Le gravissime affermazioni scismatiche del cardinale Kasper.....

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Caterina63
00giovedì 13 marzo 2014 14:37

   Le gravissime affermazioni scismatiche del cardinale Kasper.....

Eminenza.... pensa che la dottrina possa cambiare?
«La dottrina non può essere cambiata. Tuttavia, a parte il fatto che esiste uno sviluppo della dottrina che va sempre tenuto in considerazione, e cioè l'evidenza che essa non è una laguna stagnante quanto un fiume che scorre, una tradizione che vive insomma, occorre anche distinguere bene fra ciò che è dottrina e ciò che invece è disciplina. Tutti i Concili ecumenici prima del Vaticano II hanno fatto questa differenza fondamentale, riconoscendo che la disciplina può cambiare quando le situazioni mutano. In merito ai divorziati risposati, ad esempio, fra il Codice del 1917 e il nuovo del 1983 ci sono sviluppi nella disciplina importanti. E, dunque, oggi si può ulteriormente fare nuovi passi in merito. Del resto è il Papa a chiedere dibattito, anche se c'è chi vuole fermarlo» [1].

A queste affermazioni, alle quali altre tastiere più importanti della nostra hanno risposto egregiamente [2], noi vogliamo solo aggiungerci delle riflessioni per far emergere la gravità non solo del pensiero ma anche dell'atteggiamento assunto dal cardinale Kasper.

«La dottrina non può essere cambiata» e fin qui siamo tutti d'accordo. Ciò che umanamente, ragionevolmente e razionalmente stona e non possiamo accettare è in quel "tuttavia" con il quale il cardinale Kasper filtra la gravità delle sue affermazioni. Se una dottrina non può essere cambiata, non c'è un "però", un "ma" o un "tuttavia" che tenga, e questo lo diceva già Nostro Signore Gesù Cristo quando ammoniva: «Non chiunque mi dice: "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt.7, 21); «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt.5,37).

Furbescamente Kasper, da una parte, parla di una dottrina immutabile, ma dall'altra insinua il suo cambiamento quando dice che «esiste uno sviluppo della dottrina che va sempre tenuto in considerazione, e cioè l'evidenza che essa non è una laguna stagnante quanto un fiume che scorre, una tradizione che vive insomma, occorre anche distinguere bene fra ciò che è dottrina e ciò che invece è disciplina...».

Ma "sviluppo di una dottrina" è un andare avanti partendo sempre da quello che la dottrina dice e mai modificandone il contenuto. È vero che la disciplina della Chiesa è suscettibile alle esigenze del tempo che vive, ma non certo ai cambiamenti di rotta a seconda delle mode del tempo così come ci rammenta San Paolo: «Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie» (2Tim.4,3); dunque che la disciplina sia suscettibile a variazioni sempre in progressione alla legge di Dio è compito della Chiesa, mutare invece una disciplina per scavalcare la dottrina o mutarla, allora no, non ci siamo proprio.

Nessuno vuole "fermare il Papa", caro cardinale Kasper! Noi vogliamo "fermare" lei, non il Papa!

Il precedente codice di diritto canonico, citato da Kasper, al Canone 2536, prevedeva la scomunica per i risposati [3] e tale scomunica era più semplicemente, e non altro, quel che determinava la scelta dei due sposi che rinnegavano le promesse fatte davanti a Dio divenendo, in sostanza, "infames", cioè privati da se stessi della buona fama (così si esprimeva il Codice di Diritto Canonico del 1917) e di conseguenza non più in comunione con la Chiesa per loro decisione, per una loro scelta.


Che cosa è cambiato con il nuovo Codice del Diritto Canonico? Secondo Kasper ci sarebbe stata un'evoluzione-sviluppo sulla dottrina dei divorziati risposati.

È davvero così? No!

Il (nuovo) Codice di Diritto Canonico stabilisce che: «Non siano ammessi alla sacra Comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» (can. 915).[4]

Il 7 luglio del 2000 Giovanni Paolo II faceva pubblicare sull'Osservatore Romano la spiegazione di come questo articolo riguardasse anche i divorziati risposati.

Ecco alcuni passi del testo magisteriale: «Negli ultimi anni alcuni autori hanno sostenuto, sulla base di diverse argomentazioni, che questo canone non sarebbe applicabile ai fedeli divorziati risposati. Viene riconosciuto che l’Esortazione Apostolica Familiaris consortio del 1981 aveva ribadito, al n. 84, tale divieto in termini inequivocabili, e che esso è stato più volte riaffermato in maniera espressa, specialmente nel 1992 dal Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1650, e nel 1994 dalla Lettera Annus internationalis Familiae della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ciò nonostante, i predetti autori offrono varie interpretazioni del citato canone che concordano nell’escludere da esso in pratica la situazione dei divorziati risposati. (...)

Qualunque interpretazione del can. 915 che si opponga al suo contenuto sostanziale, dichiarato ininterrottamente dal Magistero e dalla disciplina della Chiesa nei secoli, è chiaramente fuorviante. Non si può confondere il rispetto delle parole della legge (cfr. can. 17) con l’uso improprio delle stesse parole come strumenti per relativizzare o svuotare la sostanza dei precetti.

La formula «e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» è chiara e va compresa in un modo che non deformi il suo senso, rendendo la norma inapplicabile. Le tre condizioni richieste sono:

  • il peccato grave, inteso oggettivamente, perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della Comunione non potrebbe giudicare;
  • l’ostinata perseveranza, che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale;
  • il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale.

Non si trovano invece in situazione di peccato grave abituale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - «soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris consortio, n. 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della Penitenza. Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo.

Naturalmente la prudenza pastorale consiglia vivamente di evitare che si debba arrivare a casi di pubblico diniego della sacra Comunione. I Pastori devono adoperarsi per spiegare ai fedeli interessati il vero senso ecclesiale della norma, in modo che essi possano comprenderla o almeno rispettarla. Quando però si presentino situazioni in cui quelle precauzioni non abbiano avuto effetto o non siano state possibili, il ministro della distribuzione della Comunione deve rifiutarsi di darla a chi sia pubblicamente indegno. Lo farà con estrema carità, e cercherà di spiegare al momento opportuno le ragioni che a ciò l’hanno obbligato. Deve però farlo anche con fermezza, consapevole del valore che tali segni di fortezza hanno per il bene della Chiesa e delle anime. [5]

Come fa allora il cardinale Kasper a parlare di "sviluppo" della dottrina, nella sua erronea interpretazione, affermando un cambiamento di rotta al nuovo Diritto Canonico sui divorziati risposati? L'unico cambiamento che c'è stato è di aver inserito i "divorziati risposati" in un contesto più ampio. Il Documento qui sopra appena riportato, del 2000, sottolineava già all'epoca la strumentalizzazione delle parole del Canone a vantaggio di un'imposizione volta a modificare la dottrina sul chi debba ricevere la Comunione.

L'altra affermazione gravissima pronunciata da Kasper la troviamo nell'articolo del 10 marzo 2014 su Il Foglio [6] il quale inizia così: «Va bene. Vogliamo un dibattito. Non vogliamo una Chiesa che dorme, vogliamo una Chiesa vivace. Ma quello che ha fatto un quotidiano italiano, cioè pubblicare la mia relazione senza autorizzazione, è contro la legge. Secondo me, in questo modo hanno sabotato la volontà del Papa. Loro vogliono chiudere la discussione, mentre il Papa vuole una discussione aperta». La discussione sul tema continuerà, ha ricordato Kasper, «nel Sinodo. E dipenderà dal Sinodo e dal Papa, il risultato. Io ho fatto una proposta, come mi ha richiesto di fare il Papa, e si vedrà come procederà la discussione, nei prossimi due anni».

«Secondo me, in questo modo hanno sabotato la volontà del Papa. Loro vogliono chiudere la discussione, mentre il Papa vuole una discussione aperta...». L'affermazione è di una gravità inaudita perché apre scenari ad un vero atto scismatico nel quale, il cardinale Kasper, attribuisce al Pontefice una certa dichiarata "volontà".

Un conto, infatti, è la "volontà" del Papa a discutere su questi temi, ad aprire il dibattito e ad ascoltare tutte le correnti per mantenere inalterata la dottrina, ciò è legittimo ed è la prassi della Chiesa bimillenaria, altra cosa è attribuire al Papa la volontà di realizzare le intenzioni di Kasper, del quale egli si sarebbe fatto solo "umile portavoce". Non a caso, Kasper dice "secondo me" e non secondo il Papa, ma alla fine finisce per attribuire al Papa la volontà di questo cambiamento nella direzione auspicata da Kasper.

In tal caso sarebbe lo scisma!

Nessuno di noi vuole una Chiesa "che dorme", ma la vivacità di cui si parla non può essere neppure nell'imporre una visione soggettiva del problema dei divorziati-risposati. Ciò che pretende Kasper è di un'assurdità che persino un adolescente comprenderebbe come tale.

Infatti, una volta dopo aver benedetto le "nuove unioni", per esempio, dopo la quarantena di astinenza, i due sposi si ritroverebbero al punto di partenza, ossia senza aver risolto il problema alla radice, senza aver chiuso o risolto il matrimonio regolare avvenuto prima. Ciò che Kasper propone è fariseismo allo stato puro, è pura ipocrisia: una quarantena di penitenza, astinenza dalle attività sessuali, dopo di che i divorziati risposati riceverebbero una benedizione e arrivederci e grazie. Dopo si potrà tornare a fare sesso (evviva!) senza più preoccuparsi del precedente matrimonio! Esattamente il contrario di quanto afferma la Familiaris Consortio di un Papa a breve canonizzato.

Quindi, ci faccia capire, cardinal Kasper: ipoteticamente basterebbero quaranta giorni di astinenza per togliere "il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale"? Certo che basterebbero, se, come dice il Documento sopra i risposati: «assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris consortio, n. 84),

Infatti compito della Chiesa non era guidare, istruire ed accompagnare il fedele fuori dalla sua situazione, manifesta, di peccato? Non è forse necessario che la persona incorsa in un grave peccato faccia di tutto per non commetterlo più? È davvero questa la "volontà" del Papa, spingere i risposati a giustificare la loro situazione di adulterio (termine scomparso nella nuova pastorale del Concilio, eppure chiara nei Comandamenti)?

Noi non vogliamo crederlo! Non ci vogliamo credere!

Il cardinale Kasper era stato "congelato" molto diplomaticamente da Benedetto XVI dopo il suo pensionamento, Papa Francesco lo ha riportato alla ribalta citandolo nel suo primo Angelus del quale, tuttavia, il teologo domenicano Padre Giovanni Cavalcoli O.P. ne aveva coraggiosamente denunciato alcuni contenuti poco ortodossi con la dottrina cattolica, quali per esempio: «La lunga sconsiderata ed ingannevole attività ecumenica del cardinale Kasper". [7]

Ci sarebbe ancora molto da dire, ma a noi premeva approfondire la gravità delle affermazioni di Kasper le quali, se avessero un vero fondamento nel suo pensiero che interpreta le intenzioni del Papa, dovremmo pensare che ci stiamo avviando apertamente ad un grave scisma.

Vogliamo concludere con la "visione" diametralmente opposta a quella di Kasper e dello stesso Pontefice, citando quella di Müller, neo cardinale e Prefetto per la CdF, che aveva già chiuso sulla possibilità di adottare la prassi ortodossa – che prevede la cosiddetta “seconda possibilità” ai divorziati risposati – per la Chiesa cattolica. «È contro la volontà di Dio», scriveva il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’Osservatore Romano, articolo approvato dal Papa Francesco. [8]

 

Note

1] Intervista al card. Kasper su Repubblica (11/03/2014)
2] Leggasi qui sulla Familiaris Consortio ed anche qui nel nostro notiziario web.
3] Can 2356. Bigami, idest qui, obstante coniugali vinculo, aliud matrimonium, etsi tantum civile, ut aiunt, attentaverint, sunt ipso facto infames; et si, spreta Ordinarii monitione, in illicito contubernio persistant, pro diversa reatus gravitate excommunicentur vel personali interdicto plectantur.
(CODEX IURIS CANONICI – 1917)
4] Nuovo Codice di Diritto Canonico 1983 
5] DICHIARAZIONE circa l'ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati daL’Osservatore Romano, 7 luglio 2000, p. 1; Communicationes, 32 [2000], pp.
6] Il Foglio del 10 marzo 2014
7] Riscossa Cristiana del 14 febbraio 2013
8] Cliccare qui per il testo integrale del cardinale Müller sull'argomento e, ripetiamo, un testo approvato dal Papa per la sua pubblicazione sull'OR e, come vedete, inserito nei testi ufficiali della CdF.




Caterina63
00venerdì 14 marzo 2014 15:39
   Le "amnesie" del cardinale Kasper
di fr. Giorgio Carbone o.p.

09-03-2014 da La Bussola Quotidiana

Il cardinale Walter Kasper dedica la sezione più lunga della sua relazione al Concistoro del 20 febbraio scorso al tema doloroso del fallimento dell’unione matrimoniale e alle prospettive pastorali verso le persone divorziate e risposate. In particolare presenta due casi ponendo ai suoi colleghi cardinali delle domande al fine di approfondire le soluzioni pastorali. L’ambito è così circoscritto.

Il primo caso è quello di una persona soggettivamente convinta che il matrimonio da cui proviene non è valido. Oggi il Diritto canonico stabilisce che la valutazione circa la validità o la nullità del matrimonio compete ai tribunali ecclesiastici. Perciò Kasper domanda: «Non sarebbero possibili altre procedure più pastorali e spirituali? In alternativa si potrebbe pensare che il vescovo possa affidare questo compito a un sacerdote con esperienza spirituale e pastorale quale penitenziere o vicario episcopale».

Sotto questo profilo teoricamente è tutto possibile, perché – come rileva lo stesso cardinal Kasper – le procedure canoniche e i tribunali ecclesiastici non sono di istituzione divina, non sono di diritto divino, ma sono istituzioni umane, sono elaborate della Chiesa nel corso della sua esperienza e quindi possono tranquillamente mutare.

L’obiettivo è valutare la verità circa l’esistenza o meno di un sacramento, di un matrimonio tra due presunti coniugi. L’attuale procedura canonica prevede una stretta collaborazione tra molte figure processuali (ad es. il promotore di giustizia, il difensore del vincolo, gli avvocati di parte, i collegi giudicanti, i periti). Tale procedura e in particolare la condizione della duplice sentenza conforme, cioè il doppio grado di giudizio, quello di prima istanza e quello di appello, hanno lo scopo di garantire quanto più oggettivamente è possibile l’accertamento della verità del sacramento, di tutelare tutte le parti, il coniuge attore della causa e il coniuge convenuto. Potremo elaborare anche altri metodi di accertamento a condizione che consentano di raggiungere un grado di garantismo processuale pari o superiore all’attuale sistema, e a condizione che assicurino un’attenta ponderazione dei singoli casi.

Ora, affidare il giudizio circa la verità di un matrimonio a una singola persona, per quanto attenta, competente e pastoralmente preparata, mi sembra quanto mai imprudente data anche la posta in gioco. Quanti abbagli si prendono quando si è soli a giudicare. La prudenza pastorale plurisecolare infatti chiede un organo di giudizio collegiale e non monocratico.

Il secondo caso è quello più delicato, perciò riportiamo le stesse parole con le quali il cardinal Kasper pone la domanda: «Un divorziato risposato: 1. se si pente del suo fallimento nel primo matrimonio, 2. se ha chiarito gli obblighi del primo matrimonio, se è definitivamente escluso che torni indietro, 3. se non può abbandonare senza altre colpe gli impegni assunti con il nuovo matrimonio civile, 4. se però si sforza di vivere al meglio delle sue possibilità il secondo matrimonio a partire dalla fede e di educare i propri figli nella fede, 5. se ha desiderio dei sacramenti quale fonte di forza nella sua situazione, dobbiamo o possiamo negargli, dopo un tempo di nuovo orientamento (metanoia), il sacramento della penitenza e della comunione? Questa possibile via non sarebbe una soluzione generale».

Questo caso ricorda per alcuni passaggi un testo del magistero di Giovanni Paolo II. Si tratta dell’Esortazione apostolica Familiaris Consortio, n. 84: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio. La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi».

Quindi, se i divorziati risposati sono nelle condizioni elencate da Kasper e se la condizione n. 4 consiste in quello che scrive Giovanni Paolo II cioè «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi», allora possono essere ammessi al sacramento della penitenza e a quello dell’eucaristia.

Ma se il cardinal Kasper ha posto la domanda per approfondire significa almeno che la condizione n. 4 non consiste in quello che scrive Giovanni Paolo II. Dobbiamo perciò pensare che il caso elaborato da Kasper tratti di persone divorziate risposate, che hanno motivi seri per continuare a convivere (ad esempio l’esistenza di figli minori) e che hanno tra loro rapporti coniugali.

Nell’Appendice II della relazione si citano molti testi patristici e si fa riferimento alla dottrina del peccato veniale. Ora è necessario fugare qualsiasi equivoco: un peccato può essere oggettivamente grave e soggettivamente veniale o perché l’avvertenza della mente non è piena (esempio, mancanza di lucidità non colpevole) o perché manca, in tutto o in parte, il deliberato consenso della volontà. In altri termini un atto disordinato, oggettivamente grave e quindi mortale, potrà essere peccato veniale per quei difetti soggettivi che riguardano l’intelligenza o la volontà di chi agisce. Ora nel nostro caso le due persone della coppia sanno perfettamente e vogliono lucidamente. Quindi, non si può parlare di peccato veniale. Inoltre, le cinque condizioni elencate nel caso non potranno cambiare la qualità morale del rapporto sessuale tra due persone non sposate, e tale qualità morale resta sempre adulterio.

Se la Chiesa decidesse di ammettere al sacramento della penitenza e a quello dell’eucaristia questi divorziati risposati, sarebbe ancora fedele al suo Signore che ha chiaramente condannato l’adulterio? E ha chiaramente insegnato l’indissolubilità del matrimonio?

Ma non possiamo piuttosto ribaltare la questione? E pensare: se una coppia di divorziati risposati, che hanno rapporti coniugali e che non riescono a vivere la piena continenza, non è ammessa ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, il fatto di non essere ammessa può essere vissuto come penitenza? La non ammissione ai sacramenti può essere proposta dalla Chiesa come una tappa del cammino penitenziale? Come un aspetto della metanoia a cui accenna anche il cardinal Kasper?

In fondo tutti i più recenti documenti del magistero invitano non solo al discernimento dei singoli casi, ma anche alla penitenza non sacramentale delle persone divorziate risposate. Si legga sempre Familiaris Consortio n. 84: «Con ferma fiducia la Chiesa crede che, anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità».

