Le cinque piaghe della Chiesa e i Concordati (beato Rosmini)

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Caterina63
00mercoledì 23 giugno 2021 13:13

Le cinque piaghe della Chiesa, del beato Antonio Rosmini
Dal libro “Quello che i preti non dicono (più)“, diventa fondamentale per noi riportare, dalla pag. 67, il passo provocatorio “il più grande degli anticlericali cattolici: il beato Antonio Rosmini Serbati” il quale aveva già a suo tempo  reso visibile il peso di certe “incrostazioni” nella struttura ecclesiastica.

“Parlando del clero dei secoli precedenti a lui, lo definì – reso servo e vile adulatore dei principi – , e ancora – fuorviato, accecato dai beni temporali e assuefatto a mercanteggiare dignità e coscienza – Tanto che – il mondo rigurgita (…) di un numero eccedente d’inutili sacerdoti….- Analisi spietata nella sua opera Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, attraverso le quali Rosmini analizza le dinamiche storiche umane della Chiesa, degli uomini operanti in Essa, suggerendone la cura.

Quali sono dunque queste cinque piaghe che affliggono la Chiesa?

1. La divisione del popolo dal Clero;

2. l’insufficiente educazione-formazione del Clero;

3. la divisione tra i Vescovi;

4. la nomina dei Vescovi abbandonata al potere laicale;

5. la servitù dei beni ecclesiastici (i compromessi).

Di queste cinque piaghe che affliggevano la Sposa di Cristo, la Santa Sede è riuscita a porvi rimedio ad una sola, l’ultima, quella legata alle finanze attraverso una serie di accordi con lo Stato (legittimi quanto si voglia), purtroppo però attraverso alcuni compromessi, si chiama “Concordato”. Poi fu risanata in parte anche la penultima piaga, quella legata alle nomine dei Vescovi  (trattandosi di un argomento molto più complesso, lo lasceremo per un eventuale ulteriore approfondimento a parte), ma su tutte le altre assistiamo a continui peggioramenti.

Nemo militans implicat se saeculi negotiis, ut ei placeat, qui eum elegit; si autem certat quis agone, non coronatur nisi legitime certaverit. *  ossia: Nessuno però, quando presta servizio militare, s’intralcia nelle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che l’ha arruolato. Anche nelle gare atletiche, non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole. ” (2Tim. 2,4).

La provocazione di Rosmini era un richiamo allarmante all’evidente decadenza del Clero, e soprattutto dei Vescovi, i quali non avevano o non manifestavano più passione per le anime, preoccupazione per la loro salvezza, clissando sul vero ruolo della loro missione che è “ministero a servizio delle anime da salvare”. In tal contesto Rosmini arriva così a criticare come empi i “concordati”, così ancora attivi anche ai tempi nostri.
Per il neo Beato (beatificato da Benedetto XVI nel 2007) i concordati sono delle vere e proprie umiliazioni “con i quali la Madre dei fedeli è costretta da figli malcontenti a scendere a patti con essi (…) fra le tante sciagure ch’ebbe, la Chiesa cadde in tanto avvilimento da essere costretta a venire a siffatti patti con i fedeli! Tanta umiliazione fu dovuta ai peccati del clero:  “Vos estis sal terrae; quod si sal evanuerit, in quo salietur? Ad nihilum valet ultra, nisi ut mittatur foras et conculcetur ab hominibus”. * Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. (Mt.5,13).

Scrive il beato Rosmini: “Vero è che non essendo il governo istituito da Gesù Cristo nella sua Chiesa una dominazione terrena, ma un servigio in favore degli uomini, un ministero di salute per le anime; egli non è retto dall’arbitrio di una dura autorità, non si picca di un crudo diritto; ma egli si piega, e, fondato nell’umiltà e nella ragione, riceve la legge, per così dire, da quei soggetti medesimi in vantaggio de’ quali è stato istituito, e la sua mirabile costituzione è appunto quella di potere ogni cosa pel bene e niente pel male: tale è la sola sua superiorità, il solo diritto che egli vanta, il diritto di giovare. Indi quel dolce principio dell’ecclesiastico reggimento, che in tutto manifestavasi ne’ primi secoli della Chiesa..“.

E allora, perchè tanta critica sui concordati?
Nel libro citato riporta una valevole spiegazione che condividiamo: ” Probabilmente perchè il Beato vedeva nei concordati uno strumento con cui i preti mettevano sul piatto della bilancia di una trattativa ciò che non si può trasformare in oggetto di transizione”, dice infatti il beato: ” Vero è che con i concordati, o con qualsiasi altra convenzione umana, non si può derogare ai diritti divini e immutabili della Chiesa; perchè non si può restringere il suo potere legislativo ricevuto da Gesù Cristo, nè diminuire in alcun modo quella pienezza di autorità per la quale Ella può tutto per il bene, e quindi può comandare, può ingiungere ai fedeli senza limite di sorta quanto trova necessario e  utile alla loro eterna salute, e all’incremento sopra la terra del Regno di Cristo“.

Questa affermazione sottolinea l’importante distinzione (ma non separazione nel senso che lo Stato può fare ciò che gli pare e piace) tra il potere civile-laico (lo Stato – Cesare, la cui autorità viene da Dio, come spiega Gesù a Pilato) e il potere della Chiesa, che è potere divino e immutabile che non riguarda solo i fedeli battezzati, ma che troviamo scritto nell’esistenza di ogni uomo e perciò parliamo oggi di “legge naturale” e dei “valori inviolabili”, parliamo di “bene comune” sui quali tutto il Magistero Pontificio del ‘900 (ma anche prima) e fino ad oggi, continua incessantemente a sottolinearne l’autorevolezza, l’importanza e l’imprescindibilità.

A questo proposito è bene unire alle notizie di oggi, il  Messaggio per la Pace 2013 firmato da Benedetto XVI del quale richiamiamo a questi passi:

  • “In effetti, i nostri tempi, contrassegnati dalla globalizzazione, con i suoi aspetti positivi e negativi, nonché da sanguinosi conflitti ancora in atto e da minacce di guerra, reclamano un rinnovato e corale impegno nella ricerca del bene comune, dello sviluppo di tutti gli uomini e di tutto l’uomo. (..)
     le beatitudini non sono solo raccomandazioni morali, la cui osservanza prevede a tempo debito – tempo situato di solito nell’altra vita – una ricompensa, ossia una situazione di futura felicità. La beatitudine consiste, piuttosto, nell’adempimento di una promessa rivolta a tutti coloro che si lasciano guidare dalle esigenze della verità, della giustizia e dell’amore. Coloro che si affidano a Dio e alle sue promesse appaiono spesso agli occhi del mondo ingenui o lontani dalla realtà.
    (..)
     La pace concerne l’integrità della persona umana ed implica il coinvolgimento di tutto l’uomo. È pace con Dio, nel vivere secondo la sua volontà. È pace interiore con se stessi, e pace esteriore con il prossimo e con tutto il creato. (..) la pace è ordine realizzato nella libertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di persone, che per la loro stessa natura razionale, assumono la responsabilità del proprio operare. (..)
    Proprio per questo, la Chiesa è convinta che vi sia l’urgenza di un nuovo annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore dello sviluppo integrale dei popoli e anche della pace. Gesù, infatti, è la nostra pace, la nostra giustizia, la nostra riconciliazione (cfr Ef 2,14; 2 Cor 5,18).
    (..)
    Via di realizzazione del bene comune e della pace è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale. Veri operatori di pace sono, allora, coloro che amano, difendono e promuovono la vita umana in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente. La vita in pienezza è il vertice della pace. Chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita.
    Coloro che non apprezzano a sufficienza il valore della vita umana e, per conseguenza, sostengono per esempio la liberalizzazione dell’aborto, forse non si rendono conto che in tal modo propongono l’inseguimento di una pace illusoria. La fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace. Come si può, infatti, pensare di realizzare la pace, lo sviluppo integrale dei popoli o la stessa salvaguardia dell’ambiente, senza che sia tutelato il diritto alla vita dei più deboli, a cominciare dai nascituri? Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita.
    Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale.
    Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

***

Alla luce di ciò, dunque, cosa comporterà il “richiamo” della Santa Sede alla revisione del DDL-Zan? Ad una REVISIONE appunto e non ad una cancellazione totale; è un compromesso, l’ennesimo, che porterà al raggiungimento non della “Buona Battaglia” impartita dal Cristo, per il vero BENE DELL’UOMO E DI OGNI UOMO, ma ad accordi attraverso i quali non pestarsi i piedi rischiando, però, di favorire categorie di élite di persone che pretendono diritti che non hanno. In tal senso siamo d’accordo con l’allarme riportato dall’editoriale di Riccardo Cascioli: Il paradosso: strada spianata per la legge Zan“, vedi qui.

