

Il gregoriano è, anzitutto, una monodia legata inscindibilmente a dei testi; nello specifico a testi latini in prosa, desunti, per la maggior parte, dalla Bibbia, specialmente dal libro dei Salmi. Un "canto", dunque, e non "musica" o "melodia pura"; un canto rituale, quello "proprio" della liturgia della Chiesa romana, che ha la qualità primaria di essere preghiera, sia quando si fa annuncio della Parola di Dio nella proclamazione delle letture o azione di grazie nella solenne preghiera eucaristica, sia quando diventa voce orante della comunità ecclesiale, che sente l'anelito di dialogare con Dio, per manifestargli l'ossequio della riconoscenza e per implorare da lui la benedizione.

Al gregoriano va riconosciuta una profonda religiosità:  fino a oggi, è il solo canto che abbia incarnato lo spirito più genuino della fede cristiana occidentale, frutto di una matura esperienza di comunicazione con la divinità e di  pratica corale. Per queste due ragioni  fondamentali e peculiari, la Chiesa cattolica ha sempre dichiarato come suo canto proprio la monodia gregoriana.

Una delle disposizioni innovatrici del concilio Vaticano ii in materia liturgica è stata l'ammissione delle lingue vive e parlate nelle celebrazioni. In seguito a ciò, il gregoriano, per il fatto di essere strettamente legato al testo latino, ha subito una forte recessione, nonostante che, nello spirito della costituzione conciliare, il latino sia considerato la lingua ufficiale della liturgia:  "l'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum concilium, 36).
 
Nell'istruzione Musicam sacram della Congregazione dei Riti (1967), per l'applicazione delle norme conciliari, si fa presente che "nelle azioni liturgiche in canto celebrate in lingua latina: 
a) Al canto gregoriano, come canto proprio della liturgia romana, si riservi, a parità di condizioni, il primo posto. Le melodie esistenti nelle edizioni tipiche si usino nel modo più opportuno.
 b) Conviene inoltre che si prepari un'edizione che contenga melodie più semplici ad uso delle chiese minori.
c) Le composizioni musicali di altro genere, a una o più voci, appartenenti al patrimonio tradizionale, o contemporanee, siano tenute in onore, si incrementino e si eseguiscano secondo le possibilità".

E ancora, nella costituzione conciliare sulla liturgia si afferma che:  "per conservare il patrimonio della musica sacra e per favorire debitamente le nuove forme del canto sacro "si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati e negli studentati dei Religiosi e delle Religiose, come pure negli altri istituti e scuole cattoliche" (Sacrosanctum concilium, 115), specialmente presso gli Istituti superiori creati a questo scopo".  Pertanto, "si  incrementi prima di  tutto  lo studio e l'uso del canto gregoriano che, per le sue caratteristiche, è una base importante nella educazione alla musica sacra" (Musicam sacram, 52).

L'introduzione delle lingue vive e parlate non è da valutare negativamente a causa dei riflessi che ha avuto sul canto gregoriano. È giusto che epoche e culture diverse contribuiscano alla realizzazione di repertori liturgici, come è stato per il passato. Inoltre, bisogna ricordare che una buona parte del repertorio gregoriano non è stata composta per una qualsiasi assemblea liturgica, ma per gruppi specialistici, come la schola e le comunità monastiche. L'aver preteso, in questi ultimi decenni, di affidare a tutti l'esecuzione del Graduale Romanum, ha portato a delle realizzazioni poco edificanti sul piano culturale e religioso.

Per evitare il ripetersi di tale inconveniente la Chiesa ha provveduto, coerentemente alle disposizioni conciliari, all'edizione del Kyriale simplex e del Graduale simplex, in sostituzione del Graduale Romanum:  "Conviene inoltre che si prepari un'edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese minori" (Sacrosanctum concilium, 117). Con tali disposizioni si è provveduto efficacemente alla valorizzazione del canto gregoriano:  a ogni assemblea viene offerta, senza alcuna imposizione, la possibilità di accedere a un repertorio rispondente alle proprie capacità interpretative.

Al di là delle considerazioni di carattere liturgico-pastorale, nessuno mette in discussione il fatto culturale rappresentato dal gregoriano. Esso costituisce un monumento e un patrimonio di inestimabile valore. Centinaia di manoscritti, sparsi nelle principali biblioteche d'Europa, sono i depositari quasi esclusivi della primitiva notazione musicale. Migliaia di testi latini, da quelli creati per ornare le forme musicali del repertorio classico, fino a quelli dei tropi, delle sequenze e degli inni, formano una tale eredità culturale che la storia della letteratura classica latina non conosce. Monumento e patrimonio di inestimabile valore, il canto gregoriano ha maturato l'espressione artistica più genuina della cultura musicale europea.

La perfetta simbiosi fra testo e melodia, espressa dall'ornamentazione dei vari generi melodici, la tecnica ritmica desunta dall'articolazione delle sillabe nel contesto della parola e della frase, e il melodiare ricco e possente, semplice e naturale attraverso i meandri di molteplici strutture modali, offrono una sintesi creativa raffinata e affascinante del gregoriano, frutto di esperienza religiosa e di maturità artistica. E, a mettere in luce questi aspetti fondamentali del gregoriano, hanno contribuito, in modo determinante, in questi ultimi decenni, gli studi improntati alle scienze della semiologia e della modalità.
 

Un corso estivo sul Graduale Romanum



Ritorna anche quest'anno il corso estivo di canto gregoriano nell'abbazia delle Clarisse Eremite di Fara Sabina, in provincia di Rieti. Giunti alla diciassettesima edizione e incentrati sullo studio del Graduale Romanum, quest'anno per la seconda volta i corsi sono affidati all'organizzazione e alla conduzione del Centro di canto gregoriano e monodie "Dom Jean Claire" di Verona, mentre la direzione artistica e didattica compete a monsignor Alberto Turco.

L'attività si svolge sotto il patrocinio del Pontificio Istituto di Musica Sacra che per anni nei corsi di Fara Sabina ha svolto una significativa e qualificante attività didattica esterna. L'attività prevede due momenti distinti:  il corso triennale, che tende a garantire una formazione di base completa e una pratica approfondita del repertorio gregoriano, e un approfondimento monografico, che quest'anno verterà sul tema "il proprium missae delle domeniche di Pasqua" alla luce delle attuali indagini che riguardano l'aspetto storico, liturgico, semio-estetico-modale e interpretativo.

Le lezioni del corso monografico, avviate in risposta alle sempre più numerose richieste di approfondimento e aggiornamento in materia di studi gregorianistici, si terranno dal 1° al 4 luglio e saranno tenute da Alberto Turco, in quanto all'analisi e all'interpretazione, e da Frans Kok, che si occuperà del commento storico-liturgico. Idealmente le lezioni accolgono l'eredità spirituale e scientifica dei monaci solesmensi dom Eugène Cardine e dom Jean Claire, garantendo continuità e fedeltà alla linea della restaurazione gregoriana da loro inaugurata. Le attività relative al triennio si svolgeranno invece dal 5 al 10 luglio e saranno articolate in tre corsi che prevedono un cammino graduale verso una comprensione profonda della materia. Le discipline trattate vanno dalla notazione musicale al ruolo dell'ornamentazione o allo sviluppo melodico dei neumi, senza trascurare elementi di pedagogia vocale.

 


(©L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010)
Caterina63
00martedì 8 giugno 2010 21:07

L’organo è nato per la liturgia cattolica

L’organo è nato per la liturgia cattolica thumbnail
By Redazione
Published: maggio 27, 2010

Storia dello strumento preferito dal Concilio Vaticano II e da Benedetto XVI.

Quegli studiosi che affermano come l’organo non sia che uno strumento come gli altri, nato del 300 a.C., commettono un grave sbaglio storico. Quello strumento di cui parlano loro, non è l’organo che oggi si trova nelle nostre chiese, ma l’”hydraulòs”, il “flauto idraulico”, un’interessantissima macchina sonora, costituita da una piccola scatola di legno con su innestate le canne lignee di una siringa (una specie di flauto) e all’interno un sistema di gorgogliamento dell’acqua che permetteva alle canne di suonare. Era lo strumento usato negli odeion e negli anfiteatri, nelle pompe imperiali, nei trionfi dei generali, nella cultura pagana prima greca (l’inventore infatti è un greco, Ctesibio di Alessandria d’Egitto) poi romana.

Ora, chi vuol vedere la continuità tra questo strumento e l’organo occidentale, commette un grave sbaglio esegetico ed ermeneutico. Si deve sapere che i padri della Chiesa Latina (gli apologeti, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino), estinsero definitivamente dal culto l’uso di qualsiasi strumento, proprio perché ritenuto di origine profana, cioè non nato per servire la Divina Liturgia. Fu così che alcuni strumenti, di natura cerimoniale pubblica, addirittura sparirono nel continente europeo, e l’idraulico subì la stessa sorte. Nell’VIII secolo, un giovane sacerdote, Giorgio da Venezia, venne chiamato per delle consulenze musicali presso la corte carolingia.

Questo presbitero aveva compiuto la sua formazione religiosa presso Santa Sophia a Costantinopoli. La corte bizantina usava ancora l’idraulico per i fasti imperiali. E don Giorgio aveva potuto studiarne il funzionamento e la costruzione. Ora, proprio a don Giorgio e ai monaci suoi allievi venne in mente un’idea straordinaria: perché non costruire uno strumento dedicato interamente a Dio, alla Liturgia e all’innalzamento delle anime?

Don Giorgio pensò di prendere spunto dall’idraulico, ma di fatto e volutamente inventò uno strumento nuovo: lo “pneumatikòs”, cioè il “soffio del vento” (pneuma = vento). Perché eliminare addirittura il sistema idraulico?  Perché il vento è uno degli elementi con cui si manifesta la Terza Persona della Santissima Trinità, lo Spirito Santo, il giorno di Pentecoste. In pratica, don Giorgio e i suoi allievi volevano un strumento che fosse sul serio “divinamente ispirato”. Il nome “organo” poi, è un ulteriore conferma della assoluta destinazione liturgica dello strumento.

E’ assodato con ricchezza documentaria che il nuovo strumento ebbe i suoi primi impieghi nella sacra liturgia prima per raddoppiare e accompagnare le voci del coro gregoriano polifonico, che si chiamava appunto “organum”; poi addirittura per sostituire le voci nel caso in cui il coro fosse assente. Si comprenderà facilmente, allora, come i parlanti occidentali, ancora assai legati alla lingua latina (almeno nelle sfere culturali medio – elevate) adottarono per lo strumento la denominazione della sfera vocale: era il reggitore e il sostituto del coro, e quindi, anche nel nome, fu ad esso col tempo assimilato. Siamo arrivati al dunque. Il nuovo strumento infatti, assimila dal coro il nome, la tecnica polifonica corale e l’agogica (ovvero un ritmo libero, svincolato da rigide classificazioni metronomiche, quale è quello gregoriano): per tutti lo pneumatikòs è ora l’”organo”.

Qualche musicista sciagurato ha detto che l’organo è finito disgraziatamente ad accompagnare le funzioni. E’ sbagliato! L’organo occidentale è stato pensato e voluto per accompagnare le funzioni ed oltre il 90% della letteratura organistica mondiale è musica liturgica.

C’è un altro elemento da considerare. Se tu suoni un organo di una sala da concerto, di un teatro, di un conservatorio, allora veramente uno ci si può divertire quanto vuole.

Ma se suoni un organo costruito in una chiesa, la cosa cambia radicalmente. Quello strumento è stato costruito per il bene delle anime e la lode di Dio, è stato benedetto con un’apposita preghiera, con l’aspersione dell’acqua santa e con l’incensazione. E’ divenuto quindi un sacramentale efficace per la salvezza, la conversione, la preghiera unanime del Popolo Santo di Dio. E come tale va visto l’organo liturgico. Non è affatto uno strumento come tutti gli altri, e l’organista non è affatto un musicista come tutti gli altri. Il suo strumento ha un compito e una grazia specifiche, e pertanto l’organista non è un semplice esecutore, ma un ministrante della Divina Liturgia. L’organo costruito in chiesa e benedetto per essa è lo strumento sacro per eccellenza. Non è un’etichetta, ma una sostanziale oggettiva realtà.

Del resto così si esprimeva il Concilio Ecumenico Vaticano II nella Costituzione sulla musica sacra Sacrosanctum Concilium al numero 120: ” Nella chiesa latina si abbia in grande onore l’ organo a canne, come strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere mirabile splendore alle cerimonie della chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle realtà supreme” .

Anche Benedetto XVI apprezza questo strumento come “il re degli strumenti musicali”. In un pronunciamento del 13 Settembre 2006 a Regensburg in Germania il Sommo Pontefice ha detto infatti: “L’organo, da sempre e con buona ragione, viene qualificato come il re degli strumenti musicali, perché riprende tutti i suoni della creazione e dà risonanza alla pienezza dei sentimenti umani”.

 Alessio Cervelli ©© 2010 

BASTABUGIE

Caterina63
00giovedì 9 settembre 2010 00:01
Il Papa al termine del "Requiem" di Wolfgang Amadeus Mozart

La morte amica sincera e carissima


"Un'alta espressione di fede propriamente cristiana":  con queste parole Benedetto XVI ha definito la Messa da Requiem in re minore k 626 di Wolfgang Amadeus Mozart, eseguita dall'orchestra di Padova e del Veneto, e dal coro Accademia della Voce di Torino, nella serata di martedì 7 settembre, nel cortile del Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo.

Cari amici,
ringrazio vivamente l'Orchestra di Padova e del Veneto e il Coro "Accademia della voce" di Torino, diretti dal maestro Claudio Desderi, e i quattro solisti, per averci offerto questo momento di gioia interiore e di riflessione spirituale con un'intensa esecuzione del Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart.

Con loro ringrazio Mons. Marcelo Sánchez Sorondo, Segretario della Pontificia Accademia delle Scienze, per le parole che mi ha rivolto, come pure i vari Enti che hanno contribuito all'organizzazione di questo evento. Sappiamo bene che il giovanissimo Mozart, nei suoi viaggi in Italia con il padre, soggiornò in varie Regioni, tra le quali anche il Piemonte e il Veneto, ma soprattutto sappiamo che fece tesoro della vivace attività musicale italiana, caratterizzata da compositori quali Hasse, Sammartini, Padre Martini, Piccinni, Jommelli, Paisiello, Cimarosa, per citarne alcuni.

Permettetemi, però, di dire ancora una volta che c'è un affetto particolare che mi lega, potrei dire da sempre, a questo sommo musicista. Ogni volta che ascolto la sua musica non posso non riandare con la memoria alla mia chiesa parrocchiale, quando, da ragazzo, nei giorni di festa, risuonava una sua "Messa":  nel cuore percepivo che un raggio della bellezza del Cielo mi aveva raggiunto, e questa sensazione la provo ogni volta, anche oggi, ascoltando questa grande meditazione, drammatica e serena, sulla morte.

In Mozart ogni cosa è in perfetta armonia, ogni nota, ogni frase musicale è così e non potrebbe essere altrimenti; anche gli opposti sono riconciliati e la mozart'sche Heiterkeit, la "serenità mozartiana" avvolge tutto, in ogni momento. È un dono questo della Grazia di Dio, ma è anche il frutto della viva fede di Mozart, che - specie nella sua musica sacra - riesce a far trasparire la luminosa risposta dell'Amore divino, che dona speranza, anche quando la vita umana è lacerata dalla sofferenza e dalla morte.

Nell'ultima lettera scritta al padre morente, datata 4 aprile 1787, così egli scrive parlando proprio della tappa finale della vita sulla terra:  "... da qualche anno sono entrato in tanta familiarità con quest'amica sincera e carissima dell'uomo, (la morte), che la sua immagine non solo non ha per me più nulla di terrificante, ma mi appare addirittura molto tranquillizzante e consolante! E ringrazio il mio Dio di avermi concesso la fortuna di avere l'opportunità di riconoscere in essa la chiave della nostra felicità.
Non vado mai a letto senza pensare che l'indomani forse non ci sarò più. Eppure nessuno fra tutti coloro che mi conoscono potrà dire che in compagnia io sia triste o di cattivo umore. E di questa fortuna ringrazio ogni giorno il mio Creatore e l'auguro di tutto cuore ad ognuno dei miei simili".

È uno scritto che manifesta una fede profonda e semplice, che emerge anche nella grande preghiera del Requiem, e ci conduce, allo stesso tempo, ad amare intensamente le vicende della vita terrena come doni di Dio e ad elevarci al di sopra di esse, guardando serenamente alla morte come alla "chiave" per varcare la porta verso la felicità eterna.

Il Requiem di Mozart è un'alta espressione di fede, che ben conosce la tragicità dell'esistenza umana e che non tace sui suoi aspetti drammatici, e perciò è un'espressione di fede propriamente cristiana, consapevole che tutta la vita dell'uomo è illuminata dall'amore di Dio. Grazie ancora a tutti.


(©L'Osservatore Romano - 9 settembre 2010)

                                   Pope Benedict XVI claps as he listens to a concert by the Pontifical Academy of Sciences in the courtyard of his summer residence of Castelgandolfo, south of Rome, September 7, 2010.




Quella lettera del 4 aprile 1787


Pubblichiamo il testo integrale della lettera - citata dal Papa - scritta il 4 aprile 1787 da Wolfgang Amadeus Mozart al padre gravemente ammalato.
 
