La riforma liturgica, "benvenuta e necessaria", ha però un "lato oscuro"

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Caterina63
00domenica 14 giugno 2009 22:55

Testimoni di una presenza reale

di Robert Imbelli

                                        

La Lettera agli Ebrei è uno degli scritti più ricchi del Nuovo Testamento, ma troppo spesso i credenti lo trascurano, forse perché l'argomento trattato è impegnativo e, come l'autore stesso ci avverte, richiede una particolare attenzione. ll centro dell'annuncio è in questi versetti: "Egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di Lui si avvicinano a Dio: Egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore" (7, 24-25).

Durante la liturgia si prega sempre "attraverso nostro Signore Gesù Cristo che vive e regna nei secoli dei secoli". In qualche modo si fa eco alla fede dell'autore della Lettera agli Ebrei: Gesù vive sempre e intercede per la sua Chiesa, il suo corpo di cui è il capo. La Chiesa dipende da Cristo per la sua stessa vita. Gesù comunica questa vita in particolare nell'Eucaristia e Benedetto XVI, nell'esortazione apostolica
Sacramentum caritatis, spiega che "l'Eucaristia è Cristo che si dona a noi, edificandoci continuamente come suo corpo" (n. 14).
"La Chiesa fa l'Eucaristia e l'Eucaristia fa la Chiesa", recita un adagio dell'età patristica sottolineando l'esistenza di un rapporto intimo e reciproco fra il corpo eucaristico e il corpo ecclesiale del Signore.

Tuttavia è importante comprendere correttamente qual è la priorità. Come rileva Benedetto XVI "la possibilità per la Chiesa di "fare" l'Eucaristia è tutta radicata nella donazione che Cristo le ha fatto di se stesso" perché "Egli è per l'eternità colui che ci ama per primo" (n. 14). Nell'Eucaristia l'amore di Cristo si incarna più pienamente: proprio il suo corpo e il suo sangue sono dati per noi.


Dopo il Vaticano ii la riforma, benvenuta e necessaria, della liturgia ha portato con sé molti ricchi frutti. Le Sacre Scritture hanno ritrovato un posto d'onore, per consentire al popolo di Dio di nutrirsi alla mensa della Parola e a quella eucaristica. Inoltre il maggior coinvolgimento dell'intera assemblea nella celebrazione ha portato a un partecipazione più attiva da parte di tutta la comunità, rispondendo all'esortazione del concilio alla participatio actuosa.

Tuttavia, anche i più accesi sostenitori dei riti liturgici riformati ammettono l'esistenza di un potenziale "lato oscuro" della riforma
.

La celebrazione dell'Eucaristia versus populum e la tendenza a evidenziare l'Eucaristia come pasto della comunità può, senza volerlo, mettere in ombra la natura unica di questo posto, reso possibile dal sacrificio di Cristo. È il dono di sé di Cristo che è al centro di questo pasto: "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (Giovanni, 6, 51). "L'Eucaristia è Cristo che si dona", scrive Benedetto XVI e in latino è ancora più efficace: Christus se nobis tradens ("Cristo si dona per noi").

La sottolineatura della dimensione collettiva della liturgia, di per sé indiscutibilmente valida, rischia di trasformarsi in un'autocelebrazione della comunità. Questo rischio diviene più elevato in una cultura terapeutica, nella quale cioè l'emozione superficiale spesso viene assunta come criterio di autenticità. Il risultato può essere un corpo "decapitato", una comunità privata del capo.

Del resto la necessità di evidenziare il primato di Cristo quale capo del corpo e fonte della sua vita, non è emersa solo dopo il Vaticano II.

Molto tempo prima, il teologo gesuita, più tardi cardinale, Henri de Lubac, scrisse nella Méditation sur l'Église: "Di certo non c'è confusione fra il capo e le membra. I cristiani non sono il corpo né fisico né eucaristico di Cristo, e la sposa non è lo sposo". C'è un'unione intima in un'irriducibile distinzione. Cristo, il capo, non è mai privo del suo corpo, che è la Chiesa, e la Chiesa non può prosperare se non nell'unione donatrice di vita con il suo capo.
È quindi essenziale coltivare nella spiritualità un senso vivo della presenza reale di Cristo, che è resa pienamente dall'Eucaristia, ma va accompagnata da altre esperienze della presenza di Cristo.

I cristiani orientali, ad esempio, hanno promosso la pratica della "preghiera di Gesù", spesso sincronizzata con il proprio respiro. La tradizione benedettina cerca invece di riconoscere la presenza di Cristo nell'ospite. In altri casi il recupero dell'adorazione del Santissimo Sacramento ha aiutato molte persone a riscoprire la presenza viva del Signore fra i membri del suo popolo.

L'Eucaristia diviene quindi una scuola della presenza del Signore, che ci insegna a percepirne la presenza in ogni aspetto della vita. Il sacerdote che celebra l'Eucaristia dovrebbe cercare di essere anche il mistagogo della comunità, per condurre la comunità a una comprensione profonda della presenza salvifica di Cristo. Un aspetto cruciale di questa mistagogia è l'inserimento di momenti di profondo silenzio nella celebrazione eucaristica, utili per meglio assaporare la presenza di Cristo nella Parola e nel sacramento.

In un mondo in cui sembra prevalere troppo spesso l'assenza di significato e di speranza, i cristiani, formati nell'Eucaristia, possono essere testimoni di una presenza reale, sia nel culto del Cristo risorto sia nel proprio servizio verso quanti soffrono per cause materiali e spirituali. La loro esperienza di Cristo nell'Eucaristia li spingerà a cantare con Bernardo di Chiarvalle: Jesu dulcis memoria, dans ver cordis gaudia/sed super mel et omnia, ejus dulcis praesentia!

(L'Osservatore Romano - 11 giugno 2009)

Caterina63
00domenica 28 giugno 2009 10:12
Uno di questi "lati oscuri" è l'influenza PROTESTANTE subentrata nella dottrina Cattolica...

il grande dom Prosper Guéranger  ha scritto:

L'eresia antiliturgica e la riforma protestante del XVI secolo considerata nei suoi rapporti con la liturgia
 
in Institutions liturgiques, I², Paris, 1878, pp. 388-407. Traduzione italiana di Fabio Marino, pubblicata in "Civitas Christiana", Verona n. 7-9, 1997, 13-23.

leggiamo:

10° Odio verso Roma e le sue leggi

Come era necessaria al protestantesimo una regola per discernere tra le istituzioni papiste quelle che potevano essere più ostili al suo principio, esso ha dovuto scavare nelle fondamenta dell'edificio cattolico, e trovare la pietra fondamentale che lo sostiene tutto. Il suo istinto gli ha fatto scoprire innanzi tutto il dogma inconciliabile con ogni innovazione: la potestà papale.

Quando Lutero scrisse sulla sua bandiera: odio verso Roma e le sue leggi, non faceva che proclamare ancora una volta il grande principio di tutte le branche della setta antiliturgica.

Quindi ha dovuto abrogare in massa il culto e le cerimonie, come l'idolatria di Roma; la lingua latina, l'ufficio divino, il calendario, il breviario, tutte abominazioni della grande meretrice di Babilonia. Il romano pontefice pesa sulla ragione con i suoi dogmi, pesa sui sensi con le sue pratiche rituali: bisogna dunque proclamare che i suoi dogmi non sono che bestemmia ed errore, e le sue osservanze liturgiche soltanto un mezzo per fondare più fortemente un dominio usurpato e tirannico.

È per questo motivo che, nelle sue litanie emancipate, la chiesa luterana continua a cantare ingenuamente: "Dal furore omicida, dalla calunnia, dalla rabbia e dalla ferocia del turco e del papa, liberaci o Signore" [17].  Scioccato  Occhi al cielo

È questo il luogo per richiamare le ammirabili considerazioni di Joseph de Maistre, nel suo libro Du Pape, ove mostra con tanta sagacia e profondità, che nonostante le dissonanze che dovrebbero separare le une dalle altre le diverse sette separate, vi è una qualità nella quale si uniscono tutte, che è la "non romanità". Immaginate una qualunque innovazione, sia in materia di dogma sia in materia di disciplina, e vedete se è possibile realizzarla senza incorrere, volenti o nolenti, nella nota di "non romano", o se volete in quella di "meno romano", se si manca di audacia. Resta da sapere quale pace potrà trovare un cattolico nella prima, o anche nella seconda di queste situazioni.

[17] Lutherisches Gesangbuch, Leipzig, 667.

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mi chiedo come mai nessun "ecumenico" abbia richiesto la rimozione di tale idiozia in forma di preghiera.....e se l'hanno tolta come mai non se ne parla in ambienti "ecumenici"?
Rammentiamo tutti gli attacchi che la Chiesa ha subito e subisce per le sue preghiere (MAI OFFENSIVE) verso gli altri (inutile nominarli).... fa davvero pensare il silenzio su queste realtà....

e sempre dal testo sopra citato:

11° Distruzione del sacerdozio

L'eresia antiliturgica, per stabilire per sempre il suo regno, aveva bisogno di distruggere in fatto e in diritto il sacerdozio nel cristianesimo, perché sentiva che dove vi è un pontefice vi è un altare, e dove vi è un altare vi è un sacrificio, e quindi un cerimoniale mistico. Dunque dopo aver abolito la qualità di sommo pontefice, bisognava annientare il carattere del vescovo dal quale emana la mistica imposizione delle mani che perpetua la sacra gerarchia.

Di qui un lato presbiterianesimo, che non è che la conseguenza immediata della soppressione del sommo pontificato. Da allora non vi sono più sacerdoti propriamente detti: come farà la semplice elezione, senza consacrazione, a rendere un uomo consacrato? La riforma di Lutero e di Calvino non conosce dunque che ministri di Dio, o degli uomini, come si vedrà. Ma è impossibile fermarsi qui. Scelto, istallato da laici, portando nel tempio la toga di una magistratura bastarda, il ministro non è che un laico investito di funzioni accidentali. Dunque nel protestantesimo non vi sono più altro che laici. E doveva essere così, perché non vi è più liturgia, come non vi è più liturgia perché non vi sono più altro che laici.
 
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Nella sezione Ecumenica troverete il testo del capitolo integralmente....CLICCATE QUI





Caterina63
00domenica 28 giugno 2009 10:46
I FRUTTI DELLA DOTTRINA ANTILITURGICA DI LUTERO..... Occhi al cielo

Amici.....come dice san Paolo "
non è bene per noi restare nell'ignoranza"...  Occhiolino ....

Non è necessario essere dei geni, degli intellettuali, o teologi o altro....spesse volte basta una buona disposizione dell'animo per comprendere, la sapienza è poi dono di Dio che si applica in molti modi... dice lo stesso Cristo:
"Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare"

Volevo approfondire con voi il perchè cito spesso I PROTESTANTI=EVANGELICI specialmente riguardo ALLA LORO ERESIA SULL'EUCARESTIA.....

andiamo al sodo:

Un celebre (per chi lo conosce) pastore evangelico del sito riforma.net ha scritto diversi "saggi" contro l'Eucarestia Cattolica..... citando alcune formule del Catechismo Cattolico, scrive:

(secondo il CCC) Questo sacrificio sarebbe offerto non solo per i vivi, ma “anche per i fedeli defunti … affinché possano entrare nella luce e nella pace di Cristo”. La messa sarebbe valida, inoltre, solo quando viene celebrata dal vescovo, o da chi è stato da lui autorizzato, mentre non avrebbe alcuna validità quella celebrata “dalle comunità ecclesiali nate dalla Riforma … perché non hanno conservata la genuina ed integra sostanza del mistero eucaristico … per la mancanza del sacramento dell’Ordine”.

tale pastore spiega così questo riferimento:

<< Tali concezioni non sono assolutamente condivisibili dalla fede evangelica, la quale, di fatto, considera la messa e la teoria che ad essa sottende, del tutto aberrante, empia e blasfema. ( )
Si può quindi dire a ragion veduta che ogni qual volta si celebra una messa Cristo venga insultato e disonorato e di tutto questo i fedeli evangelici non vogliono esserne complici partecipandovi in qualsiasi modo .

L’opera di Cristo è stata compiuta una volta per sempre ed è efficace in modo immediato per tutti i luoghi ed i tempi a chi, udendo l’annuncio dell’Evangelo, ad essa faccia appello tramite la fede, senz’alcun bisogno di celebrazioni sacramentali né di mediazioni sacerdotali umane, “Infatti con un'unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che sono santificati” (Eb. 10:14). La celebrazione evangelica della Cena del Signore conferma simbolicamente e suggella questa realtà.

Con le parole della Confessione di Fede Riformata di Ginevra del 1536 , affermiamo: “Ora, poiché la messa del papa è stata un’ordinanza maledetta e diabolica intesa a sovvertire il mistero di questa santa Cena, noi dichiariamo che essa ci è in abominio,(  Occhi al cielo ) come un’idolatria condannata da Dio, sia in quanto è considerata un sacrificio per la redenzione delle anime, sia perché in essa il pane è considerato ed adorato come Dio, oltre alle altre bestemmie e superstizioni esecrabili che vi sono contenute, ed all’abuso della Parola di Dio che vi viene presa invano, senza alcun frutto ed edificazione”(11).

La Confessione di Fede Riformata Posteriore del 1566 afferma inoltre : “la messa, così come oggi è in uso in tutta la chiesa romana, è stata abolita nelle nostre chiese per diverse e giustissime ragioni … Il fatto sta che abbiamo trovato non essere una buona cosa che si sia trasformata un’azione santa e salutare in un vano spettacolo; così pure che essa sia stata resa meritoria e che la si celebri per denaro o che si dica che il prete vi fa il corpo stesso del Signore e che lo offra realmente e di fatto per la remissione dei peccati dei vivi e dei morti, addirittura in onore e celebrazione o memoria dei santi che sono in cielo”(12).>>

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no comment sulle parole usate....traspare tutto l'odio possibile e benchè parliamo di un testo del 1500,  OGGI esso viene usato contro l'Eucarestia, contro i Cattolici, contro la Chiesa: questo si insegna nella comunità EVANGELICA di OGGI,
ma il falso ecumenismo sincretista finge di non leggere...


Allora facciamo un paio di chiarimenti e confutazioni, tale Pastore:

1. Si rifà ad un documento del 1500.....mentre poi ci si contraddice disconoscendo Lutero...infatti gli evangelici non riconoscono le dottrine luterane e vorrebbero sostenere che a tali conclusioni ci sono arrivati da soli ISPIRATI DALLO SPIRITO SANTO...
Altra contraddizione è la dottrina diabolica della SOLA SCRIPTURA...che guarda caso però è stata inventata da Lutero ... Ghigno
Inoltre, come abbiamo visto viene usata solo quando potrebbe tornare comodo e mentre si schifano tutti i documenti dei primi secoli della Chiesa... si fa nascere in tal modo UNA NUOVA TRADIZIONE.... E si perchè se non si accettano le dottrine e i documenti della Chiesa, perchè questi documenti dovrebbero assumere importanza maggiore della Bibbia stessa interpretata dai santi Padri? Dove sono scritte nella Bibbia tutte queste parole interpretate dal codesto pastore il quale si rifà a sua volta alle "parole di UOMINI" del 1500?