Concludiamo con le parole di sant’Agostino, quale appello ai Vescovi:

Dal «Discorso sui pastori» di sant’Agostino, vescovo (XXV settimana del Tempo Ordinario, Uff. delle Letture )
(Disc. 46, 14-15; CCL 41, 541-542)

Insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna
«E non avete riportato le disperse, non siete andati in cerca delle smarrite» (Ez 34, 4). Da questo momento ci troviamo come tra le mani di ladri e le zanne di lupi furiosi e per questi pericoli vi domandiamo preghiere. Per di più anche le pecore non sono docili. Se noi andiamo in cerca di loro quando si smarriscono, dicono, per loro errore e per loro rovina, che non ci appartengono. Perché ci desiderate, esse dicono, perché venite in cerca di noi? Come se il motivo per cui le desideriamo e le cerchiamo non sia proprio questo, proprio il fatto cioè che sono smarrite e si perdono. Se sono nell’errore, dicono, se sono vicino a morte, perché mi desideri? Perché mi cerchi?

Rispondo: Perché sei nell`errore, voglio richiamarti; perché ti sei smarrito, voglio ritrovarti. Replicano: Voglio smarrirmi così, voglio perdermi così.
Così vuoi smarrirti, così vuoi perderti? Ma io con tanta maggior forza non voglio questo. Te lo dico chiaramente: Voglio essere importuno. Poiché mi risuonano alla mente le parole dell’Apostolo che dice: «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna» (2 Tm 4, 2). Per chi a tempo opportuno e per chi a tempo non opportuno? Certamente a tempo opportuno, per chi vuole; a tempo inopportuno, per chi non vuole. Sono proprio importuno e oso dirtelo: Tu vuoi smarrirti, tu vuoi perderti, io invece non lo voglio.
Alla fin fine non lo vuole colui che mi incute timore. Qualora io lo volessi, ecco che cosa mi direbbe, ecco quale rimprovero mi rivolgerebbe: «Non avete riportato le disperse, non siete andati in cerca delle smarrite». Devo forse avere più timore di te che di lui? «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo» (2 Cor 5, 10).
Riporterò quindi la pecora dispersa, andrò in cerca di quella smarrita; che tu voglia o no, lo farò. Anche se nella mia ricerca sarò lacerato dai rovi della selva, mi caccerò nei luoghi più stretti, cercherò per tutte le siepi, percorrerò ogni luogo, finché mi sosteranno quelle forze che il timore di Dio mi infonde. Riporterò la pecora dispersa, andrò in cerca di quella smarrita. Se non vuoi il fastidio di dovermi sopportare, non sperderti, non smarrirti: E’ troppo poco se io mi contento di affliggermi nel vederti smarrita o sperduta. Temo che, trascurando te, abbia ad uccidere anche chi è forte. Senti infatti che cosa viene dopo: E le pecore grasse le avete ammazzate (cfr. Ez 34, 3).
Se trascurerò la pecora smarrita, la pecora che si perde, anche quella che è forte si sentirà trascinata ad andar vagando e a perdersi.




Caterina63
00mercoledì 23 giugno 2021 13:14

(dalla Regula Pastoralis - di san Gregorio Magno)


La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati.


Infatti, spesso, guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli uomini hanno gran timore di dire liberamente la verità; e, secondo la parola della Verità, non servono più alla custodia del gregge con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei mercenari (cf. Gv. 10, 13), poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se fuggissero all’arrivo del lupo.


Per questo infatti, per mezzo del profeta, il Signore li rimprovera dicendo: Cani muti che non sanno abbaiare (Is. 56, 10). Per questo ancora, si lamenta dicendo: Non siete saliti contro, non avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele, per stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez. 13, 5).


Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio?


Ma chi si espone in difesa del gregge, oppone ai nemici un muro in difesa della casa di Israele. Perciò di nuovo viene detto al popolo che pecca: I tuoi profeti videro per te cose false e stolte e non ti manifestavano la tua iniquità per spingerti alla penitenza(Lam. 2, 14). È noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri che, mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano quelle che stanno per venire. Ora, la parola divina rimprovera costoro di vedere cose false, perché mentre temono di scagliarsi contro le colpe, invano blandiscono i peccatori con promesse di sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori perché si astengono col silenzio dalle parole di rimprovero. In effetti le parole di correzione sono la chiave che apre, poiché col rimprovero lavano la colpa che, non di rado, la persona stessa che l’ha compiuta ignora.


Perciò Paolo dice: (Il vescovo) sia in grado di esortare nella sana dottrina e di confutare i contraddittori (Tit. 1, 9). Perciò viene detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote custodiscano la scienza e cerchino la legge dalla sua bocca,perché è angelo del Signore degli eserciti (Mal. 2, 7).


Perciò per mezzo di Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida, non cessare, leva la tua voce come una tromba (Is. 58, 1). E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume l’ufficio del banditore perché, prima dell’avvento del Giudice che lo segue con terribile aspetto, egli lo preceda col suo grido.


Se dunque il sacerdote non sa predicare, quale sarà il grido di un banditore muto? Ed è perciò che lo Spirito Santo, la prima volta, si posò sui Pastori in forma di lingue (Atti, 2, 3), poiché rende subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha riempiti.


Perciò viene ordinato a Mosè che il sommo sacerdote entrando nel tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le parole della predicazione, per non andare con un colpevole silenzio incontro al giudizio di colui che lo osserva dall’alto. (…) I campanelli sono inseriti nelle sue vesti, perché insieme al suono della parola, anche le opere stesse del sacerdote proclamino la via della vita.


Ma quando la guida delle anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a farlo con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti dalla ferita dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi sapiente non spezzi stoltamente la compagine dell’unità.


Perciò infatti la Verità dice: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc. 9, 49). Col sale è indicata la sapienza del Verbo. Pertanto chi si sforza di parlare sapientemente, tema molto che il suo discorso non confonda l’unità degli ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non sapienti più di quanto è opportuno, ma sapienti nei limiti della sobrietà (Rom. 12, 3). 


Perciò nella veste del sacerdote, secondo la parola divina, ai campanelli si uniscono le melagrane (Es. 28, 34). E che cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede?


Infatti, come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono protetti da un’unica buccia esterna, così l’unità della fede protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli che costituiscono la Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la diversità dei meriti. Così, affinché la guida delle anime non si butti a parlare da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi discepoli: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi, come se attraverso la figura della veste del sacerdote dicesse: Aggiungete melagrane ai campanelli affinché, in tutto ciò che dite abbiate a conservare con attenta considerazione l’unità della fede.


Inoltre, le guide delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il valore delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e inopportuna.


(…)  Perciò anche Paolo, quando esorta il discepolo ad insistere nella predicazione dicendo: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i morti, per il suo avvento e il suo regno, predica la parola, insisti opportunamente, importunamente (2 Tim. 4, 1-2); prima di dire importunamente premise opportunamente, perché è chiaro che nella considerazione di chi ascolta, l’importunità appare in tutta la sua qualità spregevole se non sa esprimersi in modo opportuno.





Caterina63
00mercoledì 23 giugno 2021 13:15

Com’è, dov’è, e che cosa vuole Dio?