Ricevo in questo momento una notizia che mi abbatte molto - tanto più che stando all'ultima sua lettera potevo supporre che lei, grazie a Dio, fosse in buona salute - ma ora sento che lei è molto malato!
Non ho certo bisogno di dirle quanto arda dal desiderio di ricevere da lei stesso una notizia consolante; lo spero veramente - nonostante abbia fatto l'abitudine a immaginarmi il peggio in ogni cosa. Dato che la morte, a ben guardare, è la vera meta della nostra vita, già da un paio di anni sono entrato in tanta familiarità con quest'amica sincera e carissima dell'uomo, che la sua immagine non solo non ha per me più nulla di terrificante, ma mi pare addirittura molto tranquillizzante e consolante! E ringrazio il mio Dio di avermi concesso la fortuna - lei mi capisce - di avere l'opportunità di riconoscere in essa la chiave della nostra felicità.
Non vado mai a letto senza pensare che, per quanto io sia giovane, il giorno dopo potrei non esserci più. Eppure di tutte le persone che mi conoscono nessuno potrà dire che in compagnia io sia triste o di cattivo umore. E di questa fortuna ringrazio tutti ogni giorno il mio Creatore e l'auguro di cuore a ognuno dei miei simili. Nella lettera affidata alla Storace le avevo già esposto i miei punti di vista in materia in occasione del triste decesso del mio ottimo, carissimo amico conte von Hatzield - aveva 31 anni, come me - non compiango lui bensì me, profondamente, e anche tutti quelli che lo conoscevano bene come me. Spero e mi auguro che lei stia già meglio mentre io scrivo questa lettera; se però invece pensa di non migliorare, allora la prego di non tenermelo nascosto, ma di scrivere o farmi scrivere la pura verità, così che io possa essere il più presto possibile tra le sue braccia; la scongiuro per tutto quanto ci è sacro. Però spero di ricevere presto da lei una lettera rassicurante, e con questa piacevole speranza insieme a mia moglie e Carl le bacio mille volte le mani e sono sempre il suo ubbidientissimo figlio.


Caterina63
00martedì 7 dicembre 2010 21:46

Dieci parole per la musica liturgica: “Estatica”


di Aurelio Porfiri*

MACAO, martedì, 7 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Estatica. Quando dico che la musica per la liturgia deve essere “estatica”, credo che devo essere cauto nello spiegare il senso che voglio dare a questa affermazione. In effetti, questa parola assume diversi significati a seconda dei contesti in cui la si usa (con questo nome è anche chiamata una droga). La parola in questione viene dal greco ek-stasis che significa “fuori di sé”. Ora, dire che si è fuori di sé non ha una valenza positiva nella nostra cultura, sembra quasi un insulto. Ma spero di dimostrare che per me questa parola deve essere inclusa nelle caratteristiche della musica liturgica per la sua profonda valenza spirituale.

In uno studio pubblicato sulla rivista “Science”, l’estasi (insieme a creatività e stato psicotico) è così definita:“Questi stati sono contrassegnati da un graduale volgersi interiormente verso una dimensione mentale a spese di quella fisica” (Roland Fischer 1971. A Cartography of the Ecstatic and Meditative States. Science, 174, 4012. Mia traduzione dall’inglese). Non deve sorprendere che l’estasi viene avvicinata con questa definizione a creatività e stato psicotico. Tutte queste dimensioni sono un’uscita da ciò che percepiamo come noi stessi, anche se il modo di uscita (e di rientrata, come vedremo) variano fra i diversi stati. In effetti già i greci avevano affrontato questo problema, la dimensione estatica della musica. Questo già accadeva nel periodo che oggi gli storici definiscono come “mitologico”. Sappiamo che in questo periodo, diverse storie e leggende venivano usate per dare un senso alla realtà e alla vita dei nostri greci e una di queste era quella riferita ad Apollo e Dioniso. Chi erano costoro? Erano due fratelli, per lo meno da parte di padre, il quale era nientedimeno che Zeus, il padre e dominatore della vasta pletora di divinità che abitavano il Monte Olimpo. Questi due fratelli, a loro volta divinità, erano considerati come ispiratori e “patroni” della musica. La parte interessante è che loro rappresentavano due aspetti in un certo senso contrastanti della musica: Apollo era ordine, razionalità, luminosità; Dioniso era caos, irrequietezza, tenebrosità ed estasi. Già, la nostra estasi era associata con il lato dionisiaco della musica ma questo non ci dovrebbe ingannare, in quanto la questione non si ferma di certo qui.

In effetti questi due stili si possono veramente separare, in quanto tutti e due sono necessari per la produzione di opere d’arte. Questa riflessione ci porta ad un pensatore che solitamente non viene associato al cristianesimo, Friedrich Nietzsche (1844-1900). Nella sua opera “La nascita della Tragedia” egli rivela come questi due aspetti dell’apollineo e del dionisiaco siano in contraddizione solo in apparenza, poiché essi sono parte di un paradosso: entrambi sono necessari per un’opera d’arte. In effetti il rischio è la separazione dell’elemento apollineo da quello dionisiaco. Il tema dell’estasi è un tema che naturalmente ha implicazioni profonde in campo cristiano. In che modo possiamo collegare questo stato (attraverso anche la apparente dicotomia apollineo-dionisiaca) alla musica per la liturgia? Io credo che qui dobbiamo ascoltare il pensiero di sant’Agostino, che per me è il punto di snodo per la riflessione che andiamo facendo:

Cos’è che ti attrae nel mondo? Cosa vorresti lodare? Cosa amare? Da qualunque parte ti volgi con i sensi del corpo, ti si parano dinnanzi il cielo e la terra; ma qualunque cosa ami sulla terra è terreno, qualunque cosa ami nello stesso cielo è corporeo. Eppure tu queste cose, sparse ovunque nel creato, le ami e le elogi; ma come non lodare l’autore di queste cose che lodi? Effettivamente fino ad ora sei vissuta troppo ingolfata [nelle cose materiali]; frustrata dalla molteplicità dei tuoi desideri, ne porti le ferite. Sei piagata, divisa in una quantità di amori, sempre inquieta, mai serena. Raccogliti in te stessa! Se fuori di te c’è qualcosa che ti piace, cerca chi ne sia l’autore. Sulla terra non c’è nulla che, ad esempio, valga più di questa o quella cosa: dell’oro, dell’argento, degli animali, degli alberi, di tutte le cose belle. Pensa a tutta la terra! E nel cielo cosa c’è che sia piu’ meraviglioso del sole, della luna e delle stelle? Pensa all’immensità del cielo. Tutte queste creature nel loro insieme sono perfette in bontà perché Dio fece tutte le cose perfettamente buone. Ovunque risalta la bellezza dell’opera la quale a sua volta ti indirizza all’artefice” (Esposizione sul Salmo 145,5).

La bellezza del mondo creato ci rimanda ad un’altra bellezza. E questo possiamo anche sperimentarlo, come detto in precedenza, ascoltando un brano di musica che ci mette dentro una nostalgia per qualcosa che non riusciamo a fare nostro. Raccogliti in te stessa! Ecco la frase che credo possa anche connotare la funzione della musica liturgica. Essa, è estatica proprio perché ci raccoglie in noi stessi. Ma non dicevamo che estasi vuol dire andare fuori? Certo, ma anche qui è un paradosso. Estasi vuol dire andare fuori dall’essere materiale per ritrovarsi nell’essere interiore.

Nel libro decimo delle Confessioni, al capitolo sesto, il nostro santo ci apre una porta piena di luce che ci porta a vedere tutto quello che si è detto sopra in una prospettiva interessante: “Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale; non lo splendore della luce, così chiaro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio”.

Quello a cui ci richiama il grande santo è una educazione al guardare, non solo intesa come vedere con gli occhi, ma intesa anche come educazione dei sensi per indirizzarli al loro giusto fine e calibrarli alle esigenze dell’essere interiore. Dobbiamo riscoprire in noi la capacità di avere sensi puri. Se non erro Confucio ha detto che gli occhi sono la custodia della nostra pace interiore. E’ ovviamente vero. La capacità di dominare i nostri pensieri generati da quello che ci tenta nella bellezza esteriore (che non ha colpa del modo in cui la guardiamo) è centrale nel controllo delle passioni. La musica liturgica deve essere questo momento di passaggio tra l’essere esteriore, materiale e l’essere interiore. Questo passaggio avviene attraverso l’estasi, un'estasi che non è perdersi nell’indefinito caos (che era un po' il tipo estatico dei riti dionisiaci), ma un perdersi in un ordine che ancora non capiamo ma a cui ci avviciniamo giorno dopo giorno. Ecco perché non ogni musica può essere definita liturgica, essa non è semplicemente un testo con alcune note per cantare. Essa è un momento in cui l’anima deve avere la capacità di raccogliersi in se stessa, ma non nell’essere materiale ma in quello interiore.

Qualche giorno fa ascoltavo un brano di musica intesa per la liturgia con accompagnamento di strumenti tipici della musica di consumo. Mi rendevo conto come il brano, che da un punto di vista puramente sensuale poteva anche essere piacevole, non facesse altro che confermare coloro che lo eseguivano e ascoltavano nella loro materialità, non c’era la possibilità di fare il salto perché tutto era inscritto nell’orizzonte di senso quotidiano. Altri generi hanno invece la capacità di farci fare un salto di tipo estatico (attraverso l’estetico che vedremo meglio più in là). Questo salto è al di fuori di noi ma per ritornare in noi, il noi vero e immutabile.

Di passaggio vorrei fare riferimento a Paul Tillich (1886-1978) uno dei filosofi più noti in campo protestante. In un suo articolo del 1960 (Art and Ultimate Reality) egli ci offre cinque tipi di esperienza religiosa: sacramentale, mistica, profetico-contestatrice, religiosa, estatico-spirituale. Soffermiamoci su quella estatico-spirituale. Nell’esperienza religiosa di tipo estatico-spirituale, le persone e le individualità sono accettate ma la forma in un certo senso tenta di forzare i limiti, tende a qualcosa che meglio esprima la forza del messaggio che contiene, si placa in forme stabilite che però tendono ad aprirsi a qualcos’altro. Possiamo trovare l’esempio di questo in un famoso dipinto di Emil Nolde del 1909 chiamato “Pentecoste”. Anche molta musica del XX secolo può essere iscritta in questa categoria, con il suo continuo tentativo di forzare le prigioni della forma per raggiungere una maggiore perfezione espressiva. L’espressionismo, sarà l’incarnazione più riuscita di questo tipo di esperienza religiosa. Per Tillich, quest’ultimo stile è il più adeguato per l’espressione dell’esperienza religiosa anche se nell’articolo che andiamo esponendo il nostro mette in guardia dal pericolo del soggettivismo, che in questo caso è fortemente in agguato. In effetti, questo rischio è veramente presente. Fino a che punto si può forzare la forma per meglio esprimere un contenuto? E quando la forma è forzata veramente il contenuto ne viene fuori in modo migliore? Come dirò di seguito con Giovanni Paolo II, certamente l’artista si affaccia su un abisso di luce e deve cercare di ridonare agli altri questo Splendor Paternae Gloriae che per alcuni istanti gli è dato di contemplare. Il compito del musicista liturgico è compito altissimo.

Non posso dimenticare qui Divo Barsotti, uno dei miei autori prediletti a cui ho dedicato un libro che esplora le implicanze del suo pensiero per la liturgia. Per Barsotti la realtà unica e vera è Gesù, ma una realtà che a noi sembra assente, anche se è l’unica vera. Come ricongiungersi a questa vera realtà se non uscendo dalla realta’ materiale che a noi sembra vera anche se non è la verità essenziale?“Alla Messa pontificale di Sua Eminenza. – Ho visto per visione intellettuale Gesù come una luce che sorgendo si dilatasse così da assorbire in sé Firenze, il mondo, le cose, gli uomini -– tutto. Non era più alcuna cosa, né uomo – Lui solo” (24 Dicembre 1945, pag. 163 in “La fuga immobile”).

E’interessante questa “visione intellettuale” che accade proprio nella notte di Natale. Cristo incarnato è la vera e sola realtà. Attraverso la sua Incarnazione siamo partecipi della vera realtà della nostra esistenza. Egli è la vera presenza che abita in noi (Agostino...), quella presenza da cui noi fuggiamo e a cui solo dobbiamo tornare. Così ritrovare Lui significa anche ritrovare noi stessi (ecco la fuga immobile). Vorrei chiarire che questo non è disprezzo della realtà materiale, non è docetismo, che insegnava che il corpo di Gesù era solo apparenza. Questo è semplicemente ordine di grandezza, per cui la realtà suprema infinitamente supera la realtà particolare e quindi è più vera di essa in quanto vera per essenza e non semplicemente per partecipazione. La musica liturgica è contatto con la realtà essenziale, non con la realtà particolare. Quindi non può derivare pedissequamente dalla realtà particolare. La musica liturgica è un ponte sull’eternità. Giovanni Paolo II, nella sua Lettera agli Artisti, faceva presente questo concetto in maniera estremamente efficace:

Un’esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del processo creativo; quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito. Di questo il credente non si meraviglia: egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria”.

Certamente di questo attimo di illuminazione era partecipe Divo Barsotti. In quella notte di cui sopra, il padre si sarà sicuramente soffermato a contemplare la bellezza del Prefazio: “Quia per incarnati Verbi mysterium nova mentis nostrae lux tuae claritatis infulsit: ut dum visibiliter Deum cognoscimus, per hunc in invisibilium amorem rapiamur”. “perché, attraverso il mistero della Parola incarnata, una nuova luce del tuo splendore ha riempito gli occhi della nostra mente: così che quando vediamo Dio visibilmente, attraverso Lui possiamo essere rapiti all’amore delle cose invisibili”.

Questa riflessione di Barsotti, ci porterà alla riflessione sul ruolo dell’estetica nella musica liturgica, che sarà oggetto del prossimo contributo. Quale bellezza ci salverà? Domanda ancora migliore: quale Bellezza ci ha salvato? La musica per la liturgia è una espressione di questa Bellezza, se essa adempie alla sua funzione.

[Il prossimo articolo della serie le “Dieci parole per la musica liturgica” uscirà il 14 dicembre prossimo]


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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E' professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L'Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E' socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell'Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l'ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.


Caterina63
00lunedì 20 dicembre 2010 19:30
Sulle sollecitazioni di Muti dalle colonne del "Corriere della Sera"

Musica sacra specchio dei tempi


Bisogna alzare il livello artistico nella liturgia e più in generale nella società
di Marcello Filotei

Gli strimpellatori sono sempre esistiti. L'elevazione di onesti dilettanti a ruoli che non competerebbero loro, in ambito sacro e profano, rende conto dello stato dell'arte in Italia, e non solo. Riccardo Muti sul "Corriere della Sera" di lunedì 20 si chiede se il diffuso basso livello della musica liturgica sia "un segno di decadimento della società o di coloro che dovrebbero sovrintendere a questo messaggio?". La domanda, che sollecita un dibattito necessario, rischia però di far passare in secondo piano la questione principale che sembra essere:  come elevare il livello della musica liturgica, garantendo al contempo la partecipazione, in varie forme, dell'assemblea?

Retorica e banalità sono sempre in agguato quando si toccano certi argomenti. È certamente necessario diffondere il più possibile il canto gregoriano, i mottetti, le messe, gli Stabat mater e quanto di più sublime hanno prodotto i secoli che hanno preceduto quelli in cui viviamo. Ma se la Chiesa si pone l'obiettivo di riconquistare quel ruolo di mecenatismo che sembra avere perduto, non può limitarsi a rispolverare durante le funzioni antichi capolavori, che peraltro quasi nessuno conosce e apprezza, e deve invece porsi il problema di un bilanciamento tra le esigenze dei compositori di oggi e le necessità della liturgia.

E allora la questione assume il carattere drammatico che gli compete:  lo stato della musica liturgica è lo stesso di quello della musica più in generale.
Per essere chiari, nella musica liturgica, come in quella d'arte, non mancano oggi esempi di altissimo livello, e non sono mancati in passato esperimenti ottimamente riusciti come quello di commissionare a compositori contemporanei brani originali da utilizzare durante le funzioni. La diffusione di questi lavori, però, è limitatissima, perché limitatissima è la capacità di recezione, o meglio la "necessità" di alzare il livello artistico nella liturgia, e più in generale nella società. Le sale da concerto sono semivuote - non certo quando dirige Muti che, fortunatamente, è una delle felicissime eccezioni - e il pubblico vuole riascoltare in eterno quello che già conosce; molte volte ai concerti si va più per partecipare a un evento mondano che per ascoltare. In poche parole, la musica colta ha perso quasi del tutto il suo ruolo sociale.

Il naturale bisogno di elevamento spirituale, in ambito sacro e profano, è soddisfatto in gran parte, soprattutto in Italia, dalla musica cosiddetta leggera, che appare spesso di una estrema pesantezza. E allora certo potremo chiedere agli studenti di conservatorio di suonare gli organi delle chiese, come suggerisce Muti. Sarebbe sempre meglio di ascoltare dilettanti maltrattare chitarre, ma rimarrebbe aperta la questione centrale:  perché in pochi si lamentano del basso livello delle "esecuzioni". La risposta è drammaticamente semplice e fastidiosamente elitaria:  troppo pochi distinguono un pessimo chitarrista da un dignitoso organista.

Ed ecco ancora la retorica in agguato:  la crisi della musica liturgica è parte in Italia della crisi della musica tout court e l'unica soluzione di lungo periodo è innalzare il livello culturale del Paese. Sembra una strada senza uscita e invece l'uscita c'è, ma ci vuole tempo e una pianificazione non limitata alla necessità di vincere le prossime elezioni. Si cominci a fare quello che si può:  si diffonda il più possibile la musica colta e l'arte in generale. Senza falsi pudori, senza vergognarsi di dire che non tutto è uguale a tutto.


(©L'Osservatore Romano - 20-21 dicembre 2010)




Caterina63
00sabato 8 gennaio 2011 23:29
 

La Madre di Dio nella musica
  

La presenza di Maria nella musica sacra o profana è la stessa che si riscontra nelle arti figurative e nella letteratura: una presenza costante, delicata e forte a un tempo, senza la quale le composizioni musicali accuserebbero lacune incolmabili. Infatti Maria medesima è il canto di Dio, la melodia più soave e garbata che mai sia stata scritta: Dio ne è l’autore, perché l’ha creata immacolata ed ella ne è divenuta coautrice, essendo la navicella che porta il Signore (padre David Maria Turoldo).

