Magistero Benedetto XVI Giovedì Santo

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Caterina63
00venerdì 12 aprile 2019 13:42

SANTA MESSA DEL CRISMA NELLA BASILICA VATICANA


OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI


Giovedì Santo, 13 aprile 2006


 


Cari fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,

Il Giovedì Santo è il giorno in cui il Signore diede ai Dodici il compito sacerdotale di celebrare, nel pane e nel vino, il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue fino al suo ritorno. Al posto dell'agnello pasquale e di tutti i sacrifici dell'Antica Alleanza subentra il dono del suo Corpo e del suo Sangue, il dono di se stesso. Così il nuovo culto si fonda nel fatto che, prima di tutto, Dio fa un dono a noi, e noi, colmati da questo dono, diventiamo suoi: la creazione torna al Creatore. Così anche il sacerdozio è diventato una cosa nuova: non è più questione di discendenza, ma è un trovarsi nel mistero di Gesù Cristo. Egli è sempre Colui che dona e ci attira in alto verso di sé. Soltanto Lui può dire: "Questo è il mio Corpo – questo è il mio Sangue". Il mistero del sacerdozio della Chiesa sta nel fatto che noi, miseri esseri umani, in virtù del Sacramento possiamo parlare con il suo Io: in persona Christi. Egli vuole esercitare il suosacerdozio per nostro tramite. Questo mistero commovente, che in ogni celebrazione del Sacramento ci tocca di nuovo, noi lo ricordiamo in modo particolare nel Giovedì Santo. Perché il quotidiano non sciupi ciò che è grande e misterioso, abbiamo bisogno di un simile ricordo specifico, abbiamo bisogno del ritorno a quell'ora in cui Egli ha posto le sue mani su di noi e ci ha fatti partecipi di questo mistero.

Riflettiamo perciò nuovamente sui segni nei quali il Sacramento ci è stato donato. Al centro c'è il gesto antichissimo dell'imposizione delle mani, col quale Egli ha preso possesso di me dicendomi: "Tu mi appartieni". Ma con ciò ha anche detto: "Tu stai sotto la protezione delle mie mani. Tu stai sotto la protezione del mio cuore. Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue".

Ricordiamo poi che le nostre mani sono state unte con l'olio che è il segno dello Spirito Santo e della sua forza. Perché proprio le mani? La mano dell'uomo è lo strumento del suo agire, è il simbolo della sua capacità di affrontare il mondo, appunto di "prenderlo in mano". Il Signore ci ha imposto le mani e vuole ora le nostre mani affinché, nel mondo, diventino le sue. Vuole che non siano più strumenti per prendere le cose, gli uomini, il mondo per noi, per ridurlo in nostro possesso, ma che invece trasmettano il suo tocco divino, ponendosi a servizio del suo amore. Vuole che siano strumenti del servire e quindi espressione della missione dell'intera persona che si fa garante di Lui e lo porta agli uomini. Se le mani dell'uomo rappresentano simbolicamente le sue facoltà e, generalmente, la tecnica come potere di disporre del mondo, allora le mani unte devono essere un segno della sua capacità di donare, della creatività nel plasmare il mondo con l'amore – e per questo, senz'altro, abbiamo bisogno dello Spirito Santo. Nell'Antico Testamento l'unzione è segno dell'assunzione in servizio: il re, il profeta, il sacerdote fa e dona più di quello che deriva da lui stesso. In un certo qual modo è espropriato di sé in funzione di un servizio, nel quale si mette a disposizione di uno più grande di lui. Se Gesù si presenta oggi nel Vangelo come l'Unto di Dio, il Cristo, allora questo vuol proprio dire che Egli agisce per missione del Padre e nell'unità con lo Spirito Santo e che, in questo modo, dona al mondo una nuova regalità, un nuovo sacerdozio, un nuovo modo d'essere profeta, che non cerca se stesso, ma vive per Colui, in vista del quale il mondo è stato creato. Mettiamo le nostre mani oggi nuovamente a sua disposizione e preghiamolo di prenderci sempre di nuovo per mano e di guidarci.

Nel gesto sacramentale dell'imposizione delle mani da parte del Vescovo è stato il Signore stesso ad imporci le mani. Questo segno sacramentale riassume un intero percorso esistenziale. Una volta, come i primi discepoli, abbiamo incontrato il Signore e sentito la sua parola: "Seguimi!" Forse inizialmente lo abbiamo seguito in modo un po' malsicuro, volgendoci indietro e chiedendoci se la strada fosse veramente la nostra. E in qualche punto del cammino abbiamo forse fatto l'esperienza di Pietro dopo la pesca miracolosa, siamo cioè rimasti spaventati per la sua grandezza, la grandezza del compito e per l'insufficienza della nostra povera persona, così da volerci tirare indietro: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore!" (Lc 5, 8) Ma poi Egli, con grande bontà, ci ha preso per mano, ci ha tratti a sé e ci ha detto: "Non temere! Io sono con te. Non ti lascio, tu non lasciare me!" E più di una volta ad ognuno di noi è forse accaduta la stessa cosa che a Pietro quando, camminando sulle acque incontro al Signore, improvvisamente si è accorto che l'acqua non lo sosteneva e che stava per affondare. E come Pietro abbiamo gridato: "Signore, salvami!" (Mt, 14, 30). Vedendo tutto l'infuriare degli elementi, come potevamo passare le acque rumoreggianti e spumeggianti del secolo scorso e dello scorso millennio? Ma allora abbiamo guardato verso di Lui … ed Egli ci ha afferrati per la mano e ci ha dato un nuovo "peso specifico": la leggerezza che deriva dalla fede e che ci attrae verso l'alto. E poi ci dà la mano che sostiene e porta. Egli ci sostiene. Fissiamo sempre di nuovo il nostro sguardo su di Lui e stendiamo le mani verso di Lui. Lasciamo che la sua mano ci prenda, e allora non affonderemo, ma serviremo la vita che è più forte della morte, e l'amore che è più forte dell'odio. La fede in Gesù, Figlio del Dio vivente, è il mezzo grazie al quale sempre di nuovo afferriamo la mano di Gesù e mediante il quale Egli prende le nostre mani e ci guida. Una mia preghiera preferita è la domanda che la liturgia ci mette sulle labbra prima della Comunione: "…non permettere che sia mai separato da te". Chiediamo di non cadere mai fuori della comunione col suo Corpo, con Cristo stesso, di non cadere mai fuori del mistero eucaristico. Chiediamo che Egli non lasci mai la nostra mano…