Nella storia plurisecolare della cristianità ci sono numerosi esempi di prassi penitenziali in ragione delle quali i penitenti non erano ammessi ai sacramenti proprio come segno esteriore della penitenza interiore. Non si tratta quindi di una forma di esclusione infamante, ma di un percorso di conformazione a Cristo che passa dalla rinuncia a un proprio modo di vedere i sacramenti al modo con cui Cristo pensa ai sacramenti. È questa la metanoia, il cambiamento di pensiero a cui tutti siamo chiamati. Questa è l’autentica conversione: pensare come Cristo, avere lo stesso pensiero di Cristo, la sua stessa mentalità e il suo stesso sguardo sulle persone e le creature.

Nell’Appendice II il cardinal Kasper cita sommariamente Agostino, La fede e le opere 19,35. Il testo è molto significativo perché ricorda una prassi negligente dei pastori nei confronti degli adulteri e anche un rischio tuttora reale: l’incidenza dell’adulterio in una popolazione aumenta quando non si rimprovera tale peccato, quando anzi lo si difende oppure quando lo si trascura: «Sembra che per i costumi dei cattivi cristiani, un tempo addirittura pessimi, non fosse un male il fatto che uomini sposassero la moglie di un altro o che donne sposassero il marito di un’altra, per questo forse si insinuò presso alcune chiese questa negligenza per cui nelle istruzioni ai richiedenti non si indagava né si riprovava su tali vizi. Così è avvenuto che si è incominciato anche a difenderli. Tali vizi tuttavia sono ancora rari nei battezzati, a meno che non li facciamo aumentare col trascurarli. Quella che alcuni chiamano negligenza, altri inesperienza, e altri ancora ignoranza, probabilmente è ciò che il Signore ha designato con il nome di sonno, dove dice: Ma mentre tutti dormivano venne il tuo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano [Mt 13,25]».

Infine, la vera questione non è tanto il dopo, cioè la patologia del matrimonio (per quanto sia drammatica e dolorosa), la vera soluzione è il prima, cioè la preparazione al sacramento e il radicamento della coppia nella fede, nella speranza, nell’amore divino e nel desiderio di santità reciproca.






 

Caterina63
00venerdì 14 marzo 2014 15:43

<header class="post-header">

   Comunione ai risposati (2). Tre interventi dall’Italia e dagli Stati Uniti

</header>

adultera

La soluzione proposta il 13 marzo su Settimo Cielo da Giovanni Onofrio Zagloba per l’ammissione alla comunione di alcuni divorziati risposati ha suscitato immediate e argomentate reazioni in Italia e all’estero.

Ecco qui di seguito tre interventi critici. Il magistrato romano Francesco Arzillo obietta sul metodo, mentre il professor Robert Fastiggi di Detroit e l’avvocato Giovanni Formicola di Napoli contestano nel merito le posizioni di Zagloba.

*

FRANCESCO ARZILLO
(Magistrato amministrativo a Roma. Il suo ultimo libro: “Esperienza giuridica e senso comune. Sul fondamento ontologico del diritto”)

Lo scritto di Giovanni Onofrio Zagloba si segnala per un approccio pacato al tema dei divorziati risposati, che oggi è all’’attenzione dell’’opinione pubblica ecclesiale: approccio accompagnato dalla sua manifestazione di disponibilità – in spirito autenticamente cattolico, oltre gli opposti integralismi dei tradizionalisti e dei progressisti – a recepire le decisioni che saranno adottate in merito dalla suprema autorità ecclesiale.

Non intendo qui soffermarmi sulla particolare declinazione che la nota di Zagloba offre in ordine alla prima delle ipotesi prospettate dal cardinale Kasper, la quale rimane ancorata al classico profilo della nullità del primo matrimonio.

Voglio piuttosto segnalare una carenza del dibattito pubblico corrente in merito alla seconda ipotesi avanzata da Kasper, la quale attiene alla possibilità di un cammino penitenziale che conduca alla riammissione all’eucarestia di un divorziato risposato in casi particolari, anche in assenza della dichiarazione di nullità del primo matrimonio.

Il dibattito tende a concentrarsi sui profili pastorali, letti in relazione a quelli storici, intendendo per tali soprattutto quelli concernenti la prassi e la dottrina della Chiesa antica.

In parallelo si accenna spesso ai profili morali.  Su questo punto – che  attiene principalmente al foro interno – ci sarebbe molto da dire. I riferimenti all’equiprobabilismo e all’’epicheia andrebbero seriamente approfonditi, dato che   non si tratta  di chiavi che possano aprire tutte le porte. Per fare un esempio un po’’ forte ma chiaro, è evidente a tutti che nessun criterio tratto dai sistemi morali classici o dall’’epicheia potrà mai legittimare un aborto volontario, come tutti sanno e come risulta chiaramente dai principi enunciati – tra l’’altro – dall’’enciclica “Veritatis splendor”.

Non è però su questo che vorrei richiamare l’’attenzione.

Mi preme piuttosto ricordare che alla base di tutto ci sono problemi dogmatici gravissimi, che risultano dalla pura e semplice lettura dei canoni tratti dal Concilio di Trento, e in particolare di due di essi:

- ““Se qualcuno dirà che per motivo di eresia o a causa di una convivenza molesta o per l’’assenza esagerata dal coniuge si può sciogliere il vincolo matrimoniale, sia anatema””.

- “Se qualcuno dirà che la Chiesa sbaglia quando ha insegnato ed insegna che secondo la dottrina evangelica ed apostolica (cfr. Mt 5, 32; 19,9; Mc 10, 11 – 12; Lc 16, 18; 1 Cor 7,11) non si può sciogliere il vincolo del matrimonio per l’’adulterio di uno dei coniugi, e che l’’uno e l’’altro (perfino l’’innocente, che non ha dato motivo all’’adulterio) non possono, mentre vive l’’altro coniuge, contrarre un altro matrimonio, e che, quindi, commette adulterio colui che, lasciata l’’adultera, ne sposa un’’altra, e colei che, scacciato l’’adultero, si sposa con un altro, sia anatema””.

Non occorre essere teologi di professione per comprendere che l’’attuale  posizione ufficiale della Chiesa ha un retroterra che attinge in ultima analisi alla sfera del dogma.

E non potrebbe essere altrimenti, dato che il matrimonio cristiano è un sacramento. Come del resto lo è anche l’’eucarestia, per la quale vigono parimenti dei precisi pronunciamenti – anch’essi di natura dogmatica e non meramente disciplinare – che ne riservano, sulla scia di San Paolo, la ricezione ai soli fedeli che non si trovino in peccato mortale.

Ogni ipotesi di superamento della disciplina attuale deve confrontarsi con questi dati.

Certamente i teologi potranno approfondire ulteriormente l’’interpretazione di questi come di altri testi rilevanti, fornendo materiali di riflessione utile per gli ulteriori pronunciamenti vincolanti del magistero.

Si tratta peraltro di un lavoro eccezionalmente complesso, che non può essere banalizzato nella sede del dibattito pubblico e giornalistico, dando l’’erronea impressione che tutto sia disponibile e modificabile a piacere. O che  si tratti di comprendere oggi, come se fosse  la prima volta, questioni studiate e approfondite da secoli, in contesti  e in epoche molto difficili.

In  questo modo non si renderebbe un buon servizio né alla verità né alla carità, sempre indissolubilmente congiunte nell’’azione pastorale della Chiesa.

A quest’’ultimo riguardo, infine, non bisogna  fraintendere il  ruolo dell’’opinione pubblica ecclesiale, in ordine al quale occorre ricordare due punti fondamentali.

Anzitutto, è noto che la dottrina classica sul matrimonio riscuote una diffusa adesione in Africa e in Asia. E non è corretto preferire metodologicamente le inquietudini europee e americane, come se solo queste e non le prime costituissero espressione dei cosiddetti “segni dei tempi”.

Inoltre, e da ultimo, va ricordato il documento “Donum veritatis”, nel quale si censura  quella “argomentazione sociologica secondo la quale l’’opinione di un gran numero di cristiani sarebbe un’’espressione diretta ed adeguata del “senso soprannaturale della fede”.

In effetti le opinioni dei fedeli non possono essere puramente e semplicemente identificate con il “sensus fidei”. Quest’’ultimo è una proprietà della fede teologale la quale, essendo un dono di Dio che fa aderire personalmente alla verità, non può ingannarsi. Questa fede personale è anche fede della Chiesa, poiché Dio ha affidato alla Chiesa la custodia della Parola di Dio e, di conseguenza, ciò che il fedele crede è ciò che crede la Chiesa. Il “sensus fidei” implica pertanto, di sua natura, l’accordo profondo dello spirito e del cuore con la Chiesa, il “sentire cum Ecclesia”. Se quindi la fede teologale in quanto tale non può ingannarsi, il credente può invece avere delle opinioni erronee, perché tutti i suoi pensieri non procedono dalla fede. Le idee che circolano nel Popolo di Dio non sono tutte in coerenza con la fede, tanto più che possono facilmente subire l’’influenza di una opinione pubblica veicolata dai moderni mezzi di comunicazione”.

*

ROBERT FASTIGGI
(Professor of Systematic Theology, Sacred Heart Major Seminary, Detroit, USA)

Giovanni Onofrio Zagloba has written a proposal that would allow divorced and remarried Catholics to receive Holy Communion without a formal declaration of nullity of their prior marriage by an ecclesiastical tribunal and without the need to abstain from sexual intercourse.

His proposal resembles in many ways some suggestions offered by Cardinal Walter Kasper in his address of February 20, 2014 to a special consistory on the family. Both Cardinal Kasper and Mr. Zagloba believe that divorced Catholics who have entered into a civil marriage might be admitted to Holy Communion by their pastor or another episcopal delegate who determines that their prior marriage was null and void. The divorced and remarried couple would need to declare – in a suitable and convincing way and with sworn testimony – the nullity of their prior marriage. After inviting the couple to a period of prayer, and after being convinced in conscience of their sincerity, the priest could admit the couple back to Holy Communion. This simplified process would avoid the need to have an ecclesiastical tribunal decide the nullity of the prior bond. It would also avoid a juridical process that usually takes at least two years.

Zagloba believes that his proposal in no way challenges the indissolubility of matrimony. As he writes: “It does not concern the essence of matrimony but only the procedures for ascertaining the validity of the bond, namely a juridical and pastoral question that is at the disposition of the synod and the Holy Father”.

With regard to the possible objection that this procedure could lead more easily to deception, Zagloba replies: 1. Deception cannot be entirely excluded even with an actual canonical procedure; 2. Because this procedure would, in all likelihood, apply only to believers, there is little disposition to swear falsely; 3. The patrimonial agreements would be put in order prior to the sentence of divorce and, therefore, there would be less material incentive toward deception.

Zagloba does not believe this procedure would weaken conviction in the indissolubility of matrimony in the popular conscience. On the contrary, he believes it could encourage a return to  the faith of many people today who feel abandoned and misunderstood in their difficulty.

Zagloba, I believe, is making this proposal in good faith with a sincere desire to help divorced and remarried Catholics. Nevertheless, I believe his “solution” is likely to create many problems, including an erosion of belief in the indissolubility of matrimony. I say this for the following reasons:

1) The proposal lends itself to subjective rather than objective standards for determining the invalidity of a prior matrimonial bond. It’s not clear at all what criteria will be used by the couple and the priest to decide that the prior bond was not a valid marriage. The criteria could vary from place to place and from priest to priest. In 1994, the Congregation for the Doctrine of the Faith published a letter to the bishops of the Catholic Church concerning the reception of Holy Communion by divorced and remarried members of the faithful. In this letter, the CDF noted that matrimony is both a public reality and a sacrament of the Church. As such, questions pertaining to validity “must be discerned with certainty by means of the external forum established by the Church” (n. 9). Such an external forum helps to insure that decisions pertaining to marital validity are made according to the objective standards of canon law and not the subjective perceptions of the couple in consultation with a priest.

2) In spite of Zagloba’s claim that this procedure would not weaken belief in the indissolubility of marriage, there are many reasons to believe it would.  It could give the impression that divorced and remarried couples only need to meet with a priest who then gives them permission to receive Holy Communion. The lack of a juridical decision by an ecclesiastical tribunal and the (likely) absence of a Church celebration of the wedding would lead to a belief that a civil wedding ceremony is perfectly fine as long as a priest gives the couple his subsequent blessing to continue living as husband and wife receiving the Eucharist. This might give an incentive to Catholic couples who have never been married to enter into civil marriages without the canonical form required by the Church. After all, if divorced Catholics who had married civilly can receive the blessing of a priest why not couples who have only been married civilly?

3) Zagloba’s proposal would undercut the heroic witness given by many divorced Catholics who refuse to enter into another “marriage” while their separated spouse is still living. Such Catholics give a vivid testimony to the indissolubility of matrimony by their abstinence from unions that involve sexual intimacy. If such divorced Catholics fall in love, they realize they are not free to marry again until the Church has declared their prior bond null and void. Zagloba’s proposal, however, would provide little incentive for such heroic witness. Divorced couples would be given the impression that it’s perfectly fine to marry again because they could later meet with a priest who will give them permission to receive the Eucharist.

4) For divorced Catholics who fall in love, we need to ask whether the two years of waiting for the decision of the Church tribunal is all that excessive. Indeed, they might need this time to heal from the wounds of their prior failed relationship. If they abstain from sexual relations and maintain a deep spiritual friendship, there is no reason why they could not receive Holy Communion. A gift as wonderful as the Eucharist is a great incentive for them to abstain from sexual relations and postpone their wedding until the Church, through appropriate juridical means, determines that they are free to join themselves in matrimony. If they choose not to wait for the decision of the tribunal and they enter into a civil union, by not receiving the Eucharist they provide a vivid and public witness to the indissolubility of matrimony. If and when the declaration of nullity is finally received, then there will be reason for celebration. God, I believe, will bless such couples who, in fidelity to the Church’s doctrine and discipline, chose to refrain from receiving the Eucharist during the time when their union was merely civil and not sacramental.

While I respect the good intentions of Mr. Zagloba’s proposal, I fear his proposal will give the impression that the Church has surrendered to the prevailing culture of easy divorce. It will seem that the Catholic Church, like other Christian groups, now blesses those who divorce and remarry. The witness to the indissolubility of marriage, so much needed in the world today, will be eroded. Yes, the Church must show pastoral care for divorced and remarried couples, but she must do so in the manner that gives the most serious witness to the words of Christ: “What God has joined together, let no man put asunder” (Mk 10:9).

*

GIOVANNI FORMICOLA
(Avvocato penalista a Napoli. Socio fondatore di Alleanza Cattolica)

1. Faccio presente a Giovanni Onofrio Zagloba che il beato Giovanni Paolo II, con il discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario della Rota romana del 28 gennaio 2002, ha “preventivamente” stroncato le sue fantasie giuridico-teologiche (per non parlare di tutto quello che ha detto Benedetto XVI nei suoi otto discorsi pronunciati nella medesima occasione). Non sarebbe inutile che lo leggesse o lo rileggesse, così come non sarebbe inutile che anche il cardinale Kasper e il papa lo leggessero o lo rileggessero. Si tratta di dottrina definita: sarebbe difficile iscrivere nella linea della continuità con essa quanto proposto insieme dal cardinale Kasper e da Zagloba.

2. È difficile capire quale certezza possa assistere il giudizio di validità di un secondo matrimonio reso da chi contemporaneamente asserisce che in occasione del primo non faceva sul serio o non aveva capito. D’altra parte, posto che il rapporto coniugale è lecito solo all’interno d’un giusto matrimonio, rimane illecito quello consumato in uno pseudo-matrimonio (tal è quello eventualmente riconosciuto nullo) e non si capisce come possano essere i protagonisti dell’uno e poi dell’altro giudici della validità e conformità del loro rapporto coniugale alla realtà del matrimonio, che precede ogni singolo matrimonio, e quindi della liceità morale della loro unione, senza la quale liceità, come per chiunque non sia in grazia di Dio, è meglio non prendere la Comunione per non incorrere nell’anatema paolino.

“Durus est hic sermo”? Temo di sì, ma lo stesso Signore non ha esitato ad essere duro. E non si tratta di “casistica” e neppure di casuidicismo. Come dice il papa beato nel discorso citato: senza l’oggettività della norma rimaniamo senza orientamento, come il navigatore spaziale che separato dalla navicella non ha nulla che l’orienti e quindi vaga nel vuoto e a vuoto.

<<<  >>>

NOTA BENE !

Il blog “Settimo cielo” fa da corredo al sito “www.chiesa”, curato anch’esso da Sandro Magister, che offre a un pubblico internazionale notizie, analisi e documenti sulla Chiesa cattolica, in italiano, inglese, francese e spagnolo.

Gli ultimi tre servizi di “www.chiesa”:

14.3.2014
> Capolavori di canto gregoriano / Le antifone della Trasfigurazione
L’introito e il communio della seconda domenica di Quaresima. Qui in una nuovissima esecuzione offerta al nostro ascolto dai “Cantori Gregoriani” e dal loro Maestro

12.3.2014
> Diario Vaticano / Promossi e bocciati, in economia
Fuori i cardinali Scola, George, Scherer, Rouco Varela dal nuovo consiglio dei quindici. Nessuna donna tra i sette membri laici. La stella cadente Chaouqui. Il segretario di Stato Parolin tenuto all’oscuro dell’istituzione del nuovo dicastero economico

10.3.2014
> Bergoglio, il generale che vuole vincere senza combattere
“Non ho mai compreso l’espressione valori non negoziabili”, ha detto nella sua ultima intervista. E in un libro, il suo più stretto collaboratore spiega perché papa Francesco evita accuratamente lo scontro frontale con la cultura dominante







Caterina63
00sabato 15 marzo 2014 11:19

 Da Bologna con amore: fermatevi

Perorazione del cardinal Caffarra dopo il concistoro e il rapporto Kasper. 
"Non toccate il matrimonio di Cristo. Non si giudica caso per caso, non si benedice il divorzio. L’ipocrisia non è misericordiosa...."

Due settimane dopo il concistoro sulla famiglia, il cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra, affronta con il Foglio i temi all’ordine del giorno del Sinodo straordinario del prossimo ottobre e di quello ordinario del 2015: matrimonio, famiglia, dottrina dell’Humanae Vitae, penitenza. 

di Matteo Matzuzzi   –  @matteomatzuzzi

 

La “Familiaris Consortio” di Giovanni Paolo II è al centro di un fuoco incrociato. Da una parte si dice che è il fondamento del Vangelo della famiglia, dall’altra che è un testo superato. È pensabile un suo aggiornamento?