Scopo di questi servizi è quello di evidenziare la presenza di Maria in quell’arte senza limiti di spazio e di tempo che è la musica. Risulta utile, allora, l’analisi degli spartiti musicali e altrettanto il far parlare i testi letterari, permettendo così al messaggio mariano di penetrare nel cuore e nella mente. I testi, sui quali il musicista ha tessuto la trama delicata dell’armonia, sono estremamente semplici, almeno il più delle volte, e non richiedono specifiche spiegazioni. Dalla loro lettura però emerge chiaramente l’omaggio a Maria, come riflessione di fede cosciente o come esempio di devozione popolare semplice, ma forte. Si tratta, in buona parte dei casi, di strofe ritmiche nelle quali la componente letteraria è esile o talora inesistente. Ma questo è relativo: ciò che conta, appunto, è verificare come la presenza di Maria sia universale, dal muoversi del cherubino (Giosuè Carducci) degli endecasillabi danteschi alle modeste rime dei libretti dei melodrammi.

Donatello (1386-1466), Volto della Madonna, Museo della pieve di   Tavarnelle Val di Pesa (Firenze).
Donatello (1386-1466), Volto della Madonna, Museo della pieve di Tavarnelle Val di Pesa (Firenze – foto Ferrari).

Il concetto di arte

In primo luogo è utile un tentativo di designazione del concetto di arte. Nel suo significato più ampio, arte è qualsiasi attività umana fondata su abilità manuale e accorgimenti tecnici, derivati dallo studio e dall’esperienza. Inalienabili sono però gli apporti del cuore e della mente.

In un’accezione più ristretta, per arte si intendono invece quelle attività umane che rinviano a forme creative di estetica, tra cui le cosiddette "Arti figurative" (architettura, scultura e pittura). Anche entro questi limiti, il termine Arte assume significati diversi, a seconda delle epoche e culture. Per la cultura occidentale, va ricordato che per i greci l’arte è prevalentemente identificata con la capacità di operare manualmente. Tale concezione trova poi conferma nel mondo romano, dove il termine Ars rinvia al significato di mestiere o attività con fini pratici.

Nel Medioevo si afferma la distinzione tra "Arti liberali" e "Arti applicate", che sancisce la diversità tra la ricerca del bello e l’abilità propria di chi opera in un certo settore.

Il Rinascimento supera tale distinzione, svincolando tutti i campi della produzione artistica dagli aspetti di utilità pratica e facendo dell’arte un cammino di perseguimento della perfezione, intesa come compostezza e rigore formale. Appaiono infatti i capolavori di Michelangelo, Leonardo, Leon Battista Alberti nella pittura e nella scultura, di Ariosto e di Tasso nella letteratura. È l’apogeo, insomma, di quel fecondissimo fermento noto sotto il nome di Umanesimo, che, se sorge da elementi pagani, si riscatta con fattori di luminosa e pedagogica fede cristiana.

Ignoto, Risurrezione di Cristo e discesa agli inferi, icona del   sec. XVII, Accademia ecclesiatica moscovita, Mosca.
Ignoto, Risurrezione di Cristo e discesa agli inferi, icona del sec. XVII,
Accademia ecclesiatica moscovita, Mosca (foto Lores Riva).

Appare in questo periodo la prima forma di unione tra la musica e il canto, e quindi la frase ritmica, che assume il nome di "Dramma cantato", e in seguito di "Melodramma".

La successiva reazione barocca del XVII secolo introduce, nel discorso artistico, valori ad esso non necessariamente pertinenti, come l’attenzione al messaggio religioso della Controriforma. Privilegia però la ricerca dell’effetto estetico, inaugurando così la moderna concezione dell’autonomia artistica.

Parallelamente all’assestamento dell’arte come abilità ed estetica, procede il cammino dell’arte come pedagogia religiosa, nella quale i soggetti celebrati (raffigurati, scolpiti, narrati o cantati) sono attinti dalle vicende di Cristo o di Maria. Sono il Figlio di Dio e sua Madre le fonti dalle quali, in misura maggiore che da ogni altra, attinge l’arte religiosa per diventare veicolo all’affermazione della fede. Per san Giovanni Damasceno (650-740 ca, ritornando quindi indietro di parecchi secoli), «se un pagano viene e ti chiede: mostrami la tua fede, tu portalo in chiesa e, presentando la decorazione di cui l’edificio è ornato, spiegagli la serie dei sacri quadri».

Per il suo carattere decorativo, l’immagine sacra svolge quindi una funzione catechetica, liturgica, morale. Si pensi a Cimabue, a Giotto, ai loro seguaci: soprattutto le immagini vive di Giotto, che narrano (non solo raffigurano) un messaggio straordinario di fede vissuta, nell’operosità e nella sofferenza. A ragione il grande pittore toscano è considerato l’inventore della pittura moderna.

Ignoto, Gesù Cristo crocifisso (1240-1245), Museo di Certaldo   (FI).
Ignoto, Gesù Cristo crocifisso (1240-1245), Museo di Certaldo (FI – foto Ferrari).

Allo stesso modo poesia, prosa e soprattutto musica e canto diventano velocemente i mezzi più immediati per annunciare al popolo la gloria del Figlio di Dio e della sua Madre, l’eternità del Padre, la luce dello Spirito e l’esempio dei santi. Nel primo millennio saranno le icone a perpetuare la memoria e la venerazione per la Madre di Dio: infatti, la sua figura, come quella di Cristo, si pone al centro della produzione iconografica. Ancora san Giovanni Damasceno: «Il solo nome della Theotokos, la Madre di Dio, contiene tutto il mistero dell’economia della salvezza».

Le immagini mariane non sono mai però fine a sé stesse, cioè non celebrano la gloria di Maria se non nell’unione piena con il Figlio: la catechesi orientale presenta sempre Maria, sia in immagine che attraverso il canto, in atto di reggere con immenso amore il Figlio bambino, o di adorare il Figlio nella rigidità della morte o di contemplarlo nella gloria prendendone parte. Maria, nella celebrazione orientale, non è mai sola, ma sempre accompagna il Figlio, del quale è madre, preparatrice, consolatrice. Dimensione teologica, questa, che purtroppo la catechesi occidentale ha parzialmente perduto.

Nel secondo millennio è in ispecie l’arte pittorica a celebrare Maria, che inizia la sua comparsa da sola, cioè non in compagnia del Figlio. Lo stesso accade nella poesia, nella musica e in ogni altra espressione artistica che persegua il fine di coniugare la bellezza alla fede.

Ignoto, Madonna col Bambino, icona del sec. XVI, Cattedrale di Ruvo   (Bari).
Ignoto, Madonna col Bambino, icona del sec. XVI, Cattedrale di Ruvo (Bari).

Sotto l’azione dello Spirito

La distinzione tra musica sacra e profana è stata introdotta dai musicologi ad uso interno di classificazione. È vero che esiste uno specifico genere di musica preparata esclusivamente per uso liturgico; un altro genere per uso teatrale, ma con espliciti riferimenti di fede; un altro infine per uso soltanto teatrale. Tuttavia si può affermare che qualsiasi armonia, purché contenente un messaggio di gioia e di pace, sia musica sacra in quanto diviene linguaggio universale, che parla da cuore a cuore, oltre i confini e le culture delle nazioni. Chi lavora per la pace, purché mosso da retta intenzione, si muove, sia pur inconsapevolmente, sotto l’azione dello Spirito di Dio. La pace è al di sopra di ogni divisione sociale o politica: la pace, che è carità, «è paziente, è benigna, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità» (1Cor 13,6). Il ricorrente invito dei salmi, come di tutti i libri sapienziali, a lodare Dio con gli strumenti e la voce, si traduce in vera e propria arte, che si esprime nella più umana delle sue mediazioni: il canto, accompagnato dallo strumento.

La forza straordinariamente espressiva dell’icona, dell’affresco e della tela, l’imponenza mistica della statua, la dolcezza della rima, rimangono in certo modo mute dinnanzi all’ineguagliabile immediatezza comunicativa della voce umana, che, sostenuta dall’impalcatura della parola e dall’impalpabilità del suono, dialoga con l’Onnipotente, ne celebra la grandezza, ne tesse le lodi e pure ne vitupera, con Giobbe, l’incomprensibile volontà.

Meliore di Jacopo (sec. XIII), Madonna, Museo della pieve di   Tavarnelle Val di Pesa (Firenze).
Meliore di Jacopo (sec. XIII), Madonna, Museo della pieve di Tavarnelle Val di Pesa (Firenze – foto Ferrari).

L’unione tra musica e canto scaturisce, forse la prima volta, nelle misurate note di Davide, che divennero, almeno in parte, i salmi, da allora sempre cantati o recitati, e che avevano il potere di rasserenare l’animo sconvolto di Saul. Anche nel succedersi della storia il canto viene sempre sostenuto dallo strumento: l’arpa di Davide lascia il posto a nuovi mezzi che, di epoca in epoca, l’uomo costruisce con abilità sempre più raffinata. E anche questa è arte. Talvolta è la sola voce ad esprimere la bellezza del suono: così l’antico e lunghissimo canto di ringraziamento alla Vergine, di origine orientale, storicamente riferito alla liberazione di Costantinopoli stretta da assedio: l’Akatistos. Nel culto bizantino divenne segno di vittoria e di lode alla «invincibile protettrice della città».

Il canto gregoriano annovera una grande quantità di inni mariani, prima per sole voci, poi per voci e organo, fino ad approdare dall’antica monodia (canto ad una sola voce, senza accompagnamento strumentale) alla prima polifonia (canto a più voci con strumenti). Infine, dalla "Canzone" dei secoli XIV e XV si giunge alla comparsa dell’azione scenico-musicale, che coniuga definitivamente musica e voce: il melodramma o, più comunemente, l’opera.

M.   Chagall (1887-1985), Re Davide suona la cetra, Museo nazionale, Nizza.
M. Chagall (1887-1985), Re Davide suona la cetra, Museo nazionale, Nizza (foto Tagliabue).

Il melodramma, celebrazione di umanità e di fede

Nei suoi quattro secoli di storia, l’opera celebra Maria in misura e quantità della massima frequenza e consistenza. L’opera è una forma di spettacolo che richiede musica, canto, scenografie e spesso coreografie. Costituisce la produzione artistica più complessa e laboriosa alla cui riuscita concorrono molti fattori.

Nata in Italia all’inizio del Seicento, a Firenze, dove, con le rappresentazioni di Dafne (di cui quasi nulla è rimasto) e poi di Euridice, si mettono in pratica le teorie di un gruppo di umanisti noto come la "Camerata de’ Bardi". Subito si sviluppa in altre città: a Mantova (dove nel 1607 viene allestito un capolavoro, l’Orfeo di Claudio Monteverdi), a Venezia, a Napoli, a Roma. Dall’Italia emigra in Francia e nel resto d’Europa, dove, per tre secoli, diventa lo spettacolo più amato e frequentato. L’opera barocca e settecentesca fornisce numerosi capolavori, ma il vertice è raggiunto nel secolo XIX. Col Novecento inizia il lento declino, quando la lirica esaurisce la sua specifica funzione sociale. Il discorso sulla musica operistica moderna (dalla seconda metà del XX secolo) costituisce un capitolo del tutto a sé.

Dell’immenso lavoro prodotto in oltre quattro secoli, delle migliaia e migliaia di spartiti seppelliti nei conservatori, il repertorio operistico tuttora in vita non supera i trecento titoli e le opere veramente popolari e puntualmente rappresentate rasentano il centinaio. Ogni tanto avviene il ripescaggio di uno spartito dimenticato e il coraggio di riproporre un’opera degli anni Sessanta-Ottanta dell’Ottocento: ma sempre a rischio e pericolo dell’imprenditoria teatrale. Per fortuna l’avvento della discografia ha permesso il ricupero e la conoscenza di opere non più rappresentate per oblio o per difficoltà di realizzazione. Stando ai più accreditati studi in merito, il numero complessivo delle opere conosciute sarebbe di 1.100-1.200.

Un   giovane monaco accende una candela davanti ad un'icona della Madonna,   monastero ortodosso di Kovilj (Serbia).
Un giovane monaco accende una candela davanti ad un’icona della Madonna,
monastero ortodosso di Kovilj (Serbia – foto Giuliani).

Essendo quindi molto vasto il campo di indagine, è opportuno scegliere autore per autore, sia dei maggiori che dei minori, per constatare quanto abbiano inciso, in questa particolare area culturale, la figura e il messaggio di Maria.

Anche i canti popolari mariani, che trasmettono devozione e infondono speranza, vanno presi in considerazione. Non di rado assurgono a livelli artistici di un certo interesse e consentono di introdursi nel mondo spesso trascurato del sentimento mariano popolare. Nel canto delle folle di fedeli, come nel melodramma, il pensiero di Maria emerge come rispondente a bisogni individuali e collettivi, come punto di riferimento di sincera pietà e di sicura protezione, come espressione di vera esperienza religiosa. Maria è costante motivo ispiratore dei musicisti, dalle altezze vertiginose di un Bach al Verismo del primo Novecento italiano. Essi, per quanto possa sembrare superficiale o del tutto assente il loro senso religioso, riescono però a percepire sempre e con viva sensibilità il valore sovrumano e metastorico della maternità e al tempo stesso della verginità dell’umile fanciulla di Nazaret. E sanno diffondere tale valore, eternamente fecondo, mediante note e voci. Destinatari sono i cuori e le culture di tutti i tempi, cui è dato così di avvertire un raggio, infinitesimo, del suon dell’arpe angeliche (Donizetti, Poliuto, atto III) che si celebra in eterno nel cielo.

Franco Careglio, ofm conv.


http://www.stpauls.it/madre/1006md/inserto.htm

 

Caterina63
00mercoledì 9 marzo 2011 20:10
La religiosità di Franz Liszt nel bicentenario della nascita

Al fondo della sofferenza umana



di MICHELE CAMPANELLA

Il 10 marzo a Roma, al Parco della Musica, viene presentato il volume Il mio Liszt. Considerazioni di un interprete (Milano, Bompiani, 2011, pagine 220, euro 11) scritto, in occasione del bicentenario della nascita del compositore ungherese, da uno degli esecutori più accreditati per questo repertorio. Ne anticipiamo uno stralcio.

Nella vita di Liszt la fede è una presenza indiscussa, anche da parte degli osservatori più scettici. Si dibatte di come la sua musica sia investita da essa, al di là delle ambizioni e delle intenzioni programmatiche dello stesso Liszt. Nel catalogo delle opere lisztiane la quantità di titoli "spirituali" è veramente cospicua: dalla prima Ave Maria (composta nel 1842) sino al suo ultimo anno di vita (1886), l'elenco dei pezzi dedicati alla fede cattolica, amplissimo, si confonde con i pezzi di carattere puramente meditativo, tanto da non potersi distinguere.
 
Nella sua immaginazione la presenza di eroi, così significativa sino agli anni Cinquanta, si assottiglia per lasciare spazi sempre più vasti alle figure di santi e in particolare alla venerazione della Madonna. Nella creazione di un genere spirituale che trasversalmente abbracciasse pianoforte, coro, orchestra, con le loro diverse esigenze linguistiche, Liszt compie uno sforzo meritorio nel prendere le distanze da quello stile improvvisativo del palcoscenico, dal quale proviene. La maturazione di questo nuovo linguaggio non è indenne da sbavature e incertezze, legata come anche alla conquista del mestiere di orchestratore, abbastanza tardiva rispetto alla fioritura adolescenziale del suo talento pianistico.

La religiosità lisztiana si manifesta in modi difformi, né si potrebbe chiedere diversamente a un artista così orgoglioso della sua libertà. La relazione tra poesia e religione nella sua musica non è ben definita. In molti titoli la ricerca dell'eufonia diventa la cifra stessa del suo approccio alla preghiera, una sorta di conforto morale nella dolcezza del suono: non esiste un confine preciso tra eufonia estetizzante e ascesi. Un po' come l'Adorazione dei pastori del Correggio, dove la Bellezza rischia di far velo alla Verità, rendendola sentimentale. Inoltre Liszt legge la storia della Chiesa attraverso figure eroiche di santi; alla loro mediazione e alla celebrazione dell'Ecclesia triumphans dedica molte risorse strumentali, soprattutto nelle sue messe per coro e orchestra.

Nella seppur frustrata ambizione di assumere il ruolo di riformatore della musica liturgica, Liszt ha impegnato tutto il suo talento alla ricerca di un punto di equilibrio tra tradizione antica e innovazione. Cosa che gli costò parecchi nemici.

Nonostante la presenza consistente di composizioni spirituali nel repertorio pianistico lisztiano, sarebbe paradossale valutare il volto religioso della sua personalità musicale dimenticando il Christus e la Leggenda di santa Elisabetta, raramente eseguiti in concerto. Vorrei soffermarmi sul Christus perché in questo opus magnum è manifesto il legame sia con la musica italiana a lui contemporanea, sia con la Chiesa cattolica e con la tradizione musicale che da essa discendeva.

Il Christus, senza ambire a un'omogeneità (irrealistica per le sue dimensioni monstre), pretende di essere al contempo sintesi delle esperienze artistiche dell'autore e nuova strada dello stile liturgico romano, attraverso il recupero delle "origini" palestriniane. Per questo motivo l'opera si presenta in giganteschi frammenti distanti tra loro, come avviene per i pezzi "caratteristici" di un ciclo romantico. I differenti organici orchestrali utilizzati nei vari episodi cercano la pluralità di stili e di sintassi, in un difficile equilibrio tra linguaggio della tradizione liturgica, cantabilità italiana, e orchestra moderna, correndo anche qualche rischio (Tristis est anima mea, per esempio, è un brano che rimanda un po' troppo agli stilemi del melodramma italiano). Ciò che stupisce nel Christus è la capacità di Liszt da una parte di concepire una partitura universale, che si rifà in qualche misura alla classicità delle antiche generazioni di musicisti, e dall'altra di non perdere la fortissima impronta della sua personalità artistica, proprio nel momento in cui si allontana dalla poetica romantica, in lui stesso così autorevolmente incarnata.