2. L'opera di Cristo una volta per tutte....INFATTI...la Chiesa NON ha mai insegnato che l'Eucarestia riuccide il Cristo... questa è una falsa propaganda che più volte è stata spiegata ma che non è mai stata riconosciuta nelle prove portate....come mai? Cosa si vuole mantenere in piedi?
La Chiesa Compie IL MEMORIALE...e poichè Dio è vivo è vero, questo Memoriale NON è semplice memoria, bensì è RIVIVERE QUANTO ACCADDE in quella "PIENEZZA DEL TEMPO"..ricordando ad ogni uomo di ogni tempo ciò che ha fatto il Cristo....RIVIVENDOLO E NON RIFACENDO UN NUOVO CALVARIO appunto una volta per tutte! Non a caso la Chiesa ha sempre parlato di SACRIFICIO INCRUENTO...ed ha sempre insegnato ad assumere l'atteggiamento di Maria ai piedi della Croce, per assistere alla Messa, ossia: una partecipazione principalmente del cuore, attraverso la quale ENTRARE IN QUESTA PIENEZZA DEL TEMPO per rivivere, OGGI, e in ogni tempo, una partecipazione attiva alla Croce del Cristo...unendola al nostro sacrificio se però CON Cristo, IN Cristo e PER Cristo, con LUI ci immoliamo e partecipiamo IN TUTTO con LUI dall'Incarnazione alla Risurrezione senza omettere nulla...

E fedele al comando del Cristo, ricompie quei gesti SACRI "FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME: QUESTO E' IL MIO CORPO; QUESTO E' IL MIO SANGUE".....
Gesù pone il COMPIERE nel tempo quei gesti: "FATE" e pone AL PRESENTE l'essenza del contenuto di questa sostanza: "QUESTO E' IL MIO CORPO; QUESTO E' IL MIO SANGUE"....
Occhiolino

Sono gli Apostoli poi ad imporre le mani scegliendo i primi PESBITERI, appunto, i sacerdoti....e dando loro il compito di occuparsi dei RITI (Paolo a Tito si raccomanda di applicare il rito secondo le istruzioni da lui ricevute)....e questo è scritturale nelle Lettere, perchè le s'ignorano?

3. si parla tanto di Fede da parte dei protestanti, ma quando c'è da metterla in atto, questa fede, la si offusca semplicemente perchè si vuole essere "una cosa diversa dalla Chiesa" o ci si vuole sostituire a Lei......Dicono che bisogna credere per fede....sostengono che il Cristo è con noi per fede, ma se i cattolici mettono in atto il capitolo 6 di Giovanni e l'ultima Cena, allora diventano blasfemi....francamente vedo molta contraddizione! SIAMO VENUTI PER ADORARLO, dice un altro passo del Vangelo riproposto nel tempo AL PRESENTE: noi andiamo ad adorarLo NELL'EUCARESTIA dove la sua presenza è VIVA E VERA; noi adoriamo IN SPIRITO E VERITA' perchè le parole di Gesù sono Verità....l'Eucarestia è dunque VERITA' INCARNATA CHE SI E' FATTA CIBO DI SALVEZZA (cfr.Gv.6)

4. Si usano parole molto pesanti..credo che noi le prove le abbiamo portate.....ma qui le prove del pastore non si vedono, si odono SOLO PAROLE, AFFERMAZIONI...si tratta semplicemente di una interpretazione diversa sorta nel 1500 e se fosse vero ciò che sostengono...possibile che Dio abbia permesso tanta "atrocità" (parole del pastore) nella sua Chiesa sin dalle origini e per 1500 anni, fino all'arrivo di Lutero? E quei martiri dell'Eucarestia prima del 1500 che fine hanno fatto secondo gli Evangelici? E il miracolo Eucaristico di Bolsena del 1200 e quello ancor prima di Lanciano dell'anno 800..sono fatti diabolici? E di tutte le catechesi dei PADRI DELLA CHIESA a difesa della Presenza reale dell'Eucarestia, che cosa ne facciamo? Le cestiniamo perchè "UN GRUPPO DI UOMINI" nel 1500 decise che nell'Eucarestia Gesù NON c'era? Comprendo che si può anche NON credere, ma il rifiutare le tante prove prodotte dalla Chiesa è ben altra cosa eh!

5. Veniamo alla scena dei discepoli di Emmaus:

i discepoli si erano incamminati e parlavano dell'evento del momento, la morte del Maestro....Gesù si unisce a loro, ma NON lo riconoscono, eppure appare a loro come un saggio e sapiente dal momento che spiegherà loro tutto ciò che avevano predetto i profeti. Essi l'ascoltano e SONO ANCHE D'ACCORDO, CONOSCONO A MEMORIA LE SCRITTURE, eppure ancora NON lo riconoscono...questi si che è un bel mistero!
Quando...ecco il momento...."allo spezzare del Pane lo riconoscono"...o non è appunto il Cristo che si è fatto riconoscere dai discepoli allo spezzare di QUEL PANE? Se fosse stato solo un simbolo l'Eucarestia, non sarebbe stato più logico farsi riconoscere attraverso le Scritture quando gliele stava spiegando, anche per confermare il loro concetto di sola scrittura? Occhiolino

No fratelli protestanti ed evangelici....la verità è che essi NON riconoscono il Cristo attraverso "LA SOLA SCRIPTURA", bensì attraverso un gesto, un segno....un rito: il nuovo rito Sacro, dell'Eucarestia.....
Guardate che questo particolare è molto importante, pensateci bene.....ed anche noi che ci diciamo Cattolici....riflettiamo con-passione sull'Eucarestia, su questo Dono inestimabile, dal quale deriva ogni nostro bene o fin anche la nostra condanna, come dice san Paolo....

La Santa Messa è per noi appuntamento d'amore, così scriveva Giovanni Paolo II ai giovani nel 2004:

Nell'Ostia consacrata adoriamo (Gesù) sacramentalmente presente in corpo, sangue, anima e divinità, e a noi si offre come cibo di vita eterna. La Santa Messa diviene allora il vero appuntamento d'amore con Colui che ha dato tutto se stesso per noi

(Messaggio per la XX Giornata Mondiale della Gioventù)
 


Caterina63
00giovedì 29 ottobre 2009 14:50

Ecco perché non si riesce più a costruire chiese come Dio comanda

di Camillo Langone

Tratto da
Il Foglio del 27 ottobre 2009

Cambia il vento sulle pietre di Dio: fra pochi giorni, all’Università Europea di Roma, comincerà il master in “Architettura, arti sacre e liturgia” diretto da padre Uwe Michael Lang, una garanzia (il suo libro “Rivolti al Signore” è un inno alla messa teocentrica).

Padre Lang mi aiuterà a rendere giustizia a Giuseppe, il mio amico Giuseppe Canali morto a nemmeno quarant’anni e a cui non è stato concesso un funerale in una chiesa nettamente cattolica. L’avevo visto una volta sola, avevamo cenato insieme a Ferragosto a casa di Bianca, amica comune.

Mio punto d’onore a Ferragosto è non mescolarmi ai dromomaniaci, salvo cause di forza maggiore resto sempre in città. Il giorno dell’Assunta ci tengo ad andare a messa nel mio santuario abituale, farlo in altra chiesa di altra località mi sembrerebbe un piccolo tradimento, un cedimento alle smanie per la villeggiatura, e comunque non voglio abbandonare la Madonna della Steccata ai turisti, che il diavolo se li porti. Se a messa posso andarci benissimo da solo, nelle festività mangiare da solo mi rattrista, così nei giorni precedenti avevo cercato di organizzare una compagnia ma nonostante la crisi erano tutti al mare, in montagna, al sud, all’estero, su Marte, boh. Alla fine Bianca, rimasta in sede causa gravidanza, era riuscita ad arruolare qualcuno fra cui Giuseppe.

Subito dopo le presentazioni avevo cominciato a lagnarmi del suo gelato. Mi ero tanto raccomandato con Bianca che chiunque si fosse preso l’impegno di portare il gelato avrebbe dovuto comprarlo da Grom: in città, a disdoro dei gelatai locali, l’unico gelato commestibile viene venduto dalla nota catena. Poi Giuseppe mi aveva detto di essere un mio lettore e questo era riuscito a rabbonirmi ma solo fino al momento del maledetto sorbetto, cattivo come da facile previsione.

Insomma ero stato sgradevole e perciò ho provato rimorso quando Bianca mi ha detto che Giuseppe era morto, di una malattia che ignoravo avesse e che da tempo lo affliggeva. I funerali sono stati celebrati nella sua parrocchia: una chiesa cattoprotestante, di quelle chiese che sembrano parcheggi seminterrati, senza uno straccio di campanile e con l’interno a conchiglia ottimo per conferenze. Non solo tocca morire, ho pensato, c’è pure il rischio che l’ultimo atto si svolga nello squallore del cemento più sordo. E come fai a ribellarti se hanno già inchiodato la bara? Giuseppe era un “cattolico tradizionalista”, proprio così aveva scritto nel suo profilo su Facebook, a tutt’oggi ancora aperto e chissà fino a quando (non ho capito se questo è un bene oppure un male, ci rifletterò un’altra volta). Giuseppe quindi amava le chiese cattoliche.

Che cos’è una chiesa cattolica? E’ una chiesa in cui tutto parla di Dio incarnato, a cominciare da un crocifisso ben visibile e da un tabernacolo altrettanto evidente. Non indispensabile ma senza dubbio utile è la pianta a croce che, lo spiega Onorio di Autun, realizza l’idea della chiesa come Corpo mistico di Cristo: il coro è la testa, il transetto le braccia, la navata il busto, l’altare il cuore. In Italia da alcuni decenni non si costruiscono più chiese cattoliche: per colpa di quella specie di sindacato vescovi che è la Cei, la Conferenza episcopale italiana, le periferie pullulano di edifici ambigui, in cui si celebrano messe cattoliche senza che i muri lo siano. In Italia, insisto, perché negli Stati Uniti e in Inghilterra, per dire due nazioni importanti che tengo sott’occhio, non si è mai smesso di costruire chiese coerenti e anzi negli ultimi anni aumentano i templi visibilmente cristiani, firmati da architetti come Duncan Stroik e Thomas Gordon Smith. In Italia, a mia scienza, le uniche due recenti eccezioni alla regola sono una chiesa a Roma dell’Opus Dei, progettata da un architetto spagnolo, e una chiesa in Calabria, a Palmi, opera dello studio Isola di Torino.

Nessuna delle due è un capolavoro, sia chiaro, e hanno campanili alquanto timidi, ma certo non si possono confondere con la Kaaba islamica come la chiesa di Fuksas a Foligno, o con un cinema multisala come la chiesa di Meier a Tor Tre Teste, o con una centrale elettrica come la chiesa di Botta a Torino, o con un hangar aeroportuale come la chiesa di Piano a San Giovanni Rotondo.

Detto questo, è possibile essere fiduciosi? Solo per il master all’Università Europea? Non solo. In Italia – ve ne siete accorti? – sta rinascendo la liturgia, “fonte e culmine della vita cristiana”. Penso all’esplosione di interesse verso la messa tridentina, al restauro della messa di Paolo VI (il cui messale originale non è per nulla malvagio), al rilancio del gregoriano… Grazie a Papa Benedetto XVI e nonostante le resistenze di un clero mondano, ideologico e nostalgico, ogni domenica diminuisce (lentamente ma diminuisce) il numero di coloro che prendono l’ostia con le zampe anteriori, la cosiddetta comunione sulla mano, e aumentano le comunioni sulla lingua, aumentano le genuflessioni.

Declina perciò la messa antropocentrica, il rito clericale e assembleare che mette al centro il prete (non a caso definito presidente), per lasciar spazio alla messa teocentrica scesa direttamente dal “fate questo in memoria di me” dell’Ultima Cena. L’architettura, come l’intendenza, seguirà: sarà evidente a tutti, persino nelle curie più ottuse, che una liturgia capace di fare incontrare Cristo merita un’architettura che favorisca l’incontro. “Il luogo in cui ci troviamo determina ciò che crediamo” ha scritto Alain de Botton. Risorgerà un sacro verticale composto di campanili e inginocchiatoi, immagini e ostensori, crocifissi e candele, per incidere nei nostri sensi le parole di Cristo: “Che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Giuseppe resusciterà, l’architetto della chiesa dove si è celebrato il suo funerale non so.


Grazie a Il Mascellaro

Caterina63
00giovedì 29 ottobre 2009 14:52

L'autocritica di un rinomato architetto

Dopo il post con l'articolo di Langone sull'architettura ecclesiale, proseguiamo il discorso con questo intervento del noto architetto Portoghesi su L'Osservatore romano.

di Paolo Portoghesi

Quasi cinquanta anni ci dividono dal giorno in cui Giovani XXIII decise di convocare il concilio Vaticano II e una riflessione si impone, al mondo della cultura architettonica, sull'esito di quel lungo processo di innovazione nel campo della architettura religiosa cattolica che ha preso spunto dalla riforma liturgica e si è concretato in migliaia di chiese cattoliche costruite da allora in tutto il mondo. Chi scrive, avendo partecipato fin da principio e con diverse esperienze progettuali e realizzative alla ricerca di un nuovo modello ecclesiale, attribuisce a questa riflessione un valore autocritico e propositivo.

La prima delle quattro Costituzioni conciliari, quella promulgata il 4 dicembre 1963, ammoniva che "per conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via a un legittimo progresso non si introducessero innovazioni se non quando lo richiedesse una vera e accertata utilità della Chiesa, con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle esistenti". Parole relative all'innovazione liturgica che potevano però ragionevolmente estendersi anche all'innovazione delle forme e delle tipologie architettoniche. Il clima culturale degli anni Sessanta del secolo scorso, ancora fortemente influenzato dalla fiducia illimitata nelle rivoluzioni, favorì da parte degli architetti, una interpretazione radicale del "legittimo progresso", e una sovrana indifferenza per la "sana tradizione", vista come ostacolo a una radicale palingenesi basata sulla tabula rasa. Anzitutto venne messa in discussione la sacralità dell'edificio religioso affrontando il tema della differenza tra Chiesa spirituale e chiesa costruita, contrapponendo nozioni di cui la tradizione indicava invece la complementarità, come la Domus Ecclesiae e la Domus Dei, la Chiesa come corpo mistico di Cristo e come popolo di Dio, la Chiesa di Dio e la Chiesa degli uomini.

Dei poli liturgici tradizionali - l'altare, l'ambone, il tabernacolo, il battistero - venne ridiscussa la collocazione e i rapporti di ciascuno di essi con la comunità dei fedeli ai quali il Concilio richiedeva una partecipazione attiva. Di alcuni problemi, come quello di stabilire un equilibrio tra l'altare e l'ambone vennero proposte soluzioni paradossali, come quella di dividere i fedeli in due schiere contrapposte ponendo altare e ambone agli estremi del corridoio compreso tra i due fronti separati. Gli elementi architettonici mantenutisi nei secoli come invarianti: l'abside, le navate, la struttura cruciforme, il tiburio o la cupola come sorgente di luce, vennero generalmente rifiutati come inutili ai fini della configurazione di un nuovo spazio comunitario accentrato caratterizzato dall'orientamento del sacerdote verso i fedeli. La parola chiesa, come è noto, deriva da ecclesìa, che come scrive san Cirillo di Gerusalemme deriva a sua volta da ekkaleìsthai, chiamare a raccolta.