Il Signore ha posto la sua mano su di noi. Il significato di tale gesto lo ha espresso nelle parole: "Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi" (Gv 15, 15). Non vi chiamo più servi, ma amici: in queste parole si potrebbe addirittura vedere l'istituzione del sacerdozio. Il Signore ci rende suoi amici: ci affida tutto; ci affida se stesso, così che possiamo parlare con il suo Io – in persona Christi capitis. Che fiducia! Egli si è davvero consegnato nelle nostre mani. I segni essenziali dell'Ordinazione sacerdotale sono in fondo tutti manifestazioni di quella parola: l'imposizione delle mani; la consegna del libro – della sua parola che Egli affida a noi; la consegna del calice col quale ci trasmette il suo mistero più profondo e personale. Di tutto ciò fa parte anche il potere di assolvere: Ci fa partecipare anche alla sua consapevolezza riguardo alla miseria del peccato e a tutta l'oscurità del mondo e ci dà la chiave nelle mani per riaprire la porta verso la casa del Padre. Non vi chiamo più servi ma amici. È questo il significato profondo dell'essere sacerdote: diventare amico di Gesù Cristo. Per questa amicizia dobbiamo impegnarci ogni giorno di nuovo. Amicizia significa comunanza nel pensare e nel volere. In questa comunione di pensiero con Gesù dobbiamo esercitarci, ci dice san Paolo nella Lettera ai Filippesi (cfr 2, 2-5). E questa comunione di pensiero non è una cosa solamente intellettuale, ma è comunanza dei sentimenti e del volere e quindi anche dell'agire. Ciò significa che dobbiamo conoscere Gesù in modo sempre più personale, ascoltandolo, vivendo insieme con Lui, trattenendoci presso di Lui. Ascoltarlo – nella lectio divina, cioè leggendo la Sacra Scrittura in un modo non accademico, ma spirituale; così impariamo ad incontrare il Gesù presente che ci parla. Dobbiamo ragionare e riflettere sulle sue parole e sul suo agire davanti a Lui e con Lui. La lettura della Sacra Scrittura è preghiera, deve essere preghiera – deve emergere dalla preghiera e condurre alla preghiera. Gli evangelisti ci dicono che il Signore ripetutamente – per notti intere – si ritirava "sul monte" per pregare da solo. Di questo "monte" abbiamo bisogno anche noi: è l'altura interiore che dobbiamo scalare, il monte della preghiera. Solo così si sviluppa l'amicizia. Solo così possiamo svolgere il nostro servizio sacerdotale, solo così possiamo portare Cristo e il suo Vangelo agli uomini. Il semplice attivismo può essere persino eroico. Ma l'agire esterno, in fin dei conti, resta senza frutto e perde efficacia, se non nasce dalla profonda intima comunione con Cristo. Il tempo che impegniamo per questo è davvero tempo di attività pastorale, di un'attività autenticamente pastorale. Il sacerdote deve essere soprattutto un uomo di preghiera. Il mondo nel suo attivismo frenetico perde spesso l'orientamento. Il suo agire e le sue capacità diventano distruttive, se vengono meno le forze della preghiera, dalle quali scaturiscono le acque della vita capaci di fecondare la terra arida.

Non vi chiamo più servi, ma amici. Il nucleo del sacerdozio è l'essere amici di Gesù Cristo. Solo così possiamo parlare veramente in persona Christi, anche se la nostra interiore lontananza da Cristo non può compromettere la validità del Sacramento. Essere amico di Gesù, essere sacerdote significa essere uomo di preghiera. Così lo riconosciamo e usciamo dall'ignoranza dei semplici servi. Così impariamo a vivere, a soffrire e ad agire con Lui e per Lui. L'amicizia con Gesù è per antonomasia sempre amicizia con i suoi. Possiamo essere amici di Gesù soltanto nella comunione con il Cristo intero, con il capo e il corpo; nella vite rigogliosa della Chiesa animata dal suo Signore. Solo in essa la Sacra Scrittura è, grazie al Signore, Parola viva ed attuale. Senza il vivente soggetto della Chiesa che abbraccia le età, la Bibbia si frantuma in scritti spesso eterogenei e diventa così un libro del passato. Essa è eloquente nel presente soltanto là dove c'è la "Presenza" – là dove Cristo resta in permanenza contemporaneo a noi: nel corpo della sua Chiesa.

Essere sacerdote significa diventare amico di Gesù Cristo, e questo sempre di più con tutta la nostra esistenza. Il mondo ha bisogno di Dio – non di un qualsiasi dio, ma del Dio di Gesù Cristo, del Dio che si è fatto carne e sangue, che ci ha amati fino a morire per noi, che è risorto e ha creato in se stesso uno spazio per l'uomo. Questo Dio deve vivere in noi e noi in Lui. È questa la nostra chiamata sacerdotale: solo così il nostro agire da sacerdoti può portare frutti. Vorrei concludere questa omelia con una parola di Andrea Santoro, di quel sacerdote della Diocesi di Roma che è stato assassinato a Trebisonda mentre pregava; il Cardinale Cè l'ha comunicata a noi durante gli Esercizi spirituali. La parola dice: "Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo prestandogli la mia carne… Si diventa capaci di salvezza solo offrendo la propria carne. Il male del mondo va portato e il dolore va condiviso, assorbendolo nella propria carne fino in fondo come ha fatto Gesù". Gesù ha assunto la nostra carne. Diamogli noi la nostra, in questo modo Egli può venire nel mondo e trasformarlo. Amen!

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SANTA MESSA DEL CRISMA

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 5 aprile 2007

 

Cari fratelli e sorelle,

lo scrittore russo Leone Tolstoi narra in un piccolo racconto di un sovrano severo che chiese ai suoi sacerdoti e sapienti di mostrargli Dio affinché egli potesse vederlo. I sapienti non furono in grado di appagare questo suo desiderio. Allora un pastore, che stava giusto tornando dai campi, si offrì di assumere il compito dei sacerdoti e dei sapienti. Il re apprese da lui che i suoi occhi non erano sufficienti per vedere Dio. Allora, però, egli volle almeno sapere che cosa Dio faceva. "Per poter rispondere a questa tua domanda – disse il pastore al sovrano – dobbiamo scambiare i vestiti". Con esitazione, spinto tuttavia dalla curiosità per l’informazione attesa, il sovrano acconsentì; consegnò i suoi vestiti regali al pastore e si fece rivestire del semplice abito dell’uomo povero. Ed ecco allora arrivare la risposta: "Questo è ciò che Dio fa". Di fatto, il Figlio di Dio – Dio vero da Dio vero – ha lasciato il suo splendore divino: "…spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso … fino alla morte di croce" (cfr Fil 2,6ss). Dio ha – come dicono i Padri – compiuto il sacrum commercium, il sacro scambio: ha assunto ciò che era nostro, affinché noi potessimo ricevere ciò che era suo, divenire simili a Dio.

San Paolo, per quanto accade nel Battesimo, usa esplicitamente l’immagine del vestito: "Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo" (Gal 3,27). Ecco ciò che si compie nel Battesimo: noi ci rivestiamo di Cristo, Egli ci dona i suoi vestiti e questi non sono una cosa esterna. Significa che entriamo in una comunione esistenziale con Lui, che il suo e il nostro essere confluiscono, si compenetrano a vicenda. "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" – così Paolo stesso nella Lettera ai Galati (2,2) descrive l’avvenimento del suo battesimo. Cristo ha indossato i nostri vestiti: il dolore e la gioia dell’essere uomo, la fame, la sete, la stanchezza, le speranze e le delusioni, la paura della morte, tutte le nostre angustie fino alla morte. E ha dato a noi i suoi "vestiti". Ciò che nella Lettera ai Galati espone come semplice "fatto" del battesimo – il dono del nuovo essere – Paolo ce lo presenta nella Lettera agli Efesini come un compito permanente: "Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima! … [Dovete] rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira, non peccate…" (Ef 4,22-26).