Il Christus esprime compiutamente in musica la certezza, la serenità, la forza che scaturiscono dalla Verità. Soltanto alla luce delle grandi opere corali andrebbero esaminati i brani pianistici che si rivolgono alla fede: Vexilla regis prodeunt, che evoca il linguaggio primitivo delle origini; In festo trasfigurationis Domini nostri Jesu Christi, quasi verso l'impronunciabile; le Leggende francescane, composte come in uno stato di estasi.

Il valore degli ultimi due brani non sta tanto nel loro straordinario impressionismo quanto nella profonda adesione alle figure dei santi: questi non sono un "pretesto" per fare musica, è la musica il linguaggio privilegiato da Liszt per venerarli. I pezzi di carattere spirituale raggiungono un apice con la stesura, molto meditata, delle Harmonies poétiques et religieuses, che segna un punto importante nello sviluppo del linguaggio lisztiano. (Posso immaginare che il solo titolo Harmonies poétiques et religieuses gli abbia creato già all'epoca antipatia diffusa, tra i cattolici perché la religione non si confonde con la poesia, tra i laici perché la poesia bagnata in acque cattoliche passa al nemico).

Raccogliendo i frutti di un'esperienza quasi trentennale, il musicista ungherese sperimenta la massima potenza oratoria cui può giungere il suono del pianoforte inteso come alternativa al canto umano. I dieci quadri del Kreis non si concentrano più sulla resa virtuosistica e le difficoltà tecniche sono sempre rigorosamente al servizio della concezione sonora della musica.

La santità della Chiesa trionfante, così appassionatamente espressa da pagine memorabili come il poema sinfonico Hunnenschlacht, la Leggenda di san Francesco di Paola che cammina sulle onde, tutte le grandi messe così come i due oratori, non è accolta con favore dalla sensibilità del XXI secolo: non commuove le folle e non convince gli stessi interpreti. I paradigmi di santità insegnati da Georges Bernanos sono meno retorici e si immergono senza enfasi nella sofferenza umana. I santi del XX secolo certo non mancano, ma poco somigliano a quelli descritti da Liszt.

La spiritualità del nostro tempo non chiede di esibirsi sui palcoscenici e si rifugia in più appropriati luoghi dell'anima. Tuttavia svilire il sentimento profondo e continuamente riaffiorante di fedeltà alla dottrina della Chiesa romana così vivo in Liszt, è la facile reazione del cinismo e dello scetticismo della nostra società secolarizzata. È quindi comprensibile la totale svalutazione di quella parte dell'opera di Liszt che era considerata dall'autore come la sua più importante, e destinata a sopravvivergli. Eppure non tutto è perduto: esistono alcuni brani della produzione spirituale di Liszt ancora corrispondenti alla nostra sensibilità ferita.

La sua Sancta Dorothea è un miracoloso esempio di veicolazione attraverso la musica: la quieta operosità claustrale, le emozioni rinchiuse nel silenzio vengono descritte in modo toccante. Il mottetto Ossa arida e la Via Crucis lasciano cadere l'oratoria trionfalistica e immergono senza pietà il coltello nella ferita. Con queste opere Liszt giunge al termine di un lungo percorso, principiato dallo stile Biedermeier delle composizioni infantili, dove i sentimenti assomigliano a una stampa di genere da attaccare alle pareti di una casa borghese, e concluso con l'espressionismo di questi brandelli di musica, capaci di andare al fondo della sofferenza umana senza pagare dazio a nessun condizionamento, di qualsiasi genere.



(©L'Osservatore Romano 10 marzo 2011)


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Caterina63
00giovedì 17 marzo 2011 12:01

La musica, quel gemito ineffabile che grida nel silenzio



di Aurelio Porfiri*

MACAO, martedì, 15 marzo 2011 (ZENIT.org).- “Perché contemplando te, tutto viene meno…”. Tempo fa, mi sono impegnato in un commento del bellissimo inno eucaristico medioevale “Adoro Te devote”. Proprio alla fine della prima strofa c’è questo bel verso che abbiamo appena citato. Da musicista e da credente peccatore, mi sono sentito estremamente sollecitato da questo verso, in quanto per me racchiude una verità profonda che va oltre probabilmente l’intenzione dell’autore dell’inno (tradizionalmente attribuito a san Tommaso d’Aquino).

Qui s’incontrano Dio, la musica, le nostre menti, il silenzio…Innanzitutto mettiamo le carte in tavola: chi mi legge non è certo a digiuno di tematiche che trattano il silenzio. In effetti se ne parla sempre molto e lo si nomina a proposito e, spesso, a sproposito. Ma, anche se so di parlare a degli “intenditori”, permettetemi lo stesso di dire due parole su come questo musicista vive il silenzio prima di addentrarmi per quanto possibile nel tema centrale dell’articolo.

Io sono un “cercatore del silenzio”. Come ho scritto da altre parti, ho sempre vissuto con angoscia i silenzi imposti nei ritiri parrocchiali, quando un prete di buona volontà ci intimava improvvisamente: “e ora ognuno per conto suo per due ore a meditare in silenzio!”. Due ore in silenzio!? E che faccio in questo tempo? Perché ho scoperto solo molto più tardi che questo atteggiamento nascondeva un errore di fondo ancora oggi molto vivo nel mondo cattolico e specificamente in quello liturgico. Il silenzio è visto e concepito come assenza di suono: stiamo zitti. E io per molti anni ho creduto che fosse proprio così. Poi la mia formazione musicale mi ha messo in contatto con quel repertorio venerabile della tradizione cattolica che viene chiamato con nome improprio, ma oramai convenzionale, “canto gregoriano”. Qui c’è stata una prima svolta verso una concezione del silenzio più matura. Grazie soprattutto allo “Jubilus”. Cosa è? Negli Alleluia del repertorio classico gregoriano (quello più autentico), sull’ultima sillaba di solito c’è un melisma a volte molto esteso, in cui sembra che la parola perda l’efficacia significante e il testo si perda nel regno dell’afasia. Ecco lo jubilus! È il dire non dicendo. Agostino dedicherà pagine memorabili proprio allo jubilus. Specialmente questa:

Cantate a Lui un cantico nuovo. Spogliatevi di quanto è in voi vecchio: avete conosciuto il cantico nuovo. Nuovo uomo, Nuovo Testamento, nuovo cantico. Il cantico nuovo non compete a uomini vecchi: lo apprendono solo gli uomini nuovi, rinnovati dalla vecchiaia per mezzo della grazia, che già appartengono al Nuovo Testamento, che è il Regno dei cieli. Ad esso sospira tutto il nostro amore, e canta il nuovo cantico. Lo canti però non con le labbra, ma con la vita. Cantategli un cantico nuovo: bene cantate a Lui. Ognuno chiede in qual modo cantare a Dio. Canta a Lui, ma canta bene. Egli non vuole che le sue orecchie siano offese. Canta bene, fratello.(…) Quando puoi offrirgli una così elegante bravura nel canto da non essere in nulla sgradito ad orecchie così perfette? Ecco che Egli quasi intona per te il canto: non cercare le parole, quasi che tu potessi dare forma a un canto per cui Dio si diletti. Canta nel giubilo. Che significa giubilare? Intendere senza poter spiegare a parole ciò che con il cuore si canta. Infatti coloro che cantano, sia mentre mietono, sia mentre vendemmiano, sia quando sono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano per le parole dei canti ad esultare di gioia, ma poi,quasi pervasi da tanta letizia da non poterla più esprimere a parole, lascian cadere le sillabe delle parole, e si abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo è un certo suono che significa che il cuore vuol dare alla luce ciò che non può essere detto. E a chi conviene questo giubilo se non al Dio ineffabile? Ineffabile è ciò che non può essere detto: e se non puoi dirlo, e neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare, in modo che il cuore si apra a una gioia senza parole, e la gioia si dilati immensamente ben al di là dei limiti delle sillabe? Bene cantate a Lui nel giubilo”. (Esposizione II sul Salmo 32, Discorso 1, 8).

Non c’è dubbio che si tratti di un testo straordinario da leggere e meditare con attenzione. Ma vorrei soprattutto concentrarmi su una delle ultime frasi, in modo così da collegarmi all’oggetto principale dell’articolo. Sant’Agostino dice che la gioia si dilata immensamente fino ad andare ben al di là del limite delle sillabe. Ma quanto godiamo nel canto possiamo goderlo nella contemplazione orante di Dio. In effetti, il canto è contemplazione orante già di per sé. Si arriva ad un certo limite in cui quello che si può dire, fare, toccare, articolare, viene meno. Ma qual è l’oggetto di questa dilatazione contemplativa? Non so che chiamarlo “silenzio”. Ma allora il silenzio non è più assenza di suono, ma pienezza di senso. Dunque non si “fa silenzio” in modo meccanico, ma il vero silenzio è una scuola di alta mistica che merita ben altra applicazione. Quando le parole perdono efficacia, quando le sillabe vengono dilatate fino alla loro massima capacità fino a disintegrarsi, quando la voce cede il passo all’afasia, ecco che una dimensione altra si impone.. Ecco quel contemplare che crea il “deficit”, la mancanza, il “vuoto pieno”. Anche le parole, seppure ispirate, ad un certo punto falliscono. Bruno Forte:

Noi accoglieremo la Parola, ed essa sarà per noi la porta e la via, se, ascoltandola, la trascenderemo verso il Silenzio della sua origine. Obbedisce veramente alla Parola chi “tradisce” la Parola, chi non si ferma alla lettera, ma ruminando la Parola, scava in essa per entrare nei sentieri del Silenzio. Perciò è doveroso non pronunciare mai la Parola, senza prima aver lungamente camminato nei sentieri del Silenzio. Questo ci dice la rivelazione cristiana: Dio è Parola, Dio è silenzio. La Parola è e resta l’unico accesso al Silenzio della divinità, l’indispensabile luogo a cui resteremo sospesi, come inchiodati alla Croce” (Confessio Theologi, Cronopio Editore, Napoli 2002, pag. 27-28).

Il fine di ogni musica e, vorrei dire, di ogni vita, è quello di ritrovarsi in questo silenzio originario e originante, questo silenzio che è mistero ma non nel senso di arcano, magico, lontano. È mistero che si svela velandosi, è itinerario della mente a Dio (per citare san Bonaventura), è perdersi per ritrovarsi. Ecco! Lo smarrimento! Perché non invocare lo smarrimento, quello smarrimento che non è vagare nel nulla ma nuotare nella pienezza, nell’oceano di Dio di cui non sappiamo distinguere le rive ma sappiamo appena intravedere l’azzurro che ci sovrasta e circonda. Non è questo smarrimento il dono d’amore della sposa nel Cantico dei Cantici? Dove è il mio amato? Dove lo avete portato? Ne spia i rumori, “è il mio diletto che bussa…”. Questo dialogo d’amore si svolge avvolgendo i protagonisti: più ci sembra di perderci, più ci ritroviamo. Non è il perdersi in se stessi, nei propri vizi, nelle proprie paure, nei propri problemi. È il perdersi nell’altro, quello smarrirsi che fa sembrare inutile dirsi “ti amo”. Già tendiamo sempre a verbalizzare tutto, pensiamo che il debole intelletto possa supplire all’immenso che ci sovrasta. Invece è proprio la musica che ci mette dentro quel gemito ineffabile che grida senza posa dalle profondità più recondite del nostro essere. La musica è memoria di eterno, è ritorno del già perso, è ritrovare per ritrovarsi. Invece di perdersi in beghe parrocchiali, i musicisti di chiesa dovrebbero sempre meditare su questo punto e sulla responsabilità di cui sono investiti. Invece ci si battaglia sulle note e si perde di vista la musica. Certo le note sono importanti, se non ci si ferma lì.

“Totum deficit…” come ci fa paura questa “mancanza”. Il silenzio ha una sua grammatica, un suo stile, un suo modo di parlare, senza di essa abbiamo solo un’assenza di suono. Ritroviamoci alla scuola del silenzio, affinché ogni nota, ogni parola, ogni suono lasci spazio al gemito ineffabile che implora da ciascuno di noi.



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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E' professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L'Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E' socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell'Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l'ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.


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Lo “splendore del suono” che eleva a Dio


 

di Aurelio Porfiri*


ROMA, martedì, 31 maggio 2011 (ZENIT.org).- Lo “splendore del suono” che è in grado di elevare a Dio le anime dei fedeli. Questo concetto espresso nella Sacrosanctum Concilium (SC) mi sembra estremamente interessante e degno di essere considerato in tutta la sua ponderosità, chiarendoci per primo cosa intendiamo per “splendore” e cosa dovremmo intendere per “elevare”. Sembra chiaro ma bisogna un po’ rifletterci sopra. Un autore del recente passato, Fiorenzo Romita, commenta in questo modo il passo della SC in questione:

Ma in che cosa consiste allora cotesto 'notevole splendore' del suono dell’organo, di cui parla la Costituzione? Non si tratta evidentemente della semplice materialità del suono dell’organo con tutte le possibilità di grande potenza fonica e di ricca tavolozza timbrica, nel più perfetto equilibrio dinamico e ritmico. Piuttosto è il clima di grandiosità e di mistero che il suono dell’organo sa creare, ciò che conferisce obbiettivamente alle stesse cerimonie della Chiesa un notevole splendore (…) 'Per visibilia ad invisibilia': come tutti gli elementi della Liturgia, così anche, in maniera eminente, il suono dell’organo che si traduce nell’essenza stessa della Liturgia, ossia nella preghiera, giacchè quel suono 'è in grado di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti'. E qui entriamo in un fenomeno ascetico e mistico, che è difficile da descrivere compiutamente con le parole umane, ma che tuttavia già i Padri della Chiesa, gli Scrittori Ecclesiastici, i SS. Pontefici, i Concili, alcuni Santi e Mistici hanno chiaramente intuito; e che i moderni studiosi di estetica della musica potrebbero sviluppare soddisfacentemente, se tenessero conto anche della teologia, della S. Scrittura, dell’agiografia ecc.” (Fiorenzo Romita, “La Musica Sacra e la Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia” Descleè e C. – Roma, pag. 117-118. Non è presente l’anno di edizione ma deve essere molto vicino a quello di promulgazione del documento conciliare, diciamo quindi intorno al 1963).

Naturalmente l’insigne studioso si esprime con linguaggio e concetti che risentono dell’estetica ancora viva nel suo periodo (ma anche oggi…). Ma alla fine è interessante quel richiamo che fa agli studiosi di varie discipline (e molte altre se ne sarebbero aggiunte negli anni, ma lui non poteva saperlo) allo studio del modo in cui l’organo aggiunge questo splendore, che per il momento lui risolveva con la categoria del “fenomeno ascetico e mistico” di non facile descrizione a parole umane e quindi “misterioso”.Lo splendore è una qualità che fa in modo che una data cosa sia ancora più visibile: se diciamo che è venuta una certa persona “in tutto il suo splendore”, intendiamo che essa era al meglio delle sue possibilità e che quindi (sottointendiamo) era al centro dell’attenzione. Lo splendore aggiunge qualcosa a qualcosa. L’organo, quindi, aggiunge qualcosa in più al rito, lo fa “risplendere”. Il problema è che spesso su questi termini si sono giocate diatribe infinite fra chi intende lo splendore in un modo e chi in un altro, come del resto per cento altre diatribe tra opposte fazioni. Un giorno mi piacerebbe dire la verità su idee e persone in cui mi sono imbattuto durante il mio impegno in questo campo, sapendo di non offendere nessuno. Ma chissà che non sia vero quanto diceva Leo Longanesi: “Quando potremo dire tutta la verità, non la ricorderemo più”.

Lo splendore, dunque. Esso è certo collegato ad un valore artistico (riferendoci all’organo in questione, ma non solo) ma è mezzo e non fine. Lo splendore non è raggiunto con la proposizione di un’opera musicale solo in quanto essa è degna e artisticamente ben fatta; ma questo splendore si ha quando quell’opera esalta la natura intrinseca di quel dato rito (lo fa “risplendere”). Quindi il valore non è prima di tutto nell’opera in sé ma nella sua funzione. Sembra appropriato ricordare quanto citato precedentemente dal Motu proprio di San Pio X del 1903, in cui si diceva che doveva risuonare in chiesa quella musica che “risente della maestà del luogo”. Potremmo dire oggi, che “risente della natura del rito”. Ci è difficile oggi quantificare visivamente termini come “maestà” o “splendore”, proprio perché si corre il pericolo di darne interpretazioni fuorvianti e non adeguate. Nei tempi in cui venivano formulate, queste parole avevano una risonanza di un certo tipo: maestà e splendore erano collegate magari al fasto delle corti reali, alla sontuosità di certi palazzi o chiese; oggi queste cose sono molto di meno prese in considerazione, a vantaggio di altre immagini che potrebbero portarci completamente al di fuori del discorso che ci proponiamo.

Partecipare alla natura del rito per renderlo più splendido significa essere consapevole della natura di “ponte” che il rito svolge tra l’umano e il soprannaturale:

Ciò che si svolge nel cosmo, nel suo corpo o nella storia, in una certa misura fuori di se stesso, l’uomo cerca di padroneggiarlo, di addomesticarlo, di sottometterlo al suo dominio. Può fare questo sia riflessivamente, sia tecnicamente, sia “ritualmente”. In quest’ultimo caso lo vediamo costruire – parallelamente all’ordine cosmico, biologico e sociale – un altro ordine, detto rituale, che dà luogo a due ordini di realtà. Ciò che è angosciante (per il fatto di essere esteriore) è così integrato nell’ordine umano e come addomesticato” (G. Sovernigo, op. cit. pag. 64-65).