La Chiesa quindi, come realtà spirituale, è etimologicamente l'assemblea di coloro che sono chiamati dal Signore, mentre la chiesa come edificio deriva probabilmente dal greco kyriakòn, che significa semplicemente ciò che è proprio del Signore. Il significato che il termine assemblea aveva assunto negli anni del Concilio, come luogo di accese interminabili discussioni, così come la nozione di partecipazione, simbolo di democrazia diretta, dettero un valore simbolico improprio alla assemblea dei fedeli, chiamati a partecipare attivamente non a una discussione, ma all'azione liturgica in quanto soggetti di un "sacerdozio regale". Nacque così la chiesa-teatro, con platea digradante o la chiesa quadrata priva di orientamento come un'arena da intrattenimento.

In tempi recenti la moda del cosiddetto minimalismo ha riportato in auge una specie di iconoclastia, fino a escludere la croce e le immagini sacre e a spogliare l'immagine esterna di ogni residua analogia con le chiese tradizionali. Sotto il profilo urbanistico, la presa d'atto della perdita di centralità dell'edificio, condizionato dalla logica dello zoning, che assegna all'edificio religioso, nei piani territoriali, un lotto spesso residuale, condusse spesso gli architetti a un inane tentativo di imporre la presenza della chiesa, in mezzo ai volumi incombenti della periferia-dormitorio, attraverso una scomposta gestualità scultorea.

Accanto agli eccessi non sono certo mancati, negli ultimi cinquanta anni, esempi di notevole valore artistico e religioso, ma non è facile, nella pluralità e diversità delle esperienze, individuare una convergenza di indirizzi che possa preparare un rinnovamento non contraddittorio ma sostanziale, inaugurando nuove tipologie condivise, tali da poter finalmente realizzare l'indicazione conciliare che, a proposito del rinnovamento liturgico auspicava "nuove forme che scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle preesistenti". Alla opportunità di un bilancio che renda possibile una riflessione profonda e un orientamento condiviso spinge oggi l'alta approfondita riflessione che Benedetto XVI ha dedicato a questi temi in una serie di libri, a partire da il Popolo e casa di Dio in sant'Agostino (Milano, Jaca Book, 1978), a La festa delle fede (Milano, Jaca Book, 1984), dalle Cantate al Signore un canto nuovo (Milano, Jaca Book, 1996), all'Introduzione allo spirito della liturgia (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001). Fondamentale l'apporto al confronto tra Chiesa spirituale e chiesa costruita e di conseguenza il chiarimento della differenza tra tempio pagano e chiesa cristiana.

"Per la religione pagana - scrive il Papa - il rito visibile costituisce l'intero culto e anche la divinità cui è rivolto non vien concepita come una grandezza dell'al di là, la quale venga effigiata e rappresentata in forme visibili solo come indicazione. Questi dati visibili sono invece proprio il numen cui è diretta la venerazione e il quale si mostra così immediatamente raggiungibile. Con una parola, nel culto pagano (così come Agostino ha imparato a conoscerlo e lo ha inteso) non ci sono simboli, bensì solo realtà. In contrapposto, il culto cristiano, in quanto rito, è un espresso culto simbolico" (Popolo e casa di Dio in sant'Agostino, p. 249). La Chiesa è costruzione spirituale fatta, come scrive san Pietro, di pietre viventi che sono gli stessi fedeli, connessi alla pietra angolare rigettata che "è l'immagine di Colui che ha preso su di sé la sofferenza mortale dell'amore radicale e così è diventato spazio per noi tutti, pietra angolare, che dell'umanità dilacerata fa una dimora vivente, una nuova famiglia" (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 199).
 
Riconosciuta l'incolmabile distanza tra Chiesa e chiesa sarebbe giusto, si chiede Benedetto XVI, svalutare la chiesa come un involucro insignificante. "Non dobbiamo forse - scrive in occasione della celebrazione del primo millennio del Duomo di Magonza - anziché festeggiare ancora un edificio in pietra, avviarci audacemente e decisamente fuori dal passato impietrito e costruire la nuova comunità che venera Dio prendendosi cura radicalmente degli uomini? Non ha indicato giustamente la via da prendere quell'autore che ha volutamente intitolato un testo scolastico per l'insegnamento della religione La casa degli uomini, con l'intento di allontanare dalle case di Dio e condurre alla casa degli uomini, costruire la quale sarebbe l'autentico modo di seguire Gesù?" (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 106).

La risposta a questo interrogativo pone fine all'intento di svalutare l'involucro contrapponendo insensatamente la Chiesa vivente alla chiesa costruita. "Attraverso la passione dei suoi, Dio si costruisce la sua casa vivente e proprio così prende a suo servizio anche la pietra" (ivi, p. 109). La carne di Gesù è il tempio, la tenda, la Shekinah: la carne di Gesù è per Giovanni paradossalmente la verità e lo Spirito che subentrano al posto delle antiche costruzioni. Ma ora nella cristianità diventa viva l'idea che proprio l'incarnazione di Dio è la sua entrata nella materia, l'inizio del grande movimento per cui tutta la materia deve diventare vaso contenitore del Verbo. Ma anche la Parola deve conseguentemente dirsi nella materia, consegnarsi a essa, per poterla trasformare. Per questo sorge ora il piacere di rendere visibile la fede, di innalzare i suoi segni nel mondo della materia.

A questo si collega il secondo motivo: l'idea della glorificazione; il tentativo di fare della terra una lode, fin nei suoi sassi, e così anticipare la venuta del mondo futuro. "Le costruzioni in cui la fede si esprime sono per così dire speranza resa presente e affermazione fiduciosa di ciò che essa può divenire già ora nel presente" (ivi, p. 110). Alla luce di questi insegnamenti è ancora possibile attribuire alla chiesa costruita il solo valore di un involucro neutrale? Agostino definisce l'edificio ecclesiale mater ecclesia in quanto rappresenta il popolo di Dio, ne esprime l'identità e come luogo dell'azione liturgica è un appello ai cristiani a far accadere anche nella loro coscienza ciò che vedono e ascoltano nello spazio sacro. "Il tempio è innanzitutto il luogo dove abita Dio, lo spazio della sua presenza nel mondo. È perciò il luogo dell'adunanza, lo spazio in cui il patto di alleanza ha luogo sempre di nuovo. È il luogo dell'incontro di Dio con il suo popolo, il quale così ritrova se stesso. È il luogo da cui promana la parola di Dio, la sede visibile cui è orientato il modello della sua istruzione" (ivi, p. 200).

Se le considerazioni qui riportate incoraggiano chi deve progettare una chiesa a impegnarsi in profondità a dar forma allo spazio ecclesiale che può e forse deve rispecchiare il senso e la vita della Chiesa spirituale e rafforzare nei fedeli la coesione e la speranza, "giacché la costruzione degli uomini mira alla durata, alla tranquillità, alla familiarità, alla libertà. È una dichiarazione di guerra contro la morte, contro la solitudine, contro la paura. Per questo la volontà di costruire degli uomini si adempie nella costruzione del tempio, in quella costruzione in cui si invita Dio a entrare" (ivi, p. 100). Altre considerazioni ancora più specifiche del Papa possono chiarire quanto di insoddisfacente è avvenuto negli ultimi decenni segnalando come obbiettive carenze alcuni orientamenti prevalsi sia nelle indicazioni dei liturgisti che nelle concrete operazioni progettuali degli architetti.

Tre in particolare queste carenze: la perdita della dimensione cosmica della liturgia, la perdita del suo carattere dinamico, la mancata accettazione della sfida imposta dalla dimensione epocale. La dimensione cosmica era la ragione profonda che suggeriva la preghiera rivolta verso Oriente, luogo di origine della Luce e simbolo del Cristo veniente. L'orientamento dei fedeli verso il sacerdote, non prescritto dal concilio, ma adottato poi come regola, se ha favorito l'auspicata actuosa partecipatio e la comprensione dell'evento liturgico ha però involontariamente messo in ombra che "Il vero spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo" (La festa della fede, p. 112). Il rapporto di avvolgimento da parte dei fedeli nei confronti dell'altare e dell'ambone mettono sacerdote e comunità in un rapporto dialogico che esalta la dimensione comunitaria riferendosi all'interpretazione dell'Eucarestia come rievocazione dell'ultima cena.

Una conseguenza negativa è stata però l'aver messo in ombra l'aspetto sacrificale del sacramento. "È troppo poco - scrive il Papa in La festa della fede (p. 120) - definire l'Eucarestia come banchetto della comunità. Essa ha costato la morte del Signore e solo perciò può essere il dono della Resurrezione". Saggiamente il rimedio a queste carenze non viene indicato in una ulteriore rivoluzione liturgica ma in una più consapevole interpretazione dei dettami del concilio al quale il Papa riconosce il merito di aver liberato la liturgia "dai veli in cui l'aveva avvolta la storia" così che "ci si è nuovamente presentata nella sua semplicità e grandezza". Il suggerimento semplice ed essenziale è che nel momento della consacrazione il sacerdote adotti, volgendosi a Oriente, lo stesso orientamento dei fedeli. Principalmente rivolto agli architetti sembra essere l'altra carenza indicata, quella della perdita del valore dinamico della liturgia che chiaramente si esprimeva nel rapporto tra la naos e l'abside come traccia del popolo di Dio in cammino verso la salvezza e il Cristo veniente.

Indubbiamente gran parte delle chiese costruite dopo il Concilio negando non solo l'impianto longitudinale ma anche il dinamismo dello spazio processionale a vantaggio di un impianto equilibrato e racchiuso, hanno ridotto la chiesa a luogo di intrattenimento dimenticando due costanti dello sviluppo tipologico che splendidamente si svolse dall'età paleocristiana, al gotico, al rinascimento e al barocco: la profondità prospettica che esprimeva un percorso infinito, l'esodo "dai nostri poveri raggruppamenti per entrare nella grande comunità che abbraccia cielo e terra" (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 208) e la vertigine verso l'alto che nelle cupole e nei tiburi in modo così eloquente esprimeva il fatto che come la Chiesa spirituale la chiesa costruita può esprimere "la forza di gravità che spinge verso l'alto esemplificata dal fuoco". Le case degli uomini - si legge in Popolo e casa di Dio in sant'Agostino - le pietre delle quali son trascinate da una spinta interna verso il basso, hanno bisogno di un fondamento che stia in basso e dal basso le sostenga, se non si vuole che tutto traballi e precipiti nell'abisso. Ma cosa avviene nella casa di Dio, nella chiesa? La sua spinta per forza di peso si dirige verso l'alto. Infatti là è il luogo delle sue pietre, gli uomini credenti. Così essa giustamente non ha il suo fondamento sotto di sé, bensì sopra di sé e quindi il suo fondamento è anche il suo capo" (p. 255).

L'ultima e la più radicale delle critiche è rivolta agli artisti che credono. "La furia iconoclasta, i cui primi segni in Germania risalgono comunque già agli anni Venti, ha portato ad accantonare molto kitsch e molte opere indegne, ma, in definitiva, si è anche lasciata dietro un vuoto, di cui noi oggi torniamo a percepire con chiarezza tutta la miseria. Come si andrà avanti? Noi, oggi, non sperimentiamo solo una crisi dell'arte sacra, ma una crisi dell'arte in quanto tale, e con un'intensità finora sconosciuta. La crisi dell'arte è un altro sintomo della crisi dell'umanità, che proprio nell'estrema esasperazione del dominio materiale del mondo è precipitata nell'accecamento di fronte alle grandi questioni dell'uomo, a quelle domande sul destino ultimo dell'uomo che vanno oltre la dimensione materiale. Questa situazione può essere certamente definita come un accecamento dello spirito.

Alla domanda su come dobbiamo vivere, su come dobbiamo affrontare la morte, se la nostra esistenza abbia un fine e quale, a tutte queste domande non ci sono più risposte comuni. Il positivismo, formulato in nome della serietà scientifica, restringe l'orizzonte a ciò che è dimostrabile, a ciò che può essere verificato nell'esperimento; esso rende il mondo opaco. Contiene ancora la matematica, ma il Lògos, che è il presupposto di questa matematica e della sua applicabilità, non vi compare più. Allora il nostro mondo delle immagini non supera più l'apparenza sensibile e lo scorrere delle immagini che ci circondano significa, allo stesso tempo, anche la fine dell'immagine: oltre ciò che può essere fotografato non c'è più nulla da vedere. A questo punto, però, non è impossibile solamente l'arte delle icone, l'arte sacra, che si fonda su uno sguardo che si apre in profondità; l'arte stessa, che in un primo momento aveva sperimentato nell'impressionismo e nell'espressionismo le possibilità estreme della visione sensibile, resta priva di un oggetto, in senso letterale.

L'arte diventa sperimentazione con mondi che si crea da sé, una vuota "creatività", che non percepisce più lo Spirito Creatore. Essa tenta di prendere il suo posto e non riesce a fare altro che produrre l'arbitrario e il vuoto, che rendere l'uomo cosciente dell'assurdità della sua pretesa creatrice" (Introduzione allo spirito della liturgia, pp. 126-127). Con queste parole, dure e precise si chiede, agli artisti che credono, di impegnarsi in una sfida contro quella "vuota creatività" che non percepisce più lo "Spirito Creatore". "La chiesa - si legge nella Costituzione conciliare sulla sacra liturgia - non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma secondo l'indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca".

È giusto, sulla base di questa considerazione ineccepibile, accontentarsi di cantare in coro lo "spirito del tempo"? Di un tempo che celebra la "morte di Dio" annunciata da Nietzsche, come un destino universale al quale non ci si può sottrarre? All'alba del cristianesimo quale era lo spirito del tempo? Quello dei martiri e degli apostoli o quello dell'edonismo della Roma imperiale? L'impegno per un'arte sacra del nostro tempo ha precedenti di straordinaria qualità e rigore, da Rouault a Manzù, da Gaudí ad Aalto, da Schwarz a Michelucci. Per chi accetta la sfida c'è una strada maestra su cui procedere in avanti. "Anche oggi - si legge nell'Introduzione allo spirito della liturgia - la gioia in Dio e l'incontro con la sua presenza nella liturgia sono una forza inesauribile di ispirazione. Gli artisti che si sottopongono a questo compito non devono davvero sentirsi come la retroguardia della cultura, la libertà vuota da cui escono diventerà per essi motivo di disgusto. L'umile sottomissione a ciò che li precede è origine della libertà reale e li conduce alla vera altezza della nostra vocazione di uomini".

(©L'Osservatore Romano - 19-20 ottobre 2009)

Dell'Arch. Portoghesi e della sua chiesa a Calcata ci siamo occupati qui.


Caterina63
00giovedì 29 ottobre 2009 19:09
Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Quando la fede
è un'opera d'arte


di Timothy Verdon


L'arte sacra serve al sacerdote sia nella sua vita d'uomo e cristiano, sia nel suo ministero presbiterale. All'uno e all'altro contesto d'uso ha infatti accennato Benedetto XVI, nell'esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis del 2007, indicando la bellezza artistica come una delle "modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge" (n. 35) e sottolineando il "legame profondo tra la bellezza e la liturgia". In vista di tale legame, dice il Papa, "è indispensabile che nella formazione dei seminaristi e dei sacerdoti sia inclusa, come disciplina importante, la storia dell'arte con speciale riferimento agli edifici di culto alla luce delle norme liturgiche" (n. 41).
 