A colloquio con Peter Seewald nel libro “Dio e il mondo”


-Pubblichiamo per intero il secondo capitolo del volume dal titolo “Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio” (Edizioni San Paolo, 2001), frutto del colloquio, tenutosi nell’abbazia benedettina di Montecassino, fra il cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e il giornalista e redattore tedesco Peter Seewald.

1. Veniamo all'essere originario, come lo chiama Lei, all'origine e al fine dell'esistenza, Dio. La professione di fede cristiana inizia con la parola “Credo”. Comunque i cristiani non credono genericamente in una forza, in una natura superiore.

Questa affermazione “Credo” è un atto consapevole del soggetto. Un atto in cui si intrecciano volontà e ragione, illuminazione e ispirazione. Qui si radica questa fiducia, ma anche questa tensione quest'uscire fuori da sé, questo proiettarsi verso Dio. E non si tratta di riferirsi a una qualsivoglia potenza superiore, ma a Dio che mi conosce e che mi parla. Che è davvero un soggetto per quanto tanto più alto con cui posso entrare rapporto e che si relazione con me.

2. Cosa intende quando dice che Dio è anche un “soggetto”?

Intendo dire che è una persona. Dio non è la formula matematica che compendia l'universo. Non è nello spirito del mondo. Non è l'imprecisata armonia della natura o un innominabile “infinito”, ma il creatore della natura, l'origine dell'armonia, il Dio vivente, il Signore.

3. Un attimo, Lei crede che Dio sia una persona, che possa ascoltare, vedere, avere dei sentimenti…?

Sì, Dio possiede i tratti essenziali di ciò che chiamiamo persona, cioè consapevolezza, discernimento e amore. E’ da questo punto di vista qualcuno in grado di parlare di ascoltare. Questi sono, credo, i tratti essenziali di Dio. La natura può anche essere degna di ammirazione. Un cielo stellato è grandioso. Ma rimane pur sempre un'ammirazione impersonale perché, in ultima analisi, mi fa sentire una piccola rotella di un meccanismo che mi sovrasta.

Il Dio vero è qualcosa di più. Non è semplicemente natura, ma è ciò che la precede e che la legge. È un essere in grado di pensare, parlare, amare e ascoltare. E Dio, ci dice la fede, è per sua essenza relazione. Intendiamo questo quando ci riferiamo alla sua natura trinitaria. Poiché è in sé relazione, è anche in grado di creare esseri che sono a loro volta relazione e che si possono richiamare a lui perché lui si è sentito toccare da loro.

4. “Chi entra nella logica di questo Credo”, ha detto una volta, “compie davvero una rinuncia alle leggi del mondo in cui vive”.

Intendevo dire che il mistero della Risurrezione di Cristo ci consente di superare la morte. Naturalmente come uomini che abitano questo mondo continueranno ad essere sottoposti alle leggi naturali. In natura vige la legge delle incessanti trasformazioni. Ma in Cristo vediamo che l'uomo ha qualcosa di definitivo. Non è soltanto un elemento inserito nel grande processo delle trasformazioni, ma è e rimane uno degli scopi della creazione. Da questo punto di vista si sottrae al vortice dell'eterno dischiudersi e perire per essere accolto nella costanza dell'amore creativo di Dio.

5. Perché si rappresenta Dio con un triangolo al cui centro sta un occhio che ci fissa in maniera penetrante?

Il triangolo è un tentativo di rappresentare il mistero dell'unità trinitaria. Si vuole esprimere il confluire della tripartizione trinitaria in un'unica realtà e la fusione della triplice relazione d'amore in un unità superiore. L'immagine dell'occhio, molto antica, è per eccellenza il simbolo del conoscere che attraversa l'intera storia della religione. Dice che Dio è il Dio che vede e che l'uomo è l’oggetto della sua attenzione, che acquisisce a sua volta, tramite Dio, la facoltà di vedere.

Naturalmente in quest’immagine è insito un pericolo. Nell’Illuminismo ha contribuito in maniera significativa alla presa di distanza da Dio. Perché da un Dio che mi osserva inesorabilmente ovunque io sia, che non mi concede mai uno spazio mio – la mia privacy si direbbe oggi – da un simile Dio ci si separa volentieri.

Considerare il vedere come una minaccia, come un pericoloso osservare che mi sottrae la libertà è un'interpretazione sbagliata che capovolge l'immagine autentica di Dio. Il simbolo dell'occhio è interpretato correttamente se vi si vede il riflesso di un atteggiamento di eterna premurosità, se mi comunica il fatto che non sono mai solo, che c'è sempre qualcuno che mi ama, che mi sostiene e mi sorregge.

6. Nella tradizione ebraica è presente l'idea che Dio, prima di creare il mondo, esisteva in latenza. Le sue caratteristiche non avevano ancora conosciuto un'attualizzazione. Conseguentemente Dio aveva bisogno del mondo per diventare quello che è. Perché, come potrebbe esserci un re senza popolo? Come Dio potrebbe amare, se non c'è nessuno da amare? La domanda è questa: cosa c'era prima dell'inizio? Chi ha creato Dio?

Quest'idea proviene da una delle tante tradizioni ebraiche. Concezioni simili sono poi emerse successivamente anche nella mistica cristiana, per esempio in Meister Eckart. In ogni caso non corrispondono all'immagine biblica originaria e paiono sottintendere impossibilità per Dio di essere se stesso se non creando.

No, il Dio cristiano, il Dio che si rivela a noi, è Dio. "Io sono colui che sono”, dice. A questo punto si è già implicitamente risposto anche alla domanda successiva e che presuppone una serie infinita di interrogativi autogenerantisi: Chi l’ha creato, e poi: Chi ha creato colui che l’ha creato e così via. E diventa superfluo anche un interrogativo come questo: lo spirito di Dio creatore rappresenta la pienezza dell'essere, posta al di là del divenire e del perire?

Penso che lo si possa formulare in questi termini: la realtà stessa è in se stessa creativa. Dio non ha bisogno del mondo. La fede cristiana e anche quella veterotestamentaria l'hanno sempre energicamente sottolineato. Al contrario degli dei, che hanno bisogno di uomini che li mantengano e li nutrano, Dio di per sé non ha bisogno di loro. È l'unico, l'eterno la pienezza dell'essere. La fede trinitaria ci dice che lui è colui che ama in sé, in questo eterno ciclo dell'amore che è insieme suprema unità e alterità e condivisione dell'esistenza.

D'altro canto l'idea che Dio è amore in implica effettivamente l'interrogativo su quale sia l'oggetto del suo amore. Questo però si dissolve nella fede nell’unità trinità di Dio, che fa dono di sé e si fa Figlio, si riunisce al Padre ed è Spirito Santo. In questo senso, dunque, la creazione è un atto completamente libero e anche la tradizione cristiana (e con essa parti importanti della tradizione ebraica) hanno sempre sottolineato che la creazione non è per Dio una necessità ma una libera scelta.

7. Ma perché Dio doveva farsi carico di questa avventura della creazione del mondo e dell'uomo?

Quest’interrogativo, sulle motivazioni di un atto, quello della creazione, di cui Dio poteva anche fare a meno, ha terribilmente tormentato Romano Guardini, che ha preso atto e dato espressione a tutto ciò che nella creazione gronda di dolore. Non abbiamo una risposta. Possiamo solo supporre che l'abbia voluto, nonostante tutto; che volesse una creatura altra da lui, che potesse riconoscerlo e ampliare così dire il raggio del suo amore.

Gli antichi hanno tentato di esprimerlo con un concerto filosofico: il bene ha in sé la pulsione a parteciparsi. E da questo punto di vista colui che è il bene per eccellenza tende a traboccare. Nemmeno a quest’interrogativo c'è una risposta definitiva. Ma l’essenziale è che la creazione non è un libero dono di sé e non per così dire un'esigenza di Dio, che sarebbe altrimenti solo un Dio dimezzato e potrebbe quindi offrire solo una speranza dimezzata.