Per fare

sì che questo “contatto” avvenga, il rito svolge una funzione multiforme che è di importanza fondamentale, perché canalizza le emozioni e le ordina o riordina ad un fine più alto. Il rito “controlla” il sacro. Mi piace moltissimo questa riflessione di Giorgio Bonaccorso, e vi invito ad ascoltarla e a meditarla con me:

Il sacro non ammette costrizioni, restrizioni o definizioni; non ammette regole precostituite né leggi necessarie. Esso è dalla parte del caos. Il profano, anche da questo punto di vista, è il suo opposto. Nell’esistenza quotidiana, retta dalla profanità, vi sono leggi e regole, senza le quali non si potrebbe vivere. Il profano è dalla parte del cosmo. Ma anche il rito è fatto di regole senza le quali non potrebbe esistere. Il rito è cosmo e, in questo senso, appartiene al profano. Si tratta, però, di un cosmo che, per il modo delle sue regole, ossia delle sue azioni e dei suoi simboli, rimanda alle origini precosmiche, caotiche, e, per questo, appartiene al sacro. Il rito è tra il cosmo e il caos, tra il profano e il sacro. Non è possibile all’uomo un rapporto immediato col sacro, né sarebbe, per lui, sopportabile la caduta nel caos. Il rito appare, così, come la mediazione indispensabile grazie alla quale l’uomo può aprirsi all’origine ultima del suo essere, al sacro, senza essere divorato dal vortice di quell’origine. La liturgia, rito cristiano, è la grazia concessa all’umanità di accedere a Dio senza morire per averlo visto” (Giorgio Bonaccorso, “Il rito e l’altro”, Libreria editrice Vaticana, pag. 38).

Ma parlando il rito un linguaggio simbolico, bisogna che esso sia in grado di essere decodificato dai fruitori dello stesso. Quindi per avere questo splendore, bisogna che si metta in atto una simbolizzazione che la gente possa riconoscere. Pensiamo in questo alla grande saggezza degli antichi, che intessevano spesso le loro composizioni organistiche su temi di inni o corali che la gente poteva riconoscere e che magari avrebbe cantato 5 minuti dopo. Sia nella tradizione cattolica che in quella protestante quanta musica è stata concepita in questo modo! E questo vale anche per la polifonia. Si usavano anche temi “profani” nelle messe (ma attenti a non andare qui a conclusioni affrettate…) così che la gente potesse “connettersi” facilmente con quanto stava avvenendo.

L’organo è ancora in grado di fare questo (e quindi di elevare a Dio potentemente gli animi”, per stare al linguaggio un po’ ampolloso della SC)? Io credo di sì. Basta prendere un esempio dal mondo della comunicazione, mondo in cui la gente è immersa fino al collo e che anche forma il retroterra simbolico di moltissimi di noi. Se la pubblicità vuole evocare un’atmosfera sensuale quale strumento usa? Quasi sempre il sax, forse per il suo legame con i night club e con quel mondo lì. Se, al contrario, si vuole evocare un’atmosfera “di chiesa”, quale atmosfera sonora si usa per attivare (in solo pochi secondi, non dimentichiamolo) in noi l’ambiente del religioso? O il canto gregoriano o l’organo, da qui non si scappa. Quindi anche il moderno mondo della comunicazione afferma questo legame psicologico che c’è ancora nella nostra cultura tra l’organo e la chiesa. E non dimentichiamo che il target della pubblicità non è solo quello delle persone adulte ma spesso (e qualche volta, soprattutto) quello delle persone giovani. Quindi, appurato che psicologicamente siamo ricettivi a riconoscere l’organo come strumento liturgico, vediamo come l’organo riconosce noi come soggetti liturgici. Per partecipare al fine stesso del rito (e quindi aggiungervi quel valore che chiamiamo “splendore”) l’organo deve partecipare alle caratteristiche del celebrare cristiano che un autore già citato in precedenza divide come segue: 1) Celebrare è un’azione comunitaria; 2) si vive qualcosa che ci tocca in profondità; 3) è azione espressa con gesti rituali; 4) trasforma l’esistenza (G. Sovernigo, op. cit. pag. 52). Non sono sforzi da poco...

Azione comunitaria significa che ciascuno è in comunione con gli altri e l’organista deve, con la sua arte e capacità, favorire quell’unione. Come? Sostenendo il canto unisono dell’assemblea con proprietà e forza, in modo che la gente si senta spinta a cantare con un cuore solo ed un’anima sola. Mi ha sempre enormemente colpito ascoltare, specie nelle chiese protestanti, quando l’organista attacca con il ripieno l’introduzione di qualche inno e tutta l’assemblea, come un fiume di voci (di ambrosiana memoria) si unisce alla voce dell’organo per lodare Dio. Trovo bella ed appropriata questa espressione del beato Giovanni XXIII, pronunciata il 26 settembre 1962 in occasione della benedizione del nuovo organo della Basilica di San Pietro in Vaticano:

Durante lo svolgimento dei sacri riti (l’organo) diventa l’interprete dei comuni sentimenti, dei più nobili e santi trasporti” (Discorsi Messaggi Colloqui del S.Padre Giovanni XXIII.” Poliglotta Vaticana 1963, vol. IV, pp. 548-551 in Fiorenzo Romita, op. cit. pag. 116).

L’organo si fa voce di tutti. Questo mi sembra ritualmente più splendente di cento preludi e fughe (che hanno comunque il loro posto). Favorire l’unione significa anche agire propriamente nel rito (come viene qui espressamente richiesto al terzo punto) per non disunirlo, essere pronti a coprire qualche buco rituale, magari con una piccola improvvisazione sul canto appena concluso che permetta al sacerdote di ritrovare la giusta pagina del Messale…Questa capacità è per me connaturata all’organista liturgico. Anche il nome di “organo” è in questo caso estremamente felice: dà l’idea di una parte stessa del nostro corpo, un prolungamento di noi stessi con cui agiamo ritualmente, respiriamo nella celebrazione, interagiamo in essa.

Per essere toccati in profondità bisogna che l’organista conosca il suo strumento e sappia quale linguaggio musicale è più utile parlare a quella data assemblea. Interessarsi di quale è la capacità ricettiva di una data e particolare assemblea, vuol dire poterla prendere e guidare anche verso un percorso artistico più affascinante. Ma non si può pretendere di bombardare la gente anche con musiche bellissime ma che la stessa non capisce. Ci vuole pazienza e gradualità. Bisogna darsi degli obiettivi immediatamente raggiungibili e poi darsene sempre più in alto, ma gradualmente. Un mio direttore spirituale usava un esempio calzante: se noi dovessimo vedere tutto insieme il cibo che abbiamo consumato fino ad oggi, diremmo “ma come è possibile, io non ho mai mangiato questa montagna enorme di roba!”. Eppure, giorno dopo giorno, l’abbiamo mangiata…

Per agire ritualmente bisogna essere nel rito. Essere non è inteso solo come presenza fisica, ma come respirare in uno con l’andamento del rito. Assecondarne la struttura (come detto sopra) aiuta chi suona e chi ascolta (e si partecipa anche ascoltando) ad inserirsi sempre più in pienezza e profondità nell’azione che si sta compiendo. Solo così saremo trasformati, saremo veramente quello “splendore vivente” che testimonia le meraviglie che Dio ha compiuto e sta compiendo in noi.

[Gli altri due articoli sull'organo sono stati pubblicati il 3 e il 17 maggio]




“Si abbia in grande onore l’organo a canne”



di Aurelio Porfiri*

MACAO, martedì, 3 maggio 2011 (ZENIT.org).- Cominciamo con una citazione dalla Sacrosanctum Concilium: “Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli articoli 22 § 2, 37 e 40, purchè siano adatti all’uso sacro, o vi si possono adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli” (n. 120).

Qui tocchiamo un altro dei punti dibattuti nel postconcilio tormentato dei musicisti di chiesa: il problema dell’organo. Come si vede l’indicazione data dalla Sacrosanctum Concilium non sembra lasciare spazio ad interpretazioni contrastanti: si abbia in grande onore l’organo a canne! Certo, dobbiamo stare attenti nel pensare che un’affermazione in favore di qualcosa si deve trasformare automaticamente in una affermazione contro qualche altra cosa. Insomma, sì all’organo ma attenzione anche ad altre opzioni. Qui varrebbe la pena di riflettere se, da un punto di vista meramente pratico, l’organo è ancora uno strumento utile e pratico per le attuali liturgie, o se le stesse possono essere meglio sostenute da altri tipi di strumenti. Allora, per riflettere su questo, farò un piccolo percorso attraverso questo paragrafo (soffermandomi specialmente sulla prima parte e includendo riflessioni sulla seconda), per vagliarne l’aderenza a quanto è poi effettivamente accaduto negli ultimi 40 anni.

ORGANUM TUBULATUM IN ECCLESIA LATINA MAGNO IN HONORE HABEATUR”

Tenere in grande onore un qualcosa significa dargli un posto importante tra altre cose. Quindi, l’organo sia tenuto in grande onore tra altri possibili strumenti. Ricordiamo che per alcuni secoli la Chiesa latina è andata avanti anche senza l’organo. Nondimeno, lo stesso strumento ha portato dei notevoli vantaggi alle celebrazioni liturgiche (e li vedremo dopo). E’ interessante confrontare questo passo con quanto diceva molti anni fa la Divini Cultus di Pio XI, la quale affermava che:

c’è uno strumento musicale che è proprio della Chiesa e che viene dagli antenati, l’organo, il quale, per la sua meravigliosa grandiosità e maestà, fu ritenuto degno di associarsi ai riti liturgici, sia accompagnando il canto, sia durante i silenzi del coro, secondo le prescrizioni della Chiesa, diffondendo armonie soavissime...Risuonino nei templi solo quelle armonie di organo che si rapportano alla maestà del luogo e profumano della santità dei riti; soltanto a questa condizione l’arte dei costruttori di organi e dei musicisti che useranno tali strumenti rivivrà quale efficace mezzo della sacra liturgia”.

In quel tempo, l’uso di altri strumenti diversi dall’organo (per il quale non c’è allora neanche l’esigenza di dover aggiungere “a canne”) non era visto favorevolmente, probabilmente per reazione all’uso che si era fatto di questi strumenti nell’esecrata musica chiesastica dell’Ottocento. Pio XI, infatti, condanna in un altro paragrafo “lo smodato uso degli strumenti”. Ora, questa condanna trova ragione nel rapporto vivo che si sentiva allora tra alcuni strumenti e la musica di derivazione operistica. Quindi, è una condanna di tipo temporale e storico ma non ha valore assoluto. Mi sembra di vedere un'apertura diversa nella SC, quando si chiede giustamente per l’organo a canne un posto d’onore tra altri strumenti, ma senza escluderli. Certo, molti potranno fare qui un’opportuna considerazione sul rapporto che c’è tra alcuni strumenti e la contemporaneità culturale e sociale che viviamo. Per esempio la chitarra.

Nessuno può negare che sia uno strumento fortemente condizionato dall’uso che se ne fa in certa cultura giovanile. Ciò non toglie che non la si può condannare in sé, come strumento. Anzi, essa è uno strumento di grande tradizione e in sé nobilissimo e che si presterebbe ad un uso interessante nella liturgia, soprattutto qualora non fosse “grattato” malamente, come spesso accade. E’ interessante quanto dice un noto esperto in materia, oltretutto già organista della Basilica di San Pietro fino ad alcuni anni fa:

La porta della Chiesa è aperta a tutti gli strumenti musicali: qualunque strumento per sé è idoneo al culto. Esistono attualmente strumenti che per il loro particolare uso extraliturgico possono provocare associazioni psicologiche conturbanti (strumenti contaminati dall’uso profano e libertino). Ma è sempre possibile una redenzione degli stessi strumenti, attraverso il graduale mutamento del gusto e del costume. Lo stesso organo a canne, oggi tanto lodato come strumento liturgico, è un illustre 'convertito'. Il giudizio, circa la possibilità di ammettere o meno in Chiesa nuovi strumenti musicali, non spetta ai singoli Vescovi, ma alla Conferenza Episcopale Nazionale” (Emidio Papinutti, “La musica sacra dal Concilio Vaticano II° al nuovo 'Ordo Missae'”, Edizioni Francescane Roma 1971, pag. 199).

Io credo che dovremmo spostare le nostre considerazioni, più che sul “cosa”, sul “come” si affrontano certi strumenti nella liturgia. Suonarli tanto per dire di aver suonato una chitarra, un pianoforte o qualsiasi altro strumento, non significa nulla. Quando sento anche parroci difendere un torturatore di chitarra dicendo che tanto Dio è contento uguale (sono molto fortunato, ho conosciuto molti parroci che sanno sempre quando Dio è contento e quando no…) mi verrebbe da reagire male, ma poi mi domando: ma questo parroco ha avuto la formazione liturgica adeguata, che gli permette di discernere il bianco dal nero? E, mutatis mutandis, le nostre considerazioni sopra esposte possono benissimo adattarsi proprio al nostro organo.

Un’organista che magari mi suona splendidamente un preludio e fuga ma che agisce nella liturgia come un pesce fuor d’acqua ai miei occhi non è molto di più (liturgicamente) di un “grattatore” di chitarra (anche se ammetto che alle mie orecchie è molto più gradito l’organista, ma questa è una considerazione di tipo “estetico”, non liturgico). Non siamo ipocriti: un organista nella liturgia non è lì per fare un concerto ma per esercitare un ministero musicale importante, per cui deve essere preparato. Per esperienza personale so che sono molto pochi coloro che escono diplomati dal conservatorio e hanno poi le carte in regola per dirsi organisti liturgici. Pensiamo bene che c’è una fondamentale differenza tra un organista concertista e un organista liturgico, differenza anche di capacità diverse che vengono richieste (anche se alcune, ovviamente, possono coincidere). Si può non avere una tecnica sopraffina ma essere perfettamente in grado di “essere” nella celebrazione; si può non saper suonare brani di alto livello ma essere in grado di sostenere il canto dell’assemblea. Io se voglio un concerto vado a sentire il concertista, se voglio pregare desidero un organista liturgico. Se le due cose coincidono, meglio così. Ma non è indispensabile. E questo naturalmente non toglie che chi non ha potuto studiare la tecnica organistica in modo approfondito, dovrebbe almeno avere il desiderio di potersi migliorare per quello che è possibile. Ho domandato un opinione tempo fa sull’argomento degli organisti tecnicamente non agguerriti a padre Theo Flury, OSB, organista del monastero svizzero di Einsiedeln e docente al Pontificio Istituto di Musica Sacra:

Innanzitutto dobbiamo essere molto grati per il loro servizio! Spesso c’è da notare tanta buona volontà, un impegno lodevole. Questo peró non dispensa dalla necessità di uno stimolo costante a imparare e a voler andare oltre i limiti di un saper fare che si è acquisito. Vedo qui una seria responsabilità da parte delle diocesi nel trovare e offrire luoghi e momenti di continua formazione per organisti liturgici di questo tipo. Come succede spesso in altri campi, anche qui un ostacolo puó essere il denaro. Peró anche in questo settore se non si vuole investire c’è poco da sperare. Per ottenere buoni risultati ci vuole sempre un adeguato sacrificio” (In “La Vita in Cristo e nella Chiesa”, Gennaio 2004).

Si torna sempre lì, senza un impegno concreto della Chiesa, anche economico, non c’è molto margine di azione.






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E  venne il giorno del gregoriano in Tv

di Antonio Giuliano
12-03-2011

 


È bene precisarlo subito: questa intervista in forma scritta non rende onore alle doti canore di Giovanni Vianini, 71 anni, milanese di origini cremonese, storico direttore e fondatore del coro Schola Gregoriana Mediolanensis che quest’anno festeggia i 30 anni di attività. Per uno come lui cresciuto a pane e gregoriano, cantore nella Cappella Musicale del Duomo di Milano già a 8 anni, è difficile rispondere anche a telefono senza sciorinare quei vocalizzi austeri e sublimi. E da vero innamorato del canto tradizionale della Chiesa, non può non accogliere con melodioso gaudio la notizia che dal 12 marzo il gregoriano sbarca stabilmente in televisione grazie a “La domenica con Benedetto XVI”, in onda su Tv 2000 ogni sabato alle 17.30. Mezz’ora di trasmissione in cui i “Cantori Gregoriani” diretti dal maestro Fulvio Rampi eseguiranno i canti della liturgia domenicale: accompagneranno il meglio della predicazione del Papa (omelie, Angelus, discorsi) illustrata anche dallo storico dell’arte Timothy Verdon. «È davvero una grande iniziativa – afferma Vianini – . Qualche anno fa Del Noce aveva proposto di portare il gregoriano nei palinsesti Rai, ma poi non ne fece più nulla. Fulvio Rampi di Cremona è bravissimo, è stato il mio maestro. Lui ha un metodo più “filologico”, io sono un po’ più popolare».

La sua fama, maestro, è legata alla Schola Gregoriana Mediolanensis che ha fondato nel lontano 1981…
Sì, avvertivo l’esigenza di dare una svolta a certe liturgie: al posto della musica sacra girano ancora oggi insulse “canzonette”. Così nella parrocchia di San Marco a Milano ho cominciato a proporre un corso di gregoriano, il canto principe della tradizione liturgica. In 30 anni hanno aderito oltre 1500 persone. La capienza massima per ogni lezione è di 40 persone, ma spesso ne sono arrivate anche 100 a serata. Il corso è del tutto gratuito e libero, nel senso che puoi seguire le lezioni che vuoi per cui ogni volta ci sono persone diverse.

Ma non occorre una certa continuità?
Basta un breve apprendimento, poi ovviamente dipende dalle capacità delle persone. Quando faccio le prove, montiamo i pezzi come un puzzle: io ti canto un pezzettino e tu lo ricanti. Fino a quando tu non l’hai acquisito non vado avanti. Nel giro di una serata di due ore di prove torni a casa con due pezzi nuovi.