Questa teologia del Battesimo ritorna in modo nuovo e con una nuova insistenza nell’Ordinazione sacerdotale. Come nel Battesimo viene donato uno "scambio dei vestiti", uno scambio del destino, una nuova comunione esistenziale con Cristo, così anche nel sacerdozio si ha uno scambio: nell’amministrazione dei Sacramenti, il sacerdote agisce e parla ora "in persona Christi". Nei sacri misteri egli non rappresenta se stesso e non parla esprimendo se stesso, ma parla per l’Altro – per Cristo. Così nei Sacramenti si rende visibile in modo drammatico ciò che l’essere sacerdote significa in generale; ciò che abbiamo espresso con il nostro "Adsum – sono pronto" durante la consacrazione sacerdotale: io sono qui perché tu possa disporre di me. Ci mettiamo a disposizione di Colui "che è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi…" (2Cor 5,15). Metterci a disposizione di Cristo significa che ci lasciamo attirare dentro il suo "per tutti": essendo con Lui possiamo esserci davvero "per tutti".

In persona Christi – nel momento dell’Ordinazione sacerdotale, la Chiesa ci ha reso visibile ed afferrabile questa realtà dei "vestiti nuovi" anche esternamente mediante l’essere stati rivestiti con i paramenti liturgici. In questo gesto esterno essa vuole renderci evidente l’evento interiore e il compito che da esso ci viene: rivestire Cristo; donarsi a Lui come Egli si è donato a noi. Questo evento, il "rivestirsi di Cristo", viene rappresentato sempre di nuovo in ogni Santa Messa mediante il rivestirci dei paramenti liturgici. Indossarli deve essere per noi più di un fatto esterno: è l’entrare sempre di nuovo nel "sì" del nostro incarico – in quel "non più io" del battesimo che l’Ordinazione sacerdotale ci dona in modo nuovo e al contempo ci chiede. Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo lì "in persona di un Altro". Gli indumenti sacerdotali, così come nel corso del tempo si sono sviluppati, sono una profonda espressione simbolica di ciò che il sacerdozio significa. Vorrei pertanto, cari confratelli, spiegare in questo Giovedì Santo l'essenza del ministero sacerdotale interpretando i paramenti liturgici che, appunto, da parte loro vogliono illustrare che cosa significhi "rivestirsi di Cristo", parlare ed agire in persona Christi.

L’indossare le vesti sacerdotali era una volta accompagnato da preghiere che ci aiutano a capire meglio i singoli elementi del ministero sacerdotale. Cominciamo con l’amitto. In passato – e negli ordini monastici ancora oggi – esso veniva posto prima sulla testa, come una specie di cappuccio, diventando così un simbolo della disciplina dei sensi e del pensiero necessaria per una giusta celebrazione della Santa Messa. I pensieri non devono vagare qua e là dietro le preoccupazioni e le attese del mio quotidiano; i sensi non devono essere attirati da ciò che lì, all’interno della chiesa, casualmente vorrebbe sequestrare gli occhi e gli orecchi. Il mio cuore deve docilmente aprirsi alla parola di Dio ed essere raccolto nella preghiera della Chiesa, affinché il mio pensiero riceva il suo orientamento dalle parole dell’annuncio e della preghiera. E lo sguardo del mio cuore deve essere rivolto verso il Signore che è in mezzo a noi: ecco cosa significa ars celebrandi – il giusto modo del celebrare. Se io sono col Signore, allora con il mio ascoltare, parlare ed agire attiro anche la gente dentro la comunione con Lui.

I testi della preghiera che interpretano il camice e la stola vanno ambedue nella stessa direzione. Evocano il vestito festivo che il padre donò al figlio prodigo tornato a casa cencioso e sporco. Quando ci accostiamo alla liturgia per agire nella persona di Cristo ci accorgiamo tutti quanto siamo lontani da Lui; quanta sporcizia esiste nella nostra vita. Egli solo può donarci il vestito festivo, renderci degni di presiedere alla sua mensa, di stare al suo servizio. Così le preghiere ricordano anche la parola dell’Apocalissesecondo cui i vestiti dei 144.000 eletti non per merito loro erano degni di Dio. L’Apocalisse commenta che essi avevano lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello e che in questo modo esse erano diventate candide come la luce (cfr Ap 7,14). Già da piccolo mi sono chiesto: Ma quando si lava una cosa nel sangue, non diventa certo bianca! La risposta è: il "sangue dell’Agnello" è l’amore del Cristo crocifisso. È questo amore che rende candide le nostre vesti sporche; che rende verace ed illuminato il nostro spirito oscurato; che, nonostante tutte le nostre tenebre, trasforma noi stessi in "luce nel Signore". Indossando il camice dovremmo ricordarci: Egli ha sofferto anche per me. E soltanto perché il suo amore è più grande di tutti i miei peccati, posso rappresentarlo ed essere testimone della sua luce.

Ma con il vestito di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo e, in modo nuovo, nell’Ordinazione sacerdotale, possiamo pensare anche al vestito nuziale, di cui Egli ci parla nella parabola del banchetto di Dio. Nelle omelie di san Gregorio Magno ho trovato a questo riguardo una riflessione degna di nota. Gregorio distingue tra la versione di Luca della parabola e quella di Matteo. Egli è convinto che la parabola lucana parli del banchetto nuziale escatologico, mentre – secondo lui – la versione tramandata da Matteo tratterebbe dall’anticipazione di questo banchetto nuziale nella liturgia e nella vita della Chiesa. In Matteo – e solo in Matteo – infatti il re viene nella sala affollata per vedere i suoi ospiti. Ed ecco che in questa moltitudine trova anche un ospite senza abito nuziale, che viene poi buttato fuori nelle tenebre. Allora Gregorio si domanda: "Ma che specie di abito è quello che gli mancava? Tutti coloro che sono riuniti nella Chiesa hanno ricevuto l’abito nuovo del battesimo e della fede; altrimenti non sarebbero nella Chiesa. Che cosa, dunque, manca ancora? Quale abito nuziale deve ancora essere aggiunto?" Il Papa risponde: "Il vestito dell’amore". E purtroppo, tra i suoi ospiti ai quali aveva donato l’abito nuovo, la veste candida della rinascita, il re trova alcuni che non portano il vestito color porpora del duplice amore verso Dio e verso il prossimo. "In quale condizione vogliamo accostarci alla festa del cielo, se non indossiamo l’abito nuziale – cioè l’amore, che solo può renderci belli?", domanda il Papa. Una persona senza l’amore è buia dentro. Le tenebre esterne, di cui parla il Vangelo, sono solo il riflesso della cecità interna del cuore (cfr Hom. 38, 8-13).

Ora che ci apprestiamo alla celebrazione della Santa Messa, dovremmo domandarci se portiamo questo abito dell’amore. Chiediamo al Signore di allontanare ogni ostilità dal nostro intimo, di toglierci ogni senso di autosufficienza e di rivestirci veramente con la veste dell’amore, affinché siamo persone luminose e non appartenenti alle tenebre.