Queste parole fanno parte della millenaria tradizione cattolica, che ha sempre promosso, spiegato e all'occorrenza difeso la funzione dell'arte nella crescita spirituale dei credenti e nella missione pastorale della Chiesa. Già alla fine dell'era patristica, san Gregorio Magno riassumeva l'esperienza dei primi secoli cristiani in termini che la tradizione ha sintetizzato con l'espressione Biblia pauperum ("Bibbia dei poveri"). Scrivendo a un vescovo iconoclasta, sottolineò la finalità propriamente spirituale delle immagini sacre. "Altro è adorare un dipinto, altro imparare da una scena rappresentata in un dipinto che cosa adorare", diceva, aggiungendo che "la fraternità dei presbiteri è tenuta ad ammonire i fedeli affinché questi provino ardente compunzione davanti al dramma della scena raffigurata e così si prostrino umilmente in adorazione davanti alla sola onnipotente Santissima Trinità" (Epistola Sereno episcopo massiliensi, 2, 10).


Nello stesso spirito, nel nostro tempo Papa Paolo VI, ha suggerito la stretta affinità tra il lavoro del sacerdote e quello dell'artista:  "Noi onoriamo grandemente l'artista" - diceva in un'udienza del 7 maggio 1964 - "perché egli compie un ministero para-sacerdotale accanto al nostro. Il nostro ministero è quello dei misteri di Dio, il suo è quello della collaborazione umana che rende questi misteri presenti e accessibili". E nel documento in assoluto più importante in questo campo, la  Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II del 1999, lo stesso tema viene ribadito con l'affermazione che "per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell'arte. Essa deve, infatti, rendere percettibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell'invisibile, di Dio" (n. 12).

Questi testi del magistero sono il retroterra della valutazione dell'allora cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger, nell'introduzione al Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica per cui egli stesso aveva scelto un corredo d'immagini di varie epoche e culture. Il futuro Papa notava che "gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza", e conclude in chiave pastorale, definendo il ruolo dell'arte nel passato "un indizio... di come oggi più che mai, nella civiltà dell'immagine, l'immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico".

Il sacerdote, la cui spiritualità personale e professionale è legata ai segni sacramentali che egli gestisce, coglie facilmente il nesso tra l'arte visiva e fede cristiana. Sa che in Gesù Cristo il Verbo di Dio si è reso visibile diventando egli stesso "immagine dell'invisibile Dio" (Colossesi, 1, 15), e capisce pertanto che il ruolo delle immagini umane nella vita dei cristiani è in qualche modo analogo a quello dell'incarnato Verbo nella storia. "Un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico", ricordava san Giovanni Damasceno, evocando il divieto veterotestamentario a ogni raffigurazione della Divinità. "Ma ora - continuava - Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio" (Discorso sulle immagini, 1, 16). Citando quest'opera del VIII secolo, nel 1987 Giovanni Paolo II scrisse:  "L'arte della Chiesa deve mirare a parlare il linguaggio dell'Incarnazione ed esprimere con gli elementi della materia, Colui che si è degnato di abitare nella materia e di operare la nostra salvezza attraverso la materia" (Duodecimum saeculum, n. 11).

Anche se usiamo ancora il termine "Bibbia dei poveri", non è cioè solo una questione d'immagini didattiche che, in circostanze particolari, sostituiscono il testo scritto. Piuttosto, nella concezione cattolica, l'immagine può toccare l'intima realtà morale e spirituale della persona. "La nostra tradizione più autentica, che condividiamo pienamente con i fratelli ortodossi - diceva ancora Giovanni Paolo II - c'insegna che il linguaggio della bellezza, messo al servizio della fede, è capace di raggiungere il cuore degli uomini, di far loro conoscere dal di dentro Colui che noi osiamo rappresentare nelle immagini, Gesù Cristo" (Ibidem, n. 11).

In un documento parallelo, ugualmente del 1987, il patriarca Dimitrios di Costantinopoli affermava che, nella tradizione ortodossa, "l'immagine (...) diventa la forma più potente che prendono i dogmi e la predicazione" (Encyclique sur la signification théologique de l'icone).
Nell'una e nell'altra tradizione infatti - nella Chiesa d'Oriente come in quella d'Occidente - l'uso di immagini sacre nel contesto della liturgia è servito nei secoli a manifestare il particolare rapporto che, grazie all'incarnazione di Cristo, sussiste tra "segno" e "realtà" all'interno dell'economia sacramentale.

Tale rapporto, invero, traspare in tutte le opere che l'uomo associa al culto divino:  dai vasi sacri e tessuti alle più monumentali costruzioni architettoniche, perché l'uso delle "cose" nella liturgia della Chiesa rivela sempre e attualizza la vocazione del mondo infraumano, chiamato insieme all'uomo e per mezzo dell'uomo a rendere gloria a Dio.
Più ancora che delle "cose" però, l'arte parla degli uomini e delle donne che la creano, perché - come affermano i vescovi toscani in una nota pastorale del 1997 - nel modo in cui "trasfigurano" la materia, "gli artisti rivelano per analogia la struttura della creatività personale, il modo cioè in cui ogni uomo e donna "progetta", "modella" e "colora" la propria vita per meglio servire Dio e il prossimo" (La Vita si è fatta visibile. La comunicazione della fede attraverso l'arte, n. 12). Giovanni Paolo II collocherà quest'osservazione sull'orizzonte etico del singolo artista, affermando che "chi avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica... avverte al tempo stesso l'obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo, per metterlo al servizio del prossimo e di tutta l'umanità" (Lettera agli artisti, n. 3).

Con toni argentei e tinte luminose ricrea l'esperienza dell'artista, in cui "l'aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione della bellezza e della misteriosa unità delle cose". Ammette la frustrazione provata dagli artisti di fronte al "divario incolmabile che esiste tra l'opera delle loro mani, per quanto riuscita che essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del momento creativo", del cui splendore l'opera realmente dipinta o scolpita non è che un barlume. Ma condivide anche il rapimento del credente davanti a un capolavoro d'arte, spiegando che "egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell'abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria" (n. 6).

Ecco perché già Paolo VI, parlando ai poeti e uomini di lettere, pittori, scultori, architetti, musicisti, alla gente di teatro e del cinema alla conclusione del concilio Vaticano ii, aveva detto:  "Da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con voi. Voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l'avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere sensibile il mondo invisibile. Oggi come ieri, la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce:  non lasciate interrompere un'alleanza feconda fra tutte! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Divino! Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell'ammirazione..." (Messaggi del Concilio all'umanità, 8 dicembre 1965).
 
Consegue che il sacerdote deve cercare gli artisti, conoscerli e imparare da loro. A modo loro sono sempre uomini e donne "di fede" - anche quando si proclamano non-credenti - perché "fanno" cose. La fede, creativa, genera opere, e "se non ha le opere, è morta in se stessa" (Giacomo, 2, 17) come un'idea geniale che l'artista non traduce in un dipinto o in una statua. La fede poi è un terreno familiare agli artisti, i quali ogni giorno devono affrontare la fatica di tradurre intuizioni e idee, impressioni e osservazioni, concretizzandole in "opere". Sanno bene che l'unico modo di perfezionarsi è darsi da fare, buttarsi, rischiando il fallimento, lo spreco di tempo, di materiali, d'energia; rischiando addirittura il ridicolo. Meglio d'altri, capiscono come in Abramo "la fede cooperava con le opere" e "per le opere divenne perfetta" (Giacomo, 2, 21-22).

Ma gli artisti capiscono la dinamica della fede a un livello ancora più essenziale, identificandosi con il rischio e il pathos dello stesso Artefice Dio. Sperimentano come intima speranza e necessità e sofferenza il desiderio d'esternare un'idea che sfugge, un concetto "unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante" (Sapienza, 7, 22) che magari sembra ricapitolare tutto ciò che l'artista sa d'avere dentro, e che egli vuole, anzi "deve" condividere con altri, per farli vedere con i loro occhi e contemplare e toccare con le loro mani una cosa che, in lui "c'era fin da principio" (1 Giovanni, 1, 1). Non v'è artista che non si identifichi col Creatore che rischiò tutto pur di rendere la propria "vita... visibile" agli uomini (1 Giovanni, 1, 1-2).

Dagli artisti il sacerdote può imparare che la fede in sé è arte. Certo, in primo luogo è dono, ma è un dono che, come il talento umano, chi lo riceve deve sviluppare. Non parlo qui della fede intesa come sistema, mirabile compendio di credenze e tradizioni, ma dell'atto di fede, del "salto" di fede, del "rischio" per cui si passa da un'esistenza "artigianale", fatta di cause ed effetti, alla vita sperimentata come "arte", vissuta come un'opera "ispirata", aperta alla gratuità, informata dalla grazia. Le cause e gli effetti possono - ahimè - esigere vendette e guerre, imprigionando l'uomo; la grazia, che è verità gratuitamente donata, perdona e rende liberi.

Queste cose il sacerdote deve sapere quando prega, quando celebra messa, quando riconcilia i peccatori con Dio. E le può imparare, se Dio vuole, anche dall'arte e dagli artisti.


(©L'Osservatore Romano - 30 ottobre 2009)

Caterina63
00domenica 1 novembre 2009 14:09

IL TESORO DELL'ARTE


L’arte è un tesoro di catechesi inesauribile, incredibile. Per noi è anche un dovere conoscerla e capirla bene. Non come fanno qualche volta gli storici dell’arte, che la interpretano solo formalmente, secondo la tecnica artistica. Dobbiamo piuttosto entrare nel contenuto e far rivivere il contenuto che ha ispirato questa grande arte. Mi sembra realmente un dovere — anche nella formazione dei futuri sacerdoti — conoscere questi tesori ed essere capaci di trasformare in catechesi viva quanto è presente in essi e parla oggi a noi.

(Benedetto XVI - Incontro del Santo Padre con i parroci e il clero della Diocesi di Roma - 22 Febbraio 2007)

APPELLO AL PAPA PER RITORNARE ALL'ARTE SACRA VERA ED AUTENTICA

Il Papa ci salvi dalle brutte chiese

Francesco Borgonovo

Quando a Foligno è stata inaugurata la chiesa a forma di cubo progettata da Massimiliano Fuksas, i cittadini umbri hanno tempestato il web di messaggi per protestare contro l’opera, da alcuni considerata tra gli edifici più brutti d’Italia.
Quel caso ha permesso che fra critici e architetti si aprisse un dibattito, di cui ha dato conto su queste pagine Caterina Maniaci qualche tempo fa.
Ora la questione viene sollevata nientemeno che di fronte a Papa Benedetto XVI, tramite
un appello che sarà reso pubblico il prossimo 4 novembre, in previsione dell’incontro con gli artisti provenienti da tutto il mondo che si terrà il 21 del mese.
Il documento sta ancora circolando fra gli esperti, ma finora pare abbia raccolto adesioni importanti. Per esempio quella dello scrittore Martin Mosebach, autore di Eresia dell’informe, del giornalista Sandro Magister, dell’architetto Ciro Lomonte, del filosofo Enrico Maria Redaelli. E ancora compaiono lo storico Paul Badde (corrispondente del giornale Die Welt), il filologo Francesco Colafemmina, il teologo Michele Loconsole e l’editore Manuel Grillo.

Strutture poco amate dai fedeli

Il fatto è che molte delle nuove chiese - come quella di Dio Padre Misericordioso nel quartiere di Tor Tre Teste a Roma, quella di San Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano o quella di Gesù Redentore a Modena ideata da Mauro Galantino - non spiccano per bellezza e, soprattutto, non sono amate dai fedeli.
«Vediamo crescere di giorno in giorno edifici sacri spogliati del sacro e costruiti senza alcuna cognizione della liturgia, ma modellati sul funzionalismo o sull’estro inconsulto e arbitrario dell’architetto creatore», recita l’appello. «Vediamo le nostre chiese pullulare di immagini e simbolismi più genericamente “religiosi”, ma che non illustrano alcuna realtà genuinamente cattolica». Secondo gli estensori, «l’arte e l’architettura sacre oggi non sembrano favorire l’incontro dolce e vivificante» con Dio, ma piuttosto «ostacolano e pervertono costantemente».
Di chi è la responsabilità se i credenti si devono raccogliere in edifici orrendi? Non solo degli architetti che li progettano, ma anche di chi commissiona le opere.
Ecco che, su questo punto, l’appello fa riferimento al Discorso intorno alle immagini sacre e profane del cardinal Gabriele Paleotti, risalente al 1582, secondo il quale «gli abusi non sono tanto da ascrivere agli errori che gli artisti commettono nel dar forma alle immagini, quanto piuttosto agli errori dei signori che le commissionano e che trascurano di commissionarle come si dovrebbe: essi sono le vere cause degli abusi, in quanto gli artisti non fanno che seguire le loro indicazioni».
Insomma, anche i committenti si fanno spesso incantare dalle sirene della moda, motivo per cui si affidano ad archistar come Massimiliano Fuksas o Renzo Piano, forse senza pensare che i trend passano, ma gli edifici restano.
«L’opera artistica e architettonica», scrivono Lomonte e gli altri, «a differenza della liturgia, permane anche dopo la conclusione della liturgia stessa. Essa ha perciò il compito aggiuntivo di essere eco della liturgia, una volta che questa sia terminata. Pertanto la decorazione della chiesa e la sua struttura architettonica debbono rivendicare una inalienabile funzione pedagogica e protrettica verso la fedeltà al messaggio evangelico e liturgico».

Il sito internet per le adesioni

Dunque basta con le chiese che assomigliano a capannoni o cubi di cemento, meglio qualcosa di più semplice, che però si adatti al ruolo che gli edifici sacri devono svolgere.
Il documento, come dicevamo, sarà disponibile online dal prossimo 4 novembre sul sito internet
http://www.appelloalpapa.blogspot.com/.

Per aderire, invece, basta scrivere una email all’indirizzo appelloalpapa@gmail.com. Chissà che Benedetto XVI non decida di prendere personalmente in mano la questione.

© Copyright Libero, 1° novembre 2009

Caterina63
00lunedì 16 novembre 2009 09:27
[SM=g1740733] interessanti riflessioni da Messainlatino....

Cronache romane 1: storie di ordinaria desacralizzazione

Festa di Ognissanti, in una normale parrocchia di Roma, diocesi del Papa.

Sorvoliamo sull’edificio a forma di palestra, dominato da una “pala d’altare” raffigurante le nozze di Cana attualizzate con invitati in giacca e cravatta.

Il Santissimo è relegato da un lato, dall’altro un bel crocifissone (degno di don Camillo, ma un po’ spaesato in quel contesto…). Ben più visibile lo schermo dove scorrono le slides con i testi dei canti, tipo karaoke.

Facciamo il possibile per evitare la fatidica domanda: “Vuoi fare la prima lettura?” – “Vuoi leggere la preghiera dei fedeli?” – si sa, nella mente di certi liturgisti e quindi nella buona fede degli ‘animatori parrocchiali’, ognuno deve assolutamente fare qualcosa, bisogna per forza coinvolgere, coinvolgere, fortissimamente coinvolgere… Pericolo scampato, la signora seduta poco più avanti si è aggiudicata l’ultima corvée disponibile.

La Messa è tutta cantata con un esaltante mix di organo, chitarre e sonagli vari (un po’ come mescolare l’aranciata col Chianti). Il canto di ingresso, perfettamente intonato alla solennità liturgica è una versione italiana di Oh when the Saints go marching in – la melodia è la stessa. Un paio di commenti-monizioni della maitresse liturgica sono inevitabili.

