Le buone maniere sono una virtù e non mero formalismo - di Alessandro Gnocchi

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Caterina63
00domenica 4 maggio 2014 22:53

  Buone maniere

di Alessandro Gnocchi




Santa Maria Maddalena unge i piedi di Cristo (Lc. 7, 37-38)
Anonimo napoletano - sec. XVII - 




Pubblicato su Il Foglio del 1 maggio 2014


Alessandro Gnocchi

Uno spettro si aggira laicamente per il secolo: è lo spettro della mala educazione. Ma, per quanto sia baldanzoso, avrebbe vita grama se non trovasse alimento nel confratello che si aggira religiosamente per i documenti ecclesiali col nome di “emergenza educativa”. 
L’uno e l’altro, più che nei programmi di educazione civica o nei piani pastorali di nuova generazione, potrebbero trovare almeno un po’ d’argine in quei libricini di formazione del laicato cattolico finiti nei mercatini di antiquariato. Erano  pubblicati da diocesi, ordini religiosi, confraternite, pie unioni e persino da singoli sacerdoti ad uso dei loro parrocchiani. Hanno titoli come “Educazione della giovinetta cattolica”, “Manuale del giovane cristiano”, “Decoro della sposa cristiana” o “Doveri, responsabilità e precetti del capofamiglia”: roba da far ridere i pedagoghi d’oggi, ma formavano l’ambiente in cui ragazzini come Domenico Savio si santificavano preferendo la morte al peccato, oppure fanciulle come Maria Goretti e Pierina Morosini sceglievano la purezza a costo della vita, e tanti altri, senza oltrepassare la soglia di una santità conclamata, mettevano su famiglie in cui l’emergenza non riguardava il degrado dei costumi.

Il segreto della loro efficacia stava in quello che oggi viene scambiato per formalismo. Ma, per comprenderli davvero, bisogna saperli leggere con almeno un po’ di amore a ciò che trasmettevano. Allora si scoprirebbe che educavano alla buona creanza cristiana applicando un metodo condensato in sonante essenzialità al punto 252 del “Catechismo” di San Pio X: 
“Che cos’è la virtù morale? La virtù morale è l’abito di fare il bene, acquistato ripetendo atti buoni”. 
E, padre Carlo Dragone, nella sua “Spiegazione del Catechismo”, così glossava nel 1956: “Nel Battesimo vengono infuse le virtù teologali e le virtù morali, che però danno soltanto la capacità di compiere atti soprannaturali e virtuosi. La facilità si acquista ripetendo gli atti buoni, in modo che si formano le buone abitudini o abiti virtuosi acquisiti. Perciò le virtù morali, che rendono buoni i nostri costumi, sono inclinazioni  buone, abitudini di fare atti buoni, acquistate con l’esercizio”.
Come dire che la grazia è la materia prima della Grazia, un’evidenza che ha origine in pagine e pagine evangeliche dove la Buona Novella si fa per le buone maniere come lo stampo per la cera. 
“Praesta, quaesumus, omnipotens Deus: ut qui paschália festa perégimus; haes te largiénte, móribus et vita teneámus”, dice l’orazione della Messa tradizionale della Domenica in Albis appena trascorsa, la prima dopo Pasqua: “Concedi, o Dio onnipotente, che, avendo celebrate le feste pasquali, ne conserviamo per grazia tua lo spirito nei costumi e nella vita”.  
E, nel Vangelo di questa Messa, è proprio la buona grazia di Gesù risorto a sanare la sgarbata incredulità di Tommaso. Per lui, che otto giorni prima non era presente alla sua apparizione nel cenacolo, il Signore torna a mostrare con mansuetudine cerimoniosa le piaghe sul suo corpo: “Metti qua il tuo dito, osserva le mie mani, accosta la tua mano, e mettila nel mio costato: e non essere più incredulo, ma credente”. “Dóminus meus, et Deus meus”: vinto dall’estrema grazia con cui lo ha trattato il suo Signore e suo Dio, Tommaso ne confessa la divinità come nessun altro apostolo aveva fatto fino ad allora e poi ne porterà la lieta notizia fino in Persia e in India, fino al martirio.