Infine ancora una breve parola riguardo alla casula. La preghiera tradizionale quando si riveste la casula vede rappresentato in essa il giogo del Signore che a noi come sacerdoti è stato imposto. E ricorda la parola di Gesù che ci invita a portare il suo giogo e a imparare da Lui, che è "mite e umile di cuore" (Mt 11,29). Portare il giogo del Signore significa innanzitutto: imparare da Lui. Essere sempre disposti ad andare a scuola da Lui. Da Lui dobbiamo imparare la mitezza e l’umiltà – l’umiltà di Dio che si mostra nel suo essere uomo. San Gregorio Nazianzeno una volta si è chiesto perché Dio abbia voluto farsi uomo. La parte più importante e per me più toccante della sua risposta è: "Dio voleva rendersi conto di che cosa significa per noi l’obbedienza e voleva misurare il tutto in base alla propria sofferenza, questa invenzione del suo amore per noi. In questo modo, Egli può conoscere direttamente su se stesso ciò che noi sperimentiamo – quanto è richiesto da noi, quanta indulgenza meritiamo – calcolando in base alla sua sofferenza la nostra debolezza" (Discorso 30; Disc. teol. IV,6). A volte vorremmo dire a Gesù: Signore, il tuo giogo non è per niente leggero. È anzi tremendamente pesante in questo mondo. Ma guardando poi a Lui che ha portato tutto – che su di sé ha provato l’obbedienza, la debolezza, il dolore, tutto il buio, allora questi nostri lamenti si spengono. Il suo giogo è quello di amare con Lui. E più amiamo Lui, e con Lui diventiamo persone che amano, più leggero diventa per noi il suo giogo apparentemente pesante.

Preghiamolo di aiutarci a diventare insieme con Lui persone che amano, per sperimentare così sempre di più quanto è bello portare il suo giogo. Amen.






Caterina63
00venerdì 12 aprile 2019 13:46

SANTA MESSA DEL CRISMA


OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI


Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 20 marzo 2008

 

Cari fratelli e sorelle,

ogni anno la Messa del Crisma ci esorta a rientrare in quel „sì” alla chiamata di Dio, che abbiamo pronunciato nel giorno della nostra Ordinazione sacerdotale. “Adsum – eccomi!”, abbiamo detto come Isaia, quando sentì la voce di Dio che domandava: “Chi manderò e chi andrà per noi?” “Eccomi, manda me!”, rispose Isaia (Is 6, 8). Poi il Signore stesso, mediante le mani del Vescovo, ci impose le mani e noi ci siamo donati alla sua missione. Successivamente abbiamo percorso parecchie vie nell’ambito della sua chiamata. Possiamo noi sempre affermare ciò che Paolo, dopo anni di un servizio al Vangelo spesso faticoso e segnato da sofferenze di ogni genere, scrisse ai Corinzi: “Il nostro zelo non vien meno in quel ministero che, per la misericordia di Dio, ci è stato affidato” (cfr 2 Cor 4, 1)? “Il nostro zelo non vien meno”. Preghiamo in questo giorno, affinché esso venga sempre riacceso, affinché venga sempre nuovamente nutrito dalla fiamma viva del Vangelo.

Allo stesso tempo, il Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa è questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel Libro del Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio veterotestamentario: astare coram te et tibi ministrare. Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo “stare davanti al Signore”. Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era “stare davanti al Signore” – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della quaresima è descritto con l’imperativo: arctius perstemus in custodia – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come “coloro che stanno in piedi”; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza. Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale e come giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (5, 41).

Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento – “stare davanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione della  parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi. Così la parola “servire” comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del vivere rettamente. Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida.

Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo sta sotto la parola: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22, 42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini, diventa ancora più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: “Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio.

“Stare davanti a Lui e servirLo”: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera “elevazione” dell’uomo. “Stare davanti a Lui e servirLo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro “sì” alla sua chiamata: “Eccomi. Manda me, Signore” (Is 6, 8). Amen.

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SANTA MESSA DEL CRISMA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 
9 aprile 2009

 

Cari fratelli e sorelle,

Nel Cenacolo, la sera prima della sua passione, il Signore ha pregato per i suoi discepoli riuniti intorno a Lui, guardando al contempo in avanti alla comunità dei discepoli di tutti i secoli, a “quelli che crederanno in me mediante la loro parola” (Gv 17, 20). Nella preghiera per i discepoli di tutti i tempi Egli ha visto anche noi e ha pregato per noi. Ascoltiamo, che cosa chiede per i Dodici e per noi qui riuniti: “Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (17, 17ss). Il Signore chiede la nostra santificazione, la nostra consacrazione nella verità. E ci manda per continuare la sua stessa missione. Ma c’è in questa preghiera una parola che attira la nostra attenzione, ci sembra poco comprensibile. Gesù dice: “Per loro io consacro me stesso”. Che cosa significa? Gesù non è forse di per sé “il Santo di Dio”, come Pietro ha confessato nell’ora decisiva a Cafarnao (cfr Gv 6, 69)? Come può ora consacrare, santificare se stesso?

Per comprendere questo dobbiamo soprattutto chiarire che cosa vogliono dire nella Bibbia le parole “santo” e “santificare/consacrare”. “Santo” – con questa parola si descrive innanzitutto la natura di Dio stesso, il suo modo d’essere tutto particolare, divino, che a Lui solo è proprio. Egli solo è il vero e autentico Santo nel senso originario. Ogni altra santità deriva da Lui, è partecipazione al suo modo d’essere. Egli è la Luce purissima, la Verità e il Bene senza macchia. Consacrare qualcosa o qualcuno significa quindi dare la cosa o la persona in proprietà a Dio, toglierla dall’ambito di ciò che è nostro e immetterla nell’atmosfera sua, così che non appartenga più alle cose nostre, ma sia totalmente di Dio. Consacrazione è dunque un togliere dal mondo e un consegnare al Dio vivente. La cosa o la persona non appartiene più a noi, e neppure più a se stessa, ma viene immersa in Dio. Un tale privarsi di una cosa per consegnarla a Dio, lo chiamiamo poi anche sacrificio: questo non sarà più proprietà mia, ma proprietà di Lui. Nell’Antico Testamento, la consegna di una persona a Dio, cioè la sua “santificazione” si identifica con l’Ordinazione sacerdotale, e in questo modo si definisce anche in che cosa consista il sacerdozio: è un passaggio di proprietà, un essere tolto dal mondo e donato a Dio. Con ciò si evidenziano ora le due direzioni che fanno parte del processo della santificazione/consacrazione. È un uscire dai contesti della vita del mondo – un “essere messi da parte” per Dio. Ma proprio per questo non è una segregazione. Essere consegnati a Dio significa piuttosto essere posti a rappresentare gli altri. Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e donato a Dio, e proprio così, a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti. Quando Gesù dice: “Io mi consacro”, Egli si fa insieme sacerdote e vittima. Pertanto Bultmann ha ragione traducendo l’affermazione: “Io mi consacro” con “Io mi sacrifico”. Comprendiamo ora che cosa avviene, quando Gesù dice: “Io mi consacro per loro”? È questo l’atto sacerdotale in cui Gesù – l’Uomo Gesù, che è una cosa sola col Figlio di Dio – si consegna al Padre per noi. È l’espressione del fatto che Egli è insieme sacerdote e vittima. Mi consacro – mi sacrifico: questa parola abissale, che ci lascia gettare uno sguardo nell’intimo del cuore di Gesù Cristo, dovrebbe sempre di nuovo essere oggetto della nostra riflessione. In essa è racchiuso tutto il mistero della nostra redenzione. E vi è contenuta anche l’origine del sacerdozio della Chiesa, del nostro sacerdozio.