Il lato B delle signorine che mi stanno davanti è molto gradevole, ma forse durante la consacrazione sarebbe meglio riuscire a vedere il Corpo di Nostro Signore – purtroppo le ginocchia postconciliari sono notoriamente doloranti e gli altari abbassati non permettono di vedere oltre i deretani alzati.

La sacra funzione si chiude con un canto finale che dice pressappoco “che bello andare in giro per le strade con la gente della mia città…” e al mix di cui sopra si aggiunge anche il battimani.

Insomma, un continuo happening in cui si fatica ad elevarsi verso la liturgia eterna celebrata incessantemente in Cielo dagli angeli. Pensiamo tristemente ai motivi logistici che per oggi ci hanno impedito di recarci a Trinità dei Pellegrini (ma ci rifaremo domani) eppure nel complesso dobbiamo ammettere che quella Messa è stata perfettamente in regola.
Il prete non ha inventato, non ha compiuto vistosi abusi.

Né possiamo totalmente addebitare la cosa al messale in sé, poiché abbiamo visto celebrazioni “riformate” assolutamente degne e celesti, officiate in piena devozione e col massimo decoro (Benedetto XVI ne è un esempio). E del resto l’avanspettacolo liturgico è iniziato già prima della promulgazione del nuovo messale (basta vedere i filmati delle prime Messe beat).

Non è questione (soltanto) di rubriche o di messale, il problema è a monte: ci vengono in mente le riflessioni del card. Ratzinger e di don Nicola Bux sulla liturgia “fabbricata” dal gruppo, nonché quelle di Martin Mosebach sulla perdita della liturgia come qualcosa di ricevuto dall’alto, una realtà che è più grande di noi e ci precede. “Cosa mi aspetta oggi?” è l’inevitabile domanda in tempi di liturgie-bricolage. C’è chi la costruisce bene e chi la costruisce male, ma è in ogni caso costruita dal “gruppo” o dalla “comunità” che ha smesso di guardare in alto e danza intorno al proprio vitello d’oro (o di slides e cartelloni colorati).


Qualcosa è andato storto e qualcuno, per l'amor di Dio (è proprio il caso di dirlo!) ponga rimedio “colà dove si puote ciò che si vuole”…

SC



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Cronache romane 2: quella Roma onde Cristo è romano

Messa cantata nella commemorazione dei fedeli defunti nella parrocchia “tridentina” di Trinità dei Pellegrini (Parrocchia elevata personalmente dal Pontefice Benedetto XVI): solenne e sobria allo stesso tempo, è stupefacente ad un certo punto “auto-sorprendersi” a pregare bene e spontaneamente: cor ad cor loquitur, cosa alquanto difficile nella continua logorrea di tante messe in forma ordinaria.


Si avverte la percezione chiara di quanto sia terribile la morte (nera come i paramenti e brutta come i teschi che ornano il messale e il catafalco), ma anche della dolcezza con cui tutta la Chiesa accompagna le anime defunte verso la vita eterna. Anche quando non si comprendono distintamente tutte le parole, il gregoriano (la Chiesa terrena e celeste!) sembrava quasi piangere e allo stesso tempo "cullare" queste anime (inclusa un giorno quella di ciascuno di noi). Anche le anime purganti piangevano e insieme pregavano per noi che le aiutiamo a salire l'ultimo gradino verso il Paradiso...


Nell'ultimo giorno poi sarà sconfittà anche la morte, sarà addirittura colta di sorpresa lei che pensava di avere l'ultima parola! (mors stupebit et natura)


Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me fons pietatis! - Allora persino l'umana paura di quel giorno in cui "cuncta stricte discussurus", in cui renderemo conto di tutto, ma proprio tutto, si trasforma nella fiduciosa richiesta di perdono verso quel Re la cui maestà è tanto terribile quanto misericordiosa, poiché Egli stesso è la fonte della pietà (fons pietatis). Dies irae che si scioglie progressivamente in un Dies misericordiae.


Altra riflessione invece sulla "romanitas" di questo rito. La bellezza di questa e di tante chiese dell'Urbe, dalle colonne degne di incorniciare un imperatore e a maggior ragione il Re dei re contrasta con lo “stile Ikea” di molte liturgie...a qualcuno tutto questo apparato, addirittura un alto catafalco nero, con candele ai lati, potrà sembrare un po' troppo pomposo e barocco, in definitiva un'aggiunta di troppo (che secondo i riformatori andava tolta con gli stessi scriteriati criteri con cui i moderni esegeti vivisezionano persino i Vangeli, con la scusa di trovare il "vero" Gesù, cioè quello che piace a loro).

In realtà non è stata un' aggiunta (peraltro graduale nel corso dei secoli) di quello stile, quella cultura, alla presunta semplicità del Vangelo - al contrario è avvenuto il processo inverso:è avvenuta, in una parola una vera inculturazione: Cristo ha fecondato quella culture che trovava e che trova sui suoi passi. Cristo ha deciso di incarnarsi non solo "stricto sensu" a Betlemme, ma anche a Roma per mezzo di Pietro - “quella Roma onde Cristo è romano” diceva Dante Alighieri . E ha continuato a fecondare ciò che Roma è diventata nel corso dei secoli, dalle catacombe al barocco.


SC

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Caterina63
00lunedì 16 maggio 2011 10:49

Il Card. Ferdinando Antonelli e la Commissione per la Riforma Liturgica

Il Cardinale Giuseppe Ferdinando Antonelli nacque il 14 luglio 1896. Il 25 luglio 1914, a 18 anni, veste l’abito francescano.

Il 25 luglio 1922 diventa sacerdote. Presso l’Antonianum, fu professore di Storia ecclesiastica antica e di Archeologia. Fu professore di Liturgia presso l’Istituto Internazionale dei Padri Carmelitani Scalzi e all’Apostolicum. Il 22 febbraio 1930 viene nominato Consultore della Sacra Congregazione dei Riti per la sezione storica, di cui, nel 1935 diviene Relatore Generale. Nel 1948 fu nominato membro della Pontificia Commissione per la riforma liturgica, compito che assolse fino al 1960. Durante il Concilio Vaticano II fu Perito e Segretario della Commissione Conciliare della Sacra Liturgia (con nomina il 4 ottobre 1962): la commissione che preparò lo schema della Sacrosanctun Concilium da presentare ai Padri conciliari.
Il 27 febbraio 1964, fu nominato Membro del “Consilium ad exequendam Constitutionem de S. Liturgia”. Il 26 gennaio 1965 venne nominato Segretario della Sacra Congregazione dei Riti.
Risultano molti suoi scritti de “re liturgia”, come anche due manuali di Liturgia preparati dall’Antonelli pla riforma liturgica grazie alla splendida figura di questo Cardinale che aveva una grande competenza liturgica, era molto stimato da Papa Paolo VI e partecipò in prima persona sia ai lavori per la stesura della Sacrosanctum Concilium, sia ai lavori del su indicato Consilium che aveva il compito di applicare la riforma.

er gli allievi. Si tratta di una figura non solo di alto profilo e di grande competenza liturgica, ma anche di grande comunione con la Chiesa: fu nominato Vescovo il 21 febbraio 1966 e ordinato dallo stesso Papa Paolo VI il 19 marzo successivo. Sette anni più tardi, sempre Papa Paolo VI, sotto il cui pontificato è avvenuta la riforma liturgica, nel Concistoro del 5 marzo 1973, lo creava Cardinale. Il libro di Nicola Giampietro sul “Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970” (pubblicato dal Pontificio Ateneo S. Anselmo, con la prefazione di Aimé Georges Martimort) è uno strumento prezioso per avere, dall’interno, informazioni chiare e sicure su come si è sviluppata.


CHE COS’È IL “CONSILIUM”
“Tutte le riforme si attuano per Decreto, così la Costituzione Liturgica del Concilio è stata seguita dall’Istruzione “Inter Oecumenici” che indica le norme pratiche di attuazione” (op. cit., p. 223). “Il 25 gennaio 1964, Papa Paolo VI con il Motu proprio “Sacram Liturgiam” istituiva una Commissione che aveva il compito principale di attuare nel modo migliore le prescrizioni presenti nella Sacrosanctun Concilium.

Il nuovo organismo detto “Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, era composto anzitutto dai Cardinali Giacomo Lercaro (presidente), Paolo Giobbe e Arcadio Larraona; il segretario era il P. Annibale Bugnini. (FOTO) C’erano poi 200 consultori tra cui 6 protestanti: il dr. Georges, il canonico Jasper, il dr. Shepard, il dr. Konneth, il dr. Smith e fr. Max Thurian i quali per esplicita testimonianza din Mons. W.W. Baum (oggi cardinale) non furono semplici osservatori ma ebbero un ruolo attivo nella creazione della nuova messa (cfr. intervista al Detroit News del 27/06/1967). Delle prime adunanze di questo Consilium si parla nel diario dell’Antonelli e si deduce che egli prese parte attiva al momento progettuale e  decisionale” (op. cit., p. 225). Si ritiene di dover nominare dei consultori: “Non saranno pochi. Più ancora i Consiliari che dovranno esaminare gli schemi. I nomi dei Consultori non saranno pubblicati.
/…/


1^ ADUNANZA
Al termine della prima adunanza l’Antonelli annota: “Non sono entusiasta dei lavori. Mi dispiace del come è stata cambiata la Commissione: un raggruppamento di persone, molte incompetenti, più ancora avanzata nelle linee della novità. Discussioni molto affrettate.
Discussioni a base di impressioni: votazioni caotiche. Ciò che più mi dispiace è che i Promemoria espositivi e i relativi quesiti sono sempre su una linea avanzata e spesso in forma suggestiva.
Direzione debole. Spiacevole il fatto che si riaccende sempre la questione dell’art. 36 § 4. Mons. Wagner era inquieto. Mi dispiace che questioni, forse non tanto gravi in sé, ma gravide di conseguenze, vengano discusse e risolte da un organo che funziona così. La Commissione o il Consilium è composto di 42 membri” (op. cit., pp. 228-229)


2^ ADUNANZA
“I rilievi dell’Antonelli rivelano il clima nel quale si lavorava. Si viene a sapere che non c’erano solo discussioni su determinati problemi, ma che si facevano anche degli esperimenti liturgici veri e propri”(op. cit., p. 230). /…/

3^ ADUNANZA
“Dispiace lo spirito che è troppo innovatore.
Dispiace il tono delle discussioni troppo sbrigativo e tumultuario talvolta.
Dispiace che il Presidente non abbia fatto parlare, domandando a ciascuno il parere”(op. cit., p. 230).

5^ ADUNANZA
“Si proponeva di togliere il Confiteor dalla S. Messa. Dopo un intervento dell’Antonelli si decide che ci deve essere un atto penitenziale nella Messa e all’inizio. Si discute sul Kyrie e Gloria, sulla Liturgia Verbi e sull’offertorio. “Mi dicono che per l’offertorio è stato rilevato come il passo dei Proverbi 9, 1-2, sia cosa artificiale. Ma questo è proprio il sistema deprecato di Durando de Mende, di prendere cioè dei passi della Scrittura solo perché vi ricorre la parola di un rito. Nella Sapienza, i vini e i cibi sono i consigli e la dottrina che derivano dalla Sapienza, che cosa ha da vedere con l’Eucaristia? /…/ A conclusione della quinta sessione l’Antonelli esprime un giudizio preoccupato: “Lo spirito non mi piace. C’è un spirito di critica e di insofferenza verso la S. Sede che non può condurre a buon termine. E poi tutto uno studio di razionalità nella liturgia e nessuna preoccupazione per la vera pietà. Temo che un giorno si debba dire di tutta questa riforma quello che fu detto della riforma degli inni al tempo di Urbano III: “accepit latinitas recessit pietas”; e qui accepit liturgia recessit devotio”. Vorrei ingannarmi”
(op. cit., pp. 233-234).

6^ ADUNANZA
“Nelle ordinazioni si decide, con poca maggioranza, che i concelebranti impongano solo le mani (la materia) senza dire la formula (la forma). A mio modo di vedere la questione è grave e non si può permettere quanto è stato proposto da Dom Botte” (op. cit., pp. 234-236).

7^ ADUNANZA
“A questa Sessione, per la prima volta, hanno partecipato osservatori delegati di chiese protestanti. /…/ In merito all’ordinazione sacerdotale l’Antonelli osserva con sorpresa che, nell’allocuzione del Vescovo agli ordinandi, che è nuova, tra gli uffici del sacerdote non è citato il suo impegno principale: offrire il sacrificio eucaristico. Osserva che anche l’espressione usata dal Vescovo subito dopo per indicare agli ordinandi cosa devono fare “è una formula vaga e non si può accettare. Bisogna ammettere chiaramente che il sacerdote ha il preciso ufficio di offrire il sacrificio eucaristico”. Dopo un altro incontro di studio il Padre Antonelli annota: “Ho l’impressione che il corpo giudicante, che in questo caso erano i 35 Padri del Consilium presenti, non fossero all’altezza.
C’è poi un elemento negativo: la fretta di andare avanti con urgenza” (op. cit., pp. 236-237).

8^ ADUNANZA
“Nell’adunanza del 19 aprile 1967, Paolo VI intervenne personalmente e parlando del cammino in corso dell’attuazione della riforma liturgica, Paolo VI si disse amareggiato, perché si facevano esperimenti capricciosi nella Liturgia e più addolorato ancora di certe tendenze verso una desacralizzazione della Liturgia.

Però ha riconfermato la sua fiducia al Consilium. E non si accorge il Papa che tutti i guai vengono dal come sono state impostate le cose in questa riforma del Consilium”. /…/ È pessimo il sistema delle discussioni: a) gli schemi spesso vengono prima della discussione.
Qualche volta, e in cose gravissime, come quella delle nuove anafore, è stato distribuito uno schema la sera, per discuterlo l’indomani. b) Il Card. Lercaro non è l’uomo per dirigere una discussione.
Il P. Bugnini ha solo un interesse: andare avanti e finire. c) Peggiore il sistema delle votazioni. Ordinariamente si fanno per alzata di mano, ma nessuno conta chi l’alza e chi no, e nessuno dice tanti approvano e tanti no. Una vera vergogna. Non si sa quale maggioranza sia necessaria, se dei due terzi o quella assoluta. Altra mancanza grave è quella che manca un verbale delle adunanze. /…/ Viene deciso di rivedere la struttura e l’ordinamento del “Consilium”. /…/ Ecco cosa – tra l’altro - l’Antonelli scrive al Papa: “a) è molto diffusa, in gran parte del clero e dei fedeli, una notevole inquietudine per queste continue mutazioni. b) Questo stato di instabilità /…/ favorisce gli arbitri e abbassa sempre più il rispetto sacro delle leggi liturgiche. c) Gli esperimenti è necessario che siano pochi, limitati nel tempo e riservati a pochissimi ambienti qualificati, con persone responsabili.

Esperimenti in vasta scala e la larghezza, forse con la quale sono stati permessi, ha fatto sì che non pochi sacerdoti, un pò dovunque, si ritengano autorizzati a tentare le cose più stravaganti, con il pretesto che si fanno ad experimentum. d) È cosa nuova che un organo della S. Sede prepari da sé il suo statuto e lo approvi e che il Papa soltanto lo confermi. e) Nella nomina dei componenti il Consilium, compresi i Cardinali, come dei suoi Consultori e dei suoi organismi, per i quattro quinti la scelta è fatta dallo stesso Consiglio di Presidenza e al Papa spetta solo la conferma (è chiaro che se vuole può non confermare, ma in pratica è la scelta che determina). Il Papa così può scegliere direttamente e nominare solo una quinta parte, compresi, ripeto, i Cardinali. Queperché anche dopo Trento e il Vaticano I, terminato il Concilio, fu la Santa Sede che tornò ad avere piena autonomia” (op. cit., pp. 237-242).