E’ in questo intrattenersi così intimo e cerimonioso, dove la forma purissima del sacro fa da calco alla materialità del gesto e della parola, che l’uomo ha fruttuosa relazione con Dio. Qui dimora la saldezza delle vere conversioni, a patto che la cerimonia, fosse anche per la debolezza dell’uomo, possa ripetersi orientandosi al rito. “Il ritardo dei discepoli a credere alla risurrezione del Signore” spiega San Gregorio Magno nel “Terzo Notturno dell’Ascensione” “più che a dimostrare la debolezza loro, servì a nostra maggiore garanzia. Infatti il loro dubbio fu occasione che la risurrezione venisse dimostrata con molte prove(…). La storia della Maddalena così pronta a credere, è meno utile a me che non quella di San Tommaso che dubitò per tanto tempo, poiché questo apostolo, nel suo dubbio, toccò le cicatrici del Signore e così tolse dal nostro cuore la piaga del dubbio”.

La cerimoniosità rituale risponde alla natura liturgica dell’uomo: cosicché, per esempio, un San Francesco di Sales amava insegnare che le buone maniere sono il principio della santità o un Leon Bloy diceva che “solo le persone senza profondità non si fidano delle apparenze”. Ma oggi si manifesta un cristianesimo che si sente tanto più autentico quanto più si fa nemico del minimo fremito di reverenza per la forma. La pratica religiosa ormai si gloria di attingere solo alla sostanza finendo per rimestare nella materia lasciata a se stessa. La solita borghesissima rivolta antiborghese ha instaurato una sorta di eresia dell’informe che si nutre di esegesi del brutto come unica lettura del Vangelo.
Eppure, la vita e l’insegnamento di Gesù, i gesti più veri di chi gli sta intorno sono uno spreco di bellezza, parto della devozione spirituale al mistero di tutto ciò che esiste. Negli eventi grandiosi e nelle cose minime, nei gesti regali e nelle piccole attenzioni quotidiane, i personaggi del Vangelo sono gentiluomini vocati alle buone maniere.

Tra gli esempi più luminosi vi è la cena di Betania, nella casa di Simone. Una cerimonia così densa di gesti e di significati ulteriori che necessitano di diversi racconti evangelici per essere colti tutti. Quella sera, racconta San Luca, Gesù entrò nella casa di Simone il fariseo e si mise a tavola. “Ed ecco una donna, che era peccatrice in quella città, appena seppe che egli era a mangiare nella casa del fariseo, portò un alabastro d’unguento e stando ai piedi di lui, di dietro, con le lacrime cominciò a bagnarne i piedi e coi capelli del suo capo li asciugava e li baciava e li ungeva d’unguento”. 
Il padrone di casa, costernato per tanta attenzione donata a una peccatrice, aveva certamente organizzato un pranzo di grande livello, con accurata distribuzione dei commensali, precisione del servizio, qualità delle pietanze. Ma l’invitato per il quale tutto questo era stato preparato lo rimprovera perché quelle buone maniere non sono degne della Buona Novella che lui porta in dono: “Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; ma essa li ha bagnati colle sue lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, ma lei da che è venuta non ha smesso di baciarmi i piedi. Tu non hai unto d’olio il mio capo, ma essa con l’unguento ha unto i miei piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui poco si perdona, poco ama”. 
Minuzie da povero formalista, si direbbe oggi, eppure Gesù, perfetto Dio e perfetto uomo, ne nota l’assenza. Poiché il rito con cui si adora il Signore e la cerimonia con cui si rende omaggio al prossimo non raggiungono il loro scopo se non compiono tutto ciò che è prescritto. 

Nella sua cronaca, San Matteo si sofferma sull’indignazione dei discepoli: “A che tale sciupìo? Quest’unguento si poteva venderlo caro e darne il ricavo ai poveri”. Ma rimarca soprattutto il rimprovero che tale moto terreno e sentimentale provoca da parte del Signore: “Perché date noia a questa donna? Ella ha fatto una buona azione verso di me. Infatti voi avrete sempre i poveri con voi, ma non sempre avrete me. Costei, spargendo quest’unguento sul mio corpo, lo ha fatto per la mia sepoltura. Io vi dico in verità che dovunque sarà predicato questo vangelo, sarà pur raccontato a sua memoria ciò ch’ella ha fatto”. 
E San Giovanni precisa che il discepolo scandalizzato è Giuda Iscariota, il traditore, che preferisce i poveri a Dio.