Se si parla del gender e del cosiddetto matrimonio omosessuale, è vero che al tempo dellaFamiliaris Consortio non se ne parlava. Ma di tutti gli altri problemi, soprattutto dei divorziati-risposati, se ne è parlato lungamente. Di questo sono un testimone diretto, perché ero uno dei consultori del Sinodo del 1980. Dire che la Familiaris Consortio è nata in un contesto storico completamente diverso da quello di oggi, non è vero. Fatta questa precisazione, dico che prima di tutto la Familiaris Consortio ci ha insegnato un metodo con cui si deve affrontare le questioni del matrimonio e della famiglia. Usando questo metodo è giunta a una dottrina che resta un punto di riferimento ineliminabile. Quale metodo? Quando a Gesù fu chiesto a quali condizioni era lecito il divorzio della liceità come tale non si discuteva a quel tempo, Gesù non entra nella problematica casuistica da cui nasceva la domanda, ma indica in quale direzione si doveva guardare per capire che cosa è il matrimonio e di conseguenza quale è la verità dell’indissolubilità matrimoniale. Era come se Gesù dicesse: “Guardate che voi dovete uscire da questa logica casuistica e guardare in un’altra direzione, quella del Principio”. Cioè: dovete guardare là dove l’uomo e la donna vengono all’esistenza nella verità piena del loro essere uomo e donna chiamati a diventare una sola carne. In una catechesi, Giovanni Paolo II dice: “Sorge allora cioè quando l’uomo è posto per la prima volta di fronte alla donna la persona umana nella dimensione del dono reciproco la cui espressione (che è l’espressione anche della sua esistenza come persona) è il corpo umano in tutta la verità originaria della sua mascolinità e femminilità”. Questo è il metodo della Familiaris Consortio.

Qual è il significato più profondo e attuale della “Familiaris Consortio”?

"Per avere occhi capaci di guardare dentro la luce del Principio", la Familiaris Consortio afferma che la Chiesa ha un soprannaturale senso della fede, il quale non consiste solamente o necessariamente nel consenso dei fedeli. La Chiesa, seguendo Cristo, cerca la verità, che non sempre coincide con l’opinione della maggioranza. Ascolta la coscienza e non il potere. E in questo difende i poveri e i disprezzati. La Chiesa può apprezzare anche la ricerca sociologica e statistica, quando si rivela utile per cogliere il contesto storico. Tale ricerca per sé sola, però, non è da ritenersi espressione del senso della fede (FC 5). Ho parlato di verità del matrimonio. Vorrei precisare che questa espressione non denota una norma ideale del matrimonio. Denota ciò che Dio con il suo atto creativo ha inscritto nella persona dell’uomo e della donna. Cristo dice che prima di considerare i casi, bisogna sapere di che cosa stiamo parlando. Non stiamo parlando di una norma che ammette o non eccezioni, di un ideale a cui tendere. Stiamo parlando di ciò che sono il matrimonio e la famiglia. Attraverso questo metodo la Familiaris Consortio, individua che cosa è il matrimonio e la famiglia e quale è il suo genoma uso l’espressione del sociologo Donati , che non è un genoma naturale, ma sociale e comunionale. È dentro questa prospettiva che l’Esortazione individua il senso più profondo della indissolubilità matrimoniale (cf FC 20). La Familiaris Consortio quindi ha rappresentato uno sviluppo dottrinale grandioso, reso possibile anche dal ciclo di catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano. Nella prima di queste catechesi, il 3 settembre 1979, Giovanni Paolo II dice che intende accompagnare come da lontano i lavori preparatori del Sinodo che si sarebbe tenuto l’anno successivo. Non l’ha fatto affrontando direttamente temi dell’assise sinodale, ma dirigendo l’attenzione alle radici profonde. È come se avesse detto, Io Giovanni Paolo II voglio aiutare i padri sinodali. Come li aiuto? Portandoli alla radice delle questioni. È da questo ritorno alle radici che nasce la grande dottrina sul matrimonio e la famiglia data alla Chiesa dalla Familiaris Consortio. E non ha ignorato i problemi concreti. Ha parlato anche del divorzio, delle libere convivenze, del problema dell’ammissione dei divorziati-risposati all’Eucaristia. L’immagine quindi di una Familiaris Consortio che appartiene al passato; che non ha più nulla da dire al presente, è caricaturale. Oppure è una considerazione fatta da persone che non l’hanno letta.

Molte conferenze episcopali hanno sottolineato che dalle risposte ai questionari in preparazione dei prossimi due Sinodi, emerge che la dottrina della “Humanae Vitae” crea ormai solo confusione. È così, o è stato un testo profetico?

Il 28 giugno 1978, poco più di un mese prima di morire, Paolo VI diceva: «Della Humanae Vitae, ringrazierete Dio e me». Dopo ormai quarantasei anni, vediamo sinteticamente cosa è accaduto all’istituto matrimoniale e ci renderemo conto di come è stato profetico quel documento. Negando la connessione inscindibile tra la sessualità coniugale e la procreazione, cioè negando l’insegnamento della Humanae Vitae, si è aperta la strada alla reciproca sconnessione fra la procreazione e la sessualità coniugale: from sex without babies to babies without sex. Si è andata oscurandosi progressivamente la fondazione della procreazione umana sul terreno dell’amore coniugale, e si è gradualmente costruita l’ideologia che chiunque può avere un figlio. Il single uomo o donna, l’omosessuale, magari surrogando la maternità. Quindi coerentemente si è passati dall’idea del figlio atteso come un dono al figlio programmato come un diritto: si dice che esiste il diritto ad avere un figlio. Si pensi alla recente sentenza del tribunale di Milano che ha affermato il diritto alla genitorialità, come dire il diritto ad avere una persona. Questo è incredibile. Io ho il diritto ad avere delle cose, non le persone. Si è andati progressivamente costruendo un codice simbolico, sia etico sia giuridico, che relega ormai la famiglia e il matrimonio nella pura affettività privata, indifferente agli effetti sulla vita sociale. Non c’è dubbio che quando l’Humanae Vitae è stata pubblicata, l’antropologia che la sosteneva era molto fragile e non era assente un certo biologismo nell’argomentazione. Il magistero di Giovanni Paolo II ha avuto il grande merito di costruire un’antropologia adeguata a base dell’Humanae Vitae. La domanda che bisogna porsi non è se l’Humanae Vitae sia applicabile oggi e in che misura, o se invece è fonte di confusione. A mio giudizio, la vera domanda da fare è un’altra.

Quale? L’Humanae Vitae dice la verità circa il bene insito nella relazione coniugale? Dice la verità circa il bene che è presente nell’unione delle persone dei due coniugi nell’atto sessuale?

Infatti, l’essenza delle proposizioni normative della morale e del diritto si trova nella verità del bene che in esse è oggettivata. Se non ci si mette in questa prospettiva, si cade nella casuistica dei farisei. E non se ne esce più, perché ci si infila in un vicolo alla fine del quale si è costretti a scegliere tra la norma morale e la persona. Se si salva l’una, non si salva l’altra. La domanda del pastore è dunque la seguente: come posso guidare i coniugi a vivere il loro amore coniugale nella verità? Il problema non è di verificare se i coniugi si trovano in una situazione che li esime da una norma, ma, qual è il bene del rapporto coniugale. Qual è la sua verità intima. Mi stupisce che qualcuno dica che l’Humanae Vitae crea confusione. Che vuol dire? Ma conoscono la fondazione che dell’Humanae Vitae ha fatto Giovanni Paolo II? Aggiungo una considerazione. Mi meraviglia profondamente il fatto che, in questo dibattito, anche eminentissimi cardinali non tengano in conto le centotrentaquattro catechesi sull’amore umano. Mai nessun Papa aveva parlato tanto di questo. Quel Magistero è disatteso, come se non esistesse. Crea confusione? Ma chi afferma questo è al corrente di quanto si è fatto sul piano scientifico a base di una naturale regolazione dei concepimenti? È al corrente di innumerevoli coppie che nel mondo vivono con gioia la verità di Humanae Vitae? Anche il cardinale Kasper sottolinea che ci sono grandi aspettative nella Chiesa in vista del Sinodo e che si corre il rischio di una pessima delusione se queste fossero disattese. Un rischio concreto, a suo giudizio? Non sono un profeta né sono figlio di profeti. Accade un evento mirabile. Quando il pastore non predica opinioni sue o del mondo, ma il Vangelo del matrimonio, le sue parole colpiscono le orecchie degli uditori, ma nel loro cuore entra in azione lo Spirito Santo che lo apre alle parole del pastore. Mi domando poi delle attese di chi stiamo parlando. Una grande rete televisiva statunitense ha compiuto un’inchiesta su comunità cattoliche sparse in tutto il mondo. Essa fotografa una realtà molto diversa dalle risposte al questionario registrate in Germania, Svizzera e Austria. Un solo esempio. Il 75 per cento della maggior parte dei paesi africani è contrario all’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia. Ripeto ancora: di quali attese stiamo parlando? Di quelle dell’Occidente? È dunque l’Occidente il paradigma fondamentale in base al quale la Chiesa deve annunciare? Siamo ancora a questo punto? Andiamo ad ascoltare un po’ anche i poveri. Sono molto perplesso e pensoso quando si dice che o si va in una certa direzione altrimenti sarebbe stato meglio non fare il Sinodo. Quale direzione? La direzione che, si dice, hanno indicato le comunità mitteleuropee? E perché non la direzione indicata dalle comunità africane?

Il cardinale Müller ha detto che è deprecabile che i cattolici non conoscano la dottrina della Chiesa e che questa mancanza non può giustificare l’esigenza di adeguare l’insegnamento cattolico allo spirito del tempo. Manca una pastorale familiare?

È mancata. È una gravissima responsabilità di noi pastori ridurre tutto ai corsi prematrimoniali. E l’educazione all’affettività degli adolescenti, dei giovani? Quale pastore d’anime parla ancora di castità? Un silenzio pressoché totale, da anni, per quanto mi risulta. Guardiamo all’accompagnamento delle giovani coppie: chiediamoci se abbiamo annunciato veramente il Vangelo del matrimonio, se l’abbiamo annunciato come ha chiesto Gesù. E poi, perché non ci domandiamo perché i giovani non si sposano più? Non è sempre per ragioni economiche, come solitamente si dice. Parlo della situazione dell’Occidente. Se si fa un confronto tra i giovani che si sposavano fino a trent’anni fa e oggi, le difficoltà che avevano trenta o quarant’anni fa non erano minori rispetto a oggi. Ma quelli costruivano un progetto, avevano una speranza. Oggi hanno paura e il futuro fa paura; ma se c’è una scelta che esige speranza nel futuro, è la scelta di sposarsi. Sono questi gli interrogativi fondamentali, oggi. Ho l’impressione che se Gesù si presentasse all’improvviso a un convegno di preti, vescovi e cardinali che stanno discutendo di tutti i gravi problemi del matrimonio e della famiglia, e gli chiedessero come fecero i farisei: “Maestro, ma il matrimonio è dissolubile o indissolubile? O ci sono dei casi, dopo una debita penitenza…?”.Gesù cosa risponderebbe? Penso la stessa risposta data ai farisei: “Guardate al Principio”. Il fatto è che ora si vogliono guarire dei sintomi senza affrontare seriamente la malattia. Il Sinodo quindi non potrà evitare di prendere posizione di fronte a questo dilemma: il modo in cui s’è andata evolvendo la morfogenesi del matrimonio e della famiglia è positivo per le persone, per le loro relazioni e per la società, o invece costituisce un decadimento delle persone, delle loro relazioni, che può avere effetti devastanti sull’intera civiltà? Questa domanda il Sinodo non la può evitare. La Chiesa non può considerare che questi fatti (giovani che non si sposano, libere convivenze in aumento esponenziale, introduzione del c.d. matrimonio omosessuale negli ordinamenti giuridici, e altro ancora) siano derive storiche, processi storici di cui essa deve prendere atto e dunque sostanzialmente adeguarsi. No. Giovanni Paolo II scriveva nella Bottega dell’Orefice che “creare qualcosa che rispecchi l’essere e l’amore assoluto è forse la cosa più straordinaria che esista. Ma si campa senza rendersene conto”. Anche la Chiesa, dunque, deve smettere di farci sentire il respiro dell’eternità dentro all’amore umano? Deus avertat!

Si parla della possibilità di riammettere all’Eucaristia i divorziati risposati. Una delle soluzioni proposte dal cardinale Kasper ha a che fare con un periodo di penitenza che porti al pieno riaccostamento. È una necessità ormai ineludibile o è un adeguamento dell’insegnamento cristiano a seconda delle circostanze?

Chi fa questa ipotesi, almeno finora non ha risposto a una domanda molto semplice: che ne è del primo matrimonio rato e consumato? Se la Chiesa ammette all’Eucarestia, deve dare comunque un giudizio di legittimità alla seconda unione. È logico. Ma allora - come chiedevo - che ne è del primo matrimonio? Il secondo, si dice, non può essere un vero secondo matrimonio, visto che la bigamia è contro la parola del Signore. E il primo? È sciolto? Ma i papi hanno sempre insegnato che la potestà del Papa non arriva a questo: sul matrimonio rato e consumato il Papa non ha nessun potere. La soluzione prospettata porta a pensare che resta il primo matrimonio, ma c’è anche una seconda forma di convivenza che la Chiesa legittima. Quindi, c’è un esercizio della sessualità umana extraconiugale che la Chiesa considera legittima. Ma con questo si nega la colonna portante della dottrina della Chiesa sulla sessualità. A questo punto uno potrebbe domandarsi: e perché non si approvano le libere convivenze? E perché non i rapporti tra gli omosessuali? La domanda di fondo è dunque semplice: che ne è del primo matrimonio? Ma nessuno risponde. Giovanni Paolo II diceva nel 2000 in un’allocuzione alla Rota che “emerge con chiarezza che la non estensione della potestà del Romano Pontefice ai matrimoni rati e consumati, è insegnata dal Magistero della Chiesa come dottrina da tenersi definitivamente anche se essa non è stata dichiarata in forma solenne mediante atto definitorio”. La formula è tecnica, “dottrina da tenersi definitivamente” vuol dire che su questo non è più ammessa la discussione fra i teologi e il dubbio tra i fedeli. 

Quindi non è questione solo di prassi, ma anche di dottrina?

Sì, qui si tocca la dottrina. Inevitabilmente. Si può anche dire che non lo si fa, ma lo si fa. Non solo. Si introduce una consuetudine che a lungo andare determina questa idea nel popolo non solo cristiano: non esiste nessun matrimonio assolutamente indissolubile. E questo è certamente contro la volontà del Signore. Non c’è dubbio alcuno su questo.

Non c’è però il rischio di guardare al sacramento solo come una sorta di barriera disciplinare e non come un mezzo di guarigione?

È vero che la grazia del sacramento è anche sanante, ma bisogna vedere in che senso. La grazia del matrimonio sana perché libera l’uomo e la donna dalla loro incapacità di amarsi per sempre con tutta la pienezza del loro essere. Questa è la medicina del matrimonio: la capacità di amarsi per sempre. Sanare significa questo, non che si fa stare un po’ meglio la persona che in realtà rimane ammalata, cioè costitutivamente ancora incapace di definitività. L’indissolubilità matrimoniale è un dono che viene fatto da Cristo all’uomo e alla donna che si sposano in lui. È un dono, non è prima di tutto una norma che viene imposta. Non è un ideale cui devono tendere. E’ un dono e Dio non si pente mai dei suoi doni. Non a caso Gesù, rispondendo ai farisei, fonda la sua risposta rivoluzionaria su un atto divino. ‘Ciò che Dio ha unito’, dice Gesù. E’ Dio che unisce, altrimenti la definitività resterebbe un desiderio che è sì naturale, ma impossibile a realizzarsi. Dio stesso dona compimento. L’ uomo può anche decidere di non usare di questa capacità di amare definitivamente e totalmente. La teologia cattolica ha poi concettualizzato questa visione di fede attraverso il concetto di vincolo coniugale. Il matrimonio, il segno sacramentale del matrimonio produce immediatamente tra i coniugi un vincolo che non dipende più dalla loro volontà, perché è un dono che Dio ha fatto loro. Queste cose ai giovani che oggi si sposano non vengono dette. E poi ci meravigliamo se succedono certe cose”.

Un dibattito molto appassionato si è articolato attorno al senso della misericordia. Che valore ha questa parola?

Prendiamo la pagina di Gesù e dell’adultera. Per la donna trovata in flagrante adulterio, la legge mosaica era chiara: doveva essere lapidata. I farisei infatti chiedono a Gesù cosa ne pensasse, con l’obiettivo di attirarlo dentro la loro prospettiva. Se avesse detto “lapidatela”, subito avrebbero detto “Ecco, lui che predica misericordia, che va a mangiare con i peccatori, quando è il momento dice anche lui di lapidarla”. Se avesse detto “non dovete lapidarla”, avrebbero detto “ecco a cosa porta la misericordia, a distruggere la legge e ogni vincolo giuridico e morale”. Questa è la tipica prospettiva della morale casuistica, che ti porta inevitabilmente in un vicolo alla fine del quale c’è il dilemma tra la persona e la legge. I farisei tentavano di portare in questo vicolo Gesù. Ma lui esce totalmente da questa prospettiva, e dice che l’adulterio è un grande male che distrugge la verità della persona umana che tradisce. E proprio perché è un grande male, Gesù, per toglierlo, non distrugge la persona che lo ha commesso, ma la guarisce da questo male e raccomanda di non incorrere in questo grande male che è l’adulterio. «Neanche io ti condanno, va e non peccare più». Questa è la misericordia di cui solo il Signore è capace. Questa è la misericordia che la Chiesa, di generazione in generazione, annuncia. La Chiesa deve dire che cosa è male. Ha ricevuto da Gesù il potere di guarire, ma alla stessa condizione. È verissimo che il perdono è sempre possibile: lo è per l’assassino, lo è anche per l’adultero. Era già una difficoltà che facevano i fedeli ad Agostino: si perdona l’omicidio, ma nonostante ciò la vittima non risorge. Perché non perdonare il divorzio, questo stato di vita, il nuovo matrimonio, anche se una “reviviscenza” del primo non è più possibile? La cosa è completamente diversa. Nell’omicidio si perdona una persona che ha odiato un’altra persona, e si chiede il pentimento su questo. La Chiesa in fondo si addolora non perché una vita fisica è terminata, bensì perché nel cuore dell’uomo c’è stato un tale odio da indurre perfino a sopprimere la vita fisica di una persona. Questo è il male, dice la Chiesa. Ti devi pentire di questo e ti perdonerò. Nel caso del divorziato risposato, la Chiesa dice: “Questo è il male: il rifiuto del dono di Dio, la volontà di spezzare il vincolo messo in atto dal Signore stesso”. La Chiesa perdona, ma a condizione che ci sia il pentimento. Ma il pentimento in questo caso significa tornare al primo matrimonio. Non è serio dire: sono pentito ma resto nello stesso stato che costituisce la rottura del vincolo, della quale mi pento. Spesso - si dice - non è possibile. Ci sono tante circostanze, certo, ma allora in queste condizioni quella persona è in uno stato di vita oggettivamente contrario al dono di Dio. La Familiaris Consortio lo dice esplicitamente. La ragione per cui la Chiesa non ammette i divorziati-risposati all’Eucaristia non è perché la Chiesa presuma che tutti coloro che vivono in queste condizioni siano in peccato mortale. La condizione soggettiva di queste persone la conosce il Signore, che guarda nella profondità del cuore. Lo dice anche San Paolo: “Non vogliate giudicare prima del tempo”. Ma perché - ed è scritto sempre nella Familiaris Consortio - “il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quella unione di amore fra Cristo e la Chiesa significata e attuata dall’Eucaristia” (FC 84). La misericordia della Chiesa è quella di Gesù, quella che dice che è stata deturpata la dignità di sposo, il rifiuto del dono di Dio. La misericordia non dice: “Pazienza, vediamo di rimediare come possiamo”. Questa è la tolleranza essenzialmente diversa dalla misericordia. La tolleranza lascia le cose come sono per ragioni superiori. La misericordia è la potenza di Dio che toglie dallo stato di ingiustizia.