RILIEVI FINALI SUL “CONSILIUM”

“In uno scritto relativo a tutto il 1967, Mons. Antonelli espone le sue impressioni sulla situazione interna ed esterna al “Consilium”: 1) Confusione. Nessuno ha più il senso sacro e vincolante della legge liturgica. I cambiamenti continui, imprecisi e qualche volta meno logici, e il deprecabile sistema, secondo me,degli esperimenti, hanno rotto le dighe e tutti, più o meno, agiscono ad arbitrio; 2) c’è stanchezza. Si è stanchi delle continue riforme e si desidera da tutti di arrivare ad un punto fermo; 3) negli studi di più vasta scala continua il lavoro di desacralizzazione e che ora chiamano secolarizzazione; 4) da qui si vede che la questione liturgica /…/ si inserisce però a sua volta in una problematica molto più vasta, e in fondo dottrinale; 5) la grande crisi perciò è la crisi della dottrina tradizionale e del magistero” (op. cit., pp. 242-243). “l’Antonelli fa emergere il suo disappunto per le varie prese di posizione nei confronti della riforma liturgica perché pone la liturgia a fondamento della formazione cristiana e quindi si aspettava che la riforma liturgica venisse applicata seriamente con una certa calma e ponderato equilibrio” (op. cit., p. 247).


LA VERA RIFORMA DEL CONCILIO?

Nei suoi appunti l’Antonelli ci aiuta a vedere quali erano i punti sui quali i Padri si basarono per stilare la Costituzione liturgica.
Dopo averne fatto l’elenco dettagliato egli, nei suoi appunti, sottolinea in rosso il problema della lingua volgare, quasi a significare l’importanza dell’argomento e i contrasti che ha generato. “Si tratta di due valori in conflitto. Il latino è certamente la lingua della liturgia latina da circa 1600 anni; è un segno e coefficiente anche di unità; è anche tutela della dottrina, non tanto per l’indole della lingua quanto perché si tratta ormai di una lingua che non è più soggetta a mutazioni; molti testi d’incomparabile bellezza non potranno mai avere nella traduzione la stessa efficacia; al latino finalmente è legato un patrimonio preziosissimo, quello melodico, gregoriano, polifonico. Dall’altra parte è fuori di dubbio che se vogliamo riportare i fedeli, tutti i fedeli, ad una partecipazione diretta, cosciente e attiva, bisogna rivolgersi a loro nella lingua che essi parlano.

La Costituzione ha scelto l’unica soluzione possibile in tali casi: la soluzione del compromesso: per certe parti, come il Canone, resta il latino; per le altre, quelle soprattutto che più direttamente si rivolgono al popolo, con le letture, la restauranda “oratio fidelium”, si introduca il volgare” (op. cit., p. 206).

Fonte: Fedeecultura


Vi invitiamo a leggere anche QUESTO THREAD




Caterina63
00sabato 4 giugno 2011 13:05
La Bellezza che ci salva di Enrico Maria Radaelli

Recensione di Maria Guarini


Tra le conclusioni del Convegno di dicembre scorso sul Concilio Vaticano II è emersa la consapevolezza che nella difficoltà ermeneutica in cui ci dibattiamo si nasconde la carenza della metafisica. E’ un problema di forma e di sostanza: la modernità fa perdere chiarezza accusando il dogmatismo normativo, ma accantonare la metafisica è significato accantonare la fede che è messa in un angolo.

E’ appena uscito un nuovo libro di Enrico Maria Radaelli (*), un autore che ha la peculiarità di intraprendere percorsi metafisici di rara profondità e suggestione intellettuale e spirituale, sviluppando e proseguendo sia l'opera di Romano Amerio che la sua personale elaborazione su dove e come sia avvenuto il «disorbitare della Chiesa dal suo fine primario» e individuando le soluzioni secondo la Tradizione perenne, non quella “vivente” in senso storicistico.

Abbiamo la ventura di immergerci in 300 pagine che flagellano e svuotano di ogni sua più ridicola pretesa di ragionevolezza e persuasività il liberalismo massonico: La Bellezza che ci salva. La forza di imago, il secondo Nome dell’Unigenito di Dio, che, con Logos, può dar vita a una nuova civiltà, fondata sulla bellezza.

Avrebbe potuto chiamarsi La Verità che ci salva (soprattutto dal liberalismo massonico), ma l’Autore ha voluto riferirsi alla nota affermazione dostoevskjiana in primo luogo per mostrarne una volta per tutte la futilità, in secondo per portare finalmente alla ribalta le devastanti nuove eresie iconologiche propalate dalle diaboliche vesti cementizie delle nuove chiese, che sono lo specchio di quelle logiche che stanno oscurando la Tradizione perenne, unica portatrice della Verità.

Nelle nuove chiese impera da decenni l’«assenza di immagini» di Cristo e delle sue schiere di angeli e santi, impera cioè l’iconoclasmo, e Radaelli dimostra che esso è il risultato visivo e appariscente dell’attuale ostinata e grave sospensione della pastorale dogmatica nel magistero della Chiesa, dunque è doppiamente «incompatibile con l’Incarnazione» (p. 156).

La sospensione del munus dogmatico a favore di un insegnamento meramente “pastorale”, denunciato da mons. Gherardini come il più grave intorbidamento del magistero attuale, è dichiarato da Radaelli un vero e proprio «peccato di pastoralità del magistero» (p. 54) sia contro la fede che contro la carità, iniziato da Giovanni XXIII e tenuto dai Papi fino ai giorni nostri: «Ma – mette in guardia Radaelli – senza chiarezza dogmatica anche l’arte sacra sarà confusa, relativista e gnostica» (p. 285).

Lo si vede nella Messa, dove, dopo aver spesso «annientato e distrutto gli antichi altari con incredibile e furioso scempio, spiegabile solo con l’odio per la sacra liturgia Tridentina» (p. 170), si è riversata tutta sulle variazioni liturgiche, ognuna cangiante dal più al meno riguardo alla sacralità alla nobiltà e alla religiosità, studiate con scientifica circospezione dalla commissione liturgica istituita da Paolo VI, col dichiarato scopo di raggiungere fratellanza ecumenica con chi quei cangiamenti, se non anche tagli selvaggi, aveva già fatti propri secoli fa.

Il testo è frutto di uno sforzo intellettuale intriso di preghiera, anzi di Adorazione, diretto ad affrettare il tempo in cui il Trono più alto stabilisca che il linguaggio immerso nell’orizzonte Trinitario dell’arte sacra, discendente dal Nome Imago, ha la stessa potenza veritativa del linguaggio magisteriale discendente dal Nome Logos – e a questo obbediente – proteggendo oggi i fedeli dalle nuove eresie iconologiche come da sempre li ha difesi da quelle logiche, anch’esse tuttavia da ricondurre nei loro argini dai quali sono esondate, invadendo territori che dovevano e devono essere invece custoditi con sacro timore.

Le sue pagine scalano pareti di roccia dogmatica con la forza attrattiva di un linguaggio chiarificatore ed icastico che ne scava e porta alla luce lo splendore della verità. Riconosciamo il sistema teologico-filosofico propriamente scolastico, insieme ai lampi di luce del ‘Sensus Communis’, in cui l’autore si muove con grande levità ed eleganza, nello sgorgare di parole incandescenti, che conservano tutta la loro pregnanza semantica originaria, dalla quale i correnti linguaggi ateoretici mutuati dalle filosofie immanentiste e lo stile colloquiale che rende i discorsi ambigui ed approssimativi rischiano di allontanarci. Esse immediatamente destano l’intuizione e lo stupore che sempre si accompagna alla conoscenza per riposare, poi, nella riflessione e nell’assimilazione di vere e proprie melodie fatiche, che aprono alla scoperta di quello che ci appare il nostro paesaggio più naturale, si spingono fino al nocciolo più profondo della nostra ricerca a partire dai sacri Nomi del sommo Intelletto per riconfluirvi ricolmi dell’acqua delle sorgenti celesti. Ed ecco configurarsi il paesaggio, nuovo della germinale fioritura: «audacia» che nasce dalla sua intrinseca fecondità: «Tradizione», denso del realismo incantato ed incantevole, di una filosofia dell’estetica propriamente e gioiosamente trinitaria.

Tre gli obiettivi, o “proposte forti”, di questo libro scritto per ridare animo a una civiltà fondata sulla bellezza:
◦primo obiettivo (Proposta preliminare): ripristinare gli argini del Fiume della bellezza, le cui Sorgenti sono nelle relazioni trinitarie, dimostrando che essi, legata com’è la bellezza alla verità, si trovano soltanto nella guida “dogmatica” che la Chiesa ha tenuto da sempre (nella quale la verità è riconosciuta nella sua limpida, univoca e splendida realtà), e non in una guida meramente “pastorale”;
◦secondo obiettivo (Prima proposta): individuare le Origini della Bellezza scoperte quasi senza saperlo da san Tommaso d’Aquino settecento anni fa individuando i quattro Nomi dell’Unigenito di Dio (Imago, Splendor, Logos e Filius), specie il primo, che, in quanto Volto, Aspetto ed Espressione del Logos, cioè del Pensiero, è anche la prima Fonte della conoscenza;
◦terzo obiettivo (Seconda proposta): rendere esplicito il criterio da sempre utilizzato dalla Chiesa per fare bellezza, cioè per insegnare, individuato dall’Autore nel binomio «tradizione-audacia» (e come tale autorevolmente riconosciuto anche dal cardinal Ravasi in un seminario tenuto nella Biblioteca del Pontificio Consiglio per la Cultura il 14-7-2010). Infatti “il dittico «tradizione-audacia» rappresenta la forte muraglia intorno all’Hortus conclusus dell’insegnamento della Chiesa – stavolta sul piano metodologico – per tenere avventuristi da una parte e abitudinari dall’altra fuori comunque entrambi dalla cerchia della sua fervorosa città dove regna solo la vita, l’operosità costruttiva dell’attenzione, lo slancio calmo di chi sa che ogni buon insegnamento, ogni buon progetto armonico, ogni santa parola, è una maternità, una straordinaria maternità che dà i suoi frutti soprannaturali tutti pronti per l’eternità” (p. 245).
Con queste tre “proposte forti” riprendere la costruzione della Civiltà della Bellezza non è più un sogno, ma un lieto, sacro dovere.


Caterina63
00martedì 19 luglio 2011 11:07

"Vita Pastorale" e la Messa antica

Sull'ultimo numero di Vita Pastorale è stato pubblicato un articolo di S. Dianich che, grazie alla paziente trascrizione di John Lord, potrete ora leggere. Con tanto di fotografie a confronto, che riportiamo insieme alla didascalia originale (sì, sì: il commento che inneggia a quello squallido hangar cuneese come epitome dei canoni conciliari di chiesa-popolo di Dio, è proprio di Vita Pastorale, nonostante possa sembrare una nostra parodia).

Il testo in sé è tutt'altro che spregevole (didascalia a parte) e richiama l'evoluzione della struttura della Messa nel corso dei millenni. Ma la finalità è scorretta: si vuole trasmettere l'erroneo messaggio che il messale tridentino sia stato una sorta di novità liturgica o, quanto meno, la codificazione di un assetto tardomedioevale che poco avrebbe a che fare con la liturgia cristiana dei primi secoli, recuperata finalmente, e "felicemente", solo dopo il Concilio Vaticano II.

Questa attitudine ha un nome e si chiama archeologismo; già stigmatizzata da Pio XII, è l'idea che si debba tornare ad una idealizzata e primitiva "età dell'oro" cristiana, tipicamente ravvisabile nei primissimi secoli, anzi decenni dalla fondazione della Chiesa. Un'idea in sé condannabile, come ognun può vedere, per almeno tre ordini di ragioni, che citiamo in ordine crescente di gravità (e di cui solo le prime due potevano essere considerate dal profetico Pio XII). La prima è l'impossibilità di avere una chiara ricostruzione di quanto accadesse realmente nei primi secoli: ad esempio appare oggi, dopo gli studi di Lang, come l'asserzione - nei decenni scorsi unanime - che l'antica celebrazione avvenisse verso il popolo, sia in realtà errata poiché l'orientamente primitivo era di tutti quanti verso il sole che sorge.

La seconda ragione è che, pur ammesso che certi usi più antichi siano stati progressivamente abbandonati, occorre riflettere, prima di riesumarli, se non siano divenuti obsoleti per qualche opportuna ragione e, soprattutto, se possa tornare utile richiamarli improvvisamente in vita dopo più di mille anni.

Ma la principale ragione di condanna di quella posizione si basa sul modo in cui è avvenuto il preteso recupero della più antica tradizione, che costituirebbe l'essenza della riforma bugniniana. Si è riesumata qualche orazione dai più vecchi sacramentari e si sono riattate consuetudini da tempo perdute; ma questo è avvenuto conformandosi ad una mentalità ecclesiale e sociale, ad uno 'spirito' insomma, agli antipodi dai periodi che videro il sorgere di quegli usi. Basti qualche esempio: è vero che più anticamente la Comunione era ricevuta in piedi ed in mano. Ma ciò avveniva con tali e tante cautele e devozioni (lunghi digiuni, mano coperta da un lino per le donne, atti previ di adorazione: "nemo autem illam carnem manducat nisi prius adoraverit", scriveva appunto ai tempi S. Agostino), da rendere nella sostanza più vicina a quella tradizione il ricevere l'Eucarestia devotamente inginocchiati e sulla lingua, che non l'attuale nonchalante distribuzione ad opera di una batteria di ministri straordinari. Similmente, la preghiera dei fedeli era sì in uso anticamente, ma non era certamente quella distraente farsa di frasi fatte e trito buonismo da democristiani, che ci tocca sentire ogni domenica: facciamo fatica ad immaginarla ai tempi, puta, delle persecuzioni di Diocleziano. E ancora: la preghiera eucaristica II (la più usata perché la più corta) è spacciata come un recupero di un testo di S. Ippolito più antico del canone romano; peccato però che all'originale assomigli appena ed in particolare siano stati accortamenti epurati tutti i riferimenti stonati per orecchie moderne, come quelli al demonio, all'inferno e alla necessità di un'unica fede.
Infne, non sfuggirà agli attenti lettori dell'articolo che segue l'uso peculiare delle maiuscole che contraddistingue questo genere di prosa: si sminuiscono termini come "messa", "sacrificio", "eucaristia", mentre per contro si abbonda di maiuscole per parole come "Padri" (ovviamente riferito ai Padri 'Costituenti' del Concilio) o "Parola".


Enrico



Foto a sinistra: una messa secondo lo stile tridentino. Sotto: la chiesa della Trasfigurazione a Mussotto-Alba (Cn) rispecchia i canoni di Chiesa-popolo di Dio secondo il Vaticano II.


Missa antiqua o moderna?
(Severino Dianich, Vita Pastorale N. 7/2011, pagg. 16-17-18)

A giudizio del grande storico della liturgia, Josef Andreas Jungmann, celebrare la messa in volgare è un obiettivo tanto desiderato dal Concilio di Trento, ma felicemente [sic!] realizzato solo dalla riforma liturgica del Vaticano II.