7. Dio è uomo o donna?

Dio è Dio. Non è né uomo né donna, ma è al di là dei generi. È il totalmente Altro. Credo che sia importante ricordare che per la fede biblica è sempre stato chiaro che Dio non è né uomo né donna ma appunto Dio e che uomo e donna sono la sua immagine. Entrambi provengono da lui ed entrambi sono racchiusi potenzialmente lui.

8. Il problema è però che la Bibbia si rivolge a Dio come a un Padre e lo raffigura conseguentemente con un'immagine maschile.

Tanto per incominciare dobbiamo dire che, se è vero che effettivamente la Bibbia ricorre nell'invocazione delle preghiere all'immagine paterna, non a quella materna, è altrettanto vero che nelle metafore di Dio gli attribuisce anche caratteristiche femminili.

Quando ad esempio si parla della pietà di Dio, non si ricorre al termine astratto di “pietà”, ma a un termine gravido di corporeità, “rachamin”, il “grembo materno” di Dio, che simboleggia appunto la pietà. Grazie a questa parola viene visualizzata la maternità di Dio anche nel suo significato spirituale. Tutti i termini simbolici riferiti a Dio concorrono a ricomporre un mosaico grazie al quale la Bibbia mette in chiaro la provenienza da Dio di uomo e donna. Ha creato entrambi. Entrambi sono conseguentemente racchiusi in lui - e tuttavia lui è al di là di entrambi.

9. Rimane l’interrogativo perché tutto ciò non abbia trovato espressione anche nell'invocazione delle preghiere.

Sì. Perché ci si è limitati così rigidamente al Padre? E poi c'è la successiva domanda, ancora più tagliente: perché Dio è venuto a noi come “Figlio”? Perché Dio facendosi uomo si è incarnato in una persona di sesso maschile? E perché questo Figlio di Dio ci ha insegnato a sua volta a rivolgerci insieme a lui a Dio chiamandolo Padre, trasformando questa denominazione di Padre in qualcosa di più di un'immagine che nel corso della storia della fede può anche essere superata, cioè nella parola che il Figlio stesso ci ha insegnato?

10. Lei conosce la risposta?

Vorrei anzitutto ricordare che la parola "Padre” rimane ovviamente una metafora. Continua ad essere vero che Dio non è né uomo né donna ma appunto Dio. Si tratta comunque di un'immagine che Cristo ci ha davvero, inequivocabilmente, consegnato perché noi vi ricorressimo nella preghiera, un'immagine tramite cui ci vuole comunicare qualcosa della visione di Dio.

Ma perché? Ci troviamo attualmente nel pieno di una nuova fase di riflessione su questa questione, ma credo che, in ultima analisi, non siamo in grado di trovare una risposta. Ciò che possiamo dire sono forse due cose. Innanzitutto, le religioni diffuse nell'area circostante a Israele conoscevano coppia di divinità, una dignità maschile e una divinità femminile. Il monachesimo, al contrario, ha escluso le coppia di divinità e ha invece assurto a sposa del Signore l'umanità eletta, o meglio il popolo d'Israele.

In questa storia d’elezione si adempie il mistero dell'amore che Dio nutre per il suo popolo, simile a quello di un uomo per la sua sposa. Da questo punto di vista l'immagine femminile viene un certo qual modo proiettata su Israele e sulla Chiesa e infine personalizzata in maniera particolare in Maria. In secondo luogo, laddove si è fatto ricorso a metafore materne del divino queste hanno trasformato la concezione della creazione fino a che, all'idea di creazione, si è sostituita quella di emanazione, di parto, e poi ne sono scaturiti modelli quasi necessariamente panteistici. Al contrario, il Dio rappresentato nell’immagine paterna che tramite la Parola e proprio da qui deriva la specifica differenza tra creazione e creatura.

11. Anche se Dio non è né uomo né donna, siamo in grado di dire com’è? L’Antico Testamento ci riferisce di esplosioni di collera e di successive punizioni. "Perché io, il Signore tuo Dio,”ci dice qui, “sono un Dio geloso: in coloro che mi sono nemici, perseguo la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. Dio è ancora oggi collerico come allora o è cambiato?

Per prima cosa vorrei completare la citazione. Vi si dice infatti: “le mie punizioni colpiranno fino alla terza o alla quarta generazione, ma la mia misericordia si estenderà oltre le mille generazioni”. La parola profetica riflette dunque una simmetria tra la collera e la misericordia. La misericordia è moltiplicata per mille, se raffrontata con l’ira e da questo punto di vista questo passo significa che, per quanto abbia meritato la punizione e mi sia posto al di fuori del suo amore, ho la certezza che la misericordia di Dio è mille volte più grande.

12. Ma questo Dio ebraico-cristiano mostra anche un volto irato.

La collera di Dio è espressione del fatto che ho vissuto contraddicendo quell’amore che costituisce l'essenza di Dio. Chi si allontana da Dio, che si allontana dal bene, sperimenta la sua collera. Chi si pone al di fuori dell'amore, sprofonda nel negativo. Non è quindi un colpo inferto da un dittatore assetato di potere, ma è soltanto l'espressione della logica intrinseca a un'azione.

Se io mi pongo al di fuori di ciò che è conforme alla mia idea di creazione, al di fuori dell'amore che mi sorregge, allora precipito nel vuoto, nelle tenebre. Allora non mi trovo più, per così dire, nella sfera dell'amore, ma in una sfera che può essere definita come quella della collera.

Le punizioni di Dio non sono il frutto di norme poliziesche da lui stesso imposte sadicamente. “Punizione di Dio” è la condizione che si sperimenta quando si smarrisce la retta via e si subiscono le conseguenze dell'essersi incamminati su una strada sbagliata, lontano da quell'esistenza che Dio aveva pensato per noi.

13. Ma non siamo anche tenuti a nutrire un senso di dipendenza, e addirittura di minorità se si dice: “Dio è colui che vi infonde la volontà e la sua realizzazione”. Che razza di Dio è uno che deve sempre dimostrarci che senza di lui non siamo niente? E viceversa, non è anche responsabile nei nostri confronti? Perché, chi di noi è responsabile della propria presenza su questa terra? Anzi ci sono abbastanza persone che non ne sono affatto entusiaste.

È importante che la Chiesa ci trasmetta un'immagine di Dio grandiosa ma scevra da falsi tratti terrorizzanti e minacciosi. Tratti che invece hanno gravato negativamente e tuttora forse gravano sporadicamente in una parte della catechesi. Dobbiamo invece rappresentare Dio nella sua grandezza, ma sempre a partire da Cristo, un Dio che ci concede un margine di libertà molto ampio.

Talvolta vorremmo addirittura che ci parlasse più chiaramente. Altre volte ci chiediamo invece: perché ci lascia tutto questo spazio di manovra? Perché concede al male tutta questa libertà e questo potere? Perché non interviene?

14. Continuiamo a soffermarci su Dio con la domanda su dove e come possiamo trovarlo. Possiamo ricorre a un breve racconto. Una volta una madre portò suo figlio dal rabbino. Questi allora chiese al ragazzo: “Ti do un fiorino se mi sai dire dove sta Dio”. Il ragazzo non ebbe bisogno di riflettere a lungo e rispose: “E io te ne do due si mi sai dire dove non sta”. Nel Libro della Sapienza si dice che Dio “ si lascia trovare da quanti non lo tentano, si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui”. Ma dov'è Dio esattamente?

Iniziamo dal Libro della Sapienza. Lì c’è un passo che mi pare molto attuale: “Dio si lascia trovare da quanti non lo tentano” significa che non si lascia trovare da coloro che vogliono metterlo alla prova. Questa verità era già conosciuta nel mondo ellenistico e si è conservata ancora oggi molto pregnante. Se vogliamo mettere Dio alla prova - ci se o non ci sei? – o mettiamo in atto tentativi che dovrebbero nelle nostre intenzioni spingerlo a reagire, se ne facciamo un oggetto di sperimentazione, allora assumiamo un atteggiamento che ci impedisce di trovarlo. Dio non si sottopone ad alcun esperimento. Non è qualcosa che si lasci manipolare dall'uomo.