Non si tratta di accomodamento, dunque.
Non è un accomodamento, sarebbe indegno del Signore una cosa del genere. Per fare gli accomodamenti bastano gli uomini. Qui si tratta di rigenerare una persona umana, e di questo è capace solo Dio e in suo nome la Chiesa. San Tommaso dice che la giustificazione di un peccatore è un’opera più grande che la creazione dell’universo. Quando viene giustificato un peccatore, accade qualcosa che è più grande di tutto l’universo. Un atto che magari avviene in un confessionale, attraverso un sacerdote umile, povero. Ma lì si compie un atto più grande della creazione del mondo. Non dobbiamo ridurre la misericordia ad accomodamenti, o confonderla con la tolleranza. Questo è ingiusto verso l’opera del Signore.

Uno degli assunti più citati da chi auspica un’apertura della Chiesa alle persone che vivono in situazioni considerate irregolari è che la fede è una ma i modi per applicarla alle circostanze particolari devono essere adeguati ai tempi, come la Chiesa ha sempre fatto. Lei che ne pensa?

La Chiesa può limitarsi ad andare là dove la portano i processi storici come fossero derive naturali? Consiste in questo annunciare il Vangelo? Io non lo credo, perché altrimenti mi chiedo come si faccia a salvare l’uomo. Le racconto un episodio. Una sposa ancora giovane, abbandonata dal marito, mi ha detto che vive nella castità ma fa una fatica terribile. Perché, dice, “non sono una suora, ma una donna normale”. Ma mi ha detto che non potrebbe vivere senza Eucaristia. E quindi anche il peso della castità diventa leggero, perché pensa all’Eucaristia. Un altro caso. Una signora con quattro figli è stata abbandonata dal marito dopo più di vent’anni di matrimonio. La signora mi dice che in quel momento ha capito che doveva amare il marito nella croce, “come Gesù ha fatto con me”. Perché non si parla di queste meraviglie della grazia di Dio? Queste due donne non si sono adeguate ai tempi? Certo che non si sono adeguate ai tempi. Resto, le assicuro, molto male nel prendere atto del silenzio, in queste settimane di discussione, sulla grandezza di spose e sposi che, abbandonati, restano fedeli. Ha ragione il professor Grygiel quando scrive che a Gesù non interessa molto cosa pensa la gente di lui. Interessa cosa pensano i suoi apostoli. Quanti parroci e vescovi potrebbero testimoniare episodi di fedeltà eroica. Dopo un paio d’anni che ero qui a Bologna, ho voluto incontrare i divorziati-risposati. Erano più di trecento coppie. Siamo stati assieme un’intera domenica pomeriggio. Alla fine, più d’uno m’ha detto di aver capito che la Chiesa è veramente madre quando impedisce di ricevere l’Eucaristia. Non potendo ricevere l’Eucaristia, comprendono quanto sia grande il matrimonio cristiano, e bello il Vangelo del matrimonio.

Sempre più spesso viene sollevato il tema del rapporto tra il confessore e il penitente, anche come possibile soluzione per venire incontro alla sofferenza di chi ha visto fallire il proprio progetto di vita. Qual è il suo pensiero?

La tradizione della Chiesa ha sempre distinto - distinto, non separato - il suo compito magisteriale dal ministero del confessore. Usando un’immagine, potremmo dire che ha sempre distinto il pulpito dal confessionale. Una distinzione che non vuol significare una doppiezza, bensì che la Chiesa dal pulpito, quando parla del matrimonio, testimonia una verità che non è prima di tutto una norma, un ideale verso cui tendere. A questo momento entra con amorevolezza il confessore, che dice al penitente: “Quanto hai sentito dal pulpito, è la tua verità, la quale ha a che fare con la tua libertà, ferita e fragile”. Il confessore conduce il penitente in cammino verso la pienezza del suo bene. Non è che il rapporto tra il pulpito e il confessionale sia il rapporto tra l’universale e il particolare. Questo lo pensano i casuisti, soprattutto nel Seicento. Davanti al dramma dell’uomo, il compito del confessore non è di far ricorso alla logica che sa passare dall’universale al singolare. Il dramma dell’ uomo non dimora nel passaggio dall’universale al singolare. Dimora nel rapporto tra la verità della sua persona e la sua libertà. Questo è il cuore del dramma umano, perché io con la mia libertà posso negare ciò che ho appena affermato con la mia ragione. Vedo il bene e lo approvo, e poi faccio il male. Il dramma è questo. Il confessore si pone dentro questo dramma, non al meccanismo universale-particolare. Se lo facesse inevitabilmente cadrebbe nell’ipocrisia e sarebbe portato a dire “va bene, questa è la legge universale, però siccome tu ti trovi in queste circostanze, non sei obbligato”. Inevitabilmente, si elaborerebbe una fattispecie ricorrendo la quale, la legge diventa eccepibile. Ipocritamente, dunque, il confessore avrebbe già promulgato un’altra legge accanto a quella predicata dal pulpito. Questa è ipocrisia! Guai se il confessore non ricordasse mai alla persona che si trova davanti che siamo in cammino. Si rischierebbe, in nome del Vangelo della misericordia, di vanificare il Vangelo dalla misericordia. Su questo punto Pascal ha visto giusto nelle sue Provinciali, per altri versi profondamente ingiuste. Alla fine l’uomo potrebbe convincersi che non è ammalato, e quindi non è bisognoso di Gesù Cristo. Uno dei miei maestri, il servo di Dio padre Cappello, grande professore di diritto canonico, diceva che quando si entra in confessionale non bisogna seguire la dottrina dei teologi, ma l’esempio dei santi.

© - FOGLIO QUOTIDIANO








2014-03-15 Radio Vaticana

“La famiglia è il primo luogo di relazione, è scuola e palestra principale”. Ma “il tesoro della famiglia è insidiato da una mentalità individualista che spinge a disgregare i rapporti, a rendere i legami deboli e incerti”. Lo ha affermato il card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, nella riflessione pronunciata ieri sera al termine della Via Crucis diocesana che si è svolta nel capoluogo ligure.

“Se la famiglia si sfalda - ha detto il cardinale - è l‘uomo che si smarrisce, la sua umanità, e la società perde il suo fondamento, la sua stabilità, la sua coesione”. Infatti, “non sono le leggi che fanno la coesione sociale. Le leggi ci vogliono, ma non sono assolutamente sufficienti. La coesione sociale deriva dalla famiglia, da questi microcosmi di relazioni buone, virtuose dove si impara a stare insieme ad avere fiducia gli uni gli altri, a perdonarsi, a ricominciare, a portare gli uni i pesi altrui, a condividere. Qui sta la stabilità sociale”.
In precedenza - riporta l'agenzia Sir - il cardinale aveva affermato che “il Figlio di Dio ha dato la vita per noi, perché vivessimo come figli di Dio e come fratelli tra di noi”. Oscurare la paternità di Dio è soffocare la fraternità alla radice, è proclamare che l‘uomo è orfano e solo. Non possiamo vivere senza essere fratelli, ma per essere fratelli è necessaria una paternità”.

E ancora: “Cristo è il Salvatore del mondo. Non è venuto a guarirci dai mali della vita, malattie, sofferenze fisiche e psichiche, morte corporale, ma è venuto per guarirci dal male del peccato che è la lontananza da Dio". Infatti, “non si può vivere lontani dall‘amore. Si diventa aridi. Non si può vivere lontani dalla sorgente della vita. Si diventa spenti. Non si può vivere lontani dalla comunione. Si vive lacerati: in famiglia, nel lavoro, nella società”. (R.P.)







Caterina63
00sabato 15 marzo 2014 21:38

  La chiesa che fa sociologia

Il rapporto Kasper su uomo e famiglia è inquinato dal marketing ecclesiastico, dice il consigliere di Giovanni Paolo II sulla famiglia

 

La laicizzazione propria della postmodernità irrompe anche nella Chiesa. Turba le menti e i cuori dei fedeli con domande insidiose, tra le quali oggi prevale questa: Davvero Dio ha detto ciò che la fede della Chiesa gli attribuisce sul matrimonio e sulla famiglia? La domanda: “E’ vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare?…” (Gn 3, 1-3), in illo tempore rivolta dal tentatore all’uomo e alla donna provocò la caduta primordiale.

In fondo, il dubbio in cui nascono domande del genere esprime la negazione della verità e, di conseguenza, della dignità dell’uomo. Esso elimina dal campo visivo dell’uomo i principi del suo essere persona. La verità dell’uomo, infatti, gli si rivela in un altro uomo, cioè nella comunione con lui. Proprio per questo la negazione della verità della persona deve innanzitutto colpire le amicizie, il matrimonio, la famiglia in cui questa persona vive. Ogni realtà viene micidialmente colpita dalle parole il cui contenuto non le appartiene e le viene imposto. Le parole contraffatte incatenano la realtà alle cose che le sono estranee. E’ ciò che oggi succede alla realtà del matrimonio e della famiglia. La postmodernità cerca di convincere l’uomo e la donna che è lecito mangiare il frutto dell’albero che cresce nel giardino della loro relazione plasmata dalla differenza sessuale e la cui invisibile luce indica loro la via da prendere verso la verità. Proprio questa luce è d’intralcio a una volontà che voglia dominare tutti i regni del mondo. Non potendo colpire la luce stessa, questa volontà fa tutto il possibile per esiliare da questa luce l’uomo e la donna e, di conseguenza, farli cadere nell’oblio della verità. Non c’è allora da meravigliarsi come per questa volontà la Chiesa rappresenti un nemico, se posso così dire, primordiale. Il suo cedimento costituirebbe una sconfitta della persona umana.

Consapevole della caduta primordiale dell’uomo e del suo esilio, con la voce di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI la Chiesa risvegliava e continua a risvegliare negli uomini la memoria di quell’unico albero la cui luce fa vedere la verità di tutto il giardino. Penso che anche per questo Papa Francesco abbia convocato il Sinodo dei Vescovi. C’è infatti una urgente necessità di aiutare i cristiani a vedere meglio la bella e sacra verità del sacramento che unisce l’uomo e la donna “in una carne”. Come venire loro in aiuto? La risposta è stata data da Cristo.

Un giorno Cristo pose ai Suoi discepoli due questioni. La prima era questa: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Essi risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Va bene, questo è ciò che gli altri  pensano di Me. Il fatto che Cristo non si sia soffermato sulle opinioni è per noi un’importante indicazione. Mi sembra che, avendola dimenticata, si sia perso tanto tempo per un’inutile inchiesta presinodale. I sociologi hanno già risposto e continuano a rispondere in modo scientifico alle questioni poste. I vescovi per primi dovrebbero sapere come stanno le cose nelle loro diocesi.

La seconda domanda era questa: “Voi chi dite che io sia?”. Questa domanda è la sola importante per Lui e la sola fondamentale per la Chiesa stessa. A nome di tutti, Pietro rispose: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”. Su questa domanda Cristo concentra la predicazione del Regno e con la Sua presenza insegna ai discepoli a cambiare il modo di pensare se stessi. Non più attraverso le opinioni ma attraverso la conversione alla verità.

Questo episodio ci mette in guardia dal pericolo di confondere con la fede della Chiesa la vox populi espressa nelle risposte date all’inchiesta presinodale. Non dimentichiamo che solo dopo la risposta data da Pietro alla seconda domanda, non alla prima, Cristo gli disse: “Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la Chiesa. (…) A te darò le chiavi del regno dei cieli…” (Mt 16, 13-19). Il mistero della salvezza non è una realtà da calcolare sociologicamente. Mi domando: accadrà questo nel Sinodo? Accadrà se i problemi pastorali sociologicamente vissuti (la prima domanda) incideranno sulla risposta alla seconda domanda, così da rendere ambedue inutili per il mondo moderno. Le domande sul matrimonio e sulla famiglia dovrebbero essere comprese dalla seconda: “Voi chi dite che io sia?”. La parola sul matrimonio e sulla famiglia deve essere la Parola del Padre e non invece una risultante delle statistiche. Disgraziatamente la propaganda comunista ha inciso sulla mentalità occidentale così che persino nella Chiesa da quasi cinquant’anni si è infiltrato il principio marxista del pensare per cui l’efficacia della praxis prevale sulla contemplazione del Logos. Penso al predominio della praxis pastorale sulla dottrina che nella Chiesa è la persona del Figlio del Dio vivente. Non riesco a darmi pace dal giorno in cui una persona autorevole mi ha detto: “Basta con la dottrina di Wojtyla e di Ratzinger, adesso bisogna fare qualcosa!”. Le conseguenze di una tale “impostazione” del lavoro della Chiesa sono gravissime. Parlando filosoficamente, il “fare” che domina l’“essere” e l’“agire” (amare e conoscere) si traduce in una pura produzione. Se quel regno dell’amore e della libertà che è la Chiesa si lascerà plasmare soprattutto dalla praxis pastorale, prima o poi essa farà parte del mondo tecnico e della sua civilizzazione, che io chiamo produttura (productura) in opposizione alla cultura (cultura). Nella produttura pastorale la fede non attecchirà.

Ho letto con grande interesse il testo del cardinale Kasper al recente Concistoro, ma mi rincresce dover dire che ne sono deluso e preoccupato. Sono deluso e preoccupato non come teologo oppure patrologo ma come un semplice cristiano che cammina nella fede sulla via del matrimonio e della famiglia. I teologi e i patrologi analizzino attentamente questo testo per valutarlo dal loro punto di vista. Il loro silenzio sarebbe peccatum omissionis. Come semplice credente, avrei sperato d’essere introdotto dal cardinale nella contemplazione della bellezza della verità del matrimonio e della famiglia. La sua relazione ha invece richiamato l’attenzione dei cardinali sui problemi legati con la prima domanda, quella sociologico-pastorale, il che potrebbe avere gravi conseguenze per i lavori del Sinodo, dal momento che le difficoltà pastorali potrebbero ottenebrare la nostra visione del “dono di Dio”.

La contemplazione della verità dovrebbe dare forma e tono al Sinodo, ma alcune domande poste dal cardinale, che già suggeriscono le risposte, lasciano pensare a un altro scenario. La parte centrale di questo discorso può indurre i cardinali a credere che oggi la prima domanda di Cristo sia più importante della seconda. C’è il pericolo che i problemi sociologico-pastorali possano prevalere sulla contemplazione della presenza sacramentale di Cristo nel matrimonio. Nessuno dubita che la Chiesa debba pensare ai problemi indicati dalla prima domanda, deve però farlo in una continua rinascita di sé, cioè in un continuo ritornare al Principio in cui Dio nella e con la Sua Parola crea l’uomo come uomo e donna. Fondamentale è e sarà il continuo dare una risposta, sempre più profonda, alla seconda domanda. Rinascendo nella Parola che è Cristo, cioè convertendosi a Lui, la Chiesa deve ogni giorno confessare: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”. Leggo nella relazione: “Tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute da molti cristiani si è creato un abisso”. Questo è un fatto. Però la Chiesa commetterebbe un peccato primordiale se si lasciasse trattenere dalla prima domanda e cercasse di truccare il Figlio del Dio vivente a seconda della moda postmoderna, perché la gente Lo scelga come si sceglie una miss tra le candidate truccate in modo adatto allo scopo. La Chiesa che nasce ed è presente nel matrimonio e nella famiglia deve essere fino alla fine del mondo “segno di contraddizione” e di scandalo per il mondo. Il mondo voterà sempre contro di Lei.

Dobbiamo essere grati al cardinale quando dice che il “Vangelo della famiglia” è luce grazie alla quale la vita nel matrimonio e nella famiglia riprende forza e non diventa peso. Tuttavia le sue domande suggeriscono – vorrei sbagliare! – che questa luce è troppo pesante. Non sono d’accordo con lui quando dice che l’uomo non è stato creato per il lavoro ma per la celebrazione del sabato con gli altri e che dobbiamo imparare di nuovo dagli Ebrei a celebrarlo. Gesù rispose a coloro che Gli avevano rimproverato di non osservare il sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (cfr. Gv 5, 17). Il lavoro del Padre è esattamente Amore. Il lavoro e l’amore costituiscono un insieme. Staccare l’uno dall’altro significa distruggere l’uno e l’altro. L’amore ha carattere creativo, esso è generante. Lo sappiamo dalla personale esperienza illuminata dal racconto biblico dell’atto della creazione dell’uomo (cfr. Gn 1, 28). La via dell’amore è difficile, ma proprio questo difficile amore fa sì che il lavoro non diventi peso. Ridurre l’amore a un qualche facile evento nella vita significa chiuderlo all’eternità.
Aumenta il numero dei divorzi e dei matrimoni civili o addirittura delle convivenze basate solo su affetto e interessi. Ne nascono dei figli. Comprendo le difficoltà di coloro che sono caduti in queste trappole, vedo le loro ferite. Non mi risulta però chiaro cosa il cardinale abbia in mente quando scrive: “Non basta considerare il problema solo dal punto di vista e dalla prospettiva della Chiesa come istituzione sacramentale; abbiamo bisogno di un cambiamento del paradigma e dobbiamo – come lo ha fatto il buon Samaritano (Lc 10, 29-37) – considerare la situazione anche dalla prospettiva di chi soffre e chiede aiuto”. Allora la praxis pastorale deve accantonare l’evento del sacramento? E’ questo che il cardinale Kasper intende che si faccia? Nel vangelo il buon Samaritano cura il povero viandante assalito, così da ridargli la salute! Tratta le sue ferite in modo amorevole, nella prospettiva che gli apre l’amore per la persona di quel poveretto. La Chiesa non può tollerare il divorzio e il risposarsi dei divorziati proprio perché Essa li deve amare. L’amore della verità dell’essere l’uomo persona è paradigma dell’aiuto dovuto agli uomini aggrediti dal male. Ripeto ancora una volta: l’amore è difficile. Esso è tanto più difficile quanto più grande è il male da curare nell’amato. E’ la verità della persona a definire il modo di avvicinarsi pastoralmente all’uomo ferito, e non viceversa. La perdita del senso del peccato manifesta la perdita del senso del sacro e lascia cadere nell’oblio la vita sacramentale.