Solo adesso possiamo comprendere fino in fondo la preghiera, che il Signore ha presentato al Padre per i discepoli – per noi. “Consacrali nella verità”: è questo l’inserimento degli apostoli nel sacerdozio di Gesù Cristo, l’istituzione del suo sacerdozio nuovo per la comunità dei fedeli di tutti i tempi. “Consacrali nella verità”: è questa la vera preghiera di consacrazione per gli apostoli. Il Signore chiede che Dio stesso li attragga verso di sé, dentro la sua santità. Chiede che Egli li sottragga a se stessi e li prenda come sua proprietà, affinché, a partire da Lui, essi possano svolgere il servizio sacerdotale per il mondo. Questa preghiera di Gesù appare due volte in forma leggermente modificata. Dobbiamo ambedue le volte ascoltare con molta attenzione, per cominciare a capire almeno vagamente la cosa sublime che qui sta verificandosi. “Consacrali nella verità”. Gesù aggiunge: “La tua parola è verità”. I discepoli vengono quindi tirati nell’intimo di Dio mediante l’essere immersi nella parola di Dio. La parola di Dio è, per così dire, il lavacro che li purifica, il potere creatore che li trasforma nell’essere di Dio. E allora, come stanno le cose nella nostra vita? Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto non lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa parola al punto che essa realmente dà un’impronta alla nostra vita e forma il nostro pensiero? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa? Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo? Non rimaniamo forse, in fin dei conti, nella superficialità di tutto ciò che, di solito, s’impone all’uomo di oggi? Ci lasciamo veramente purificare nel nostro intimo dalla parola di Dio? Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo. Orbene, esistono caricature di un’umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare. Ma esiste anche la superbia distruttiva e la presunzione, che disgrègano ogni comunità e finiscono nella violenza. Sappiamo noi imparare da Cristo la retta umiltà, che corrisponde alla verità del nostro essere, e quell’obbedienza, che si sottomette alla verità, alla volontà di Dio? “Consacrali nella verità; la tua parola è verità”: questa parola dell’inserimento nel sacerdozio illumina la nostra vita e ci chiama a diventare sempre di nuovo discepoli di quella verità, che si dischiude nella parola di Dio.

Nell’interpretazione di questa frase possiamo fare ancora un passo ulteriore. Non ha forse Cristo detto di se stesso: “Io sono la verità” (cfr Gv 14, 6)? E non è forse Egli stesso la Parola vivente di Dio, alla quale si riferiscono tutte le altre singole parole? Consacrali nella verità – ciò vuol dire, dunque, nel più profondo: rendili una cosa sola con me, Cristo. Lègali a me. Tìrali dentro di me. E di fatto: esiste in ultima analisi solo un unico sacerdote della Nuova Alleanza, lo stesso Gesù Cristo. E il sacerdozio dei discepoli, pertanto, può essere solo partecipazione al sacerdozio di Gesù. Il nostro essere sacerdoti non è quindi altro che un nuovoe radicale modo di unificazione con Cristo. Sostanzialmente essa ci è stata donata per sempre nel Sacramento. Ma questo nuovo sigillo dell’essere può diventare per noi un giudizio di condanna, se la nostra vita non si sviluppa entrando nella verità del Sacramento. Le promesse che oggi rinnoviamo dicono a questo proposito che la nostra volontà deve essere così orientata: “Domino Iesu arctius coniungi et conformari, vobismetipsis abrenuntiantes”. L’unirsi a Cristo suppone la rinuncia. Comporta che non vogliamo imporre la nostra strada e la nostra volontà; che non desideriamo diventare questo o quest’altro, ma ci abbandoniamo a Lui, ovunque e in qualunque modo Egli voglia servirsi di noi. “Vivo, tuttavia non vivo più io, ma Cristo vive in me”, ha detto san Paolo a questo proposito (cfr Gal 2, 20). Nel “sì” dell’Ordinazione sacerdotale abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla “autorealizzazione”. Ma bisogna giorno per giorno adempiere questo grande “sì” nei molti piccoli “sì” e nelle piccole rinunce. Questo “sì” dei piccoli passi, che insieme costituiscono il grande “sì”, potrà realizzarsi senza amarezza e senza autocommiserazione soltanto se Cristo è veramente il centro della nostra vita. Se entriamo in una vera familiarità con Lui. Allora, infatti, sperimentiamo in mezzo alle rinunce, che in un primo tempo possono causare dolore, la gioia crescente dell’amicizia con Lui, tutti i piccoli e a volte anche grandi segni del suo amore, che ci dona continuamente. “Chi perde se stesso, si trova”. Se osiamo perdere noi stessi per il Signore, sperimentiamo quanto sia vera la sua parola.

Essere immersi nella Verità, in Cristo – di questo processo fa parte la preghiera, in cui ci esercitiamo nell’amicizia con Lui e ancheimpariamo a conoscerLo: il suo modo di essere, di pensare, di agire. Pregare è un camminare in comunione personale con Cristo, esponendo davanti a Lui la nostra vita quotidiana, le nostre riuscite e i nostri fallimenti, le nostre fatiche e le nostre gioie – è un semplice presentare noi stessi davanti a Lui. Ma affinché questo non diventi uno autocontemplarsi, è importante che impariamo continuamente a pregare pregando con la Chiesa. Celebrare l’Eucaristia vuol dire pregare. Celebriamo l’Eucaristia in modo giusto, se col nostro pensiero e col nostro essere entriamo nelle parole, che la Chiesa ci propone. In esse è presente la preghiera di tutte le generazioni, le quali ci prendono con sé sulla via verso il Signore. E come sacerdoti siamo nella Celebrazione eucaristica coloro che, con la loro preghiera, fanno strada alla preghiera dei fedeli di oggi. Se noi siamo interiormente uniti alle parole della preghiera, se da esse ci lasciamo guidare e trasformare, allora anche i fedeli trovano l’accesso a quelle parole. Allora tutti diventiamo veramente “un corpo solo e un’anima sola” con Cristo.

Essere immersi nella verità e così nella santità di Dio – ciò significa per noi anche accettare il carattere esigente della verità; contrapporsi nelle cose grandi come in quelle piccole alla menzogna, che in modo così svariato è presente nel mondo; accettare la fatica della verità, perché la sua gioia più profonda sia presente in noi. Quando parliamo dell’essere consacrati nella verità, non dobbiamo neppure dimenticare che in Gesù Cristo verità e amore sono una cosa sola. Essere immersi in Lui significa essere immersi nella sua bontà, nell’amore vero. L’amore vero non è a buon mercato, può essere anche molto esigente. Oppone resistenza al male, per portare all’uomo il vero bene. Se diventiamo una cosa sola con Cristo, impariamo a riconoscerLo proprio nei sofferenti, nei poveri, nei piccoli di questo mondo; allora diventiamo persone che servono, che riconoscono i fratelli e le sorelle di Lui e in essi incontrano Lui stesso.