15. Un mio amico mi ha detto: Io non avverto alcuna presenza, nemmeno quando vado in chiesa la domenica. Vedo solo che non esiste nulla.

Dio non è qualcosa che si possa costringere a urlare in determinati momenti la propria presenza. Troviamo Dio se rinunciamo a sottoporlo ai criteri di falsificabilità dell’esperimento moderno e di dimostrazione dell'esistenza e se guardiamo a lui come Dio. E guardare a lui come a Dio significa instaurare con lui tutto un altro rapporto.

Le cose materiali posso indagarle da un punto di vista operativo e sottoporle a coercizione perché mi sono sottoposte. Ma già un altro essere umano non sono in grado di capirlo se lo tratto in quel modo. Al contrario, sono in grado di cogliere qualcosa della sua personalità solo se inizio a immedesimarmi empaticamente con la sua anima.

Lo stesso avviene con Dio. Posso cercare Dio solo se dismetto i panni del dominatore. Devo invece sviluppare un atteggiamento di disponibilità, di apertura, di ricerca. Devo essere pronto ad attendere con umiltà e a consentirgli di mostrarsi come vuole e non come io vorrei.

16. Ma dov'è Dio esattamente?

Non è in un luogo preciso, come mostra così bene la sua storiella rabbinica. Detto in positivo: non esiste alcun luogo in cui lui non sia presente perché è dappertutto. Detto in negativo: In nessun modo può essere là dove vi è il peccato. Quando la negazione eleva il non essere a potenza, allora lì Lui non è presente.

Dio è dappertutto, e perciò ci sono diversi gradi di approssimazione a Dio perché, quanto più alto è lo stadio dell'essere, tanto più si è vicini a lui. Dove però si dischiudono ragioni e amore, lì si raggiunge una nuova forma di vicinanza a lui, una nuova modalità della sua presenza. Dio è dunque là dove sono presenti fede e speranza e carità, perché, a differenza del peccato, queste disegnano lo spazio che ci consente di penetrare le dimensioni di Dio.
Da questo punto di vista Dio è in tutti quei luoghi in cui accade qualcosa di buono, presente nella sua specificità e, certo, al di là della mera onnipresenza. Possiamo incontrarlo e cogliere una modalità più profonda della sua presenza laddove ci approssimiamo a quelle dimensioni che meglio corrispondono alla sua essenza più intima quelle appunto della verità è dell'amore, del bene in generale.

17. Questa presenza più profonda… significa forse che Dio non è da qualche parte nell’universo ma è qui mezzo a noi? Presente in ogni singolo uomo.

Sì, lo dice già San Paolo sull'Aeropago rivolgendosi agli Ateniesi. Cita in quell'occasione un poeta greco: In Dio ci muoviamo, di piano e siamo. Che ci fu muoviamo ed esistiamo nell'aura del Dio creatore, è già vero da un punto di vista meramente biologico. Ed è tanto più vero quanto più ci addentriamo nella specifica modalità dell'essere di Dio. Possiamo esprimerlo in questi termini: laddove un uomo fa del bene a un altro uomo, là Dio è particolarmente vicino. Laddove, nella preghiera, qualcuno apre il proprio cuore a Dio, lo avvertirà come particolarmente vicino.

Dio non è una grandezza individuabile secondo categorie fisico-spaziali. La sua vicinanza non è misurabile con i parametri della distanza spaziale, in chilometri o anni luce. La prossimità di Dio è invece una vicinanza fondata sulle categorie dell'essere. Laddove è presente ciò che più riflette e attualizza la sua essenza, laddove sono presenti la verità e il bene, là lo sfioriamo particolarmente, lui che è l’Onnipresente.

18. Questo però significa anche che non è automaticamente presente, che non è sempre presente.

Da questo punto di vista è sempre presente, come se senza di lui non mi fosse possibile congiungermi al fluire dell'essere, se vogliamo dirlo in questi termini. In questo senso c’è un livello elementare di presenza di Dio che pervade ogni cosa. Ma la dimensione più profonda della prossimità di Dio, quella di cui è stato fatto dono all'uomo, quella può assottigliarsi o addirittura dissolversi o viceversa irrobustirsi.

Un uomo totalmente compenetrato da Dio è interiormente più vicino a Dio di uno che si è allontanato da lui. Pensiamo all'annuncio a Maria. Dio vuole che Maria divenga il suo tempio, il suo tempio vivente, ma questo non significa solo ospitarlo fisicamente. Ma a lei è davvero possibile divenire la dimora di Dio solo in quanto si è interiormente aperta a lui; solo perché si è conformata a lui con tutto il suo essere.

19. Ma potrebbe anche essere che Dio si ritragga, almeno temporaneamente. Einstein, ad esempio, venerava Dio come architetto dell'universo, ma era anche convinto, in ultima analisi, che Dio non si interessasse più della sua creazione e del destino dell'uomo.

Questa idea di Dio come architetto muove da una concezione di Dio molto limitata. In questa concezione Dio è soltanto l'ipotesi marginale di cui si ha bisogno per poter spiegare la nascita dell'universo. Progetta, per così dire, la totalità del cosmo, che poi si muove di forza propria. Poiché Dio si rapporto al mondo semplicemente come la causa fisica ultima, poi naturalmente, altrettanto semplicemente, esce di scena dopo la creazione. Ora la natura dispone di una propria autonomia, ma Dio non ha più margini d’azione, il suo rapporto con il cuore degli uomini, con quest'altra dimensione dell'essere, semplicemente non è previsto da questa concezione della creazione.
Allora non è più il Dio “vivente” ma un'ipotesi che, in ultima analisi, si tenta di rendere superflua.

20. Ma anche i teologi parlano di un’ “ assenza di Dio”.

Questa è un'altra faccenda. Già nelle Sacre Scritture ci imbattiamo nel nascondersi di Dio. Dio si nasconde al popolo che non gli obbedisce. Tace. Non manda profeti. E questa notte buia è presente anche nella vita dei santi, che vengono per così dire espulsi in questa sorta di assenza, di silenzio di Dio, come ad esempio Teresa di Lisieux, e devono condividere con i non credenti la sofferenza delle tenebre.

Ma questo comunque non significa che Dio non esiste. E nemmeno che non disponga più della sua forza propria o che non ci ami più. Sono situazioni della storia o dell'esistenza umana in cui l'incapacità dell'uomo di percepire la presenza di Dio opera a sua volta, per usare un'espressione di Martin Buber, un’ “eclissi di Dio”. Di fronte a questa incapacità o non volontà dell'uomo di percepire Dio di richiamarsi a lui, Dio pare essersi ritratto.

21. Clemente alessandrino, uno dei grandi Padri della Chiesa, disse una volta: “L'uomo è stato creato da Dio, perché desiderato da Dio per se stesso”. Bene, se dunque Dio è amore disinteressato, perché mai dovrebbe insistere nel pretendere da noi venerazione e adorazione?

Il Santo Padre ha ripreso nelle sue encicliche in diversi modi proprio quest'espressione “creato per se stesso”. L’ha mutuata da Immanuel Kant e l’ha sviluppata in maniera originale. Kant aveva detto che l'uomo è l'unico essere che è fine a se stesso, non uno strumento per altri fini. Il Papa dice ora: In effetti l'uomo è in sé un fine ultimo, non è a sua volta utilizzabile per conseguire altri fini.

Questa affermazione rappresenta il presupposto in base a cui garantire protezione al singolo. Perché in questo Dio creatore è riposto il fondamento che esclude il diritto di chicchessia di servirsi di un altro uomo, per quanto povero o debole questi possa essere, per conseguire Dio solo sa quali nobili scopi.