Avvicinandosi alla persona divorziata, il pastore dovrebbe partecipare al dialogo di Gesù con la Samaritana (cfr. Gv 4, 4 e s.). Questo dialogo dice cosa sia la comunione spirituale. Gesù rivela alla donna che il desiderio di cui ella arde è desiderio dell’“acqua viva”, cioè del “dono di Dio”. La Samaritana gliela chiede per non aver più sete. A questo punto Gesù le pone una condizione: “Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui!”. Colpita dalla scienza profetica di Gesù, la donna gli si apre, confessando il proprio peccato in modo molto sottile: “Non ho marito”. Gesù allora le spiega come Dio vuole essere adorato (“in spirito e verità”). Alla fine le rivela chi Egli sia: “Sono io / Messia /, che ti parlo”. Direi al Cardinale: questa è misericordia! Perdonata, la donna corre dai suoi concittadini e annunziando loro il Messia confessa anche i suoi peccati.

La comunione spirituale si compie nel desiderio di unirsi con Cristo nel Suo corpo e nel Suo sangue. E’ un cammino nella coscienza che lentamente si rende conto del peccato e lo confessa. L’odierna praxis pastorale, sprofondata nella prima domanda, ha fatto sì che i confessionali siano stati venduti agli psicologi e agli psichiatri. La proposta insidiosa di identificare la comunione spirituale con la comunione eucaristica colpisce il sacramento stesso. Esorto ora i pastori a stare ben attenti: l’Eucaristia è da adorare (“in spirito e verità”) e non da manipolare!

Mi fa tremare la scena in cui Gesù, dopo aver detto che chi non mangia il Suo corpo e il Suo sangue non avrà la vita eterna, viene abbandonato quasi da tutti tranne i Dodici. Ed è a questi futuri Pastori che in questa drammatica situazione Egli chiede senza mezzi termini: “Forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6, 67). Andate pure! Siete liberi! Verranno gli altri!

Queste parole di Gesù non cesseranno mai di essere attuali. Ma siamo anche certi che non ci sarà mai il tempo in cui Pietro non direbbe: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 68-69).

Nella conferenza del cardinale Kasper c’è ancora un suggerimento che potrebbe ingenerare qualche malinteso, e cioè che sarebbe forse meglio lasciare la decisione sulla validità del proprio matrimonio al giudizio della coscienza del divorziato; basterebbe forse affidare il compito di valutare il giudizio del soggetto interessato a un sacerdote con esperienza spirituale e pastorale… La pastorale e la misericordia non si contrappongono alla giustizia ma, per così dire, sono la giustizia suprema, poiché dietro ogni causa c’è una persona “che ha sempre una dignità unica”. Le carte dei tribunali ecclesiastici non devono prevalere su questa dignità, dice il cardinale. Giusto. Il codice di diritto canonico non è da identificare con il codice penale. Esso è una teologia che aiuta l’uomo a vivere nell’amore e nel lavoro, facendogli vedere che quanto è più grande e bello, tanto più l’amore è difficile, e che esso chiama gli uomini a un adeguato lavoro. Se la Chiesa valutasse la validità del matrimonio soltanto sulla base delle carte, le decisioni potrebbero essere rapide e prese anche da un parroco. La Chiesa però si comporta in altro modo proprio a causa della dignità unica della persona. Ogni uomo è un’opera d’arte e come tale egli è prima di tutto da contemplare “in spirito e verità” e non da manipolare a seconda delle circostanze attuali.

Tra parentesi, pongo una domanda: sarebbe forse più adeguato alla situazione di oggi anche lasciare il giudizio sulla validità dell’ordinazione sacerdotale alla coscienza del sacerdote interessato? Certo, una battuta, ma la posta in gioco esige una riflessione serissima.

Giovanni Paolo II sotto la croce a Nowa Huta, dove la gente difendeva questo segno di salvezza con il proprio sangue, ha detto che la nuova evangelizzazione inizia sotto la croce. Essa inizia nelle donne e nel mistico discepolo radunati intorno alla Madre del Crocifisso. Gli altri discepoli di Cristo erano fuggiti da là per la paura. La nuova evangelizzazione inizia nella maternità di Maria unita alla Paternità di Dio rivelata nel loro Figlio crocifisso. La nuova evangelizzazione consiste nel continuo rinascere della Chiesa. Le persone rinascono ritornando ai Principi della vita, alla maternità e alla paternità la cui unione risplende nel Crocifisso. Quando allora parliamo della donna e dell’uomo, non parliamo degli incarichi nelle strutture ecclesiastiche (cfr. l’intervista del cardinale Kasper pubblicata su “Avvenire” l’1. III. 2014). Noi tutti, anche il Papa e i vescovi, ritroviamo la dignità della nostra persona nell’Eucaristia pasquale che riceviamo sotto la croce. Apparirebbe grottesco chi, dimenticandolo, trovasse rifugio negli incarichi!

di Stanislaw Grygiel

Stanislaw Grygiel, ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia di Roma presso l’Università Lateranense, è stato allievo di Karol Wojtyla all’Università di Lublino. Successivamente, è stato consigliere e confidente del Pontefice polacco, con il quale ha condiviso una lunga e profonda amicizia. Tra i suoi libri, si ricordano “Dialogando con Giovanni Paolo II” (Cantagalli, 2013) e “Dolce guida e cara” (Cantagalli, 2008).





 

Caterina63
00domenica 16 marzo 2014 14:08
  E' nell'ostia la forza del matrimonio
di Maria Gloria Riva
16-03-2014 da la nuovaBussolaQuotidiana

L Eucarestia a Santarem
Il dibattito accesosi attorno alla questione dei divorziati risposati e del loro non poter accostarsi all'Eucarestia, ha messo in evidenza - come ampiamente documentato da La Nuova BQ - che molti cattolici e anche importanti fette dell'episcopato non solo hanno perso il significato del valore sacramentale del matrimonio, e quindi il suo carattere di indissolubilità, ma anche quello dell'Eucarestia. La riduzione della Comunione a un diritto e la pratica ormai diffusa in Europa di accostarsi alla Comunione anche in stato di peccato grave e senza sentire il bisogno di confessarsi, ne sono una lampante dimostrazione. Per questo abbiamo pensato di proporre un itinerario che aiuti a recuperare il significato dell'Eucarestia, affidandolo a una firma ben nota ai nostri lettori che è anche suora adoratrice del Santissimo Sacramento. Suor Maria Gloria Riva ripercorrerà la storia di alcuni miracoli eucaristici per introdurci al Mistero, con tutte le sue implicazioni. Si comincia proprio dal rapporto tra Eucarestia e fedeltà matrimoniale e dal miracolo di Santarem.


L’Eucaristia è il sacramento della fedeltà. Nel rito del matrimonio, che i due sposi compiono quali ministri, la domanda che viene rivolta loro non è: «Sei tu innamorato o innamorata di…», bensì: «Vuoi tu la o il qui presente ecc..! » Il matrimonio cattolico esprime la volontà di unirsi e di stringere, grazie alla Presenza di Cristo, un’alleanza perenne che il Sacramento dell’Eucaristia certifica e rinsalda.

Lo testimonia un miracolo Eucaristico fra i meno noti, ma di grande interesse. Siamo a Santarem, in Portogallo, tra il 1246 e il 1247. La storia è una tra le molte. Una giovane sposa è tormentata dall’infedeltà del marito. Nell’estremo tentativo di riconquistare l’amore di lui, si rivolge a una fattucchiera. Sembrerebbe un gesto d’altri tempi mentre invece è, ahimè, triste realtà quotidiana anche nel supertecnologico anno 2014. La maga assicura la riuscita della pozione a patto che questa donna si procuri un’ostia consacrata. Il filtro d’amore allora sarebbe stato efficacissimo.

Pur conoscendo l’aspetto sacrilego del gesto, la sposa si recò nella sua parrocchia, dedicata a Santo Stefano, e si comunicò nascondendo però furtivamente l’Eucaristia in un fazzoletto.
Una volta uscita si diresse velocemente verso casa, ma alcune persone la fermarono chiedendole se si fosse ferita perché vistose gocce di sangue segnavano il suo cammino. La donna capì all’istante da dove venisse il sangue e col fiato in gola corse a casa, nascondendo rapidamente la particola - avvolta in un panno - dentro a un baule di cedro.

Tutto parve tornare alla normalità senonché, nella notte, dopo che il marito era rientrato dal lavoro, avevano cenato e si erano coricati, accadde qualcosa di misterioso. I due sposi furono svegliati da un bagliore di luce che proveniva dal baule della camera.

La giovane fu costretta allora a raccontare al marito l’accaduto e, aperto il baule, rimasero entrambi tutta la notte in adorazione di quell’ostia, sanguinante e luminosa.

La leggenda racconta che godettero anche della visione di angeli che adoravano con loro il Mistero. Vero o no, certo è che il mattino si sparse ovunque la notizia del miracolo e l’ostia per intervento del Parroco fu solennemente riportata in Chiesa. La sanguinazione della particola continuò per vari giorni sotto gli occhi di tutti.

I due sposi si riconciliarono e ritrovarono, grazie a quella Presenza efficace, l’unità e l’amore perduto. La fattucchiera di Santarem, suo malgrado, disse alla giovane donna una grande verità: davvero l’Eucaristia è un cibo potente capace di far tornare l’uomo alla fedeltà e all’amore originario. Di fatto i due sposi di Santarém risolsero il loro problema familiare grazie alla presenza viva e operante di Cristo che li riconciliò con Dio e fra di loro.

Oggi l’Eucaristia, come del resto i sacramenti in generale, vengono recepiti come un diritto da parte dei cristiani, mentre sono un dono da meritare. Sono un mezzo potente per rendere più certo e sicuro il cammino verso la santità. Per questo il problema della comunione ai divorziati tocca molteplici aspetti e non semplicemente quello dell’indissolubilità del matrimonio. Tocca, ad esempio, il problema fondamentale della fede e dell’educazione alla fede.

L’Eucaristia è un cibo che conserva l’anima -come il sale conserva il cibo -, nella condizione in cui lo trova. Se il cibo è guasto il sale aumenta il processo di putrefazione, così se l’anima è malata l’Eucaristia è sacrilega. La comunione sacrilega della donna di Santarem fece sanguinare il  cuore di Cristo, ma la luce di quel sangue versato anche per le infedeltà coniugali, ricompose il matrimonio educando i due alla verità del Mistero.




Caterina63
00lunedì 17 marzo 2014 12:17

   Il papa emerito prega, ma anche consiglia. Ecco come


Regnante Francesco, Benedetto esalta Giovanni Paolo e soprattutto la sua enciclica "Veritatis splendor" sui fondamenti della morale. Era un papa, dice, che non aveva paura di "come le sue decisioni sarebbero state accolte" 

di Sandro Magister




ROMA, 17 marzo 2014 – Nella sua ultima intervista, quella data al "Corriere della Sera", papa Francesco ha rivelato di aver concordato assieme a Joseph Ratzinger un ruolo attivo per il "papa emerito", senza precedenti nella storia della Chiesa:

"Il papa emerito non è una statua in un museo. È una istituzione. Non eravamo abituati. Sessanta o settant’anni fa, il vescovo emerito non esisteva. Venne dopo il Concilio. Oggi è un’istituzione. La stessa cosa deve accadere per il papa emerito. Benedetto è il primo e forse ce ne saranno altri. Non lo sappiamo. Lui è discreto, umile, non vuole disturbare. Ne abbiamo parlato e abbiamo deciso insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della Chiesa. […] Qualcuno avrebbe voluto che si ritirasse in una abbazia benedettina lontano dal Vaticano. Io ho pensato ai nonni che con la loro sapienza, i loro consigli danno forza alla famiglia e non meritano di finire in una casa di riposo".

Detto e fatto. Pochi giorni dopo è uscito un libro con uno scritto inedito di Benedetto XVI. E non si tratta di un testo qualsiasi. Ma di un giudizio che il penultimo dei papi – regnante il suo successore – pronuncia sul suo predecessore Giovanni Paolo II. Un vero e proprio giudizio pubblico non solo sulla persona, ma sulle linee portanti di quel memorabile pontificato.

Con sottolineature che non possono non essere messe a confronto con la situazione attuale della Chiesa.

Alcuni media, nel dar notizia di questo scritto del "papa emerito", hanno messo in evidenza il passaggio nel quale egli racconta come nella prima fase del pontificato di Karol Wojtyla si affrontò la questione della teologia della liberazione.

Ma di passaggi significativi ve ne sono anche altri. In particolare due.

*

Il primo è là dove Benedetto XVI dice quali sono state a suo giudizio le encicliche più importanti di Giovanni Paolo II.

Su quattordici encicliche, egli indica le seguenti:

- la "Redemptor hominis" del 1979, in cui papa Wojtyla "offre la sua personale sintesi della fede cristiana", che oggi "può essere di grande aiuto a tutti quelli che sono in ricerca";

- la "Redemptoris missio" del 1987, che "mette in risalto l'importanza permanente del compito missionario della Chiesa";

- la "Evangelium vitae" del 1995, che "sviluppa uno dei temi fondamentali dell'intero pontificato di Giovanni Paolo II: la dignità intangibile della vita umana, sia dal primo istante del concepimento";

- la "Fides et ratio" del 1998, che "offre una nuova visione del rapporto tra fede cristiana e ragione filosofica".

Ma a queste quattro encicliche, richiamate in poche righe ciascuna, Benedetto XVI ne aggiunge a sorpresa un'altra, alla quale dedica una pagina intera, riprodotta più sotto.

È la "Veritatis splendor" del 1993, sui fondamenti della morale. L'enciclica forse più trascurata e inapplicata tra tutte quelle di Giovanni Paolo II, ma che Ratzinger dice doveroso studiare e assimilare oggi.

*

Un secondo passaggio significativo è quello in cui Benedetto XVI parla della dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000.

La "Dominus Iesus" – scrive Ratzinger – "riassume gli elementi irrinunciabili della fede cattolica". Eppure è stato il documento più contestato di quel pontificato, dentro e fuori la Chiesa cattolica.

Per diminuirne l'autorità, gli oppositori usavano attribuire la paternità della "Dominus Jesus" al solo prefetto della congregazione per la dottrina della fede, senza una reale approvazione da parte del papa.

Ebbene, è proprio la piena concordia tra lui e Giovanni Paolo II nel pubblicare la "Dominus Iesus" che il "papa emerito" oggi rivendica. Rivelando l'inedito retroscena che si può leggere più sotto.

*

Di papa Wojtyla, Benedetto XVI ammira "il coraggio con il quale assolse il suo compito in un tempo veramente difficile".

E aggiunge:

"Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni ed era pronto anche a subire dei colpi. Il coraggio della verità è ai miei occhi un criterio di prim'ordine della santità".

Un giudizio, questo, molto simile a quello espresso già su Paolo VI dallo stesso Ratzinger, nell'omelia funebre da lui pronunciata il 10 agosto 1978 come arcivescovo di Monaco:

"Un papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede. È per questo che in molte occasioni ha cercato il compromesso: la fede lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di decisioni, impone come parametro l’amore, che si sente in obbligo verso il tutto e quindi impone molto rispetto. È per questo che ha potuto essere inflessibile e deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della Chiesa. In lui questa durezza non derivava dall’insensibilità di colui il cui cammino viene dettato dal piacere del potere e dal disprezzo delle persone, ma dalla profondità della fede, che lo ha reso capace di sopportare le opposizioni".

*

Ecco dunque qui di seguito i due passaggi del testo di Benedetto XVI sopra menzionati:

__________



SULLA "VERITATIS SPLENDOR"


L'enciclica sui problemi morali "Veritatis splendor" ha avuto bisogno di lunghi anni di maturazione e rimane di immutata attualità.

La costituzione del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, di contro all'orientamento all'epoca prevalentemente giusnaturalistico della teologia morale, voleva che la dottrina morale cattolica sulla figura di Gesù e il suo messaggio avesse un fondamento biblico.

Questo fu tentato attraverso degli accenni solo per un breve periodo. Poi andò affermandosi l'opinione che la Bibbia non avesse alcuna morale propria da annunciare, ma che rimandasse ai modelli morali di volta in volta validi. La morale è questione di ragione, si diceva, non di fede.

Scomparve così, da una parte, la morale intesa in senso giusnaturalistico, ma al suo posto non venne affermata alcuna concezione cristiana. E siccome non si poteva riconoscere né un fondamento metafisico né uno cristologico della morale, si ricorse a soluzioni pragmatiche: a una morale fondata sul principio del bilanciamento di beni, nella quale non esiste più quel che è veramente male e quel che è veramente bene, ma solo quello che, dal punto di vista dell'efficacia, è meglio o peggio.

Il grande compito che Giovanni Paolo II si diede in quell'enciclica fu di rintracciare nuovamente un fondamento metafisico nell'antropologia, come anche una concretizzazione cristiana nella nuova immagine di uomo della Sacra Scrittura.

Studiare e assimilare questa enciclica rimane un grande e importante dovere.

__________



SULLA "DOMINUS JESUS"


Tra i documenti su vari aspetti dell'ecumenismo, quello che suscitò le maggiori reazioni fu la dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000, che riassume gli elementi irrinunciabili della fede cattolica. […]

A fronte del turbine che si era sviluppato intorno alla "Dominus Iesus", Giovanni Paolo II mi disse che all'Angelus intendeva difendere inequivocabilmente il documento.

Mi invitò a scrivere un testo per l'Angelus che fosse, per così dire, a tenuta stagna e non consentisse alcuna interpretazione diversa. Doveva emergere in modo del tutto inequivocabile che egli approvava il documento incondizionatamente.

Preparai dunque un breve discorso; non intendevo, però, essere troppo brusco e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza durezza. Dopo averlo letto, il papa mi chiese ancora una volta: "È veramente chiaro a sufficienza?". Io risposi di sì.

Chi conosce i teologi non si stupirà del fatto che, ciononostante, in seguito ci fu chi sostenne che il papa aveva prudentemente preso le distanze da quel testo.

__________


Il libro:

"Accanto a Giovanni Paolo II. Gli amici e i collaboratori raccontano", con un contributo esclusivo del papa emerito Benedetto XVI, a cura di Wlodzimierz Redzioch, Edizioni Ares, Milano, 2014, pp. 236, euro 15,90.

__________


I due documenti commentati da Benedetto XVI:

> Veritatis splendor

> Dominus Iesus

__________


A proposito della dichiarazione "Dominus Iesus" si può notare che continua a essere criticata anche ad alto livello.

Nel febbraio del 2010, durante un simposio ecumenico promosso a Roma dal pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, il cardinale Walter Kasper, che l'ha presieduto e introdotto, ha risposto così a una domanda della Radio Vaticana:

D. - Lei, nel suo discorso d’apertura, ha affermato che con la pubblicazione del documento 'Dominus Iesus' furono fatti degli sbagli verso i partner ecumenici. Che cosa intende?

R. – Non voglio dire che ci siano sbagli dottrinali, in quanto questo documento riflette la dottrina cattolica, ma che ci sono dei problemi con alcune formulazioni, che non sono facilmente accessibili per i nostri partner.

__________


Al canale televisivo tedesco ZDF l'arcivescovo Georg Gänswein, prefetto della casa pontificia e segretario di Benedetto XVI, ha rivelato il 15 marzo che il papa emerito trasmise lo scorso settembre a papa Francesco – su sua richiesta – quattro pagine di annotazioni sull'intervista a "La Civiltà Cattolica".