“Consacrali nella verità” – è questa la prima parte di quella parola di Gesù. Ma poi Egli aggiunge: “Io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati in verità” – cioè veramente (Gv 17, 19). Io penso che questa seconda parte abbia un suo specifico significato. Esistono nelle religioni del mondo molteplici modi rituali di “santificazione”, di consacrazione di una persona umana. Ma tutti questi riti possono rimanere semplicemente una cosa formale. Cristo chiede per i discepoli la vera santificazione, che trasforma il loro essere, loro stessi; che non rimanga una forma rituale, ma sia un vero divenire proprietà di Dio stesso. Potremmo anche dire: Cristo ha chiesto per noi il Sacramento che ci tocca nella profondità del nostro essere. Ma ha anche pregato, affinché questa trasformazione giorno per giorno in noi si traduca in vita; affinché nel nostro quotidiano e nella nostra vita concreta di ogni giorno siamo veramente pervasi dalla luce di Dio.

Alla vigilia della mia Ordinazione sacerdotale, 58 anni fa, ho aperto la Sacra Scrittura, perché volevo ricevere ancora una parola del Signore per quel giorno e per il mio futuro cammino da sacerdote. Il mio sguardo cadde su questo brano: “Consacrali nella verità; la tua parola è verità”. Allora seppi: il Signore sta parlando di me, e sta parlando a me. Precisamente la stessa cosa avverrà domani in me. In ultima analisi non veniamo consacrati mediante riti, anche se c’è bisogno di riti. Il lavacro, in cui il Signore ci immerge, è Lui stesso – la Verità in persona. Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi in Lui, nella Verità. Appartengo in un modo nuovo a Lui e così agli altri, “affinché venga il suo Regno”. Cari amici, in questa ora del rinnovo delle promesse vogliamo pregare il Signore di farci diventare uomini di verità, uomini di amore, uomini di Dio. Preghiamolo di attirarci sempre più dentro di sé, affinché diventiamo veramente sacerdoti della Nuova Alleanza. Amen.


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SANTA MESSA DEL CRISMA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 
1° aprile 2010

 

Cari fratelli e sorelle!

Centro del culto della Chiesa è il Sacramento. Sacramento significa che in primo luogo non siamo noi uomini a fare qualcosa, ma Dio in anticipo ci viene incontro con il suo agire, ci guarda e ci conduce verso di sé. E c’è ancora qualcos’altro di singolare: Dio ci tocca per mezzo di realtà materiali, attraverso doni del creato che Egli assume al suo servizio, facendone strumenti dell’incontro tra noi e Lui stesso. Sono quattro gli elementi della creazione con i quali è costruito il cosmo dei Sacramenti: l’acqua, il pane di frumento, il vino e l’olio di oliva. L’acqua come elemento basilare e condizione fondamentale di ogni vita è il segno essenziale dell’atto in cui, nel Battesimo, si diventa cristiani, della nascita alla vita nuova. Mentre l’acqua è l’elemento vitale in genere e quindi rappresenta l’accesso comune di tutti alla nuova nascita da cristiani, gli altri tre elementi appartengono alla cultura dell’ambiente mediterraneo. Essi rimandano così al concreto ambiente storico in cui il cristianesimo si è sviluppato. Dio ha agito in un luogo ben determinato della terra, ha veramente fatto storia con gli uomini. Questi tre elementi, da una parte, sono doni del creato e, dall’altra, sono tuttavia anche indicazioni dei luoghi della storia di Dio con noi. Sono una sintesi tra creazione e storia: doni di Dio che ci collegano sempre con quei luoghi del mondo, nei quali Dio ha voluto agire con noi nel tempo della storia, diventare uno di noi.

In questi tre elementi c’è di nuovo una graduazione. Il pane rinvia alla vita quotidiana. È il dono fondamentale della vita giorno per giorno. Il vino rinvia alla festa, alla squisitezza del creato, in cui, al contempo, può esprimersi in modo particolare la gioia dei redenti. L’olio dell’ulivo ha un significato ampio. È nutrimento, è medicina, dà bellezza, allena per la lotta e dona vigore. I re e i sacerdoti vengono unti con olio, che così è segno di dignità e di responsabilità, come anche della forza che viene da Dio. Nel nostro nome “cristiani” è presente il mistero dell’olio. La parola “cristiani”, infatti, con cui i discepoli di Cristo vengono chiamati già all’inizio della Chiesa proveniente dai pagani, deriva dalla parola “Cristo” (cfr At 11,20-21) – traduzione greca della parola “Messia”, che significa “Unto”. Essere cristiani vuol dire: provenire da Cristo, appartenere a Cristo, all’Unto di Dio, a Colui al quale Dio ha donato la regalità e il sacerdozio. Significa appartenere a Colui che Dio stesso ha unto – non con un olio materiale, ma con Colui che  è rappresentato dall’olio: con il suo Santo Spirito. L’olio di oliva è così in modo del tutto particolare simbolo della compenetrazione dell’Uomo Gesù da parte dello Spirito Santo.

Nella Messa crismale del Giovedì Santo gli oli santi stanno al centro dell’azione liturgica. Vengono consacrati nella cattedrale dal Vescovo per tutto l’anno. Esprimono così anche l’unità della Chiesa, garantita dall’Episcopato, e rimandano a Cristo, il vero “pastore e custode delle nostre anime”, come lo chiama san Pietro (cfr 1 Pt 2,25). E, al contempo, tengono insieme tutto l’anno liturgico, ancorato al mistero del Giovedì Santo. Infine, rimandano all’Orto degli Ulivi, in cui Gesù ha accettato interiormente la sua Passione. L’Orto degli Ulivi è però anche il luogo dal quale Egli è asceso al Padre, è quindi il luogo della Redenzione: Dio non ha lasciato Gesù nella morte. Gesù vive per sempre presso il Padre, e proprio per questo è onnipresente, sempre presso di noi. Questo duplice mistero del Monte degli Ulivi è anche sempre “attivo” nell’olio sacramentale della Chiesa. In quattro Sacramenti l’olio è segno della bontà di Dio che ci tocca: nel Battesimo, nella Cresima come Sacramento dello Spirito Santo, nei vari gradi del Sacramento dell’Ordine e, infine, nell’Unzione degli infermi, in cui l’olio ci viene offerto, per così dire, quale medicina di Dio – come la medicina che ora ci rende certi della sua bontà, ci deve rafforzare e consolare, ma che, allo stesso tempo, al di là del momento della malattia, rimanda alla guarigione definitiva, alla risurrezione (cfr Gc 5,14). Così l’olio, nelle sue diverse forme, ci accompagna lungo tutta la vita: a cominciare dal catecumenato e dal Battesimo fino al momento in cui ci prepariamo all’incontro con il Dio Giudice e Salvatore. Infine, la Messa crismale, in cui il segno sacramentale dell’olio ci viene presentato come linguaggio della creazione di Dio, si rivolge, in modo particolare, a noi sacerdoti: essa ci parla di Cristo, che Dio ha unto Re e Sacerdote – di Lui che ci rende partecipi del suo sacerdozio, della sua “unzione”, nella nostra Ordinazione sacerdotale.