Chi sono i partecipanti?
Abbiamo tanti giovani, in un gruppo in cui l'età media è 40-50 anni. Molti sono incuriositi dalla qualità del canto. Oltre ovviamente a quelli che vengono per fede perché hanno inteso il gregoriano per quel che è: una preghiera cantata. E difatti facciamo un servizio liturgico: cantiamo la messa due volte al mese nella chiesa di San Marco a Milano (ogni terza domenica del mese alle 18.30) e all’abbazia di Chiaravalle milanese (ogni seconda domenica del mese alle 18), insieme con i monaci. Mettiamo anche noi la “cocolla” per rispetto alla liturgia: l’abito fa il monaco in questo caso… Coloro che frequentano il corso (ogni mercoledì dalle 21 alle 23 nella chiesa di San Marco) fanno le professioni più svariate, dal medico all’artigiano. L’unico requisito è quello di essere intonati…

Le pare poco?
Ma non è affatto un problema. Non esistono persone stonate per natura, ma solo persone non abituate a cantare. Purtroppo in Italia le scuole non educano al canto. A chi è “stonato” chiedo di restare inizialmente ad ascoltare. Poi piano piano entrerà nel gruppo. È come se dovesse entrare in un fiume in piena: siamo in 40-50 a cantare la stessa melodia, all’inizio ascolta poi si ritroverà dentro con gli altri. Certo con qualcuno ci vuole più pazienza...Ma non faccio prove singolarmente: evito di mettere in imbarazzo la gente…

Il fatto che si canti in latino non è una difficoltà?
No, anzi è un piacere. È la nostra lingua madre. Poi lavoriamo sempre con il testo italiano a fronte, quindi si capisce che cosa stiamo cantando. Il gregoriano ha una sua metrica che è inscindibile dal latino. Accamparlo come difficoltà è solo un alibi…

Lei vorrebbe il gregoriano in tutte le liturgie?
Ci sono tante apprezzabili composizioni sacre moderne che rispettano la liturgia. Però mi è capitato più volte di entrare nelle chiese di Milano e assistere a messe accompagnate da sassofono, batteria, chitarra elettrica… La gente si guardava tra sé, voleva partecipare e non riusciva. Io dico soltanto che il gregoriano favorisce il raccoglimento.

Però anche i Salmi incitano a lodare il Signore con cembali, timpani…
Questa è una domanda cattiva… Io non ho nulla contro la chitarra che trovo sia uno strumento bellissimo. Ma c’è un motivo se la Chiesa preferisce il suono dell’organo: è lo strumento più adatto a sostenere il canto liturgico. È vero poi che in altri Paesi prevalgono tradizioni diverse. Però il gregoriano può addirittura far a meno anche dell’organo quando si è in pochi. Se vuoi far cantare l’assemblea cosa c’è di meglio di Kyriii e e ee… (e intona il celebre Kyrie della Missa De Angelis, ndr). Alla fine puoi ben dire “ho pregato”.

È indubbio che la tradizione del gregoriano si è persa nelle nostre parrocchie. Come è stato possibile?
Si è ecceduto con le “libertà” liturgiche promosse dal Concilio. Senza voler polemizzare c’è la responsabilità del clero in tante odierne esagerazioni. Non a caso già Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI sta combattendo la “sciatteria” liturgica. Io non riesco a capire perché i ragazzi possono cantare i canti Gen e non
Adoro te devote di Tommaso d’Aquino (e la linea telefonica diventa ancora un microfono, ndr…) I canti moderni spesso hanno testi letterari molto belli, ma purtroppo la musica ricalca la balera... Mentre i canti gregoriani, mi creda, ti portano in Paradiso. Per questo oggi molti sacerdoti si stanno ricredendo. Oltretutto possono essere anche strumento di evangelizzazione…

In che senso?
Anche nel mio coro ho tanti non credenti. Sono certo attirati dalla melodia, ma poi si soffermano sui testi che sono tutti legati alle Scritture. Quando tu canti
Beati mundo corde, il canto delle Beatitudini, è un messaggio che risponde alle esigenze di ogni uomo di diverso credo e visione filosofica. “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio… Beati gli afflitti… Beati i perseguitati...”. Questa è una poesia universale.

Però c’è un ritorno d’interesse per il gregoriano anche nel mercato discografico…
Sì magari i compositori moderni che lavorano su nuove melodie gregoriane non sono molto conosciuti, anche perché lo fanno per servizio liturgico, non per diventare delle star. Hanno avuto però grande successo i monaci dell’abbazia di Santo Domingo di Silos in Spagna. Son riusciti a scalare le classifiche anche perché hanno fatto molta pubblicità. Aiutano certo a diffondere il gregoriano, ma noi lo dobbiamo trovare anche domenica a messa: non può scomparire questo canto che nella Chiesa c’è sempre stato. Nel Medioevo ha raggiunto la sua massima fortuna, ha sempre scandito le giornate dei monaci. Oggi ben venga la pubblicità: io stesso uso tutti gli strumenti digitali, come i social network, per far conoscere il gregoriano. Solo su “you tube” ho pubblicato 2420 video che servono anche per studiare: mi hanno scritto perfino molti monaci per ringraziarmi.

In rete (e non solo) spopola anche il gregoriano rivisto in chiave rock, perfino nei brani più famosi dei Metallica…
Non mi meraviglio. Il gregoriano ha influenzato il rock. Prenda anche un brano come
Ubi caritas est vera di Paolino di Aquileia si presta benissimo a delle variazioni in stile rock. Ma la stessa Yesterday dei Beatles riprende antiche melodie gregoriane. Pensi anche al brano “Fratello sole sorella luna”: è il Kyrie della Missa De Angelis sviluppato a mo’ di bella canzonetta. Non vorrei essere irrispettoso: io stimo tutti i generi musicali quando c’è un lavoro serio dietro. Tutti i generi, anche il rock. Non voglio passare per invasato: credo soltanto che il gregoriano risponda anche a un bisogno profondo della nostra società…

Quale?
C’è una forte ricerca di spiritualità. La cronaca ci mostra un decadimento morale in tutti i campi. C’è una richiesta di silenzio e di fede e il gregoriano viene incontro a questo bisogno in modo potente. Noi adesso stiamo usando delle parole, ma lei provi a sentir e a cantare il gregoriano…

Faccia pure lei, è già un’intervista cantata…
C’è una bellezza del gregoriano che le parole non possono esprimere. Io sono un uomo felice e fiero perché vedo che la gente cantando percepisce questa sensazione d’incanto. Sono cresciuto in Chiesa, sono stato organista per 20 anni al Duomo e oggi mi dedico a tempo pieno alla divulgazione del canto gregoriano e ambrosiano (un canto monodico, a una voce come il gregoriano, ma con melodie diverse). Studio dalle 4 alle 6 ore al giorno. Non posso dire di avere un pezzo preferito, ma certo sono estasiato dall’Adoro te devote di san Tommaso d’Aquino e soprattutto
Jesu dulcis memoria di san Bernardo. Però davvero ogni brano gregoriano ha un suo fascino "travolgente", mi permetta di definirlo così. Vede, a volte faccio fatica a non farmi scorgere, ma mi commuovo davvero.



LA STORIA DEL CANTO GREGORIANO


Caterina63
00sabato 28 maggio 2011 12:55

Il Papa sull'esecuzione del Salmo 13 di Liszt: Il grande musicista ungherese l’ha più pregato che composto, o meglio l’ha pregato prima di comporlo

Vedi anche:

Dio non ci abbandona mai: così il Papa al concerto in Vaticano offerto dal presidente dell'Ungheria (Radio Vaticana)

L'Ungheria offre un concerto a Papa Benedetto (Rome Reports)

Il Papa al concerto offerto dal Presidente ungherese: "Dio non abbandona" (Sir)

CONCERTO IN ONORE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI OFFERTO DAL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI UNGHERIA, 27.05.2011

Questo pomeriggio alle ore 18, nell’Aula Paolo VI in Vaticano, ha luogo un Concerto offerto dal Presidente della Repubblica di Ungheria, S.E. il Sig. Pál Schmitt, al Santo Padre Benedetto XVI, in occasione della Presidenza ungherese del Consiglio dell’Unione Europea e del 200° anniversario della nascita di Ferenc Liszt.
L’Orchestra Filarmonica Nazionale e il Gruppo Corale Nazionale della Repubblica d’Ungheria, diretti dal Maestro Zoltán Kocsis, eseguono musiche di Ferenc Liszt.
Prima del Concerto, il Presidente della Repubblica d’Ungheria rivolge un indirizzo di omaggio al Santo Padre.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti al termine dell’esecuzione musicale:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signor Presidente della Repubblica,
Signori Cardinali,
Onorevoli Ministri e Autorità,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,

Gentili Signori e Signore!


Tisztelettel üdvözlöm a Magyar Köztársaság elnökét, Schmitt Pál urat, kedves feleségét és a magyar delegációt. Megköszönöm hozzám intézett szavait és azt, hogy rendkívüli szívélyességgel felajánlotta számunkra ezt a csodálatos hangversenyt, az Európai Unió Tanácsának magyar elnöksége és a valóban európai művész, Liszt Ferenc születésének kétszázadik évfordulója alkalmából.

[Desidero rivolgere un deferente saluto al Presidente della Repubblica di Ungheria, Sig. Pál Schmitt, alla gentile consorte e alla Delegazione ungherese. Lo ringrazio per le parole che mi ha rivolto e per averci offerto, con squisita cortesia, questo splendido concerto, in occasione della Presidenza ungherese del Consiglio dell’Unione Europea e del bicentenario della nascita di Ferenc Liszt, artista veramente europeo.]

Saluto le altre Autorità, i Signori Ambasciatori, le varie Personalità, e voi tutti. Un grazie speciale al Direttore, al Tenore, all’Orchestra Filarmonica Nazionale e al Gruppo Corale Nazionale Ungheresi per l’esecuzione di altissimo livello, e agli organizzatori.

Liszt, uno dei maggiori pianisti di tutti i tempi, è stato un compositore geniale non solo di musiche per pianoforte, ma anche di musica sinfonica e sacra, come abbiamo ascoltato. Vorrei proporvi un pensiero che mi ha suscitato l’ascolto dei primi tre brani: il Festmarsch zur Goethejubiläumsfeier, la Vallée d’Obermann e l’Ave Maria-Die Glocken von Rom, il primo nella rielaborazione e gli altri due nella trascrizione dal pianoforte del Maestro Kotschisch secondo il più genuino spirito lisztiano. In queste tre composizioni sono messi in evidenza tutti i colori dell’orchestra; perciò, abbiamo potuto sentire con chiarezza la voce particolare delle varie sezioni che formano una compagine orchestrale: gli archi, i fiati, i legni, gli ottoni, le percussioni. Timbri molto caratteristici e diversi tra loro. Eppure non abbiamo sentito un ammasso di suoni slegati tra loro: tutti questi colori orchestrali hanno espresso armoniosamente un unico progetto musicale. E per questo ci hanno donato la bellezza e la gioia dell’ascolto, hanno suscitato in noi una vasta gamma di sentimenti: dalla gioia e festosità della marcia, alla pensosità del secondo pezzo con una ricorrente e struggente melodia, fino all’atteggiamento orante a cui ci ha invitato l’accorata Ave Maria.

Una parola anche sul bellissimo Salmo XIII. Risale agli anni in cui Liszt soggiornò a Tivoli e a Roma; è il periodo in cui il compositore vive in modo intenso la sua fede tanto da produrre quasi esclusivamente musica sacra; ricordiamo che ricevette gli ordini minori. Il brano che abbiamo ascoltato ci ha dato l’idea della qualità e della profondità di questa fede. E’ un Salmo in cui l’orante si trova in difficoltà, il nemico lo circonda, lo assedia, e Dio sembra assente, sembra averlo dimenticato.

E la preghiera si fa angosciosa davanti a questa situazione di abbandono: "Fino a quando, Signore?", ripete per quattro volte il Salmista. "Herr, wie lange?", ripetono in modo quasi martellante il tenore e il coro nel brano ascoltato: è il grido dell’uomo e dell’umanità, che sente il peso del male che c’è nel mondo; e la musica di Liszt ci ha trasmesso questo senso di peso, di angoscia. Ma Dio non abbandona. Il Salmista lo sa e anche Liszt, da uomo di fede, lo sa.

Dall’angoscia nasce una supplica piena di fiducia che sfocia nella gioia: "Esulterà il mio cuore nella tua salvezza … canterò al Signore, che mi ha beneficato". E qui la musica di Liszt si trasforma: tenore, coro e orchestra innalzano un inno di pieno affidamento a Dio, che mai tradisce, mai si dimentica, mai ci lascia soli. Liszt, a proposito della sua Missa Solemnis, scriveva: "Posso veramente dire che ho più pregato questa Messa di quanto l’abbia composta".

Penso che lo stesso possiamo dire di questo Salmo: il grande musicista ungherese l’ha più pregato che composto, o meglio l’ha pregato prima di comporlo.

Ismételten kifejezem hálámat a köztársasági elnök úrnak, a karmester úrnak, a tenor-énekesnek, a Filharmonikus Zenekarnak és Énekkarnak, minden szervezőnek, hogy megajándékoztak bennünket ezzel a szép estével, amelyben szívünk arra kapott meghívást, hogy Istenhez emelkedjék.

[Rinnovo la mia gratitudine al Signor Presidente della Repubblica, al Direttore, al Tenore, all’Orchestra Filarmonica e al Coro, a tutti gli organizzatori, per averci donato questo momento in cui il nostro cuore è stato invitato ad innalzarsi all’altezza di Dio.]

Il Signore continui a benedire la vostra vita. Grazie a tutti.

Caterina63
00venerdì 23 dicembre 2011 19:31
Fondata da Sisto V nel 1585 Santa Cecilia è una delle istituzioni musicali più antiche del mondo

L'Accademia del Papa "tosto"


Alla vigilia delle elezioni per il presidente che gestirà il prossimo quadriennio

 

di MARCELLO FILOTEI

"Fra ttutti quelli c'hanno avuto er posto / de vicarj de Ddio, nun z'è mmai visto / un Papa rugantino, un Papa tosto / un Papa matto, uguale a Ppapa Sisto". E "tosto" è stato veramente Papa Sisto, per il quale il cattolicissimo Giuseppe Gioachino Belli nel suo sonetto intende sempre e solo Sisto V. Uomo che seppe prendere decisioni importanti che ancora oggi danno frutti.

Quando promulgando nel 1585 la Ratione congruit fondò la Congregazione dei Musici, Sisto non poteva sapere che sarebbe diventata la più importante istituzione sinfonica italiana, però per sicurezza la mise sotto la protezione di san Gregorio Magno, che diede il nome al canto gregoriano, e di santa Cecilia, patrona della musica.

Ora più di allora, l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia è un punto di riferimento assoluto per la promozione e per lo sviluppo della musica d'arte. Per questo gli accademici, che tra pochi giorni voteranno per l'elezione del presidente, stanno per consegnarci un risultato che influenzerà la vita culturale italiana per il prossimo quadriennio. L'attuale presidente, Bruno Cagli, è ritenuto vicino alla riconferma in un ruolo per il quale è stato rieletto nel 2003, dopo l'intermezzo di Berio, e riconfermato a larga maggioranza nelle elezioni del 2007.

"Personalmente non sono mai intervenuto in corso di votazione con nessuna dichiarazione", ci ha detto sottolineando che "sono gli accademici che eleggono il presidente e ciascuno di loro è un potenziale candidato". "D'altra parte - ha aggiunto - il lavoro che ho svolto è sotto gli occhi di tutti, così come il numero elevato dei concerti, il successo delle tournée, e l'elevato prestigio dei complessi artistici posti sotto la direzione del maestro Pappano e, per il coro, del maestro Visco". "Posso solo dire - ha aggiunto - che, se sarò confermato, non solo continuerò a difendere l'autonomia degli accademici, e, insieme con Pappano, la ricchezza programmatica che ci ha contraddistinto, ma lo farò naturalmente con i contributi che ci vengono dal corpo accademico stesso". "Questa è la strada che, se rieletto, intendo continuare a battere - ha concluso - soprattutto tenendo conto che la partecipazione del pubblico e dei privati ha raggiunto livelli da record, facendo, tra l'altro del Parco della Musica una realtà unica a livello non solo nazionale".

Da parte sua Giorgio Battistelli, compositore sul quale converge una parte degli accademici, sottolinea di non essere l'unica possibile alternativa. "I voti che ho ricevuto - rileva - sono arrivati spontaneamente da chi sente la necessità di un cambiamento". Ma l'importante è chiarire quali sarebbero le differenze. "Tenuto conto della contingenza economico-politica che viviamo - dice Battistelli - credo sia importante ridimensionare le attività collaterali dell'Accademia, quelle che non riguardano direttamente l'orchestra e il coro. In questo modo si potrebbero far convergere maggiori risorse sulle masse artistiche".

"Si tratta - continua - di creare un vero e proprio "progetto Santa Cecilia". Mi piace pensare l'Accademia del futuro come un centro di sviluppo di idee e produzione di eventi che possono essere anche esportati". "Anche le tournée - secondo il compositore - potrebbero essere molto di più che il consueto concerto dell'orchestra e fornire l'occasione di mettere in evidenza tutte le eccellenze dell'istituzione, a partire dai gruppi cameristici e dai solisti che sono in organico". Battistelli, insomma, sente l'esigenza di definire "un pensiero forte che caratterizzi la direzione artistica, all'interno del quale occorrerebbe dare particolare rilievo e attenzione alla musica italiana, soprattutto potenziando l'autonomia e il ruolo degli accademici, che della tradizione nazionale rappresentano l'eccellenza dal punto di vista musicale e musicologico".

Non si tratta di essere nazionalisti o provinciali, "ma di garantire una sensibilità verso il proprio territorio, conoscendo al tempo stesso quello che accade nel mondo". E proprio per partire dal territorio il compositore vorrebbe "progettare assieme al Teatro dell'Opera di Roma iniziative che vedano le orchestre lavorare assieme".