Oggi questa si è dimostrata una leva molto importante per garantire la difesa della dignità umana negli esperimenti sull'uomo o sugli embrioni. Il diritto umano per eccellenza è proprio questo, quello di non essere considerato un mezzo, ma di vedere tutelata la propria inviolabile dignità. Questo però non autorizza l'uomo a rinchiudersi in se stesso, a rideclinare la propria singola individualità a scopo finale della propria esistenza. Una componente importante della personalità umana è la relazionalità.

22. Che cosa significa?

Innanzitutto il lui è innata la tendenza ad amare, a relazionarsi con gli altri. Non è un essere autarchico, conchiuso in se stesso, un’isola dell’essere, ma, per sua stessa essenza, relazione. Senza questa relazione, nella mancanza di relazioni si autodistruggerebbe. E proprio in questa sua struttura fondamentale riflettere la natura di Dio. Perché è un Dio che a sua volta è per sua essenza relazione, come c’insegna il dogma trinitario. La relazionalità dell'uomo è quindi innanzitutto di natura interpersonale, ma è predisposta anche come proiezione verso l'infinito, verso la verità, verso l'amore stesso.

23. Deve necessariamente dispiegarsi in questa direzione?

Sì, ma questo non l'avvilisce. Questa relazione non rende l'uomo un fine, ma gli conferisce grandezza perché sta in rapporto diretto con Dio ed è direttamente voluto da Dio. Non si può perciò considerare il culto di Dio alla stregua di una faccenda esteriore come se Dio volesse essere lodato se avesse bisogno di sentirsi lusingato. Sarebbe ovviamente infantile e in sostanza irritante e ridicolo.

24. Ma allora cosa vuole?

Interpretare correttamente il senso dell’adorazione significa vivere correttamente il proprio essere come essere relazionale, vivere correttamente l'idea interiore del mio essere. E allora la mia vita si orienta a porsi in sintonia con la volontà di Dio, ad armonizzarsi con la verità e con l'amore. Non si tratta di fare qualcosa che faccia contento Dio. Adorarlo significa accettare la fugacità della nostra esistenza. Accettare di non avere per scopo qualcosa di finito che mi vincoli e di eccedere qualsiasi altro fine. Eccederlo proprio nell’unità interiore con colui che mi ha voluto come suo partner e che proprio su questo ha affondato la libertà che mi ha donato.

25. Ed è questo che Dio vuole veramente da noi?

Sì.





Caterina63
00mercoledì 23 giugno 2021 13:28

Dove è finita la verità della Pacem in terris ?

Discorso del Papa Francesco, 2 ottobre, per i 50 anni della Pacem in terris di Giovanni XXIII,

dice:

" 1. Ma qual è il fondamento della costruzione della pace? La Pacem in terris lo vuole ricordare a tutti: esso consiste nell’origine divina dell’uomo, della società e dell’autorità stessa, che impegna i singoli, le famiglie, i vari gruppi sociali e gli Stati a vivere rapporti di giustizia e solidarietà.

E’ compito allora di tutti gli uomini costruire la pace, sull’esempio di Gesù Cristo, attraverso queste due strade: promuovere e praticare la giustizia, con verità e amore; contribuire, ognuno secondo le sue possibilità, allo sviluppo umano integrale, secondo la logica della solidarietà.

Guardando alla nostra realtà attuale, mi chiedo se abbiamo compreso questa lezione della Pacem in terris. Mi chiedo se le parole giustizia e solidarietà sono solo nel nostro dizionario o tutti operiamo perché divengano realtà. L’Enciclica del Beato Giovanni XXIII ci ricorda chiaramente che non ci può essere vera pace e armonia se non lavoriamo per una società più giusta e solidale, se non superiamo egoismi, individualismi, interessi di gruppo e questo a tutti i livelli. .."

 

Tutto giusto, ci siamo, ma sono stati eliminati due "fondamenti" dall'enciclica....

LA VERITA' E LA LIBERTA'....

Leggiamo cosa disse Paolo VI nell'Omelia in san Giovanni in Laterano per la prima giornata della Pace, 1.gennaio 1978, nella quale cita la Pacem in terris:

"Ciascuno dei temi delle varie « Giornate per la Pace » completa i precedenti come una pietra si aggiunge alle altre per costruire una casa: questa casa della Pace, che - come diceva il nostro venerato predecessore Giovanni XXIII - si fonda su quattro pilastri : « la verità, la giustizia, la solidarietà operante e la libertà »...."

(Omelia - Paolo VI - 1° genn 1978)

 

dunque, secondo Paolo VI i pilastri della Pacem in Terris sono quattro e il primo è la verità!

IOANNIS XXIII Pacem in Terris, n.47.

"La stessa legge morale, che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche. (..)

Ciò non è difficile a capirsi quando si pensi che le persone che rappresentano le comunità politiche, mentre operano in nome e per l’interesse delle medesime, non possono venire meno alla propria dignità; e quindi non possono violare la legge della propria natura, che è la legge morale.

Sarebbe del resto assurdo anche solo il pensare che gli uomini, per il fatto che vengono preposti al governo della cosa pubblica, possano essere costretti a rinunciare alla propria umanità; quando invece sono scelti a quell’alto compito perché considerati membra più ricche di qualità umane e fra le migliori del corpo sociale.

Inoltre, l’autorità è un’esigenza dell’ordine morale nella società umana; non può quindi essere usata contro di esso, e se lo fosse, nello stesso istante cesserebbe di essere tale; perciò ammonisce il Signore: "udite pertanto voi, o re, e ponete mente, imparate voi che giudicate tutta la terra. Porgete le orecchie voi che avete il governo dei popoli, e vi gloriate di aver soggette molte nazioni: la potestà è stata data a voi dal Signore e la dominazione dall’Altissimo, il quale disaminerà le opere vostre, e sarà scrutatore dei pensieri" (Sap 6,2-4)...."

Perciò, quando Papa Francesco dice che il fondamento della Pace: "  consiste nell’origine divina dell’uomo, della società e dell’autorità stessa, che impegna i singoli, le famiglie, i vari gruppi sociali e gli Stati a vivere rapporti di giustizia e solidarietà...." omette di dire che  questa autorità esige la verità e che: "La stessa legge morale, che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche. (..)".

Certo, dire che l'origine divina dell'uomo è parte integrante di questo fondamento e che questa origine, e non altra, va rispettata per avere la pace, il Papa dice già la verità, ma non basta. Non basta perchè purtroppo questa società e questa autorità attuale è relativista, è nichilista, è individualista, è una società bugiarda e menzognera  ed una autorità che rivendica solo la presunzione del diritto ( di quale poi, non si è capito visto che non riconosce all'uomo stesso il diritto di Dio), dimenticando il dovere che ha dal momento che l'autorità che vanta gli viene da Dio, essendo l'uomo, appunto, creatura di Dio e non del Cesare di turno.

Papa Francesco rischia, senz'altro in buona fede, di banalizzare questa grave responsabilità dell'autorità racchiudendo il fondamento della Pace esclusivamente alla "giustizia ed alla solidarietà". Ma la giustizia e la solidarietà, privata della verità, restando monche del primo fondamento, falliscono.

Dice Papa Francesco:

"Mi chiedo se le parole giustizia e solidarietà sono solo nel nostro dizionario o tutti operiamo perché divengano realtà. L’Enciclica del Beato Giovanni XXIII ci ricorda chiaramente che non ci può essere vera pace e armonia se non lavoriamo per una società più giusta e solidale, se non superiamo egoismi, individualismi, interessi di gruppo e questo a tutti i livelli. .."

E la verità dove sta? C'è ancora nel nostro vocabolario, nel dizionario, negli insegnamenti e nella stessa concezione di giustizia e solidarietà?

Che il Papa lo possa dare per scontato, nessun problema, ha ragione perchè dovrebbe essere scontato, ma dal momento che scontato non lo è, perchè dimezzare il contenuto dei quattro pilastri della Pacem in terris?

Papa Giovanni XXIII disse diversamente:

"Riaffermiamo noi pure quello che costantemente hanno insegnato i nostri predecessori: le comunità politiche, le une rispetto alle altre, sono soggetti di diritti e di doveri; per cui anche i loro rapporti vanno regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante, nella libertà. ...."