Da quando si è avviata la promozione di una legittima celebrazione dell’eucaristia con il rito tridentino, si è introdotto l’uso di denominare quel rito “la messa antica”. Ogni parola ha il significato che le vuole dare chi la pronuncia e, se dicendo “antica”, si intende indicare semplicemente la forma rituale precedente alla riforma liturgica voluta dal Vaticano II, non c’è problema. Se però si volesse intendere che il rito del concilio di Trento corrisponde alla forma più antica, quella con cui si celebrava la messa prima del Medioevo e dell’avvento della modernità, l’espressione verrebbe a falsare la verità storica.

Il Messale di Pio V è un’opera moderna. Fu pubblicato, infatti, il 14 luglio 1570, nel pieno degli eventi che caratterizzano l’insorgere della modernità, dopo la fioritura della cultura umanistica, nell’emergere di una sensibilità individualistica, in stretto rapporto con il dramma della Riforma. È vero che la commissione che ne ha curato la redazione intendeva ricondurre la liturgia nelle forme rituali della Chiesa romana antica ed, effettivamente, ha realizzato un’opera di sfrondamento di infinite sovrastrutture che nel frattempo si erano introdotte.

A giudizio, però, del grande storico della liturgia eucaristica, J. A. Jungmann, «questa mèta così elevata non venne raggiunta che in piccola parte». Che avesse costituito un desiderio dei Padri del Tridentino, «appare chiaro dal fatto che già nel 1563, quando ancora si progettava di occuparsi della correzione del messale nel Concilio stesso, un manoscritto vaticano del Sacramentario gregoriano venne fatto venire appositamente da Roma a Trento. E non si trattava di uno slancio isolato, ché anche la commissione si è preoccupata di studiare le fonti antiche». Però, «non ci si poteva aspettare che una commissione di pochi uomini, chiamati a un lavoro pratico potesse venire in possesso, in un paio di anni, di quelle cognizioni storico-liturgiche che erano destinate a maturare per la cooperazione di molti solo nel giro di parecchi secoli» (Missarum Solemnia, I, Marietti 1953, Casale M., p. 117; ed orig. Herder 1948). Questo risultato, infatti, allora desiderato, è stato felicemente raggiunto proprio dalla riforma promossa dal Vaticano II.

La grande liturgia antica

È anche interessante osservare che il concilio di Trento nel decreto dottrinale sul sacrificio della messa, pur dichiarando che «non è sembrato opportuno ai Padri che si celebrasse in lingua volgare», si è seriamente preoccupato, usando le belle espressioni bibliche, che «le pecore di Cristo non abbiano a soffrire la sete e i piccoli non debbano chiedere pane e non avere alcuno che glielo distribuisca». Per questo si dava mandato ai pastori e a coloro che hanno cura d’anime di «spiegare di frequente, essi stessi o qualcun altro al loro posto, durante la celebrazione della messa, qualche parte di ciò che nella messa viene letto» (Sessione XXII, 17.9.1562, cap. VIII).

Dopo quattro secoli, le circostanze per le quali a quel tempo era sembrato ai Padri non opportuno che la celebrazione avvenisse nelle lingue parlate sono profondamente mutate, per cui i Padri del Vaticano II hanno ritenuto opportuno ciò che al tempo del Tridentino non lo era, recuperando così davvero la grande tradizione antica, che ha visto i cristiani di Roma celebrare in greco e solo più tardi, nel terzo secolo, adottare il latino, mentre in Grecia si celebrava in greco, in Siria in siriaco, in Armenia in armeno, e così via. Questa era la tradizione della Chiesa antica.

Trovo per questo molto significativo che l’istruzione “Universae Ecclesiae” della Pontificia commissione Ecclesia Dei del 30 aprile scorso, al n. 26, abbia disposto, per coloro che lo useranno, una deroga alle rubriche del Messale tridentino, permettendo di abbandonare il latino per fare le letture bibliche nella lingua dei fedeli. Al di là dei loro gusti rituali, è evidente che nessun maggiore vantaggio spirituale essi potrebbero ricavare ascoltando la parola di Dio in una lingua che non comprendono. È difficile, invece, non sentir dispiacere per la perdita che essi vengono a subire, non potendo godere di quella «lettura della Sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta» (SC 35) che viene offerta dal nuovo Lezionario.

Dal punto di vista dei gesti rituali, nella proclamazione della parola di Dio, i cristiani dell’epoca antica non solo mai hanno visto ma anche, se l’avessero visto, se ne sarebbero molto meravigliati, il sacerdote leggere i testi dal messale invece che dal lezionario, sull’altare invece che all’ambone, o il diacono cantare il vangelo rivolto contro la parete invece che verso il popolo. Basti pensare che sino alla fine del Medioevo per la lettura biblica si costruiscono gli amboni. All’inizio del Trecento Giovanni Pisano, per la proclamazione del vangelo nella cattedrale di Pisa, crea quell’opera magnifica e tutt’oggi ammiratissima del “pergamo” (così lo chiamarono, dalla corrispondente espressione greca, i pisani, perché ha la forma di una torre rotonda, simile a quella dell’ambone della Haghia Sophia di Costantinopoli).

Quando, ora che si è ripristinato l’uso antico, l’assemblea dei fedeli, volgendo lo sguardo verso l’alto, vede apparire lassù, durante il canto dell’Alleluja, il primo filo d’incenso del turibolo fumante e poi i lumi dei ceri portati dagli accoliti, quindi l’evangeliario tenuto alto dal diacono e, infine, la persona del diacono che si erge sul parapetto dell’ambone per il canto del vangelo, è difficile che ci si sottragga a un brivido di emozione. La Parola della nostra salvezza scende dall’alto e ci investe: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, […] così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto» (Is 55,10s).

Questo era l’antica liturgia della Parola, vissuta dal popolo con grande emozione: Paolo Silenziario, descrivendo la basilica della Haghia Sophia di Costantinopoli, nel suo poema recitato davanti alla corte il giorno dell’Epifania del 563, ci racconta che si dovette transennare la solea che congiungeva l’ambone all’altare, perché  quando «colui che annunciò la buona novella» tornava sui suoi passi «sollevando il libro d’oro», la folla gli si gettava addosso «per appoggiare le labbra e le mani sul Sacro Libro» (Fobelli M.L., Un tempio per Giustiniano. Santa Sofia di Costantinopoli e la descrizione di Paolo Silenziario, Viella 2005, Roma, pp. 113).

Le ragioni della riforma liturgica

Per indicare poi solo alcuni particolari dell’evoluzione delle forme rituali, è interessante osservare che in epoca antica mai il sacerdote trovava già posti sull’altare il pane e il vino dell’offerta, che invece i fedeli portavano all’altare accompagnati dal canto per l’offertorio (Jungmann II, 24s). La recitazione del Canone sottovoce è una tradizione che nasce e si sviluppa solo col trapianto della messa romana in terra franca (Jungmann II, 108). È diventata celebre nella spiritualità liturgica moderna la frase: «Surgit solus pontifex et tacito intrat in canonem» (si alza solo il vescovo ed entra, in silenzio, nel canone), ma si tratta di una norma introdotta solo all’epoca di Carlo Magno, per modificare una prassi antecedente. I fedeli hanno sempre, per tutto il primo millennio, ricevuto la comunione all’altare e in piedi. Solo nel sec. XIII appare l’uso di stendere fra l’altare e i fedeli una tovaglia, sorretta da due accoliti, mentre la costruzione delle balaustre non compare prima del XVI sec. (Jungmann II, 282). Assai prima, anche se in alcun modo in epoca antica, cioè nel IX sec., iniziò l’uso di dare la comunione in bocca, invece che sulla mano del fedele (Jungmann II, 286).

Sull’altare in epoca antica non solo non c’era il tabernacolo eucaristico, che non vi compare mai prima del XV sec., ma neppure vi si collocava i corpi dei martiri, né le immagini del Signore o dei santi. Fu proprio la collocazione dell’urna con il corpo di san Dionigi sopra, invece che sotto, l’altare di Sant-Dénis, fuori Parigi, nel XII sec., a dare inizio a una forma di altare in cui la mensa si riduceva a una forma stretta e lunga e tale da non permettere più di celebrare verso il popolo. A Roma, invece, l’uso antico non è mai stato abbandonato e in San Pietro, ancora nel 1594, papa Clemente VIII consacrava l’altare, attualmente sovrastato dal baldacchino del Bernini, sul quale da allora fino ad oggi (così come accadeva sul precedente altare di Gregorio Magno e poi su quello che gli viene sovrapposto nel 1123 da Callisto II) il Papa ha sempre celebrato rivolto al popolo.

Per indicare un ultimo caso, l’uso di leggere il prologo del vangelo di Giovanni come rito di benedizione, nato dall’ammirazione per la bellezza e l’importanza di questo testo, inizialmente aveva suscitato preoccupazione per la possibile deriva verso pratiche superstiziose e solo nel 1200 troviamo la prima documentazione della concessa licenza di recitarlo alla fine della messa (Jungmann II, 334-337).

Queste osservazioni non intendono avanzare l’idea che nella tradizione liturgica della Chiesa ci siano epoche buone ed epoche cattive, forme celebrative autentiche e altre spurie. Ciò che è vero è che ci sono forme di vita cristiana più corrispondenti ai bisogni del proprio tempo e altre, valide al loro tempo, ma meno capaci di rispondere alle esigenze del presente. La riforma liturgica del Vaticano II ha voluto disegnare una forma della liturgia che risponda al bisogno della Chiesa di superare l’individualismo dei cristiani e di fare loro godere la bellezza della comunione, nella partecipazione comunitaria di tutti all’azione liturgica, per poi viverla nella prassi della comunità e della sua solidarietà con i bisogni di tutti gli uomini. Con questa intenzione era naturale dirigere lo sguardo alle forme liturgiche della Chiesa antica più che a quelle fissate dalla riforma tridentina in epoca moderna.

Come abbiamo visto, infatti, osservando l’evoluzione storica dei riti, dovremmo definire il rito tridentino come la missa moderna e non missa antiqua. Così come abitualmente facciamo per la spiritualità diffusa dal Trecento fino all’epoca tridentina, che tutti chiamano la devotio moderna. Era una spiritualità fortemente contrassegnata da una sensibilità individualistica, piuttosto che dalla dimensione comunitaria.

Non è questa, forse, la differenza più evidente che corre fra la liturgia tridentina e quella nata dal concilio Vaticano II? Al punto di partenza dei Padri conciliari era visione della Chiesa, viva per l’unità di tutti, come corpo di Cristo, nel popolo di Dio: «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo». Questo popolo è «costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità» e in tale modo è «per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza» (LG 9).

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Che pena quel peana!...


L'articolo “Missa antiqua o moderna?”, pubblicato su Vita pastorale n. 7/2011, pp. 16-18, a firma Severino Dianich, ha scandito in modo sconcertante il rintocco del quarto anniversario del Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007. L'autore colleziona, infatti, una serie di affermazioni in stridente dissonanza con la lettera e con lo spirito del Documento pontificio, del resto mai degnato di una citazione, come se non fosse il più autorevole intervento sulla questione. Forse un Teologo di valore, qual è Dianich, è dispensato dal prendere in seria e rispettosa considerazione il Magistero ecclesiale? Forse scambia, anche lui, l'intervento di Sua Santità Benedetto XVI per una benevola concessione a una minoranza di nostalgici? In realtà, trattasi di una approfondita riflessione sul problema teologico, serio, implicato in una Riforma liturgica di vasta e radicale portata, come quella prodotta in seguito al Concilio Vaticano II: avvenimento più unico che raro nella storia della Chiesa. Non dimentichiamo che la Chiesa nel corso della sua storia ha saputo coniugare un solido aggancio al principio della Tradizione ed insieme una certa duttilità ad adattare lo stesso principio a situazioni del tutto nuove: pensiamo per esempio al fatto che nel Secolo VI, si mal digeriva anche solo il minimo sospetto che Papa Gregorio Magno avesse modificato qualche uso liturgico romano, mutuando dal Rito bizantino (circa l'Alleluja, il Kyrie, il Pater e le vesti dei Suddiaconi); e che nel Secolo IX, mentre i Prelati tedeschi, confinanti infastiditi dalla nascita di una Chiesa particolare indipendente ai loro confini, nonché gli Esperti e i Prelati veneziani e romani, contestavano ai Missionari greci Cirillo e Metodio di aver osato introdurre la lingua parlata nella Liturgia presso i Popoli Slavi, appartenenti alla giurisdizione missionaria-patriarcale di Roma, Papa Adriano II approvò e benedisse i Libri liturgici presentati dai due santi Fratelli Missionari. 

Ci permettiamo qualche osservazione su alcuni punti del predetto articolo.

L'Autore parte definendo “legittima promozione” il dispositivo del Motu proprio circa la Liturgia in rito tridentino, e mette in discussione la denominazione “antiqua”. In realtà, non di “promozione” si tratta, ma di chiarificazione di un fraintendimento generale: il Rito preconciliare, precisa il documento pontificio, “non è mai stato abrogato (SP, 1). “Antiqua” è solo uno dei vari aggettivi appropriati alla Liturgia in uso nella Chiesa Latina fino al Concilio Vaticano II ed oltre. Non appropriazione indebita, ma solo conseguenza naturale della scelta di denominare “Novus” l'“Ordo Missae”, confezionato dall'apposita Commissione post-conciliare incaricata e avvallata da Papa Paolo VI.

Il Dianich continua sostenendo che la Commissione liturgica successiva al Concilio Vaticano II ha finalmente realizzato, a distanza di quattro secoli, quanto la Commissione liturgica del Concilio di Trento avrebbe voluto, ma non fu in grado di fare, se non “in piccola parte”, data l'inferiorità di mezzi e di uomini (?!), a disposizione in quel tempo. Con una strana trasposizione storico-ideologica, l'Autore immagina che Pio V avesse insediato una Commissione dopo il Concilio di Trento con le stesse intenzioni e gli stessi criteri della Commissione che ha prodotto la Riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II. Ma davvero Pio V e i suoi Esperti intendevano trasformare e adattare la Liturgia romana ai tempi moderni (di allora), abrogando la forma in uso, sotto accusa per abbandono delle forme più antiche, più autentiche per definizione? Le “sovrastrutture introdotte” erano davvero“infinite”? I Padri del Concilio e gli Incaricati del Papa, erano convinti che occorresse demolire l'edificio liturgico in uso, snaturato, secondo Dianich, dalla Devotio moderna-individualista, e ricostruirlo dalle fondamenta con un collage di antichità taglia-copia-incolla? Non pare proprio. 

Nessun Cattolico, in quel tempo, dubitava che l'impianto dell'edificio liturgico non fosse più sostanzialmente sano e autentico. Secondo la convinzione comune, dagli Intellettuali agli Illetterati, il progetto originario non era mai andato smarrito e nessuno aveva mai osato modificarlo. Come avrebbe potuto accadere in una Chiesa attaccata scrupolosamente, da sempre, al principio “nihil innovetur”, specialmente nella Liturgia, realtà sacra e intangibile per eccellenza, fin nei minimi particolari? Qualche “sfrondamento” e qualche correzione erano ritenuti sufficienti per riportare il tutto al suo splendore più puro, che non era necessariamente lo stadio più arcaico.