Ha detto Gänswein:

"Benedetto XVI ha esaudito la richiesta del suo successore facendo alcune riflessioni e anche alcune osservazioni su determinate affermazioni o questioni, che riteneva che forse si potevano sviluppare ulteriormente in un'altra occasione. Naturalmente non vi dico su cosa".

__________



Caterina63
00lunedì 24 marzo 2014 15:25

   Concistoro Segreto: cosa accadde

Nel Concistoro Segreto in cui si è discusso di divorziati risposati e di eucarestia il “teorema Kasper” ha avuto pochissimi consensi, e molte critiche. Ecco una ricostruzione di alcuni degli interventi più significativi e importanti. “Sarebbe un errore fatale”, ha detto qualcuno, voler percorrere la strada della pastoralità senza fare riferimento alla dottrina.

MARCO TOSATTI (24/03/2014)



Doveva essere segreto, il Concistoro del 22 febbraio, per discutere della famiglia. E invece dall’alto si è deciso che fosse opportuno rendere pubblica la lunga relazione del card. Walter Kasper in tema di eucarestia ai divorziati-risposati. Probabilmente per aprire la pista in attesa del Sinodo di ottobre sulla famiglia. Ma una metà del Concistoro è rimasta segreta: e ha riguardato gli interventi dei cardinali. E forse non a caso, perché dopo che il card. Kasper ha illustrato la sua lunga - e a quanto pare non lievissima, quando pronunciata - relazione parecchie voci si sono levate per criticarla. Tanto che nel pomeriggio, quando il Papa gli ha dato il compito di rispondere, a molti il tono del porporato tedesco è parso piccato, se non stizzito.

L’opinione corrente è che il “teorema Kasper” tenda a far sì che possano comunicarsi in generale i divorziati-risposati, senza che il precedente matrimonio venga riconosciuto nullo. Attualmente questo non avviene; in base alle parole di Gesù, molto severe ed esplicite sul divorzio. Chi ha una vita matrimoniale completa senza che il primo legame sia considerato non valido dalla Chiesa si trova, secondo la dottrina attuale, in una situazione permanente di peccato.

In questo senso hanno parlato chiaro il cardinale di Bologna, Caffarra, così come il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il tedesco Mueller. Altrettanto esplicito il card. Walter Brandmuller («Né la natura umana né i Comandamenti né il Vangelo hanno una data di scadenza…Serve il coraggio di enunciare la verità, anche contro il costume corrente. Un coraggio che chiunque parli in nome della Chiesa deve possedere, se non vuole venir meno alla sua vocazione…Il desiderio di ottenere approvazione e plauso è una tentazione sempre presente nella diffusione dell’insegnamento religioso…». E in seguito ha reso pubbliche le sue parole). Anche il presidente dei vescovi italiani Bagnasco si è espresso in maniera critica verso il “teorema Kasper”; così come il cardinale africano Robert Sarah, responsabile di “Cor Unum” che ha ricordato, in chiusura dei suo intervento come nel corso dei secoli anche su questioni drammatiche ci siano state divergenze e controversie all’interno della Chiesa, ma che il ruolo del Papato è sempre stato quello di difendere dottrina.

Il cardinale Re, uno dei grandi elettori di Bergoglio, ha fatto un intervento brevissimo, che si può riassumere così: prendo la parola un attimo, perché qui ci sono i futuri nuovi cardinali, e magari qualcuno di loro non ha il coraggio di dirlo, allora lo dico io: sono del tutto contrario alla relazione. Anche il Prefetto della Penitenzieria, il card. Piacenza si è detto contrario e ha più o meno detto: siamo qui adesso e saremo qui a ottobre per un Sinodo sulla Famiglia, e allora volendo fare un Sinodo in positivo non vedo perché dobbiamo toccare solo il tema della comunione ai divorziati. E ha aggiunto: «Volendo fare un discorso pastorale mi sembra che dovremmo prendere atto di un pansessualismo diffusissimo e di un’aggressione dell’ideologia del gender che tende a scardinare la famiglia come l’abbiamo sempre conosciuta. Sarebbe provvidenziale se noi fossimo lumen gentium per spiegare in quale situazione ci troviamo e cosa può distruggere la famiglia». Ha concluso esortando a riprendere in mano le catechesi di Giovanni Paolo II sulla corporeità perché contengono molti elementi positivi sul sesso, sull’essere uomo, l’essere donna e la procreazione e l’amore.

Il cardinale Tauran, del Dialogo Inter-Religioso, ha ripreso il tema dell’aggressione alla famiglia, anche alla luce dei rapporti con l’islam. E anche il cardinale di Milano, Scola, ha elevato perplessità teologiche e dottrinali.

Molto critico anche il card. Camillo Ruini. Che ha aggiunto: «Non so se ho preso bene nota, ma fino a questo momento circa l’85 per cento dei cardinali che si sono espressi paiono contrari all’impostazione della relazione. Aggiungendo che fra quelli che non hanno detto niente e non si possono classificare coglieva dei silenzi “che credo che siano imbarazzati”».

Il cardinale Ruini ha poi citato il Papa Buono. Dicendo, in buona sostanza: quando Giovanni XXIII fece il discorso di apertura del Concilio Vaticano II disse che si poteva fare un concilio pastorale perché fortunatamente la dottrina era pacificamente accettata da tutti e non c’erano controversie; quindi si poteva dare un taglio pastorale senza timore di essere fraintesi, poiché la dottrina rimane molto chiara. Se avesse avuto ragione in quel momento Giovanni XXIII, ha chiosato il porporato, lo sa solo Dio, ma apparentemente in buona parte forse era vero. Oggi questo non si potrebbe più dire nel modo più assoluto, perché la dottrina non solo non è condivisa ma è combattuta. «Sarebbe un errore fatale» voler percorrere la strada della pastoralità senza fare riferimento alla dottrina.

Comprensibile dunque che il card. Kasper sembrasse un po’ piccato, nel pomeriggio, quando papa Bergoglio gli ha permesso di rispondere, senza però permettere che si desse vita a un vero contraddittorio: solo Kasper ha parlato.

Da aggiungere che alle critiche elevate in Concistoro al “teorema Kasper” se ne stanno sommando, in forma privata verso il Papa, o pubblica, altre, da parte di cardinali di ogni parte del mondo. Cardinali tedeschi, che conoscono bene Kasper, dicono che è dagli anni ’70 che questo tema lo appassiona. Il problema rilevato da parecchie voci critiche è che su questo punto il Vangelo è molto esplicito. E non tenerne conto – questo il timore – renderebbe molto instabile, e modificabile a piacere, qualunque altro punto di dottrina basato sui Vangeli.





Caterina63
00lunedì 12 maggio 2014 14:17
 ..... cardinale avvisato, mezzo salvato....


Sulla comunione ai risposati, una lettera dal Bangladesh

Ne è autore un missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano. Che scrive: "Se si procede sulla strada tracciata dal cardinale Kasper si faranno dei grossi danni" 

di Sandro Magister




ROMA, 12 maggio 2014 – Carlo Buzzi, 71 anni, originario dell'arcidiocesi di Milano, è in missione in Bangladesh ininterrottamente dal 1975, con il Pontificio Istituto Missioni Estere.

Per anni ha tirato avanti da solo senza riuscire a convertire nessuno, ma poi sono arrivati i primi battesimi, e poi sono nate le prime famiglie cattoliche. Una goccia in un mare di musulmani.

Si è sempre speso per i più poveri. Come i tribali, dei quali si è fatto avvocato gratuito perché riavessero le terre che erano state loro illegalmente sottratte. È stato bastonato e preso a sassate, ha affrontato avversità, ha percorso centinaia di chilometri in moto per raggiungere i più sperduti villaggi. È andato ad abitare assieme ai tribali e ai fuori casta venuti dall'India a far da manovali nella costruzione di un ponte sul Brahmaputra, osteggiati dai musulmani del posto. Ha costruito scuole, ambulatori, cappelle. Le ha ricostruite quando gliele hanno distrutte.

Ma sempre con l'annuncio del Vangelo al centro della sua missione. Vangelo predicato e vissuto nelle forme più essenziali, genuine, senza annacquamenti.

Lo si intuisce dalla lettera che ha scritto al curatore di questo sito web, suo compagno di scuola nella fanciullezza, in un piccolo paese della Lombardia.

L'ha scritta con la volontà di dire "la sua" da missionario impegnato sul campo, nella disputa a proposito della comunione ai divorziati risposati, che ha seguito su www.chiesa dalla città in cui vive, Sirajganj, sulle rive del Brahmaputra.

E l'ha scritta proprio mentre negli Stati Uniti il cardinale Walter Kasper – il capofila dei favorevoli a dar la comunione ai risposati – ribadiva e accentuava le tesi da lui esposte per incarico di papa Francesco al concistoro dello scorso febbraio, in un'ampia intervista al settimanale cattolico di New York "The Commonweal":

> Merciful God, Merciful Church. An Interview with Cardinal Walter Kasper


In parziale traduzione italiana:

> Kasper: "Ecco gli argomenti per la comunione ai divorziati risposati"

__________



"LA MIA" SULLA COMUNIONE AI RISPOSATI

di Carlo Buzzi



Carissimo Sandro,

noi qui in Bangladesh insegniamo il catechismo e per essere chiari diciamo che ogni sacramento ha quattro elementi: il ministro, la materia, la formula, l'avvenimento miracoloso.

Nel battesimo il ministro è ogni persona, la materia l'acqua, la formula "Io ti battezzo…" e l'avvenimento miracoloso è che si diventa figli di Dio.

Nella cresima il ministro è il vescovo, la materia l'olio, la formula "Io ti ungo…" e l'avvenimento miracoloso è che si riceve la forza dello Spirito Santo.

Nella confessione il ministro è il sacerdote, la materia i peccati, la formula "Io ti assolvo…" e l'avvenimento miracoloso è il perdono dei peccati.

Nell'eucaristia il ministro è il sacerdote, la materia il pane e il vino, la formula "Questo è il mio corpo…" e l'avvenimento miracoloso è che il pane e il vino diventano corpo e sangue di Gesù.

Nel matrimonio il ministro sono gli sposi stessi, la materia il loro corpo e anima, la formula è la promessa e l'avvenimento miracoloso è che diventano come una sola persona.

Noi insegniamo che il sacramento si chiama così perché produce un avvenimento soprannaturale che non si vede con i nostri occhi ma che è grandioso ed è reale agli occhi di Dio.

Riguardo al matrimonio, spieghiamo proprio che la cosa miracolosa è che dopo la promessa di fronte a Dio i due sposi diventano uniti in una sola persona come se fossero stati messi insieme con l'attaccatutto o saldati a 5.000 gradi.

Ora, se si toglie questo fatto miracoloso dal matrimonio cattolico, al suo posto che cosa dobbiamo mettere?

Io ho fatto una mia riflessione.

Sappiamo bene che esiste il battesimo "di sangue" e anche il battesimo "di desiderio", altrettanto validi come quello di acqua.

Quelli che si sono risposati, se è proprio vero che sono coscienti della propria situazione, possono fare la comunione di desiderio. (Comunione spirituale, nota mia)

Nella recezione di un sacramento c'è la parte oggettiva e la parte soggettiva. Si sa che la cosa più importante è la grande grazia legata al sacramento. Ma io potrei sciupare questa grazia ed anzi essere sacrilego se mi accosto alla comunione con leggerezza o indegnamente.

Ora per questi risposati, che tutto sommato hanno messo un po' sotto i piedi il senso cristiano della sofferenza, del sacrificio, della sopportazione, della penitenza e hanno dimenticato che Gesù è salito sulla croce e che la croce, quando arriva, è la via per ogni cristiano per avvicinarsi al Redentore, è un po' presuntuoso appellarsi alla misericordia di Dio, del quale hanno tenuto precedentemente poco conto.

In senso soggettivo, penso che per loro è molto più esistenziale che si limitino al desiderio della comunione, invece che ricevere la comunione stessa.

L'accettare volentieri questo digiuno farà molto bene alla loro anima e alla santità di quella comunità cristiana che è la Chiesa.

Se invece si procede sulla strada tracciata dal cardinale Walter Kasper si faranno dei grossi danni:

1. Si renderà la Chiesa superficiale e accomodante;
2. Si dovrà negare l'infallibilità della cattedra di Pietro, perché è come se tutti i papi precedenti abbiano sbagliato; 
3. Si dovrà prendere per stupidi tutti quanti hanno dato la vita come martiri per difendere questo sacramento.

Forse ho dato il mio contributo a questa diatriba, che spero finisca in fretta.

Ciao e tanti cari saluti dal Bangladesh, che sta emergendo in tante cose e non è più un paese da buttar via.

Padre Carlo

Sirajganj, 5 maggio 2014

__________


Un ritratto dal vivo di padre Carlo Buzzi scritto dal decano del Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano, Piero Gheddo:

> Un missionario pieno di "fuoco apostolico ambrosiano"

__________


La relazione con cui il cardinale Kasper ha aperto il concistoro del 20-21 febbraio, con il caloroso apprezzamento di papa Francesco:

> Kasper cambia il paradigma, Bergoglio applaude

__________


Gli ultimi tre precedenti servizi di www.chiesa:

6.5.2014
> Su omosessualità e aborto, la voce del Terzo Mondo
Papa Francesco esorta ad aprirsi alle "periferie" del globo. Ma allora non possono essere la Germania o la Francia a stabilire la dottrina e la prassi della Chiesa su matrimonio gay e comunione ai risposati

1.5.2014
> Francesco, il papa della "Humanae vitae"
È l'enciclica che egli ha preso come modello, nonostante sia la più contestata dell'ultimo secolo. Bergoglio suscita grandi aspettative di cambiamento in materia di matrimonio. Ma anche lui, come Paolo VI, potrebbe alla fine decidere "contro la maggioranza"

29.4.2014
> Diario Vaticano / Il nuovo Annuario Pontificio è già vecchio
È uscito nei giorni di Pasqua. Ma è fermo al 22 febbraio. E quindi non reca traccia né della segreteria per l’economia né di tante altre novità decise ultimamente da papa Francesco

__________


Per altre notizie e commenti vedi il blog che Sandro Magister cura per i lettori di lingua italiana:

> SETTIMO CIELO



   e il discorso prosegue.............


<header class="post-header">

Comunione “di desiderio”. Martinetti obietta, Ratzinger risponde

</header>

samaritana

Letto in www.chiesa il secondo, folgorante intervento di padre Carlo Buzzi, missionario in Bangladesh, sulla questione della comunione ai divorziati risposati, Alessandro Martinetti ci scrive di concordare “con molte delle affermazioni fatte dal padre”, ma obietta che la comunione eucaristica “di desiderio” – proposta per loro da padre Buzzi – non è propriamente un sacramento.

A essere precisi, nemmeno padre Buzzi lo afferma in modo tassativo. Pone piuttosto questa domanda:

“Perché la comunione di desiderio non potrebbe essere considerata una vera comunione sacramentale, come il battesimo di desiderio e la confessione di desiderio in punto di morte?”.

Da come la domanda è costruita, si ricava che per padre Buzzi il battesimo di desiderio è comunque un vero sacramento.

Ma è proprio questa pietra d’appoggio che Martinetti contesta, sulla base del Catechismo della Chiesa cattolica ai nn. 1258-1259:

”Da sempre la Chiesa è fermamente convinta che quanti subiscono la morte a motivo della fede, senza aver ricevuto il battesimo, vengono battezzati mediante la loro stessa morte per Cristo e con lui. Questo battesimo di sangue, come pure il desiderio del battesimo, porta i frutti del battesimo, anche senza essere sacramento.

“Per i catecumeni che muoiono prima del battesimo, il loro desiderio esplicito di riceverlo, unito al pentimento dei propri peccati e alla carità, assicura loro la salvezza che non hanno potuto ricevere mediante il sacramento”.

Su questo passaggio del Catechismo Martinetti appoggia queste sue considerazioni:

“Come si vede, il battesimo del desiderio, anche senza essere sacramento, porta i frutti del battesimo sacramentale in quanto chi lo riceve non solo ha desiderio di ricevere il sacramento del battesimo, ma è pentito del proprio peccato.

“Ed è appunto il pentimento del proprio peccato che manca nel divorziato risposato convivente more uxorio con chi suo coniuge non è davanti a Dio. È questo difetto di pentimento che non lo pone in condizione di ricevere l’assoluzione sacramentale e la comunione sacramentale cioè eucaristica”.

Martinetti cita ampiamente la dichiarazione del 7 luglio 2000 del pontificio consiglio per i testi legislativi “Circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati”.

E conclude:

“Se, come ipotizza padre Buzzi, esistesse una ‘vera comunione sacramentale’, quella del desiderio, che potesse essere ricevuta da chi, essendo in situazione di peccato grave, non può accostarsi alla comunione sacramentale eucaristica, insorgerebbe un conflitto tra i sacramenti: conflitto che ovviamente non può esserci, giacché tutti i sacramenti si radicano in Cristo, e Cristo non può essere in contraddizione con sé stesso”.

Martinetti, di Ghemme in provincia di Novara, è discepolo del filosofo Gustavo Bontadini e studioso di metafisica e teologia.

Va osservato però che il cuore della proposta di padre Buzzi non sta tanto nell’affermare che la comunione di desiderio sia un sacramento nella pienezza dogmatica del termine, quanto piuttosto nel valorizzare grandemente “il desiderio della comunione” eucaristica in “chi non è in stato di grazia e vorrebbe uscire da questo stato, ma per vari motivi non può”.

A questo proposito, è illuminante rileggere ciò che Benedetto XVI rispose a due coniugi brasiliani che gli parlarono del dolore di “quelle coppie di risposati che vorrebbero riavvicinarsi alla Chiesa ma si vedono rifiutare i sacramenti”, il 2 giugno 2012 a Milano, durante la veglia dell’incontro mondiale delle famiglie:

“In realtà, questo problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. […] Mi sembra un grande compito fare realmente il possibile perché queste persone sentano di essere amate, accettate, che non sono ‘fuori’ anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’eucaristia: devono vedere che anche così vivono pienamente nella Chiesa. Se non è possibile l’assoluzione nella confessione, tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati. Ma poi è anche molto importante che sentano che l’eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il corpo di Cristo. Anche senza la ricezione ‘corporale’ del sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo corpo”.

In queste parole di papa Joseph Ratzinger la formula “comunione di desiderio” non c’è. Ma la sostanza c’è tutta. “Anche senza la ricezione ‘corporale’ del sacramento possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo corpo”. Anche se la comunione di desiderio non è sacramento, è pur sempre comunione “vera”, “partecipata”, “reale” con il corpo di Cristo.

<<<  >>>

NOTA BENE !

Il blog “Settimo cielo” fa da corredo al sito “www.chiesa”, curato anch’esso da Sandro Magister, che offre a un pubblico internazionale notizie, analisi e documenti sulla Chiesa cattolica, in italiano, inglese, francese e spagnolo.