Lungo il cortese sentiero dell’omaggio alla maestà divina si erano già incamminati i magi poco dopo la nascita di Gesù. E vi si inoltreranno Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, con circa cento libbre di mistura di mirra e aloe da spargere sul corpo del Maestro dopo la sua morte. 
Solo il riconoscimento del primato di Dio e delle attenzioni che gli sono dovute permette di tributarne di grandi agli uomini. Questa certezza permette al buon Samaritano di rovesciare radicalmente la prospettiva di Giuda. E’ il suo amore per Dio a fermarlo lungo la strada in soccorso dello sconosciuto ferito dai ladri. E con quanta delicatezza si appressa al suo prossimo. “Ne fasciò le piaghe versandovi sopra olio e vino; e, collocatolo sulla propria cavalcatura, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui. Il giorno dopo, tratti fuori due denari li diede all’oste e gli disse: Prenditi cura di lui, e quanto spenderai di più te lo pagherò al mio ritorno”.
E’ la stessa attenzione che Maria presta al Signore venuto a farle visita in casa sua. Gli siede ai piedi e sta ad ascoltare la sua parola. E a Marta, la sorella che si lamenta di essere lasciata sola a servire i commensali, Gesù risponde: “Marta, Marta, tu t’affanni e t’inquieti per troppe cose. Eppure una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”.

Ma la cerimonia, così come il rito di cui è riflesso a uso di chi pratica il mondo, è fatta di manifestazioni inesplicabili ad occhio laico tanto quanto i nascondimenti cui non può rinunciare. Per questo, nel Vangelo di San Matteo, il Maestro prescrive: “Quando digiunate, non vogliate imitare gli ipocriti, che prendono un’aria malinconica e sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità i dico che han già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non agli uomini tu appaia come uno che digiuni, ma al Padre tuo, che è nel segreto; ed il Padre tuo, che vede nel segreto, ti darà la ricompensa”.
Non vi è precetto più alto che scandisca il tempo dell’eleganza e della grazia. La sua pratica è un atteggiamento morale che, un passo prima della santità, si chiama sprezzatura. 
Equilibrio tra rigore e levità che si traduce in rispetto per il soffio divino nascosto anche nella più piccola scaglia di creato. Nasce da questa radice l’amore con cui Maria accetta la morte del Figlio inchiodato alla croce. Dolorosa e gioiosa comprensione del mistero più grande, radicata nell’adesione all’annuncio dell’Angelo Gabriele: “Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola”. Il racconto dell’Annunciazione può essere letto come un trattato di buone maniere, un capolavoro della cerimonia che non ha uguali. Non vi si trova una parola fuori posto, non vi è un fremito che tradisca cedimento, non un’ombra di rinuncia: e si sta decidendo il destino dell’universo.

Principio della santità, le buone maniere sono efficace difesa contro le trappole del demonio. Incapace di conoscere i pensieri dell’uomo perché di altra natura, insegna San Giovanni Cassiano nella “VII Conferenza ai monaci”, il principe di questo mondo li può indovinare osservando i movimenti del corpo: “A nessuno viene il dubbio che gli spiriti immondi riescano a conoscere la natura dei nostri pensieri; quegli spiriti però possono arrivare a individuarli fondandosi sugli indizi sensibili che ad essi appaiono dal di fuori, vale a dire dalle nostre disposizioni o dalle nostre parole, e anche dalle tendenze alle quali ci scorgono inclinati con maggiore apprensione”. 
Lettura preferita di San Filippo Neri, Cassiano è fonte della Regola di San Benedetto, quella mappa per la santificazione fatta solo di minuziose prescrizioni per il comportamento nella vita quotidiana dei monaci. 
Giunto agli ultimi due gradini dell’umiltà, Benedetto si sofferma su dettagli incomprensibili al cristianesimo maleducato di oggigiorno: “L’undicesimo gradino dell’umiltà è quello del monaco che, quando parla, lo fa delicatamente e senza ridere, con umiltà e compostezza, e dice poche e assennate parole e non fa chiasso con la voce (…). Il dodicesimo gradino dell’umiltà si ha se il monaco non solo coltiva l’umiltà nel cuore, ma la mostra anche con l’atteggiamento esterno a quelli che lo vedono: cioè nell’ufficio divino, in chiesa, nell’interno del monastero, nell’orto, per via, nei campi, dappertutto insomma, quando siede, cammina o sta in piedi, ha sempre il capo chino e lo sguardo fisso a terra”.