Quanto alla lingua liturgica, il Concilio di Trento ammetteva senza difficoltà il pluralismo linguistico, e non solo linguistico, delle Liturgie orientali. Il pluralismo legittimo era fuori discussione anche all'interno della Chiesa Latina, dove restavano consentiti Messali alternativi a quello di Pio V, purché dotati di un minimo d'antichità. L'uso della lingua parlata in ambito liturgico, a istruzione e a edificazione spirituale dei Fedeli, non fu condannato, anzi fu caldamente raccomandato, purché integrativo e non esclusivo. Trento condanna solo chi sostiene che nella Chiesa latina la Messa deve essere celebrata solo in lingua volgare (…); e che è da condannare dire sottovoce la parte del Canone e le parole della Consacrazione(Sess. XXII, Can IX), e detto per inciso, affermazioni di tal fatta oggi sono diventate la nuova vulgata dei liturgisti. Tornando al tempo del Concilio di Trento si può dire che, data la situazione dell'Europa d'allora, teatro di una conflagrazione religiosa, culturale, politica a carattere nazionalistico, dagli esiti drammatici e imprevedibili, i Padri sanzionarono il principio tradizionale dell’unità linguistica ritenendo, tra le altre considerazioni, più sicuro per l'unità della Chiesa il mantenimento del Latino, come unica lingua ufficiale liturgica. Il Concilio Vaticano II esprimeva lo stesso giudizio ancora nel 1964: “Linguae latinae usus, salvo particulari iure, in Ritibus latinis servetur” (SC, 36).

Che la lettura della Sacra Scrittura offerta dal Nuovo Lezionario successivo al Concilio Vaticano II sia più abbondante della precedente, e più varia, è fuori di dubbio. Che sia meglio scelta e più proficua si può dubitare. L'ultima traduzione, poi, sembra privilegiare sistematicamente l'italiano più sciatto e scadente, abbassando il linguaggio al livello più basso, invece di elevare il popolo alla nobiltà della Liturgia e al senso proprio del Testo divinamente ispirato. Si potrebbero collezionare, in proposito, molte perle lessicali tra il raccapricciante e il comico. Ben più provveduto fu Paolo VI che affidò il lavoro di traduzione a un gruppo di fini Letterati oltre che a validi Biblisti (i quali non sono tutti bravi linguisti, e sono soliti scambiarsi stroncature inesorabili).

Che gli amboni e il canto del Vangelo siano simbolicamente importanti è certo. Che gli uni e l'altro siano attualmente valorizzati è discutibile. L'Autore è in grado di precisare dove, nell'antichità, si collocavano i Fedeli durante la Liturgia della Parola e durante la Preghiera eucaristica? Certo la disposizione dell'assemblea, nei tempi passati, non era quella di oggi. Egli sembra dare per scontato che la lettura e il canto dei testi liturgici dal Messale sull'altare, deprecati come errore gravissimo, siano la forma normale, prevista da Trento, invece non è così. La Liturgia normativa tridentina è quella solenne, cantata, con tanto di Ministri, Diaconi, Suddiaconi, Lezionari, Processioni, Accoliti, Turiferari, Ceroferari e Amboni, ecc...

Sorprendono la svalutazione e banalizzazione dei significati simbolici e cosmici della Liturgia romana. La lettura o, meglio, il canto del Vangelo, non è rivolto alla parete, ma al Nord, che vi sia o meno una parete. E' la regione delle tenebre, che deve essere illuminata dalla luce di Cristo, Sole che sorge: L'Oriente.

L'Autore cita con compiacimento l'ingresso solenne del Vangelo nell'antica Santa Sofia di Costantinopoli, con ceri, turiboli, accoliti, diaconi, verso l'ambone sopraelevato, e l'evangeliario prezioso, toccato e baciato con fervore dai Fedeli (oggi, alcuni Liturgisti parlerebbero di superstizione popolare...). A parte il fatto che nella Grande Chiesa, l'altare stava dietro una magnifica, elaborata, iconostasi d'argento, che i Veneziani, assidui frequentatori di Bisanzio, riprodussero nell'alta balaustra-iconostasi di San Marco (che dava fastidio al Patriarca Angelo Roncalli), la descrizione di quell'antico rito ha qualcosa in comune con quanto accade nelle nostre Chiese da cinque decenni? Da noi i pulpiti sono stati divelti o dismessi. Proprio essi: gli eredi di quell'ambone bizantino, dall'alto dei quali la Parola scendeva dalla bocca dei predicatori nel cuore dei fedeli. Fedeli raccolti di fronte, al centro della navata; non necessariamente rivolti, tutti e sempre, verso un'unica direzione: il fondo della Chiesa, dove oggi c'è l'esposizione di tutto, come su un bancone del Supermercato; senza traccia di sacralità e di arcano: altare, ambone, sede, battistero, coro con chitarre e batteria, e quant'altro... (stendiamo un pietoso silenzio sulle innumerevoli e pregevoli balaustre, sedi presbiterali e cattedre episcopali, brutalmente aggredite, devastate ed eliminate da un novello clericalismo iconoclasta-sanculotto).

Quanto alla processione offertoriale, assente nella vecchia Messa “bassa”, conviene riferirsi al rito bizantino e al rito romano solenne-non riformato: nell'uno e nell'altro caso, ciò che viene presentato all'altare, pane e vino, è, comunque, già appartenente al rito sacro, appositamente e ritualmente preparato sull'abaco o sulla proskomidia, portato dal diacono col velo omerale, accompagnato dai ministri, con turibolo, candelieri, e, nel Rito bizantino, dalla croce, dalla “lancia” e dalla stola episcopale, affidate ai Presbiteri.

Sulla recita del Canone sottovoce o in silenzio, si può riflettere, ma Dianich cita ancora una volta Jungmann, come un oracolo. Altrettanto per la comunione in bocca e per la balaustra. E' proprio il caso di dire: “Timeo hominem unius libri”! Asserire che le balaustre siano un'invenzione del Secolo XVI è archeologicamente inaudito. Basta vedere le ricerche di padre Bellarmino Bagatti sulle Chiese primitive in Terra Santa.

Circa l'importanza delle Reliquie per l'altare, anche qui, come per la balaustra-iconostasi, è difficile evitare l'impatto massiccio e risolutivo della tradizione orientale, come è difficile prendere per buona la storia  delle Reliquie di Saint Denis, che sarebbero responsabili del passaggio del Celebrante dall'altra parte. Completamente ignorata la tradizione riguardante i Martiri e l'antichissima Celebrazione dell'Agape-Eucaristia sulle loro tombe, talvolta sarcofaghi. Nel suo prezioso libretto “Arte e liturgia”, Luis Bouyer confessa di avere personalmente contribuito a far passare “carte false” ai Padri conciliari del Vaticano II per convincerli che la Eucaristia primitiva era celebrata verso il popolo, mentre si sa perfettamente che non era così. Lo stesso Teologo, convertito dal Luteranesimo, spiega come si svolgeva anticamente la Celebrazione: l'assemblea si spostava dal nartece al pulpito, e dal pulpito all'altare per la Consacrazione; tutti rivolti in preghiera, Presidente e Fedeli, alla pari, verso il Tempio Santo, il luogo del Sacrificio gradito a Dio, verso la Croce di Cristo, l'Oriente (come fanno i Cristiani-Ortodossi, e mutatis mutandis, gli Ebrei e i Mussulmani).

La recita del Prologo di San Giovanni, stupendo e fondamentale, al termine della Messa non dovrebbe urtare chi ha lamentato, poco prima, la povertà della mensa della Parola.

La conclusione di Dianich è un peana alla Riforma liturgica successiva al Vaticano II, come superamento dell'individualismo a esaltazione della partecipazione comunitaria del Popolo, in precedenza atomizzato dallo spregevole individualismo intimista. Ma ci si domanda, quali sono, in concreto, le impronte della famigerata “Devotio moderna” nel Messale tridentino? E com'è stato possibile un sì grandioso miracolo di progresso? La Chiesa preconciliare, conciata così male dalla Liturgia degenerata, disgraziatamente in vigore ab immemorabili, come è stata capace di arrivare tanto in alto? Per opera dello Spirito Santo? Certo! Lo Spirito Santo può fare tutto. Potrebbe anche avere solo permesso la distruzione della vecchia Liturgia: era davvero necessario cancellare, in un colpo solo, in nome di una meravigliosa Riforma archeologizzante (non conciliare, ma postconciliare), il patrimonio custodito nei secoli, senza la minima soluzione di continuità. Quella Chiesa, infatti, era conservatrice per antonomasia ed escludeva, per principio, qualsiasi discontinuità e novità, anche solo per uno jota o un apice.

A un Teologo di valore, qual è Severino Dianich, che merita e ha tutto il nostro rispetto, non si addicono né la figura del Tuttologo sommario né l'iscrizione tra i Talebani progressisti (intendendo per Talebani - non importa se conservatori o progressisti - quelli che coltivano il pregiudizio per sistema e hanno bisogno di qualcosa o qualcuno da denigrare e anatemizzare senza remissione). Gesù stesso fu vittima di questo tipo d'approccio. Alcuni, infatti, dicevano: non è col dito di Dio, ma è nel nome di Beelzebub, il Capo dei Demoni, che egli scaccia i Demoni! (Lc 11, 15): e sappiamo come è andata a finire.

Per concludere ci domandiamo è proprio questa la strada da percorrere per giungere ad una pace liturgica? Non è ora di finirla con gli anatemi dei “dotti”? Non sarebbe più proficuo per tutti imitare la saggezza e l’equilibrio del Santo Padre Benedetto XVI il quale, tramite la Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiesto ai fautori della “Messa antica” di non manifestarsi “contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria” (Universae Ecclesiae, n. 19)? E non varrà forse anche il contrario? Perfino per gli illustri teologi e le riviste pastorali? Pensiamo di sì ed è lo stesso Santo Padre a ricordarcelo: “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso” (Lettera del Santo Padre Benedetto XVI  ai vescovi di tutto il mondo per presentare  il Motu Proprio “ Summorum Pontificum cura” sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970).

Lettera firmata

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Caterina63
00giovedì 24 novembre 2011 12:12

Finalmente sarà istituita presso la Congregazione del culto divino la «Commissione per l’arte e la musica sacra per la liturgia».



Read more: http://sursumcorda-dominum.blogspot.com/#ixzz1ecWbjmGL

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Belle e grandi chiese della Fraternità San Pio X

 
“Va, Francesco, restaura la mia casa, che, come vedi, è tutta in rovina”.
Rispondendo all'appello del Crocifisso di San Damiano, san Francesco si è fatto costruttore di chiesa prima di essere un ricostruttore della ChiesaPer Monsignor Lefebvre, il processo è stato inverso.



Chiesa di Econe, Svizzera, 1998
Chiesa di Econe, Svizzera, 1998
Chiesa di Mendoza, Argentina, 2002
Chiesa di Mendoza, Argentina, 2002


Chiesa di Stuttgart, Germania, 1998 
Chiesa di Stuttgart, Germania, 1998


Chiesa di Denver, Stati Uniti, 2001Il paragone tra San Francesco e Monsignor Lefebvre non è esagerato. Infatti, il valoroso vescovo ha avuto anche lui quello che potremmo definire un’esperienza mistica che ha sigillato la sua vocazione. Ne parla nella prefazione al suo libro “Itinerario spirituale” (1) scritto nel 1989: “… lo Spirito Santo mi permette di realizzare il sogno che mi ha fatto intravedere un giorno nella Cattedrale di Dakar: (…) trasmettere in tutta la sua purezza dottrinale, in tutta la sua carità missionaria, il sacerdozio cattolico di Nostro Signore Gesù Cristo…” .
Fin dalla sua fondazione, l'opera di Monsignor Lefebvre ha dimostrato un’eccezionale attività apostolica, poiché ormai la Fraternità San Pio X conta 750 centri di Messa nel mondo intero, vera rete internazionale al servizio della santificazione delle anime e della Messa di sempre.
All’inizio, la maggioranza dei centri di Messa erano delle sale prese in affitto o dei vecchi garage, magazzini, o altri locali del genere, comprati e trasformati in luoghi di culto. Era il tempo delle catacombe.
Pian piano, però, grazie alla generosità dei fedeli che sempre più numerosi si appellavano a suoi sacerdoti, la Fraternità ha potuto costruire delle vere cappelle o delle chiese, alcune delle quali sono splendide opere d’architettura dalle dimensioni tali da permettere a centinaia di fedeli di assistere alla Messa domenicale. Potete vedere le foto di alcune di esse con la data di costruzione. Sono edifici costruiti senza nessun aiuto dallo Stato, senza offerte dalle diocesi, senza pubblicità. Sono il frutto della preghiera e del lavoro dei fedeli, una bella testimonianza di fede.
Il Concilio Vaticano II parla di “tradizione vivente” (2), concetto sbagliato di una tradizione che cambia nel tempo. Anche nella Fraternità San Pio X si parla di “tradizione vivente”, ma nel senso che la Tradizione dà la vita ed è feconda. Questa fecondità si vede nelle numerose vocazioni sacerdotali e religiose, nelle famiglie con tanti bambini, nelle conversioni e in tutte le grazie che i fedeli ricevono tutti i giorni. Si vede anche nell’apertura, ogni anno, di nuovi priorati e centri di Messa. Mentre il Vaticano II ha voluto fondare una nuova Chiesa, la Fraternità costruisce dappertutto delle chiese nuove!
Don Fabrizio Loschi
Note:
(1) Mons. Marcel Lefebvre, Itinerario Spirituale - Ed. Ichthys 2000, prefazione.
“Permettendo che io scriva le poche riflessioni spirituali che seguono, prima di entrare, a Dio piacendo, nel seno della Santissima Trinità, lo Spirito Santo mi permette di realizzare il sogno che mi ha fatto intravedere un giorno nella cattedrale di Dakar: di fronte alla progressiva degradazione dell’ideale sacerdotale, trasmettere, in tutta la sua purezza dottrinale, in tutta la sua carità missionaria, il sacerdozio cattolico di Nostro Signore Gesù Cristo, quale Egli l’ha trasmesso fino alla metà del XX secolo”.
(2) Costituzione Dei Verbum sulla Divina Rivelazione

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Chiesa di Schonenberg, Germania, 1995
Chiesa di Schonenberg, Germania, 1995


Chiesa di La Reja, Argentina, 2001
Chiesa di La Reja, Argentina, 2001



















Chiesa di Tynong, Australia, 2011 






Chiesa di Tynong, Australia, 2011

Fonte:SanPioX.it
Chiesa di Denver, Stati Uniti, 2001

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alcuni ORRORI  delle Chiese MODERNE
dette chiese POST-CONCILIARI.....




chiesa san Donato Arezzo











chiesa Sacro Cuore a Monaco http://www.duepassinelmistero.com/_borders/SCuoreAMonaco2.jpg


Cattedrale di Evri a 30 km da Paraigi http://www.duepassinelmistero.com/_borders/AccorpataConUnacasa.gif

Chiesa di san Pietro Apostolo a Lecco http://www.duepassinelmistero.com/_borders/ChiesaSPietroMerateEst.jpg

Chiesa di sant'Antonio da Padova a Senigallia http://www.duepassinelmistero.com/_borders/ChiesaAMarzoccaEst.jpg

Chiesa cattolica a Cafarnao, Palestina


inutile negare che ci troviamo di fronte AD UNA NUOVA CONCEZIONE DI CHIESA.....


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