Senza la verità sarà l'individualismo, invece, a fare da bilancia, spostando l'attenzione su concetti di giustizia e solidarietà fondati esclusivamente sul relativismo. Senza la verità subentra il relativismo e l'opinionismo, impossibile uscire da quest'impasse senza la verità.

Sul concetto della solidarietà è sempre la verità che le imprime la vera giustizia, così scrive infatti Giovanni XXIII:

" I rapporti tra le comunità politiche vanno regolati nella verità e secondo giustizia; ma quei rapporti vanno pure vivificati dall’operante solidarietà attraverso le mille forme di collaborazione economica, sociale, politica, culturale, sanitaria, sportiva: forme possibili e feconde nella presente epoca storica. In argomento occorre sempre considerare che la ragione d’essere dei poteri pubblici non è quella di chiudere e comprimere gli esseri umani nell’ambito delle rispettive comunità politiche; è invece quella di attuare il bene comune delle stesse comunità politiche; il quale bene comune però va concepito e promosso come una componente del bene comune dell’intera famiglia umana..." (P.inT. n.54)

e: " Amiamo pure richiamare all’attenzione che la competenza scientifica, la capacità tecnica, l’esperienza professionale, se sono necessarie, non sono però sufficienti per ricomporre i rapporti della convivenza in un ordine genuinamente umano; e cioè in un ordine, il cui fondamento è la verità, misura e obiettivo la giustizia, forza propulsiva l’amore, metodo di attuazione la libertà.." (n.78)

e ancora: " A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio..." (n.87)

Dunque, per ricomporre i rapporti della convivenza in un "ordine genuinamente umano", la verità è il fondamento di questo ordine; la misura e l'obiettivo è la giustizia avente come fondamento la verità; la forza propulsiva di tale fondamento si esprime con l'amore autentico-solidarietà; e di conseguenza metodo di attuazione di questo fondamento della verità è la libertà! La vera Pace è quella che attua " l'ordine stabilito da Dio" a partire dalla verità sull'uomo, dalla verità sulla legge che regola la nostra natura e che da vita alle nostre società.

Se si toglie un solo elemento da questo ordine, se si toglie la verità, si rischia il fallimento, si va verso l'illusione di una pace umana, mondana, praticata solo sul "quieto vivere" per continuare a fare ciò che voglio, intendendo la libertà nel modo peggiore.

Se Papa Francesco dice:

"L’Enciclica del Beato Giovanni XXIII ci ricorda chiaramente che non ci può essere vera pace e armonia se non lavoriamo per una società più giusta e solidale, se non superiamo egoismi, individualismi, interessi di gruppo e questo a tutti i livelli. .."

è carità fraterna ricordargli che l'Enciclica si conclude con parole leggermente diverse, e diverse anche nel significato:

"Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla veritàcostruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà.."

Sul concetto autentico della libertà, leggere e studiare l'Enciclica di Leone XIII: Libertas

 

N.B. accedere attraverso i link per l'integrità dei testi citati

***


Caterina63
00mercoledì 23 giugno 2021 13:38

Che cosa signifca tollerare e che cosa tollerare

Il termine "tollerare", come diversi termini ad oggi, ha subito anch'esso una deviazione nel suo significato etimologico. Sembra quasi che tollerare sia diventato oggi un diritto, una legge attraverso la quale far passare piuttosto tutte le aberrazioni che, tollerate e tollerabili, non hanno affatto alcun diritto nell'imporsi.

Tollerare deriva da una radice indo-germanica: tal= portare, sollevare, pesare.... da thul-ian e dall' anglo-sassone tholian = sopportare; thul-ains= tolleranza; infine tàlanton= portare, peso, bilancia. Con l'affermarsi del termine si venne ad indicare così, dal latino "tolerare", il portare un peso, il su-portare (=sopportare).

Tollerare, quindi, significa sopportare e non certo "accettare", specialmente passivamente o persino attivamente, ogni forma di peccato. Nulla da spartire con alcun sincretismo etico, morale o religioso che fosse o si pretendesse.

Possiamo fare l'esempio della prostituzione che, essendo antica quanto il mondo e l'uomo stesso, è tollerabile dal momento che nessuno può imporre con la forza la corretta morale e tuttavia lo Stato stesso ha il dovere di educare la società ricordando, appunto, come la prostituzione non sia affatto una bella situazione per la donna che la vive e come dietro a questo mercato del corpo si nutre piuttosto la malavita organizzata, lo sfruttamento, la tratta dei nuovi schiavi e di una moderna schiavitù, per non parlare del riciclaggio del danaro proveniente dalla droga e da altri mercati immorali e dalla vendita stessa del proprio corpo. Se dunque della prostituzione è tollerare la persona che si prostituisce (cercando sempre di ricondurla sulla retta via), deve diventare intollerante lo Stato quando dietro a questo mercato s'impinguano i papponi e quant'altro. E per questo infatti ci sono le leggi che tentano di impedire il proliferare della prostituzione cercando di mantenerla a livelli, appunto detti, tollerabili.

Così un buon cristiano non può tollerare, mai, qualsiasi atto peccaminoso sotto la falsa mantella del "male minore", in questo senso parla tutto il Vangelo durante la descrizione della vita pubblica di Gesù e dei suoi Discepoli: nessun compromesso con il peccato, tolleranza zero.

Ma questa intolleranza non è mai rivolta contro le persone, quanto piuttosto contro gli atti immorali che sono ben delineati dai Dieci Comandamenti. Quindi la prima vera forma di intolleranza è verso se stessi. Nessuno che voglia dirsi discepolo del Cristo può agevolare ciò che nei suoi Comandamenti è condannato.

Ama il prossimo tuo come ami te stesso.

Quanto è stata strumentalizzata questa espressione!

Non è possibile amare correttamente il prossimo se tolleriamo in noi stessi il peccato. Per questo il vero Cristiano non è mai un moralista ma bensì un testimone. Vive, cioè, e testimonia con il proprio comportamento ciò che insegna la legge divina la quale non è un monopolio della Chiesa Cattolica o di una religione, piuttosto appartiene all'uomo stesso, ad ogni uomo di qualsiasi razza, cultura, lingua, nazione o continente e che nel Cristo trova il compimento, lo stile di vita che è "segno di contraddizione" nel mondo il quale, come ben sappiamo, gestito dal principe dei Demoni, marcia contro Dio.

Se le cose oggi vanno male la responsabilità primaria è di quanti, dicendosi "cattolici" vivono da peccatori contenti del proprio stato, oppure tolleranti verso il peccato pensando di fare un atto gradito a Dio e al prossimo dimenticando il monito ben descritto in Ezechiele:

- "Figlio d'uomo, io t'ho stabilito come sentinella (..) Se io dico all'empio: "Certamente morirai" e tu non l'avverti e non parli per avvertire l'empio di abbandonare la sua via malvagia perché salvi la sua vita, quell'empio morirà nella sua iniquità, ma del suo sangue domanderò conto a te. Ma se tu avverti l'empio, ed egli non si ritrae dalla sua empietà e dalla sua via malvagità, egli morirà nella sua iniquità, ma tu avrai salvato la tua anima. Se poi un giusto si ritrae dalla sua giustizia e commette iniquità, io gli metterò davanti un ostacolo ed egli morirà; poiché tu non l'hai avvertito egli morirà nel suo peccato, e le cose giuste da lui fatte non saranno più ricordate, ma del suo sangue domanderò conto alla tua mano. Se però tu avverti il giusto perché non pecchi e non pecca, egli certamente vivrà perché è stato avvertito, e tu avrai salvato la tua anima" (3,17).