Vorrei quindi tentare di spiegare ancora brevemente il mistero di questo santo segno nel suo riferimento essenziale alla vocazione sacerdotale. In etimologie popolari si è collegata, già nell’antichità, la parola greca “elaion” – olio – con la parola “eleos” – misericordia. Di fatto, nei vari Sacramenti, l’olio consacrato è sempre segno della misericordia di Dio. L’unzione per il sacerdozio significa pertanto sempre anche l’incarico di portare la misericordia di Dio agli uomini. Nella lampada della nostra vita non dovrebbe mai venir a mancare l’olio della misericordia. Procuriamocelo sempre in tempo presso il Signore – nell’incontro con la sua Parola, nel ricevere i Sacramenti, nel trattenerci in preghiera presso di Lui.

Attraverso la storia della colomba col ramo d’ulivo, che annunciava la fine del diluvio e così la nuova pace di Dio con il mondo degli uomini, non solo la colomba, ma anche il ramo d’ulivo e l’olio stesso sono diventati simbolo della pace. I cristiani dei primi secoli amavano ornare le tombe dei loro defunti con la corona della vittoria e il ramo d’ulivo, simbolo della pace. Sapevano che Cristo ha vinto la morte e che i loro defunti riposavano nella pace di Cristo. Si sapevano, essi stessi, attesi da Cristo, che aveva loro promesso la pace che il mondo non è in grado di dare. Si ricordavano che la prima parola del Risorto ai suoi era stata: “Pace a voi!” (Gv20,19). Egli stesso porta, per così dire, il ramo d’ulivo, introduce la sua pace nel mondo. Annuncia la bontà salvifica di Dio. Egli è la nostra pace. I cristiani dovrebbero quindi essere persone di pace, persone che riconoscono e vivono il mistero della Croce come mistero della riconciliazione. Cristo non vince mediante la spada, ma per mezzo della Croce. Vince superando l’odio. Vince mediante la forza del suo amore più grande. La Croce di Cristo esprime il “no” alla violenza. E proprio così essa è il segno della vittoria di Dio, che annuncia la nuova via di Gesù. Il sofferente è stato più forte dei detentori del potere. Nell’autodonazione sulla Croce, Cristo ha vinto la violenza. Come sacerdoti siamo chiamati ad essere, nella comunione con Gesù Cristo,  uomini di pace, siamo chiamati ad opporci alla violenza e a fidarci del potere più grande dell’amore.

Appartiene al simbolismo dell’olio anche il fatto che esso rende forti per la lotta. Ciò non contrasta col tema della pace, ma ne è una parte. La lotta dei cristiani consisteva e consiste non nell’uso della violenza, ma nel fatto che essi erano e sono tuttora pronti a soffrire per il bene, per Dio. Consiste nel fatto che i cristiani, come buoni cittadini, rispettano il diritto e fanno ciò che è giusto e buono. Consiste nel fatto che rifiutano di fare ciò che negli ordinamenti giuridici in vigore non è diritto, ma ingiustizia. La lotta dei martiri consisteva nel loro “no” concreto all’ingiustizia: respingendo la partecipazione al culto idolatrico, all’adorazione dell’imperatore, si sono rifiutati di piegarsi davanti alla falsità, all’adorazione di persone umane e del loro potere. Con il loro “no” alla falsità e a tutte le sue conseguenze hanno innalzato il potere del diritto e della verità. Così hanno servito la vera pace. Anche oggi è importante per i cristiani seguire il diritto, che è il fondamento della pace. Anche oggi è importante per i cristiani non accettare un’ingiustizia che viene elevata a diritto – per esempio, quando si tratta dell’uccisione di bambini innocenti non ancora nati. Proprio così serviamo la pace e proprio così ci troviamo a seguire le orme di Gesù Cristo, di cui san Pietro dice: “Insultato non rispondeva con insulti; maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia” (1 Pt 2,23s).

I Padri della Chiesa erano affascinati da una parola dal Salmo 45 (44) – secondo la tradizione il Salmo nuziale di Salomone –, che veniva riletto dai cristiani come Salmo per le nozze del nuovo Salomone, Gesù Cristo, con la sua Chiesa. Lì si dice al Re, Cristo: “Ami la giustizia e la malvagità detesti: Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di letizia, a preferenza dei tuoi compagni” (v. 8). Che cosa è questo olio di letizia con cui è stato unto il vero Re, Cristo? I Padri non avevano alcun dubbio al riguardo: l’olio di letizia è lo stesso Spirito Santo, che è stato effuso su Gesù Cristo. Lo Spirito Santo è la letizia che viene da Dio. Da Gesù questa letizia si riversa su di noi nel suo Vangelo, nella buona novella che Dio ci conosce, che Egli è buono e che la sua bontà è un potere sopra tutti i poteri; che noi siamo voluti ed amati da Lui. La gioia è frutto dell’amore. L’olio di letizia, che è stato effuso su Cristo e da Lui viene a noi, è lo Spirito Santo, il dono dell’Amore che ci rende lieti dell’esistenza. Poiché conosciamo Cristo e, in , il vero Dio, sappiamo che è cosa buona essere uomo. È cosa buona vivere, perché siamo amati. Perché la verità stessa è buona.

Nella Chiesa antica l’olio consacrato è stato considerato, in modo particolare, come segno della presenza dello Spirito Santo, che a partire da Cristo si comunica a noi. Egli è l’olio di letizia. Questa letizia è una cosa diversa dal divertimento o dall’allegria esteriore che la società moderna si auspica. Il divertimento, nel suo posto giusto, è certamente cosa buona e piacevole. È bene poter ridere. Ma il divertimento non è tutto. È solo una piccola parte della nostra vita, e dove esso vuol essere il tutto diventa una maschera dietro la quale si nasconde la disperazione o almeno il dubbio se la vita sia veramente buona, o se non sarebbe forse meglio non esistere invece di esistere. La gioia, che da Cristo ci viene incontro, è diversa. Essa ci dà allegria, sì, ma certamente può andar insieme anche con la sofferenza. Ci dà la capacità di soffrire e, nella sofferenza, di restare tuttavia intimamente lieti. Ci dà la capacità di condividere la sofferenza altrui e così di rendere percepibile, nella disponibilità reciproca, la luce e la bontà di Dio. Mi fa sempre riflettere il racconto degli Atti degli Apostoli secondo cui gli Apostoli, dopo che il Sinedrio li aveva fatti flagellare, erano “lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù” (At 5,41). Chi ama è pronto a soffrire per l’amato e a motivo del suo amore, e proprio così sperimenta una gioia più profonda. La gioia dei martiri era più forte dei tormenti loro inflitti. Questa gioia, alla fine, ha vinto ed ha aperto a Cristo le porte della storia. Quali sacerdoti, noi siamo – come dice san Paolo – “collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24). Nel frutto dell’ulivo, nell’olio consacrato, ci tocca la bontà del Creatore, l’amore del Redentore. Preghiamo che la sua letizia ci pervada sempre più in profondità e preghiamo di essere capaci di portarla nuovamente in un mondo che ha così urgentemente bisogno della gioia che scaturisce dalla verità. Amen.