Due visioni non del tutto convergenti, dunque, ma chiunque sia il presidente in bocca al lupo alla musica e all'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Del resto è improbabile che tra cinquecento anni qualcuno potrà celebrare qualcosa di fondato oggi e che abbia avuto lo stesso successo. I tempi sono cambiati, Sisto V è morto e, come insegna Belli "nun ce pò èsse tanto presto / un antro Papa che jje pijji er gusto / de méttese pe nnome Sisto Sesto".



(©L'Osservatore Romano 24 dicembre 2011)


Caterina63
00mercoledì 4 gennaio 2012 00:13

Sullo stato della musica e del canto liturgico: le domande imbarazzanti di Mons. Miserachs Grau pretendono risposte pratiche

La conferenza che qui sotto riporto nella parte più interessante, è di Mons. Valentino Miserachs Grau, preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra, e viene a chiudere i festeggiamenti centenari dell'istituto musicale voluto da San Pio X. Questo discorso è stato tenuto all'assemblea internazionale di Una Voce, lo scorso novembre. E' un'ennesima, forte denuncia dello stato di abbandono, anche da parte di chi dovrebbe tutelarli, del canto e della musica liturgica. Mons. Miserachs Grau si fa alcune importanti domande, che pretendono una risposta: Perché nonostante i documenti siano chiari, la prassi musicale liturgica va nel senso opposto? Come mai norme pratiche vincolanti non ci sono e ognuno fa come gli pare? Come è possibile che si continui a ripetere "uno stizzoso rifiuto nei confronti della vera musica sacra, di ieri e di oggi, sia pur semplice ma scritta a regola d’arte" a vantaggio di forme sciatte ed esecuzioni inaccettabili? 
Speriamo che qualcuno si prenda la briga di rispondere a queste domande. La liturgia e la musica sacra, dopotutto, non sono scienze speculative, ma molto pratiche: se la liturgia con la sua normativa rimane nei messali e non è messa in pratica, se la musica rimane negli spartiti e non la si fa ascoltare, a poco serve e non nutre certo la fede di nessuno.

IMPLICAZIONI DI UN CENTENARIO:
IL PONTIFICIO ISTITUTO DI MUSICA SACRA (1911-2011)

Il Pontificio Istituto di Musica Sacra è stato fondato da San Pio X nel 1911; il breve pontificio Expleverunt di approvazione e lode della Scuola reca la data del 14 novembre 1911, ma le attività avevano già avuto inizio il 5 gennaio dello stesso anno con la celebrazione di una Santa Messa di impetrazione di grazie. I corsi veri e propri iniziarono il 9 gennaio. L’intero anno accademico 2010-2011 è stato dedicato alla commemorazione del centenario di fondazione di quella che si chiamò inizialmente “Scuola Superiore di Musica Sacra”, ma che sotto il pontificato di Pio XI fu annoverata tra gli atenei e le università ecclesiastiche romane, prendendo definitivamente il nome di “Pontificio Istituto di Musica Sacra.
....
Vorrei sottolineare che il Santo Padre Benedetto XVI si è fatto presente alle feste centenarie tramite una sua lettera indirizzata al nostro Gran Cancelliere, Card. Zenon Grocholewski, in cui ha ricordato le benemerenze dell’Istituto in cento anni di storia, e ci ha ricordato come sia importante anche per il futuro continuare ad operare nel solco della grande tradizione, condizione indispensabile per un aggiornamento che abbia tutte le garanzie che la Chiesa ha sempre richiesto come connotati essenziali della musica sacra liturgica: santità, bontà di forme (arte vera) e universalità, nel senso che la musica liturgica sia a tutti proponibile, senza chiudersi in forme astruse o elitarie, e tanto meno ripiegare su imitazioni di banali prodotti di consumo.

Questo è un tasto dolente, il dilagare cioè nelle nostre chiese di un’ondata di pseudo musiche liturgiche veramente improponibili, sia nel testo che nella musica. Eppure la volontà della Chiesa appare chiaramente dalle parole del Santo Padre or ora ricordate. Con simili espressioni si era a noi rivolto nel discorso che tenne in occasione della visita al PIMS del 13 ottobre 2007. È ancora fresco nella nostra memoria il chirografo sulla musica sacra che il Beato Papa Giovanni Paolo II scrisse in data 22 novembre 2003 in commemorazione del centenario del “motu proprio” Inter sollicitudines di San Pio X (22 novembre 1903), assumendo “in totum” i principi più importanti di questo capitale documento, senza dimenticare quanto il Concilio Vaticano II aveva chiaramente espresso nel capitolo VI della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Sacra Liturgia, seguendo praticamente le orme di quel Santo Pontefice che volle che il suo “motu proprio” avesse il valore di “codice giuridico della musica sacra”. Viene da domandarsi: se la volontà della Chiesa viene dichiarata a chiare lettere anche ai tempi nostri, come mai la prassi musicale nelle nostre chiese si discosta in modo così evidente dalla sana dottrina?

Alla radice ci sarebbero vari problemi da considerare. Per esempio, il problema del repertorio. Abbiamo accennato ad una doppia dimensione: il pericolo cioè di chiudersi in una cerchia che vorrebbe sperimentare nella liturgia nuove composizioni ritenute di elevata qualità. Occorre dire che l’evoluzione del linguaggio musicale verso incerti orizzonti fa sì che il divario fra la musica “seria” e la sensibilità del popolo diventi via via più profondo. La musica liturgica deve essere “universale”, cioè proponibile a ogni tipo di “pubblico”. È difficile che oggi si scriva buona musica che rechi questo connotato essenziale. Non discuto sul valore di certe produzioni, anche sacre, contemporanee, ma sull’opportunità del loro inserimento nella liturgia; non si può trasformare “l’oratorio” in “laboratorio” di sperimentazioni.

Il secondo aspetto del problema deriva da una falsa interpretazione della dottrina conciliare relativa alla musica sacra. Sta di fatto che il “rinnovamento” liturgico postconciliare, compresa la mancanza quasi totale di una normativa vincolante ad alto livello, ha consentito un progressivo degrado della musica liturgica, fino a diventare per lo più musica di consumo, sui parametri della più sciatta musica leggera. Questa triste prassi determina talvolta atteggiamenti di uno stizzoso rifiuto nei confronti della vera musica sacra, di ieri e di oggi, sia pur semplice ma scritta a regola d’arte. Solo un ravvedimento e una decisa volontà “riformatrice”, che sembra purtroppo di là da venire, potrebbe riportare in chiesa la buona prassi musicale, e con la musica la serietà delle celebrazioni, che non mancherebbero di attirare, attraverso la bellezza, tanta gente, specie giovani, allontanati invece dalla imperante prassi dilettantistica, falsamente popolare, che è stata erroneamente ritenuta, magari in buona fede, efficace strumento di avvicinamento.

Sulla capacità di coinvolgimento di cui è capace la buona musica liturgica vorrei aggiungere soltanto quella che è la mia esperienza personale. Io ho la fortuna di operare, ormai da quasi quarant’anni, come maestro di cappella della romana basilica di Santa Maria Maggiore, ove tutte le domeniche e feste viene celebrata la S. Messa Capitolare in latino, in canto gregoriano e in polifonia, con l’intervento dell’organo e, nelle maggiori solennità, di un sestetto di ottoni. Posso assicurare che i fedeli gremiscono le navate della basilica, e che non mancano mai persone che vengono a ringraziare, commosse fino al pianto, e che addirittura, specie al canto finale dell’Inno alla Madonna “Salus Populi Romani”, battono le mani non potendo contenere l’emozione. La gente è assetata di buona musica! Essa va direttamente al cuore ed è capace di operare persino clamorose conversioni.

Un altro punto cardinale della buona musica liturgica, sempre ricordato dal magistero della Chiesa, riguarda il primato dell’organo a canne. L’organo è stato sempre ritenuto lo strumento principe della liturgia romana e, quindi, tenuto in grande onore e considerazione. Sappiamo bene che altri riti usano altri strumenti, oppure il solo canto senza sorta di accompagnamento strumentale. Ma la Chiesa romana – e anche le chiese nate dopo la riforma luterana – vedono nell’organo lo strumento privilegiato. In modo direi esclusivo nei paesi latini, mentre nei paesi di tradizione anglosassone è frequente nella liturgia anche l’intervento dell’orchestra. Ciò non è dovuto al capriccio o al puro caso: l’organo ha radici molto antiche ed è stato collaudato per lunghi secoli nel suo cammino di perfezionamento. La qualità oggettiva del suo suono prodotto e sostenuto dall’aria insufflata nelle canne, omologabile a quello emesso dalla voce umana, e la ricchezza fonica che gli è propria e che lo rende un mondo a sé – non si tratta infatti di un surrogato dell’orchestra! – giustificano la predilezione che la Chiesa nutre nei suoi confronti. Non per nulla anche il Concilio Vaticano II dedica ispirate parole all’organo quando dice che “il suo suono ha la capacità di aggiungere notevole splendore al culto e di elevare possentemente gli animi a Dio e alle cose celesti”, rievocando così la dottrina precedente, sia di San Pio X, che di Pio XII, specie nella splendida enciclica Musicae sacrae disciplina. Vorrei ricordare a questo proposito che una delle pubblicazioni del PIMS che ha avuto più largo successo è l’opuscolo Iucunde laudemus, che raccoglie i documenti più importanti del magistero della Chiesa relativi alla musica sacra. Proprio in questi giorni, visto che la precedente edizione era completamente esaurita, stiamo dando alle stampe una nuova edizione, aggiornata con ulteriori documenti, sia del magistero precedente che di quello dell’attuale Pontefice.

In questo sia pur rapido sguardo sui punti principali che sono alla base di una buona prassi musicale liturgica, arriva per ultimo quello che dovrebbe essere il primo ad essere considerato, cioè il “canto gregoriano”. Il canto gregoriano è il canto ufficiale della Chiesa romana, come ribadisce il Vaticano II. Il suo repertorio comprende migliaia di pezzi, antichi, meno antichi e addirittura moderni. Certamente il maggior fascino si trova nei brani più antichi, risalenti ai secoli X-XI. Anche in questo caso si tratta di un valore oggettivo, in quanto il canto gregoriano rappresenta una sintesi del canto europeo e mediterraneo, imparentato con il vero e autentico canto popolare, anche delle regioni più lontane del mondo. È un canto profondamente umano, essenziale, nella ricchezza e varietà dei modi, nella libertà ritmica sempre al servizio della parola, nella diversità e vario grado di difficoltà dei singoli brani, a seconda del soggetto a cui è affidata l’esecuzione, etc. È un canto che ha trovato nella Chiesa il suo “humus” più consentaneo, e che costituisce un tesoro unico, di inestimabile valore, anche sotto il punto di vista semplicemente culturale.

Perciò la riscoperta del canto gregoriano è condizione indispensabile per ridare dignità al canto liturgico. E non soltanto come repertorio valido in se stesso, ma anche come esempio e sorgente di ispirazione per le nuove composizioni, come nel caso dei grandi polifonisti del periodo rinascimentale che, seguendo i postulati del concilio tridentino, fecero della tematica gregoriana la struttura portante delle loro meravigliose composizioni. Se nel canto gregoriano abbiamo la strada maestra, perché non seguirla e ostinarci invece a battere sentieri che, in tanti casi, conducono al nulla? Ma per tentare questo lavoro occorre avere persone ben dotate e ben preparate. Tale è lo scopo del Pontificio Istituto di Musica Sacra. Per questi nobili ideali si è battuto durante cento anni, e continuerà a farlo anche nel futuro, convinto di rendere un servizio indispensabile alla Chiesa universale in un campo di primaria importanza qual è la musica sacra liturgica. Ne era talmente convinto San Pio X, che non esitò a scrivere nell’introduzione del suo “motu proprio” queste auree parole: Tra le sollecitudini dell’officio pastorale, non solamente di questa Suprema Cattedra, che per inscrutabile disposizione della Provvidenza, sebbene indegni, occupiamo, ma di ogni Chiesa particolare, senza dubbio è precipua quella di mantenere e promuovere il decoro della Casa di Dio, dove gli augusti misteri della religione si celebrano e dove il popolo cristiano si raduna, onde ricevere la grazia dei Sacramenti, assistere al santo Sacrificio dell’Altare, adorare l’augustissimo Sacramento del Corpo del Signore ed unirsi alla preghiera comune della Chiesa nella pubblica e solenne officiatura liturgica.(…) È però di moto proprio e certa scienza pubblichiamo la presente Nostra Istruzione, alla quale, quasi a codice giuridico della musica sacra, vogliamo dalla pienezza della Nostra Autorità Apostolica sia data forza di legge, imponendone a tutti col presente Nostro Chirografo la più scrupolosa osservanza. Sarebbe veramente da augurarsi che il coraggio di San Pio X trovasse un qualche riscontro anche nella Chiesa dei nostri giorni.

Roma, 2011
Mº Mons. Valentino Miserachs Grau
Preside del PIMS


Testo preso da: Cantuale Antonianum http://www.cantualeantonianum.com/search?updated-max=2011-12-30T05:40:00-08:00&max-results=6#ixzz1iRLtjL00

http://www.cantualeantonianum.com

[SM=g1740733]

Caterina63
00giovedì 12 gennaio 2012 21:24
I maestri della Cappella Musicale Pontificia

Quella nomina che cambiò la Sistina

di MARCELLO FILOTEI

Nei diari della Cappella Musicale Pontificia Giuseppe Baini viene indicato per la prima volta come "direttore" nel 1830. La nomina a direttore perpetuo, accompagnata a quella di "camerlengo", cioè di amministratore generale, risale invece al 29 novembre 1841, quando l'operato del maestro all'interno della Sistina era ormai da lunga data riconosciuto dai cantori. Secondo alcune ricostruzioni, si attese così tanto prima di formalizzare la sua posizione perché questa rappresentava una novità assoluta, fu la prima volta che si concesse una tale concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo, per di più già affermato a livello internazionale.

Baini, che era nato nel 1775, aveva studiato musica fin da bambino e già all'età di venti anni era cantore della Sistina. Nel frattempo, oltre a finire i corsi in seminario per essere ordinato sacerdote nel 1798, si era dato molto da fare come musicista, approfondendo tra l'altro il contrappunto e lo studio dell'organo. Insomma aveva fatto quegli studi che, almeno nel coro, distinguono un buon esecutore da un musicista completo: l'esecutore, il cantore della Sistina in questo caso, eccelle nel suo specifico settore; il maestro è in grado di coordinare gli altri, di guidarli, di dare un senso al lavoro di équipe. Applicazione e talento portarono Baini a vedere il suo valore riconosciuto anche fuori dalla Cappella Pontificia, tra l'altro diventò esaminatore della Congregazione di Santa Cecilia, anche se non ne fu mai un membro a tutti gli effetti. Molte accademie in Europa lo ebbero inoltre come insegnante e collaboratore.


Anche i suoi studi musicologici ebbero successo. In particolare quelli su Giovanni Pierluigi da Palestrina. Baini ha sistematizzato la sua opera, l'ha catalogata, analizzata e poi ha deciso di esserne l'unico erede legittimo. E questo è un vezzo che in diversi avrebbero avuto anche nei decenni successivi. Troppo spesso qualcuno decide di essere il discendente solitario ed eroico della "scuola romana", quel movimento musicale attivo dal XVI secolo che vede in Palestrina il suo massimo esponente.

Ognuno però, per quanto ritenga di essere l'autentico portavoce dei secoli che l'hanno preceduto, si deve misurare anche con le questioni aperte nella propria epoca. E basterebbe seguire le orme proprio di Palestrina che, quando la polifonia era ritenuta indegna di entrare in chiesa, ha lavorato per dimostrare che l'arte contemporanea (a lui) poteva trovare strada per raggiungere i livelli dei maestri del passato (suo). Se il princeps musicae avesse ragionato come quelli che oggi lo ritengono l'unico compositore al quale ispirarsi, non sarebbe diventato il pilastro della polifonia, al massimo un ottimo emulatore del gregoriano.

Ai tempi di Palestrina, infatti, il problema principale era trovare il modo di affiancare in musica il processo di semplificazione introdotto dalla Riforma cattolica. Sul pentagramma questo si doveva tradurre, secondo i più conservatori, in un ritorno senza compromessi al canto gregoriano, che è monodico. Accadono però a volte episodi che cambiano il corso della storia. Uno di questi fa riferimento a Marcello II, al secolo Marcello Cervini, Papa dal 9 aprile al 1° maggio del 1555. Poche settimane durante le quali trovò il tempo di bacchettare il povero Palestrina, reo di avere proposto brani troppo ampollosi e virtuosistici il 12 aprile di quell'anno, Venerdì Santo, durante la cerimonia per l'elezione. Marcello non si fece impietosire dalle scuse e impose stile rigoroso e comprensibilità del testo come direttive per il lavoro del compositore. A queste direttive si attenne Palestrina nel comporre la Missa Papae Marcelli, che non è "per" ma "di" Papa Marcello, proprio perché costruita secondo i suoi dettami.

Ecco come uno dei pontificati più brevi ha dato vita a una delle messe più eseguite della storia. Ma c'è di più: la Missa Papae Marcelli ha cambiato per sempre la musica liturgica, dimostrando che comprensibilità del testo e dignità espressiva, volute dal concilio di Trento, non erano in contrasto con lo stile polifonico. Grazie a Palestrina la polifonia non fu bandita dalle chiese, e ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, rappresenta la tradizione principale alla quale attingere. In pratica Palestrina ha salvato la musica contemporanea a lui e ora viene utilizzato da molti per combattere quella contemporanea a noi.

Ma siccome i geni non fanno altro che portare a un livello eccelso quello che gira nelle menti di quelli bravi, bisogna ricordare che Palestrina non era affatto solo a compiere questa rivoluzione. La cosiddetta scuola romana rappresenta la sintesi tra la tradizione della Sistina e lo sviluppo del contrappunto fiammingo, estremamente articolato, complesso e non di rado eccessivamente complicato. Al tempo stesso Palestrina, assieme agli altri che contribuirono a costruire l'eccezionale crogiolo di artisti che è andato sotto il nome di "scuola romana", furono influenzati anche da grandissimi musicisti che in quell'epoca scrivevano in modo diverso, primo tra tutti Luca Marenzio, autore di madrigali noti in tutta Europa.