Gli ultimi tre servizi di “www.chiesa”:

21.5.2014
> Comunione ai risposati? Sì, di desiderio
Viste le reazioni alla sua precedente lettera, il missionario Carlo Buzzi arricchisce con nuovi argomenti la soluzione da lui proposta. La riassume in 25 punti fulminanti. Tutti da leggere. Con molte sorprese

19.5.2014
> Diario Vaticano / Che cosa resta di Paolo VI, prossimo beato
Fu il papa che guidò i primi passi della conferenza episcopale italiana, anche nella strenua difesa del matrimonio indissolubile. Oggi Francesco prende lui il comando della CEI. Con uno spericolato secondo pilota: monsignor Galantino

15.5.2014
> Pietro e i dodici. La disputa sui poteri del sinodo
C’è chi lo vuole come supremo organo di governo della Chiesa, una specie di “concilio permanente”. Ma il Vaticano II l’ha escluso. I cardinali Müller e Ruini spiegano perché, d’accordo con Ratzinger cardinale e papaSe si procede sulla strada tracciata dal cardinale Kasper si faranno dei grossi danni”



Caterina63
00venerdì 23 maggio 2014 23:42

<header class="post-header">

Kasper corregge Ratzinger. Martinetti ricorregge Kasper

</header>

samaritana

Riguardo alla comunione ai divorziati risposati, il precedente post finiva citando ciò che Benedetto XVI aveva detto in proposito, a Milano, il 2 giugno 2012, durante l’incontro mondiale delle famiglie.

Papa Joseph Ratzinger metteva lì in luce il valore, per i divorziati risposati, di una comunione non sacramentale ma “spirituale”. Cioè una comunione che si identifica con quella che il missionario Carlo Buzzi – intervenendo suwww.chiesa – ha chiamato “di desiderio”.

Anche il cardinale Walter Kasper, nell’introdurre il concistoro dello scorso febbraio, citò le parole di Benedetto XVI del 2012 a Milano, secondo cui “i divorziati risposati non possono ricevere la comunione sacramentale ma possono ricevere quella spirituale”.

Ma poi Kasper così proseguì:

“Molti saranno grati per questa apertura. Essa solleva però diverse domande. Infatti, chi riceve la comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo. […] Perché, quindi, non può ricevere anche la comunione sacramentale? […] Alcuni sostengono che proprio la non partecipazione alla comunione è un segno della sacralità del sacramento. La domanda che si pone in risposta è: non è forse una strumentalizzazione della persona che soffre e chiede aiuto se ne facciamo un segno e un avvertimento per gli altri? La lasciamo sacramentalmente morire di fame perché altri vivano?”.

La relazione di Kasper è stata contestata da numerosi cardinali, sia durante il concistoro che dopo. Ma questa sua equiparazione tra comunione spirituale e sacramentale è stata poco toccata dalle critiche, che si sono concentrate su altri punti della relazione.

Ma è proprio questa equiparazione che viene qui criticata come “fallace” da Alessandro Martinetti, con un “Post Scriptum” alle osservazioni da lui dedicate all’intervento di padre Carlo Buzzi, nel precedente post.

Scrive Martinetti:

“Nel dibattito che si è acceso sulla comunione ai divorziati risposati, mi sembra che non si sia posta abbastanza in risalto la differenza che corre tra comunione eucaristica e comunione spirituale. Occorre badare a non favorire che prenda piede nella coscienza del fedele la convinzione fallace secondo cui la comunione sacramentale dell’eucaristia e la comunione spirituale siano sostanzialmente la stessa cosa.

“La convinzione della sostanziale identità tra comunione eucaristica e comunione spirituale condurrebbe infatti il fedele ad assuefarsi alla condizione di peccato grave abituale che gli impedisce la ricezione della comunione eucaristica, mettendo a repentaglio la salvezza della sua anima.

“Da una catechesi e da una pastorale che non siano limpide al riguardo il fedele potrebbe essere infatti indotto ad avvalorare il ragionamento seguente: la comunione spirituale produce i medesimi effetti della comunione eucaristica, non c’è differenza tra l’una e l’altra nel grado di unione a Cristo che realizzano, quindi il peccato grave che mi impedisce di ricevere la comunione eucaristica non è tale da interdirmi la medesima unione con Cristo che conseguirei con la recezione dell’Eucaristia. Conclusione: questo peccato grave (se ha ancora senso chiamarlo tale) non produce effetti così gravi da giustificare che io mi adoperi per emendarmene.

“Non mi pare inutile pertanto rimarcare che la comunione spirituale con Cristo da parte di chi, versando in situazione di peccato grave abituale, non può accostarsi alla comunione eucaristica, è dono largito dall’amore misericordioso di Cristo, che non vuole la morte del peccatore, ma incessantemente opera perché si converta e giunga a una perfetta comunione con Lui.

“La comunione spirituale deve pertanto essere vissuta (e i pastori debbono curare che sia intesa e praticata correttamente così) non come esauriente surrogato della comunione eucaristica ma come dono con il quale Cristo si unisce spiritualmente al fedele per infiammarlo di sempre più fervente desiderio di unirsi perfettamente a Lui, purificandosi dal peccato per poter accedere all’assoluzione sacramentale e alla comunione eucaristica. In questo senso, non è quindi improprio, anzi, chiamare questa comunione spirituale ‘comunione di desiderio’.

“Non per nulla, una delle preghiere più adoperate per la comunione spirituale suona così: ‘Gesù mio […] ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore’.

“Da qui traspare che la venuta spirituale di Gesù si attua in un cuore che arde del desiderio trascinante, dell’incontenibile urgenza di ricevere Cristo non solo spiritualmente ma sacramentalmente”.





<header class="post-header">

Padre Cavalcoli scrive da Bologna. E chiama in causa i “bolognesi”

</header>

Bologna

Nella dottissima disputa tra teologi, filosofi, storici, sociologi, giuristi che è in corso in www.chiesa e in Settimo Cielo sulla continuità o rottura tra il Concilio Vaticano II e il precedente Magistero dei papi, specie sul principio della libertà religiosa, interviene di nuovo il teologo domenicano bolognese Giovanni Cavalcoli.

Lo fa con due lettere aperte: la prima rivolta al teologo benedettino francese Basile Valuet e la seconda al professor Stefano Ceccanti, in risposta a due loro precedenti interventi.

Il testo integrale della lettera di padre Cavalcoli a Ceccanti è riprodotto poco più sotto, con una brevissima replica.

Mentre la lettera di padre Cavalcoli a Valuet può essere letta nel “POST SCRIPTUM 2 C” dell’ultimo servizio di www.chiesa sul tema:

> Libertà religiosa. La Chiesa era nel giusto anche quando la condannava?

Di questa lettera però, è interessante dare subito un’occhiata alla parte finale, dove padre Cavalcoli chiama in causa i “bolognesi” tipo Alberto Melloni, e più in genere “i discepoli di Alberigo” e “i rahneriani”.

Scrive padre Cavalcoli:

*

Potremmo chiederci: come mai in questo dibattito non intervengono i discepoli di Alberigo o i rahneriani? La risposta è semplice: perché per loro il progresso teologico è per sua natura rottura e contrasto col passato. Essi hanno una concezione hegeliana e modernista del progresso. Per loro è evidente che nel Concilio c’è rottura. Ma è proprio questo, secondo loro, il bello del Concilio. Per loro lo stare a chiedersi con preoccupazione se c’è o non c’è continuità, è già segno di una mentalità vecchia, preconciliare e superata (presente nel papa stesso che parla di “continuità”). Per questo, per loro la nostra discussione è anacronistica e quindi tempo perso. Per loro l’essenziale per il nostro tempo è il Vaticano II (interpretato a modo loro); quello che è successo prima è materiale da museo.

Io credo allora che dobbiamo essere uniti con i nostri avversari tradizionalisti anticontinuisti contro il neomodernismo che oggi continua a falsificare il vero senso del Concilio: cosa di cui i papi del postconcilio si lamentano in continuazione. Per questo l’assimilazione che Mons. Agostino Marchetto ha fatto della posizione di Roberto de Mattei con quella di Giuseppe Alberigo dicendo che entrambi in ultima analisi sostengono la “rottura” è giusta, ma solo in modo del tutto superficiale.

In realtà tra i due c’è un abisso, perché mentre de Mattei, da vero cattolico, ben cosciente dell’immutabilità del dogma, è amareggiato per la supposta rottura, e qui però dimostra poca fiducia nel papa, i seguaci di Alberigo considerano la rottura un bene e un progresso (si considerano più avanzati del papa), ma solo perché, da cattivi cattolici, sono influenzati dal concetto hegeliano-storicista-modernista del progresso dogmatico e disprezzano la continuità.

*

Ma ecco ora la lettera di padre Cavalcoli a Ceccanti:

*

Ill.mo Prof. Ceccanti,

ho letto con interesse sul blog di Sandro Magister il suo intervento circa la questione se il concetto di libertà religiosa espresso dal Vaticano II, con la conseguente dottrina del rapporto Chiesa-Stato su questa materia, sono in contrasto o costituiscono una “rottura” con le dottrine in merito del beato Pio IX e il generale dei papi dell’Ottocento.

Io sono filosofo e teologo, lei è un eminente docente di diritto. Penso che allora sia bene distinguere due concetti di libertà: uno appunto in senso filosofico, perfezionato dal concetto cattolico, ed uno di tipo giuridico. E faccio subito riferimento alla dichiarazione del cardinale Walter Kasper, da lei citata, secondo il quale nella storia “muta l’idea della libertà”.

Vorrei dire subito che la frase del cardinale va accuratamente chiarita per non ingenerare pericolosi errori che possono sapere di storicismo o modernismo e, al limite, potrebbero compromettere il dogma. Infatti, come lei saprà, alla Chiesa è sempre premuto definire con chiarezza in che consiste la libertà umana, essendo la libertà uno degli annunci principali del Vangelo: “Fratelli – come dice l’Apostolo – voi siete stati chiamati a libertà!”. È quella che Paolo chiama “libertà dei figli di Dio, mossi dallo Spirito Santo”.

Ma scendiamo da queste altezze teologiche, che ho comunque ricordato per tener presente quanto per il cattolicesimo sia importante il concetto della libertà. La libertà come libero arbitrio è stata insegnata dogmaticamente, come ella saprà, anche dal Concilio di Trento contro Lutero. Famosa è rimasta, nella storia del Magistero, l’enciclica “Libertas” di Leone XIII. Ricco sull’argomento è l’insegnamento di Pio XII. Fondamentale l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino, sempre meglio illustrato e sviluppato dalla sua scuola sino ai nostri tempi, come nel Maritain, nel Fabro e nel domenicano cecoslovacco e servo di Dio Tomas Tyn (1950-1990), del quale curo la causa di beatificazione.

Mi pare che la frase di Kasper, che certamente può essere intesa in senso accettabile, vada chiarita in questo modo. La libertà (”libertas a coactione” o “libertas maior” e “libertas a necessitate” o “libertas minor”) è una proprietà essenziale della volontà, per cui entra nella definizione stessa della natura umana: “animal rationale, et ergo liberum”, dato che, come dimostra l’Aquinate, “libertas est in ratione constituta”. La verità, oggetto dell’intelletto e della ragione, rende liberi, condizione propria dell’agente volontario e responsabile, per parafrasare un famoso detto di Gesù Cristo, continuamente citato dal Magistero recente della Chiesa.

Torniamo alla distinzione fra libertà in senso filosofico e libertà in senso giuridico. Muta il concetto nel secondo senso, non nel primo. Infatti ogni cosa ha la sua essenza, mutata la quale, la cosa si corrompe: o non esiste più o si muta in un’altra cosa. Per questo una cosa è quello che è sinchè la sua essenza non muta. Questo ci viene dalla buona logica. Ora anche la libertà ha una sua essenza: il potere che ha la volontà, in base alla conoscenza razionale, di determinare i propri atti – la cosiddetta “automozione” – al fine di conseguire il bene intellegibile. Questo ci viene dalla filosofia dell’uomo ovvero dalla psicologia.

Ora, dovrebbe essere evidente che il concetto filosofico di libertà non può assolutamente mutare, e per conseguenza il concetto che ci viene dalla rivelazione cristiana, interpretato dal dogma cattolico. Se mutasse, la libertà non sarebbe più vera libertà. Da qui gli errori sulla libertà – per esempio il concetto individualistico o idealistico o liberale o edonistico o esistenzialistico e così via – che dipendono appunto dal fatto che certi filosofi mutano arbitrariamente il concetto di libertà così come risulta da un’oggettiva analisi della natura umana, confermata dal Magistero della Chiesa. Il Vaticano II non fa che confermare questo tradizionale concetto filosofico-umanistico-cristiano di libertà.

Può mutare invece e a volte deve mutare il concetto giuridico e politico di libertà. Tale mutamento tuttavia è legittimo e benefico se è veramente adatto al mutare delle circostanze, se migliora la condizione umana e se non falsifica quello della ragione naturale o della filosofia, confermato dalla dottrina cattolica. Può mutare perché l’uomo è chiamato a raggiungere una libertà sempre più perfetta. Esiste e deve esistere – ed in tal senso muta l’idea di libertà – un progresso continuo nell’esercizio della libertà, e qui il cristianesimo ha sempre dato e sempre darà un impulso decisivo, checchè ne dicano i suoi denigratori, sostenitori di una falsa libertà.

Per quanto poi riguarda la questione storica del mutamento del concetto giuridico di libertà dall’Ottocento al Vaticano II, con particolare riferimento alla libertà religiosa in relazione al rapporto Chiesa-Stato, mi sembra ovvio che il concetto filosofico cattolico dell’essenza della libertà come proprietà della umana e del cristiano non è assolutamente mutato né può mutare senza che automaticamente ne nasca un concetto errato o eretico (vedi Lutero).

Invece non trovo difficoltà ad ammettere, come il papa stesso ne ha accennato, una discontinuità o una “rottura” tra la maniera giuridica con la quale ai tempi di Pio IX era regolamentata la libertà di culto all’interno dello Stato della Chiesa e il modo col quale oggi questa libertà – detta “libertà religiosa” – viene concepita e regolamentata giuridicamente nei rapporti della Chiesa con gli Stati. Allora si parlava di “tolleranza” (ne aveva già parlato san Tommaso nella “Summa Theologiae”: “Utrum ritus infidelium sit tolerandi”, rispondendo positivamente a certe condizioni). Era il regime della “religione di Stato” corrispondente concetto dello “Stato cattolico”.

Per quanto poi riguarda l’inquadramento di questa questione della libertà nell’ampio dibattito in corso circa la parola del papa “continuità nella riforma” in riferimento all’interpretazione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, direi che indubbiamente c’è continuità tra il concetto filosofico cattolico di libertà tra il Concilio e il Magistero precedente – né diversamente potrebbe essere – , mentre possiamo parlare di discontinuità o addirittura di rottura per quanto riguarda il mutamento storico delle modalità giuridiche dell’applicazione del concetto di libertà dall’Ottocento ad oggi, ed infine possiamo parlare anche di un progresso, dal punto di vista morale e spirituale, dell’esercizio della libertà cristiana dalla Chiesa dell’Ottocento a quella dei nostri giorni.

Così si giustifica la recente proposta di Massimo Introvigne di introdurre nella discussione continuità-progresso un terzo termine: discontinuità. Infatti il papa, proprio a proposito di questa questione della condizione storico-giuridico-politica della libertà non ha proibito affatto di parlare di “rottura”, ma nei termini precisi che ho detto.

P. Giovanni Cavalcoli, OP

Bologna, 30 maggio 2011




Caterina63
00giovedì 2 ottobre 2014 13:29

  L’ERETICO CARDINALE WALTER KASPER di Don Lugi Villa Questo articolo del compianto Don Luigi è stato pubblicato sulla rivista mensile Chiesa Viva, n° 433 - dicembre 2010

 
 
 


 
 
 
Certo, è un fatto grave! Di sua propria confessione ha rotto la comunione di fede, indispensabile per l’unità cattolica.
 
A riguardo della necessità di appartenere alla Chiesa per essere salvi, il card. Walter Kasper ha scritto: «Con le sue Dichiarazioni, il Concilio [Vaticano II] ha rigettato l'antica teoria esclusiva e la pratica secondo la quale, dal fatto che Gesù Cristo è il solo e unico Mediatore della salvezza, non cè salvezza fuori della fede in Cristo, “Extra ecclesiam nulla salus” [Fuori della Chiesa non cè salvezza], secondo il famoso assioma del vescovo Cipriano di Cartagine[morto nel 258] [...]. Questa teologia esclusiva fu rimpiazzata da una teoria inclusiva (...). In Gesù Cristo la salvezza è venuta a tutti i popoli in maniera universale che include tutto ciò che è buono e vero nelle altre religioni».
 
Da parte mia, io credo che la Chiesa cattolica romana è la Chiesa di Cristo, fuori della quale non può esservi salvezza. È uno dei dogmi cattolici che nessuno può salvarsi fuori della Chiesa cattolica (Pio IX: “Quanti conficiamur maerore”, Dez. 2867).
Da questa divergenza di fede, scende una profonda divergenza di concezione nella pratica ecumenica, quale descritta dallo stesso Walter Kasper: «Prima del Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica intendeva il ristabilimento dellʼunità dei cristiani unicamente in termini di ritorno dei nostri fratelli separati alla vera Chiesa di Cristo... da cui si erano disgraziatamente separati. Questa fu l’espressione che usò Pio XI nella sua enciclica “Mortalium animos” del 1928. Il Concilio Vaticano II ne fece un cambiamento radicale (...). il vecchio concetto dell’ecumenismo del ritorno è stato rimpiazzato, oggi, da quello di “itinerario comune”, che dirige i cristiani verso il fine della comunione ecclesiale, compresa come unità nella “diversità riconciliata».
Ora, questo falso profeta, travestito da pecora, ma che dentro è un lupo rapace (Mt. 7, 15), non è stato mai denunciato, anzi!.. fu elevato agli onori cardinalizi e poi nominato Presidente del “Segretariato per l'Unità dei cristiani”. Davanti a questi fatti, come potranno rimproverarci di seguire i consigli di Cristo di diffidare (Mt. 7, 15) di fronte a coloro che sono all’origine di tali promozioni? E che abbiamo a comprendere la necessità che noi abbiamo di richiamare di essere protetti da sicure garanzie necessarie a salvaguardare la nostra fede cattolica, perché i nemici della Chiesa sono, ormai, all’interno di Essa!
Uno dei quali è chiarissimamente anche il cardinal Kasper che nega persino la divinità di Gesù Cristo. A comprova dei suoi “errori” che dovevano essere condannati con “anatemi”.
Noi non ci sbagliamo se osiamo dire che il cardinale Kasper non ha la fede cattolica!
 