Il Vangelo ci invita a “porgere l’altra guancia” è vero, accettando le ingiustizie fatte contro di noi quando tali ingiustizie coinvolgono unicamente la nostra persona, ma non invita mai a tollerare l'atto del peccare, anzi, è intollerante verso ogni forma di peccato. Non si porge mai l'altra guancia al peccato, semmai la si porge a quel peccatore che, incallito, recidivo e magari anche violento, ci colpisce perché condanniamo ciò che è peccato o perché divulghiamo e viviamo la Buona Novella. Diversamente, il Vangelo stesso, non avrebbe avuto ragione di spiegarci l'umiltà del porgere l'altra guancia, dell'essere perseguitati perché percorriamo la via stretta indicata e battuta dal Cristo stesso.

 

Siamo tutti peccatori! E tutti abbiamo bisogno di essere tollerati da Dio a causa dei nostri difetti duri a morire. Dio ci tollera quando cerchiamo di correggerci, ma non ci tollera più quando con superbia pretendiamo di rimanere tranquilli e beati nel peccato.

La differenza sostanziale tra noi peccatori è che nel nostro caso, se siamo veramente di Cristo, ci riconosciamo bisognosi della salvezza, dei Sacramenti, bisognosi di vivere da veri cristiani; nel secondo caso non vogliamo essere salvati, non ci interessa, preferiamo il mondo; e c'è anche un terzo caso in cui - noi peccatori - pretenderemo una salvezza pur continuando a rimanere peccatori, trattasi del famoso "bonismo" finendo per diventare poi anche moralisti, e sono quelli che difendono ad oltranza appunto la tolleranza verso ogni forma di peccato, magari convinti (in buona o fede o meno) che tollerando ogni cosa si finirà per essere perdonati senza aver fatto nulla contro il dilagare del peccato. Ma questo è ingannare se stessi prima e il prossimo come conseguenza.

 

" Vae, qui dicunt malum bonum et bonum malum, ponentes tenebras in lucem et lucem in tenebras, ponentes amarum in dulce et dulce in amarum!

Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro" (Isaia 5, 20).

La tolleranza, se ben praticata, mette in luce proprio queste differenze, mette in risalto la differenza fra il bene, che siamo chiamati a praticare e ad accogliere, e ciò che è male e che viene tollerato affinché possa essere corretto.

La tolleranza è proprio una forma di virtù evangelica della quale è Cristo stesso che ci ha dato l'esempio tollerando noi, l'umanità da salvare. Cristo Gesù è stato il vero esempio di autentica tolleranza e che, come rammenta San Paolo, ha condiviso tutto con noi e per noi, fuorché il peccato.

La tolleranza del Cristo è stata quella di farsi "trattare" da peccato affinché noi potevamo esserne liberati, ma proprio per non accettare il peccato Cristo finì sulla Croce. Essere davvero pacifici e tolleranti significa entrare per la porta stretta.

Quando rivediamo la scena del Pretorio fra Gesù e Barabba; fra la Verità e la menzogna, alla domanda di Pilato "chi volete che vi liberi?" noi facevamo una scelta drammatica, sceglievamo di liberare la menzogna e gridavamo che la Verità venisse crocefissa.

Qui la tolleranza di Dio toccò il culmine perché ci lasciò fare rispettando la nostra scelta, per questo Gesù dalla Croce potrà supplicare per noi: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno".

Muore Gesù non solo perché così doveva essere, ma perché così avremmo dovuto agire anche noi. Gesù ci ha dato l'esempio: la vera tolleranza è quella di finire crocifissi non per difendere ma per divulgare la Verità Risorta e vincitrice, per portare quella luce vittoriosa che altri vogliono continuare ad oscurare, così come esiste una forma di tolleranza che, per il Signore Gesù e per ogni credente, è come il tradimento. È ad esempio mantenere il silenzio quando il nome di Dio è bestemmiato e quando Gesù Cristo è disonorato, o quando si preferisce tacere la condanna del peccato: «Se questi taceranno, urleranno le pietre» (Lc. 19, 40).

Oggi, nel mondo contemporaneo, si è rafforzata una tolleranza attiva che spinge verso una convivenza democratica, in cui le regole sono ammesse ed estese anche all’altro, a volte anche imposte, per sfrondare il fatto che l’altro non è "un qualcuno da sopportare" ma un soggetto portatore di altri valori con cui interagire.

Benché ci sia del condivisibile in questo, e cioè che l'altro non deve essere "uno da sopportare" ma da accogliere e amare, deve essere anche ben chiaro che non si può pretendere la tolleranza laddove per "l'altro" si finisce per intendere l'adempimento dell'errore, il suo portare valori immorali ed inaccettabili quali le questioni etiche e morali o ciò che riconosciamo quali  principi indiscutibili come il diritto alla vita fin dal suo concepimento, la famiglia formata da un uomo e una donna, il diritto dell'uso dei termini "padre e madre", e quant'altro abbia attinenza con la verità sull'uomo.

 

Così scriveva il Venerabile Pio XII ai Giuristi Cattolici:

 

"... Può Dio, sebbene sarebbe a Lui possibile e facile di reprimere l'errore e la deviazione morale, in alcuni casi scegliere il « non impedire », senza venire in contraddizione con la Sua infinita perfezione?

Può darsi che in determinate circostanze Egli non dia agli uomini nessun mandato, non imponga nessun dovere, non dia perfino nessun diritto d'impedire e di reprimere ciò che è erroneo e falso?

Uno sguardo alla realtà dà una risposta affermativa.

Essa mostra che l'errore e il peccato si trovano nel mondo in ampia misura.

Iddio li riprova; eppure li lascia esistere.

Quindi l'affermazione : Il traviamento religioso e morale deve essere sempre impedito, quando è possibile, perché la sua tolleranza è in sé stessa immorale — non può valere nella sua incondizionata assolutezza.

D'altra parte, Dio non ha dato nemmeno all'autorità umana un siffatto precetto assoluto e universale, nè nel campo della fede nè in quello della morale.

Non conoscono un tale precetto nè la comune convinzione degli uomini, nè la coscienza cristiana, nè le fonti della rivelazione, nè la prassi della Chiesa. Per omettere qui altri testi della Sacra Scrittura che si riferiscono a questo argomento, Cristo nella parabola della zizzania diede il seguente ammonimento : Lasciate che nel campo del mondo la zizzania cresca insieme al buon seme a causa del frumento (cfr. Matth. 13, 24-30).

Il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose non può quindi essere una ultima norma di azione.

Esso deve essere subordinato a più alte e più generali norme, le quali in alcune circostanze permettono, ed anzi fanno forse apparire come il partito migliore il non impedire l'errore, per promuovere un bene maggiore.

Con questo sono chiariti i due principi, dai quali bisogna ricavare nei casi concreti la risposta alla gravissima questione circa l'atteggiamento del giurista, dell'uomo politico e dello Stato sovrano cattolico riguardo ad una formula di tolleranza religiosa e morale del contenuto sopra indicato, da prendersi in considerazione per la Comunità degli Stati.

Primo: ciò che non risponde alla verità e alla norma morale, non ha oggettivamente alcun diritto nè all'esistenza, nè alla propaganda, nè all'azione.

Secondo : il non impedirlo per mezzo di leggi statali e di disposizioni coercitive può nondimeno essere giustificato nell'interesse di un bene superiore e più vasto.

Se poi questa condizione si verifichi nel caso concreto — è la « quaestio facti » —, deve giudicare innanzi tutto lo stesso Statista cattolico. Egli nella sua decisione si lascerà guidare dalle conseguenze dannose, che sorgono dalla tolleranza, paragonate con quelle che mediante l'accettazione della formula di tolleranza verranno risparmiate alla Comunità degli Stati; quindi, dal bene che secondo una saggia prognosi ne potrà derivare alla Comunità medesima come tale, e indirettamente allo Stato che ne è membro.

Per ciò che riguarda il campo religioso e morale, egli domanderà anche il giudizio della Chiesa.

Da parte della quale in tali questioni decisive, che toccano la vita internazionale, è competente in ultima istanza soltanto Colui a cui Cristo ha affidato la guida di tutta la Chiesa, il Romano Pontefice...."

(Pio XII Ai Giuristi Cattolici italiani 6.12.1953)

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