Rispetto alla solidità dei primi gradini, pare quasi che questi ultimi siano esili e persino evanescenti. Ma lo sono soltanto allo sguardo di chi non vi vede la perfezione prendere forma in esistenze capaci di indurre alla conversione con un semplice gesto: un atto di riverenza davanti al Crocifisso, una genuflessione al cospetto del tabernacolo. Manifestazioni di un mondo di cui al laico è possibile ancora percepire fremiti e atmosfere nei salottini d’attesa di certi conventi e certi monasteri o in qualche canonica: luoghi levigati dal tempo dilatato dello spirito, tirati a cera come in altri secoli, i muri lindi e profumati, Crocifisso, ritratto del fondatore e soprammobili al loro posto da sempre. Crisalidi spirituali in cui il sopraggiungere della tal suora e del tal padre sono epifanie di destini avviati alla perfezione.

Fu questo uno dei tratti che conquistò il cardinale Newman alla vocazione per l’Oratorio di San Filippo Neri. In un discorso al Capitolo del 1848 scriveva: “Un Oratoriano possiede la sua stanza e i suoi mobili, i quali, (…) senza essere suntuosi, dovrebbero fare in modo che sia possibile affezionarvisi. Insieme non formano una cella, ma un nido. L’Oratoriano deve essere circondato dalle sue cose, i suoi libri, gli oggetti personali: in una parola deve vivere, per dirla con un tipico termine inglese, nel comfort. (…) La chiesa deve essere bella, le funzioni religiose devono essere condotte con meticolosità e, se possibile, con magnificenza; la musica deve essere attraente (…). Avarizia, povertà, austerità, trascuratezza, rigore sono parole sconosciute in una casa Oratoriana”. 
E, se deve indicare il modello per un Oratoriano, Newman lo vede nel ritratto di monsignor Clemente Merlini dipinto da Andrea Sacchi: “seduto in una poltroncina con atteggiamento riposato: una mano si allunga sul tavolo, l’occhio è vivace e scintillante, l’espressione allegra”.

Il buon cristiano è tale quando ripugna al mondo per ciò che testimonia e non per come si presenta. Se deve versare il sangue, tra i suoi modelli contempla Tommaso Moro, che il 6 luglio 1535 salì il patibolo portando come ultimo bagaglio la sua santità, le buone maniere e una parola di conforto per il boia: “Amico io sono pronto e voi fatevi coraggio… Vi avverto che ho il collo corto e perciò state attento a colpire giusto per non macchiare la vostra buona fama”



   
 

Caterina63
00sabato 12 luglio 2014 22:09




… Gli schemi preparatori sono stati redatti e divulgati a mezzo massmedia e la discussione è volentieri aperta anche al più flebile spiffero mondano. E, man mano, saranno redatti quei canoni dai quali il Vaticano II si era ritratto per timore della modernità. Ma, secondo i dettami del gattopardismo clerical-novatore, il cambiamento sarà mascherato dalla grande illusione che tutto rimarrà sempre uguale. Per questo sarà il mondo a comunicare il cambiamento in atto dentro la chiesa, che invece si asterrà dal ratificarlo formalmente.


di Alessandro Gnocchi


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zzcrdvsvcGrazie a Dio, c’è ancora qualche buon cristiano a tenere sott’occhio il temerario che prima o poi tenterà di cambiargli la fede sotto il naso. Armato di spingarda, dottrina e Vangelo, si acquatta dietro il muretto del prossimo sinodo sulla famiglia per scoprire se comportamenti omosessuali, convivenze, divorziati risposati e via mondanizzando diventeranno moneta corrente nei documenti di santa romana chiesa. Oppure, si mimetizza nelle desolate periferie esistenziali in attesa di sezionare qualche pagina magisteriale in cui sia messo nero su bianco che tutto è definitivamente cambiato. Ma, oltre a essersi munito di armi desuete e incomprese, si apposta nel posto sbagliato.