Di questa tradizione Baini fu l'erede. Non era l'unico, ma si riteneva tale. Fece allora di tutto per evitare che si diffondessero studi su Palestrina diversi dai suoi e in gran parte ci riuscì. Divenne così il punto di riferimento principale per lo sviluppo della musica liturgica e il padrone incontrastato della Cappella. Raggiunto lo scopo si impegnò per riorganizzare la Sistina, che versava in condizioni difficili. Durante tutto l'Ottocento i provini per i nuovi cantori spesso non davano buon esito. I candidati non erano preparati, e molti furono ammessi con l'obbligo di approfondire gli studi.
Nei primi anni del secolo si cominciarono così a tenere in casa del maestro le cosiddette "accademie", in pratica delle sedute di prova che si ripetevano più volte a settimana. Solo nel 1838 la pratica divenne obbligatoria. Il livello artistico però non decollava, anche perché nell'impossibilità di ammettere cantori laici la Cappella si trovava ad avere un numero di candidati molto limitato e spesso non all'altezza.

La situazione rischiava di precipitare, non solo per il livello delle esecuzioni, ma anche per la tracimante pratica di inserire parodie di musica profana nella liturgia. Oramai le chiese risuonavano costantemente di brani tratti dal repertorio lirico e utilizzati rivestiti di testi sacri. Il paradosso fu che il maggiore esperto di Palestrina, compositore che aveva codificato con la Papae Marcelli uno stile polifonico rigoroso e limpido, si ritrovava a proporre lavori che slittavano sempre di più verso l'aria d'opera, con tutti i suoi vezzi virtuosistici.

Se ne preoccupò parecchio il vescovo di Jesi, il cardinale Pietro Ostini, che chiese a Gaspare Spontini di approntare un progetto di riforma. L'idea però non piacque a Baini, che sentiva invaso il suo campo da un musicista di rango, quindi pericoloso. Il maestro difese le sue prerogative con tutte le armi a sua disposizione. Scontro aperto.



(©L'Osservatore Romano 13 gennaio 2012)

Caterina63
00lunedì 23 gennaio 2012 17:15
[SM=g1740733] La prova che quando si vuole si può....

20 MARZO 2010
Cantare la Liturgia della Passione del Signore
Rovereto TN - S.Maria del Carmine
Coro interparrocchiale della zona Pastorale della Vallagarina. Interventi corali del "Passio" composti dal maestro Daniele Lutterotti.



[SM=g1740717]


[SM=g1740733]

I maestri della Cappella Musicale Pontificia
Un soprano al comando

Nel 1878 Domenico Mustafà è nominato direttore della Sistina


di MARCELLO FILOTEI

Leone XIII non era tipo da derogare dalle regole imposte dai suoi predecessori. Anche per questo qualche anno dopo essere stato eletto dispose che fosse rimosso dall'incarico il cantore ammogliato Giuseppe Brucchietti. Le norme vanno rispettate, ma è prerogativa dei Pontefici modificarle. E proprio quel licenziamento può essere visto come il segnale che qualche cosa andava cambiato alla Cappella Musicale Pontificia.

L'incaricato della riforma fu Domenico Mustafà, uno degli ultimi cantori evirati, che in realtà era stato nominato direttore perpetuo della Sistina da Pio IX, ma svolse il suo mandato sotto Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci, che avrebbe regnato fino al 1903. Leone XIII aveva le idee chiare e la voglia di dare impulso sia alle esecuzioni, sia alle riforme, ma entrambe le attività non procedettero senza intoppi. Uno dei punti deboli della Cappella è stato storicamente la poca abitudine alle prove. Nel lungo periodo di interregno tra la morte di Giuseppe Baini, nel 1844, e la formalizzazione dell'incarico al suo successore, nel 1878, le cose non potevano migliorare. Inoltre la nomina di Mustafà non fu accettata tra i cantori senza qualche mal di pancia. Il nuovo maestro, pur apprezzato da molti, non era unanimemente riconosciuto come un direttore all'altezza del suo predecessore. Inoltre la sua nomina rappresentava uno strappo alla regola. Baini, era un basso, e sembrava quindi naturale che salisse sul podio, visto che per tradizione l'attacco veniva dato proprio dal più anziano dei bassi. Mustafà, invece, era una sopranista, ruolo generalmente ricoperto da cantori più attenti ai propri virtuosismi che all'andamento d'insieme.

Ma le consuetudini, come le regole, sono fatte per essere infrante e, a nomina fatta, il nuovo maestro cominciò a riorganizzare la Cappella. Tanto più che Leone XIII amava ascoltare la Sistina anche in privato, e non sembra fosse tenero nei giudizi se sentiva qualcosa che non lo soddisfaceva.
Le prove ripresero con una certa costanza nel 1880 e il coro tornò ad approfondire con regolarità il repertorio di tradizione, soprattutto quello eseguito nelle festività solenni. Mustafà si scontrava però con la carenza di voci, divenuta cronica. I cantori non erano in numero sufficiente, né erano distribuiti egualmente tra i vari registri. Si faceva spesso ricorso a ospiti, provenienti principalmente dalla Giulia, e tra i soprani, cominciarono a comparire sempre più frequentemente dei fanciulli. Paradossalmente proprio un sopranista come Mustafà, che in futuro avrebbe dato dimostrazione di non essere d'accordo con l'esclusione degli evirati dal coro, diede inizio di fatto a quel processo che porterà alla sostituzione delle voci acute maschili con quelle di bambini. Il percorso, però, sarà portato a termine, non senza difficoltà, da Lorenzo Perosi.

Il problema degli "aggiunti", come si chiamano oggi, è sempre lo stesso: per quanto siano bravi non possono evitare che un ensemble perda la sua specifica personalità. Il suono è una cosa che si costruisce con il tempo, grazie al lavoro del maestro. La condizione necessaria, ma non sufficiente, è che ci siano sempre le stesse persone a cantare o a suonare, così da creare uno speciale affiatamento che porta a un timbro originale. La Sistina era già in difficoltà, ma da quando fu autorizzata la partecipazione "anche degli estranei per supplire all'attuale deficienza delle voci necessarie per i concerti", nel luglio del 1881, perse anche di riconoscibilità.
Mustafà pare ce la mettesse tutta per ristrutturare la Cappella, ma i risultati non arrivavano. Il metodo che il maestro adottò alla fine dell'Ottocento per farsi ascoltare fu quello di annunciare le dimissioni e di ritirarsi a Montefalco, dove sarebbe morto, ma molti anni dopo nel 1912.

Fino al 1891, in vari modi, il direttore si tenne lontano dal suo incarico per lunghi periodi, tornando di quando in quando per rispondere positivamente agli inviti che giungevano dalle sacre stanze. Una delle occasioni per ascoltarlo dirigere fu la messa del primo gennaio 1888, per il giubileo sacerdotale di Leone XIII. Un appuntamento al quale non si poteva mancare e che convinse Musfatà a comporre il mottetto Domine salvum me fac. Finita la festa si ritornò alla normalità, che consisteva nell'affidare la direzione ad interim a Innocenzo Pasquali. Qualcuno, come spesso era accaduto, pensò a fare ricorso a un maestro estraneo al mondo Vaticano, ma, come sempre è successo in questi casi, non se ne fece niente. Mustafà rimaneva inamovibile, attendendo la possibilità di realizzare la sua riforma. In caso contrario preferiva rimanere quanto più possibile lontano dal coro.

Finalmente il 7 marzo 1891, con un apposito decreto, la Sistina provò a mettersi al passo con i tempi, o almeno adottò le misure volute dal maestro. Fu promulgato un regolamento che affrontava sia questioni economiche (in sostanza venivano aumentati i compensi) sia questioni artistiche: il numero dei cantori veniva fissato a trentadue, otto per ogni registro vocale. Inoltre venivano aboliti l'obbligo della tonsura e del celibato, ma soprattutto si disponeva l'ammissione di fanciulli cantori. A questo seguiva l'obbligo di una certa regolarità nelle prove. Diritti e doveri, insomma, con attenzione all'arte: per esempio si disponeva che un membro del coro assente andasse sostituito con un cantore dello stesso registro, che potrebbe sembrare scontato, ma pare che nella prassi non lo fosse.

Malgrado tutto fosse stato messo nero su bianco, alle dichiarazioni d'intento stentavano a seguire i fatti. In primo luogo i cantori rimanevano in numero limitato, il che portava continuamente a invitare degli esterni con il conseguente declino del livello artistico. La situazione doveva essere grave se nel giugno del 1892 Mustafà si trovò costretto a comunicare che probabilmente non sarebbero stati garantiti i servizi a San Pietro visto che, a causa dello scarso numero di componenti, la Sistina non poteva assicurare un livello decoroso delle esecuzioni.

Qualche nota positiva però non mancava, in particolare nel 1894 per il trecentesimo anniversario della morte di Palestrina nella sala Clementina si registrò un'esecuzione molto apprezzata. Leone XIII scrisse a Mustafà congratulandosi per il buon esito del tentativo di "rimettere e conservare le insigni tradizioni della Sistina", invitando anche tutti i cantori a continuare nell'impegno in modo che "a giorni migliori possa il vostro Collegio riprendere parte che ebbe sempre sì splendida nel corso delle sacre solennità: si studii intanto di continuare assiduo nella palestra delle consuete esercitazioni". Insomma avete cantato bene, continuate a lavorare.

Le critiche però non mancavano ed erano incentrate sul repertorio antico più che su quello moderno. In pratica la Sistina veniva accusata di affrontare con scarsa cura i brani di Palestrina, mentre i lavori contemporanei erano apprezzati. Nel 1896 in occasione di festeggiamenti in onore di Guido D'Arezzo il periodico milanese "Musica Sacra" criticò aspramente l'esecuzione del Credo dalla Missa Papae Marcelli: "fu cantato tutto d'un pezzo come suol dirsi, ad eccezione dell'Incarnatus, con un forte da sbalordire. Perché in questo capolavoro sbandire la coloritura? Non si poteva rimediare in tal guisa a far risaltare le singole parti col temperare e moderare quelle troppo forti?".

I cantori sistini protestarono sostenendo che il giornalista non aveva nemmeno citato correttamente le opere eseguite. Chiesero una rettifica e ottennero una lunga replica, nella quale l'autore dettagliava i motivi dell'insoddisfazione: "non è certo malevolenza che mi fece scrivere in tal maniera, ma l'ardente desiderio che nutro affinché la Cappella Sistina possa nuovamente corrispondere alla fama che meritatamente godette fin ad un secolo fa. Non sono io il solo a lamentare l'indirizzo che ha preso da qualche anno la Cappella in materia di canto. Non parlo degli Offertorii, dei Postcommunio, ed anche degli Introiti martellati ed armonizzati per ottave, quinte e terze, e molto anche di seguito, che certamente non rivelano speciali tradizioni, ma vera imperizia nel canto gregoriano.

Di Palestrina poi, in questi ultimi anni, si eseguirono sempre le stesse e ben poche cose". L'ufficio pubbliche relazioni della Sistina non aveva funzionato a dovere. L'esito della protesta fu quello di ingigantire il rilievo della critica. Seguirono nuove proposte di riforma, che però sembravano riportare la Sistina indietro nel tempo. Mustafà ottenne nel 1897 una nuova ordinanza nella quale di fatto si riduceva il numero dei cantori attivi, ma si prevedeva tra l'altro la formazione di due "fanciulli evirati" che avrebbero servito come futuri sopranisti nella Sistina. Non sarebbe stato questo il futuro della Cappella Musicale Pontificia, un futuro che sarebbe cominciato di lì a pochi anni con l'avvento di Perosi.



(©L'Osservatore Romano 3 febbraio 2012)


[SM=g1740771]
Caterina63
00martedì 22 maggio 2012 18:40
[SM=g1740733]per comprendere questa Lettera, si legga il Motu Proprio di san Pio X, terzo post da sopra....

LETTERA DEL SANTO PADRE PIO X
ALL'ILLUSTRISSIMO E REVERENDISSIMO
MONS. FRANCESCO SAVERIO HABERL,
PRELATO DOMESTICO DI S.S. E PRESIDENTE GENERALE
DELL'ASSOCIAZIONE «S. CECILIA» DI GERMANIA, RATISBONA (BAVIERA)
*

 

La Santità di N. S. è venuta a conoscere, che particolarmente in Germania e fra i connazionali tedeschi degli Stati Uniti d'America, si va spargendo un'opinione intorno all'edizione vaticana del canto liturgico assolutamente falsa in se stessa e molto pregiudizievole alla restaurazione uniforme del medesimo canto in tutta la Chiesa.

Si va cioè insinuando che il S. Padre, nel pubblicare la prefata edizione non ha inteso di accogliere in essa alcuna forma speciale di ritmo, ma di lasciare ai singoli maestri di musica la facoltà di applicare alla serie di note, prese materialmente, quel ritmo che essi stimano più conveniente.

Quanto sia falsa questa sentenza si dedurrà anche dal semplice esame dell'edizione vaticana, dove le melodie sono evidentemente disposte secondo il sistema del cosidetto ritmo libero, del quale nella prefazione del Graduale Romano si riportano e si inculcano perfino le regole principali di esecuzione, perchè tutti vi si attengano ed il canto della Chiesa sia per tutto uniformemente eseguito, inoltre, come è ben noto, la Commissione pontificia deputata alla compilazione dei libri liturgici gregoriani, fin dal principio e con aperta approvazione della Santa Sede ha inteso espressamente di segnare le singole melodie dell'edizione vaticana in tale ritmo determinato.

In fine l'approvazione data per ordine del S. Padre dalla S. Congregazione dei Riti al Graduale Romano, come si estende a tutte le norme speciali onde l'edizione vaticana è stata composta, così anche inchiude la forma ritmica delle melodie, la quale per conseguenza è inseparabile dall'edizione stessa.

Per conseguenza nella presente restaurazione gregoriana, è stato sempre ed è ancora del tutto alieno dalla mente del S. Padre e della S. Congregazione dei Riti di lasciare all'arbitrio dei singoli un così importante e sostanziale elemento, quale è il ritmo delle melodie della Chiesa. [SM=g1740721]

La S. V., per la molta autorità che gode, come Presidente generale della benemerita Associazione tedesca di S. Cecilia, è invitata a far conoscere a tutti i membri della predetta Associazione la presente comunicazione, esortando insieme i cultori della musica sacra a desistere da tentativi, i quali, nel presente stato degli studi archeologici, letterari e storici, non possono dare nessun serio ed accettevole risultato.

Essi servono solo a confondere le menti dei meno esperti e ad alienare gii animi dalla restaurazione gregoriana, quale fu intesa dal S. Padre, e quale anche per rispetto al ritmo, non solo è accettata e con nuovi ed utili studi sempre meglio illustrata da tutti i più insigni teorici gregoriani, ma oramai praticata con pieno e consolante successo da innumerevoli scuole in ogni parte del mondo. Tanto era mio dovere significarle per speciale incarico di Sua Santità.

Con sensi di sincera stima ed osservanza

Roma, 18 Febbraio 1910.

Fr. S. CARD. MARTINELLI, Prefetto.


*A.A.S., vol. II (1910), n. 4, pp. 145-146

***************************************



[SM=g1740733] IL CANTO GREGORIANO?  è vincolo di unità...


Introduzione del libretto Iubilate Deo voluto da Paolo VI e pubblicato nel 1974


Il Concilio ecumenico Vaticano II, nella costituzione sulla sacra liturgia, dopo aver esortato affinché venga dato, nelle celebrazioni liturgiche, il conveniente spazio alle lingue nazionali, aggiunge questo avvertimento: «Si abbia cura tuttavia che i fedeli cristiani possano allo stesso tempo recitare o cantare anche in lingua latina le parti dell’Ordinario della Messa che li riguardano»1.

Guidato da questo pensiero e da questo intendimento, il sommo pontefice Paolo VI più volte negli ultimi tempi2 ha manifestato il desiderio che il canto gregoriano accompagni le celebrazioni eucaristiche del popolo di Dio con la sua piacevole armonia, dando ad esse forza e vigore, e che le voci dei fedeli intonino canti sia gregoriani che in lingua nazionale.

Il presente opuscolo risponde ai desideri del Sommo Pontefice. In esso sono raccolte alcune delle melodie più semplici, che i fedeli dovranno cantare insieme, soprattutto in occasione dell’Anno Santo.
In questo modo il canto gregoriano rimarrà il vincolo che renderà tanti popoli una sola nazione, radunata nel nome di Cristo con un sol cuore, un solo pensiero, una sola voce.
Infatti l’impulso all’unità, espresso dalla concordia delle voci nella varietà delle lingue, dei ritmi e delle armonie, rende mirabilmente manifesto il variegato accordo di una sola Chiesa: «È davvero un grande vincolo di unità» afferma Ambrogio «il canto della moltitudine tutta del popolo in un solo coro! Diverse sono le corde della cetra, ma una sola la sinfonia. Spesso errano, in pochissime corde, le dita dell’artista; ma lo Spirito artista nel popolo non può errare»
3.


Conceda Dio che la comune preghiera ottenga un esito felice e il cuore della Chiesa che prega risuoni con gioia e più in alto, per tutta la terra, con questi soavi e devoti accordi.

14 aprile 1974
Domenica di Pasqua, Resurrezione del Signore

Note
1) Concilio Vaticano II, costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 54.
2) 22 agosto 1973, nell’udienza generale; 12 ottobre 1973, all’Associazione internazionale di musica sacra (Cims); cfr. anche la lettera del cardinale Giovanni Villot, segretario di Stato, al convegno dell’Associazione italiana di Santa Cecilia, Genova 26-30 settembre 1973, L’Osservatore Romano, 27 settembre 1973.
3) Sant’Ambrogio, Explanationes psalmorum, in ps. 1, 9: Patrologia Latina 14, 925.




[SM=g1740722]

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