Chi ha letto il suo libro: “Gesù, il Cristo” si sarà reso conto che il card. Kasper non crede che Gesù sia Figlio di Dio, in senso proprio. Secondo Lui, «questa confessione di Gesù Cristo Figlio di Dio... è un residuo di mentalità mitica, passivamente accettato» (p. 223).
Noi ci domandiamo: dove mette la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo (Mt. 16, 16): «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente», sanzionata da Gesù stesso: «Beato te, Simone Bar Jona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli».
Ma Kasper se la cava dicendo che Pietro disse: «Tu sei il Messia» (p. 142).
 
Anche del testo di Mc. 14. 61-63: «Sei Tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?»; e Gesù rispose: «Si, lo sono!». Quindi, per Kasper, Gesù sarebbe solo un “uomo” svuotandosi del suo “Io Dio”.
È più che evidente che il cardinale Kasper non ha più la fede cattolica dicendo che la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo é un'invenzione di San Paolo e di San Giovanni, per cui riporta una affermazione di Smulders (Catechismo olandese): «la dottrina della divinità e dell'umanità di Gesù costituisce uno sviluppo della convinzione originaria della fede che quest'uomo é la nostra salvezza divina».
 
È doveroso, quindi, che anche noi abbiamo a combattere coloro che contraddicono
- come dice San Paolo - «agli scritti insubordinati, ingannatori della gente, bisogna chiudere la bocca» (Tito 1, 7-11), come dovrebbe fare Roma, con gli “errori” dellʼeretico cardinale Walter Kasper!
 
Qui, ne riporteremo almeno i principali: -
Dopo essere stato il responsabile principale del “Catechismo Tedesco per Adulti”, pieno di inesattezze, di errori, dicendo persino che “i dogmi possono essere unilaterali, superficiali, ostinati, stupidi e prematuri”; dopo d’aver scritto che “un uomo moderno non può credere, perché incontra ostacoli che non riesce a superare, per cui deve accettare questa responsabilità”, e che “la fede la si può soltanto testimoniare”, e via dicendo; riportiamo, qui, altre “eresie” che portano la sua perfida firma.
 
 
1° KASPER NEGA I MIRACOLI
 
Kasper li dice “leggende”, “racconti” non storici, ma sono «un problema che rende piuttosto strana e difficilmente comprensibile all'uomo moderno l'attività di Gesù…», e scrive che «si ha l'impressione che il N. T. abbia arricchito la figura di Gesù di motivi extra-cristiani per sottolinearne la grandezza e l'autorità» (1).
E afferma persino che i miracoli, nei Vangeli, “possono essere interpretati anche come opera del demonio. In se stessi, poi, non sono così chiari e non costituiscono necessariamente una prova della divinità di Gesù” (p. 129).
Adesso, è doveroso far conoscere l’anatema del Vaticano I: «Se qualcuno dirà che i miracoli non sono possibili e che perciò tutti i racconti miracolosi contenuti anche nella Sacra Scrittura devono essere relegati tra le leggende e i miti, e che i miracoli non possono giammai essere conosciuti con certezza, né con essi si può debitamente dimostrare l'origine divina della religione cristiana, sia scomunicato!».
 
2° KASPER NEGA LA RISURREZIONE CORPOREA DI CRISTO
 
Infatti, scrive: «Nessun testo neo-testamentario asserisce di aver visto Cristo risorgere». E continua: «Gli enunciati della tradizione neo-testamentaria della risurrezione di Gesù non sono affatto neutrali: sono confessioni e testimonianze prodotte da gente che crede» (p. 176). 
Anche della scoperta del “sepolcro vuoto”, scrive: «dobbiamo supporre che non si tratti di cenni storici, ma soltanto di artifizi stilistici, escogitati per richiamare l'attenzione e creare “suspance”» (p. 172)… «in ciò su cui si vuole richiamare l'attenzione, non é il sepolcro vuoto; si annuncia la risurrezione, e il sepolcro viene considerato soltanto come segno di questa fede» (p. 173).
Anche qui, su questa stupidità della “nuova esegesi biblica” v’è l’anatema del Vaticano I: «Se qualcuno dirà che la Risurrezione divina non possa essere fatta credibile da segni esterni, e che perciò gli uomini non devono essere mossi dalla fede se non da sola interna esperienza, o privata ispirazione, sia scomunicato!».
 
 
3° PER KASPER NON CI FU “ASCENSIONE” DI CRISTO IN CIELO
 
Per Lui, l’ascensione al cielo di Gesù va interpretata come una narrazione pasquale. Scrive: «Queste nubi che sottraggono Gesù allo sguardo dei discepoli attoniti, non sono un fenomeno metereologico, ma un simbolo teologico» (p. 203); quindi, niente “apparizioni”: «questi racconti vanno interpretati alla luce di quanto essi vogliono esprimere»; dove si parla di un Risorto che viene toccato con le mani e che consuma i pasti coi discepoli, «non vanno presi alla lettera» (p. 192), anche se, «a prima vista, potrebbero sembrare delle affermazioni piuttosto grossolane che rasentano i limiti delle possibilità teologiche e che corrono il pericolo di giustificare una fede pasquale troppo rozza».
Quelle apparizioni, quindi, non sono altro che “visioni” puramente spirituali!
 
4° KASPER AFFOSSA TUTTA LA MARIOLOGIA
 
Nella “nota 69” scrive: dei «difficili problemi teologici-biblici che la tematica del concepimento verginale solleva», per cui la verginità verginale maternità di Maria è «ancora aperta sul piano biblico». Perciò, il cardinale Kasper difende l'eretico Nestorio, il negatore della divina maternità di Maria. Ma Nestorio fu poi bollato dal Concilio di Efeso col titolo di “Giuda redivivo”.
Kasper, oggi scrive: «Oggi, in seguito alle ricerche condotte dalla teologia storica (?) si è propensi alla riabilitazione». Kasper, quindi, attaccando la divina maternità di Maria, lo si può dire un “Giuda moderno!”.
 
 
5° KASPER NEGA L'INFALLIBILITA' DELLA CHIESA
 
Quindi, la Chiesa cattolica non sarebbe più la custode infallibile della Divina Rivelazione. Ma la “cristologia” del Kasper attesta, così, la rovina di una teologia cattolica di «coloro che ripudiano il Magistero e l'autorità della Chiesa» (2).
 
Da quello che abbiamo scritto sul cardinale Walter Kasper, possiamo proprio dire che detto cardinale non ha più la Fede cattolica, e che la Chiesa ha un successore degli Apostoli che ha apostatato dalla nostra Fede cattolica.
Eppure, l’allora card. Joseph Ratzinger, per la nomina a Vescovo di Water Kasper, si congratulava scrivendo: «Per la Chiesa cattolica in Germania, in un periodo turbolento, Lei é un dono prezioso» (3).
Ma Noi, oggi, ci domandiamo se questi “doni preziosi” non siano, invece, dei veri “castighi”!
 
NOTE
1 - Cfr. W. Kasper, Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia, p. 223.
2 - Cfr. Leone XIII, in “Providentissimus” e in “Vigilantiae”.
3 - Cfr. mensile 30 Giorni, maggio 1989.




 
Se qualcuno non si fidasse di Chiesa Viva, ecco le parole del teologo domenicano padre Giovanni Cavalcoli....

Il difetto della cristologia di Kasper riguarda in modo particolare la concezione della Redenzione, nella quale non emerge il tradizionale aspetto espiatorio e riparatore dell’opera di Cristo come soddisfazione vicaria data al Padre per il peccato dell’uomo e quindi per la remissione dei peccati, come dice il Concilio di Trento: “satisfecit pro nobis”.

Questa, che è la più grande opera di misericordia che il Padre ha compiuto nel Figlio e nello Spirito Santo per la salvezza dell’uomo, è invece interpretata da Kasper, con esplicito riferimento ad Hegel, in modo dialettico, ossia come ritorno di Dio a Dio nella sintesi dialettica che si opera sulla base dell’autoalienazione di Dio. Traducendo in termini teologici, la croce di Cristo appare in questa visuale come Dio che nega sé stesso, mentre l’accettazione che il Padre fa del sacrificio di Cristo, si presenta sempre in modo dialettico come la ricongiunzione di Dio Figlio con Dio Padre.

Ora è evidente che in questa visuale non si salva la visione cattolica della misericordia divina, che invece appare non come un mistero di fede, ma come il risultato di un processo dialettico per lo più basato su di una contraddizione tra Dio e Dio che mette in crisi quella che è la semplicità e l’unità della natura divina, nonché l’amore che unisce il Padre al Figlio, anche se il Padre ha chiesto al Figlio di sacrificarsi per la salvezza del mondo.

Dobbiamo allora osservare che la vera misericordia nel senso cristiano non è una semplice solidarietà con i poveri o una compassione per i sofferenti, cosa che si nota anche in altre religioni come per esempio il buddismo. Infatti nel citare le parole di Kasper, il Papa presenta la misericordia come semplice sentimento umano, il che naturalmente non è sbagliato, però non è ancora sufficiente e questo è testimoniato dal fatto che il Pontefice riprende per conto proprio il discorso di Kasper e lo approfondisce in un senso autenticamente cristiano.

Questo significato cristiano della misericordia è legato all’opera della riparazione, che è innanzitutto quella di Cristo, che si offre al Padre al nostro posto non perché noi siamo esentati dal dovere di collaborare a quest’opera riparatrice, ma per il semplice fatto che Cristo, essendo Dio, è solo Lui in grado di compensare adeguatamente il Padre per l’offesa infinita del peccato.

Invece purtroppo nella cristologia di Kasper, mancando il concetto della riparazione, viene compromesso anche il significato autentico della misericordia cristiana, la quale, come insegna San Tommaso, ha condotto il Padre celeste a darci in Cristo la possibilità di riparare ai nostri peccati. Pertanto l’opera della misericordia comporta certamente l’attenzione ai sofferenti e ai bisognosi, ma da un punto di vista cristiano va intesa soprattutto come opera di liberazione dell’uomo dalle tenebre del peccato.

In questa visuale San Tommaso poteva dire che la più grande opera di misericordia è condurre il fratello dalle tenebre dell’errore alla luce della verità, anche se è chiaro che in certe circostanze, nelle quali l’uomo è afflitto dalla fame del cibo materiale, occorre innanzitutto sovvenirlo in questo nell’intento ultimo di soddisfare la sua fame di Dio.





Caterina63
00mercoledì 15 ottobre 2014 23:55

Ecumenismo e matrimonio

 
Card. Kasper, fuori dai cardini

di Padre Giovanni Cavalcoli O.P.

In una recente intervista concessa ad Andrea Tornielli dal Card. Kasper in rapporto all’attuale sinodo dei Vescovi sulla famiglia, il Porporato ha avanzato, seppure in tono interrogativo, la seguente proposta: «la dottrina della Chiesa non è un sistema chiuso: il Concilio Vaticano II insegna che c’è uno sviluppo, nel senso di un approfondimento possibile. Mi chiedo se sia possibile in questo caso” (intende dei divorziati risposati civilmente) “un approfondimento simile a quello avvenuto nell'ecclesiologia: anche se quella cattolica è la vera Chiesa di Cristo, ci sono elementi di ecclesialità anche fuori dai confini istituzionali della Chiesa cattolica. In certi casi, non si potrebbero riconoscere anche in un matrimonio civile degli elementi del matrimonio sacramentale? Per esempio l'impegno definitivo, l’amore e la cura reciproca, la vita cristiana, l’impegno pubblico che non c’è nelle coppie di fatto?”.

Tale proposta mi pare difettosa e quindi inaccettabile per due motivi.

Primo, quando ci sono delle questioni morali o pastorali o giuridiche, non si tratta di “approfondire”, ma di applicare nel modo migliore possibile, ammettendo, se è il caso, delle eccezioni alla norma comune, in nome o di una superiore giustizia, tradizionalmente chiamata dai moralisti “epicheia”, che potrebbe tradursi anche con “equità” - quella che Cristo chiama giustizia “superiore a quella degli scribi e dei farisei” (Mt 5,20) -, per la quale non si dà una violazione della legge morale naturale o divina, ma al contrario una superiore e più prudente applicazione cogliendo lo spirito della legge al di là della lettera. 
Esempio di questa superiore giustizia, strettamente connessa con la carità, è l’atteggiamento di Gesù nei confronti della legge del sabato, che pure era sacra e prescritta da Mosè, ma alla quale Gesù non si perita di soprassedere, in certi casi urgenti che interpellavano la sua carità e la sua compassione per le sofferenze umane.
L’approfondimento riguarda invece la dottrina o il sapere speculativo, come può essere la scienza, il dogma, la teologia, la dottrina della Chiesa, perché qui non si tratta di escogitare una soluzione pratica, come invece è il caso dei divorziati risposati, ma di capire meglio, di far avanzare il sapere, di dedurre nuove conclusioni teoriche. 
Un conto è sapere meglio, un conto agire meglio. Nel campo del sapere occorre andare al “fondamento”, da cui l’espressione “approfondire”; nel campo dell’azione bisogna invece, grazie all’applicazione di un’idea pratica conforme alla legge, si tratta di realizzare meglio, magari in modi eccezionali o straordinari, l’obbiettivo o fine proposto dalla legge.

Per questo, il richiamo del Cardinale al Concilio è fuori luogo. È vero che il Concilio approfondisce, chiarisce e spiega taluni aspetti dell’ecclesiologia o del rapporto dei cattolici con i non-cattolici, per cui è vero che esso insegna che al di fuori dei confini visibili della Chiesa Cattolica e quindi anche in formazioni cristiane non-cattoliche, esistono elementi di cristianesimo che noi cattolici abbiamo in comune con loro, per cui è vero che questi fratelli separati, nella misura in cui vivono questi valori che abbiamo con loro in comune, partecipano della pienezza della verità e della santità che si trova soltanto nella Chiesa Cattolica, e anzi, se sono in buona fede, appartengono già senz’altro, benchè senza saperlo, alla medesima Chiesa Cattolica, per cui possono salvarsi, dato che al di fuori di essa non c’è salvezza.

La messa in luce consapevole, metodica e concordata con i fratelli non-cattolici dei comuni valori di fede che tuttora sono restati o che essi hanno recuperato, nonostante il loro passato distacco e la loro attuale separazione dal cattolicesimo, è il compito primario dell’ecumenismo promosso dal Concilio, il quale peraltro, nel famoso documento Unitatis redintegratio, si premura di indicare, seppure sommariamente e non in modo completo, i principali punti dogmatici o di fede che noi cattolici abbiamo in comune con loro. In ciò, trattandosi di dottrine, certamente il Concilio ci dà un insegnamento sicuro.

Diversa e minore autorità hanno invece le disposizioni o direttive della Chiesa sia conciliare che postconciliare circa l’attuazione pratica dell’ecumenismo e in particolare la condotta che i  cattolici devono tenere nei confronti dei fratelli separati. Qui il Magistero non è garantito dall’infallibilità, come invece lo è nel campo dottrinale, per cui non è escluso che nel corso delle attività ecumeniche, la Chiesa emani norme o direttive meno prudenti o addirittura errate, che quindi occorre o modificare o completare o abrogare o correggere.
In secondo luogo, il paragone fatto da Kasper tra il sacramento del matrimonio e l’ecclesiologia del Concilio non tiene. Infatti, se sono possibili diversi gradi di appartenenza alla Chiesa, non ha senso parlare di gradi d’attuazione dell’essenza di un sacramento, come si esprime Kasper, quando parla di “elementi del matrimonio sacramentale”, che potrebbero trovarsi nel matrimonio civile, accessibile quindi anche alle coppie di fatto. Infatti, gradi di partecipazione si possono avere solo rispetto a un tutto, del quale si possa avere una parte più o meno grande.

La Chiesa potrà semmai, nella sua materna prudenza e amorevole attenzione ai casi umani più diversi e difficili, studiare una forma di riconoscimento, se non canonico, almeno pastorale, di queste coppie al fine di aiutarle convenientemente nel loro cammino di fede.

Ora, il sacramento, per sua essenza, così come l’ha voluto Cristo, risulta sì da un insieme di fattori (materia, forma, soggetto e ministro), ma essi costituiscono un insieme indivisibile, per cui o ci sono tutti, oppure basta che ne manchi uno e il sacramento non c’è o è invalido.

Un sacramento può essere ricevuto o amministrato più o meno bene, lecitamente o illecitamente, in circostanze più meno favorevoli o fruttuose - pensiamo per esempio alla differenza tra matrimoni ordinari e matrimoni misti -; ma il sacramento in se stesso è sempre quello, ha una sua precisa immutabile e immodificabile identità, senza alcuna possibilità di abbuono o di sconto di qualche elemento essenziale, senza che venga meno il sacramento stesso.

Gli aspetti del matrimonio esemplificati da Kasper sono indubbiamente reali, ma non servono affatto a dimostrare la sua tesi, perchè essi, per quanto almeno implicitamente, concorrono a formare il sacramento, per cui, mancando certi altri elementi essenziali, non hanno in ultima analisi nulla a che vedere col sacramento, che, come ho detto, non si può assumere né amministrare in parte, ma solo nella sua essenziale interezza, risultante appunto da tutti gli elementi essenziali, così come, per costituire la natura umana, non basta un’anima qualunque, ma occorre un’anima spirituale che dia forma a un corpo materiale.

Diverso invece è il caso della Chiesa, la quale è una realtà sociale molto complessa, fatta di un insieme di valori dottrinali e morali, materiali e spirituali, naturali e soprannaturali, tra di loro distinti e di per sé disgiungibili, nonchè di componenti umane individuali e collettive - i fedeli sotto la guida dei pastori -, i quali, benchè tutti concorrenti alla costituzione del tutto, possono essere entro certi limiti separabili tra di loro, in modo tale che alcuni possono essere presenti ed altri mancare, senza che per questo venga a mancare totalmente l’essenza della Chiesa, sicchè possono esistere diversi gradi di essere Chiesa e di appartenenza e di comunione ecclesiale, da un massimo, che è quello del cattolico, ai gradi inferiori decrescenti sino all’infimo, al di sotto del quale non c’è più Chiesa, ma semmai una qualunque società umana.

Né dunque il matrimonio civile, né le convivenze di fatto possono assolutamente assumere o essere rivestite da una “parte” del sacramento, cosa che, come si è detto, non ha senso. Ciò che invece è possibile, come è ben noto, in linea di principio, è abbinare matrimonio civile e matrimonio religioso in una medesima coppia, ciò che già si fa in molti casi.

Quanto invece alle convivenze di soggetti legati a un precedente matrimonio cristiano o di divorziati risposati, è cosa saggia attendere le proposte del sinodo e la decisione finale del Santo Padre.
Da buoni cattolici, come abbiamo accettato finora la normativa vigente, così siamo pronti ad accettare con uguale obbedienza eventuali modifiche, senza le vane preoccupazioni dei conservatori o la faciloneria irresponsabile dei modernisti, entrambi propensi a credere - i primi, angosciati, i secondi, esultanti - che la Chiesa abbandonerà la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, forse in base a uno sconsiderato perdonismo a 360°, che non sarebbe altro che una presa in giro della dignità dell’uomo e della donna e della bontà divina.




Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 05:37.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com