Ormai, i luoghi in cui ci si batte per salvare la fede e la dottrina non sono più quelli tradizionalmente deputati a tale ufficio. I cattolici novatori e mondanizzanti sanno bene che il segreto del potere si cela in quella riga del “Gattopardo” in cui Tancredi Falconeri sentenzia che “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Ma loro, beffardamente clericali, l’hanno capovolta nell’inafferrabile “se vogliamo che tutto cambi, bisogna che tutto rimanga com’è”. Laddove non può la dogmatica arriva la pastorale, cosicché la prassi si mangia la teoria senza che nessuno abbia da eccepire: tutto cambia mentre tutto sembra immutato.


Negli Anni Quaranta del secolo scorso, lo aveva teorizzato Ernesto Buonaiuti, il principe dei modernisti. “Fino ad oggi” spiegava “si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma, fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e infallibile metodo; ma è difficile. (…) Il culto esteriore durerà sempre come la gerarchia, ma la Chiesa, in quanto maestra dei sacramenti e dei suoi ordini, modificherà la gerarchia e il culto secondo i tempi: essa renderà quella più semplice e liberale, e questo più spirituale; e per quella via essa diventerà un protestantesimo; ma un protestantesimo ortodosso, graduale, e non uno violento, aggressivo, rivoluzionario, insubordinato”.


E ora, a operazione avvenuta in maniera quasi irreversibile, i buoni cristiani armati di spingarda, dottrina e Vangelo si trovano disorientati e vanno a caccia dell’avversario là dove non si farà mai trovare. Sono convinti che, come ai tempi delle care vecchie eresie, la dottrina si combatta a colpi di dottrina, i principi a colpi di principio, i dogmi a colpi di dogma perché continuano ad applicare categorie e metodi gettati silenziosamente a mare a partire dal Concilio Vaticano II.


Ma questo è ancora nulla, perché ormai anche il mitico Concilio ha fatto il suo tempo. Non c’è papa che lo abbia citato così poco come Francesco, a cui importa quasi nulla dell’ermeneutica della rottura e ancor meno di quella della riforma nella continuità. Ormai il mondo cattolico vive in pieno Vaticano III convocato e celebrato per via mediatica. La location romana è stata sostituita dall’aula globale, che avrebbe inquietato non poco un Marshall McLuhan, capace di definire il principe di questo mondo come grande ingegnere elettronico. Gli schemi preparatori sono stati redatti e divulgati a mezzo massmedia e la discussione è volentieri aperta anche al più flebile spiffero mondano. E, man mano, saranno redatti quei canoni dai quali il Vaticano II si era ritratto per timore della modernità. Ma, secondo i dettami del gattopardismo clerical-novatore, il cambiamento sarà mascherato dalla grande illusione che tutto rimarrà sempre uguale. Per questo sarà il mondo a comunicare il cambiamento in atto dentro la chiesa, che invece si asterrà dal ratificarlo formalmente.


zzrpbblcCinquant’anni or sono, nell’era geologica del Vaticano II, si pensava ancora che l’anathema sit dovesse concretizzare in poche, brevi e chiarissime righe il fulmine contro l’errore e l’eresia lanciato dalla cittadella in nome e per conto di Dio. Per questo i padri conciliari rimasero un passo al di qua: la tregua con il mondo esigeva l’incertezza, il dubbio, l’ambiguità opportunamente interpretabili in guisa di dialogo e di arrendevolezza, non certo la dichiarazione esplicita.


Ora che l’abbraccio con la modernità incarnato dal pontificato di papa Francesco è conclamato e acclamato dentro e fuori la Chiesa non vi sono più remore. L’anathema sit torna in auge, ma in nome e per conto del mondo e, in ossequio alla natura mediatica in cui si sostanzia dell’evento, non si trova più in calce a costituzioni e decreti bensì sulle prime pagine dei giornali. Dal “Chi sono io per giudicare?” pronunciato sulla questione omosessuale che, in 0,21 secondi, su Google porta a 360.000 risultati, alla scomunica lanciata contro i mafiosi nella spianata di Sibari, anatema da 412.000 risultati in 0,35 secondi, è facile farsi un’idea di quali canoni distillerà il mondo dalla narrazione papale.


Ma è facile prevedere che presto il tiro si sposterà intra muros e i primi a cadere, come tanti zuavi a Porta Pia, saranno i buoni cristiani armati di spingarda, dottrina e Vangelo posti a guardia della fede. Così, ogni santo giorno, per sapere se si è ancora cattolici, bisognerà leggere la prima pagina di Repubblica.


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