 


Caterina63
00venerdì 12 aprile 2019 13:48

SANTA MESSA DEL CRISMA


OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI


Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 
21 aprile 2011

 

Cari fratelli e sorelle!

Al centro della liturgia di questa mattina sta la benedizione degli oli sacri – dell’olio per l’unzione dei catecumeni, di quello per l’unzione degli infermi e del crisma per i grandi Sacramenti che conferiscono lo Spirito Santo: Confermazione, Ordinazione sacerdotale e Ordinazione episcopale. Nei Sacramenti il Signore ci tocca per mezzo degli elementi della creazione. L’unità tra creazione e redenzione si rende visibile. I Sacramenti sono espressione della corporeità della nostra fede che abbraccia corpo e anima, l’uomo intero. Pane e vino sono frutti della terra e del lavoro dell'uomo. Il Signore li ha scelti come portatori della sua presenza. L’olio è simbolo dello Spirito Santo e, al tempo stesso, ci rimanda a Cristo: la parola “Cristo” (Messia) significa “l’Unto”. L’umanità di Gesù, mediante l’unità del Figlio col Padre, è inserita nella comunione con lo Spirito Santo e così è “unta” in maniera unica, è penetrata dallo Spirito Santo. Ciò che nei re e nei sacerdoti dell’Antica Alleanza era avvenuto in modo simbolico nell’unzione con olio, con la quale venivano istituiti nel loro ministero, avviene in Gesù in tutta la sua realtà: la sua umanità è penetrata dalla forza dello Spirito Santo. Egli apre la nostra umanità per il dono dello Spirito Santo. Quanto più siamo uniti a Cristo, tanto più veniamo colmati dal suo Spirito, dallo Spirito Santo. Noi ci chiamiamo “cristiani”: “unti” – persone che appartengono a Cristo e per questo partecipano alla sua unzione, sono toccate dal suo Spirito. Non voglio soltanto chiamarmi cristiano, ma voglio anche esserlo, ha detto sant’Ignazio d’Antiochia. Lasciamo che proprio questi oli sacri, che vengono consacrati in quest’ora, ci ricordino tale compito intrinseco della parola “cristiano” e preghiamo il Signore, affinché sempre più non solo ci chiamiamo cristiani, ma anche lo siamo.

Nella liturgia di questo giorno si benedicono, come già detto, tre oli. In tale triade si esprimono tre dimensioni essenziali dell’esistenza cristiana, sulle quali ora vogliamo riflettere. C’è innanzitutto l’olio dei catecumeni. Quest’olio indica come un primo modo di essere toccati da Cristo e dal suo Spirito – un tocco interiore col quale il Signore attira le persone vicino a sé. Mediante questa prima unzione, che avviene ancora prima del Battesimo, il nostro sguardo si rivolge quindi alle persone che si mettono in cammino verso Cristo – alle persone che sono alla ricerca della fede, alla ricerca di Dio. L’olio dei catecumeni ci dice: non solo gli uomini cercano Dio. Dio stesso si è messo alla ricerca di noi. Il fatto che Egli stesso si sia fatto uomo e sia disceso negli abissi dell’esistenza umana, fin nella notte della morte, ci mostra quanto Dio ami l’uomo, sua creatura. Spinto dall’amore, Dio si è incamminato verso di noi. “Cercandomi Ti sedesti stanco … che tanto sforzo non sia vano!”, preghiamo nel Dies Irae. Dio è alla ricerca di me. Voglio riconoscerLo? Voglio essere da Lui conosciuto, da Lui essere trovato? Dio ama gli uomini. Egli viene incontro all’inquietudine del nostro cuore, all’inquietudine del nostro domandare e cercare, con l’inquietudine del suo stesso cuore, che lo induce a compiere l’atto estremo per noi. L’inquietudine nei confronti di Dio, l’essere in cammino verso di Lui, per conoscerLo meglio, per amarLo meglio, non deve spegnersi in noi. In questo senso dovremmo sempre rimanere catecumeni. “Ricercate sempre il suo volto”, dice un Salmo (105,4). Agostino, al riguardo, ha commentato: Dio è tanto grande da superare sempre infinitamente tutta la nostra conoscenza e tutto il nostro essere. Il conoscere Dio non si esaurisce mai. Per tutta l’eternità possiamo, con una gioia crescente, sempre continuare a cercarLo, per conoscerLo sempre di più ed amarLo sempre di più. “Inquieto è il nostro cuore, finché non riposi in te”, ha detto Agostino all’inizio delle sue Confessioni. Sì, l’uomo è inquieto, perché tutto ciò che è temporale è troppo poco. Ma siamo veramente inquieti verso di Lui? Non ci siamo forse rassegnati alla sua assenza e cerchiamo di bastare a noi stessi? Non permettiamo simili riduzioni del nostro essere umano! Rimaniamo continuamente in cammino verso di Lui, nella nostalgia di Lui, nell’accoglienza sempre nuova di conoscenza e di amore!

C’è poi l’olio per l’Unzione degli infermi. Abbiamo davanti a noi la schiera delle persone sofferenti: gli affamati e gli assetati, le vittime della violenza in tutti i Continenti, i malati con tutti i loro dolori, le loro speranze e disperazioni, i perseguitati e i calpestati, le persone col cuore affranto. Circa il primo invio dei discepoli da parte di Gesù, san Luca ci narra: “Li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi” (9,2). Il guarire è un incarico primordiale affidato da Gesù alla Chiesa, secondo l’esempio dato da Lui stesso che risanando ha percorso le vie del Paese. Certo, il compito principale della Chiesa è l’annuncio del regno di Dio. Ma proprio questo stesso annuncio deve essere un processo di guarigione: “…fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, viene detto oggi nella prima lettura dal profeta Isaia (61,1). L’annuncio del regno di Dio, della bontà illimitata di Dio, deve suscitare innanzitutto questo: guarire il cuore ferito degli uomini. L’uomo per la sua stessa essenza è un essere in relazione. Se, però, è perturbata la relazione fondamentale, la relazione con Dio, allora anche tutto il resto è perturbato. Se il nostro rapporto con Dio è perturbato, se l’orientamento fondamentale del nostro essere è sbagliato, non possiamo neppure veramente guarire nel corpo e nell’anima. Per questo, la prima e fondamentale guarigione avviene nell’incontro con Cristo che ci riconcilia con Dio e risana il nostro cuore affranto. Ma oltre questo compito centrale fa parte della missione essenziale della Chiesa anche la guarigione concreta della malattia e della sofferenza. L’olio per l’Unzione degli infermi è espressione sacramentale visibile di questa missione. Fin dagli inizi è maturata nella Chiesa la chiamata a guarire, è maturato l’amore premuroso verso persone angustiate nel corpo e nell’anima. È questa anche l’occasione per ringraziare una volta tanto le sorelle e i fratelli che in tutto il mondo portano un amore risanatore agli uomini, senza badare alla loro posizione o confessione religiosa. Da Elisabetta di Turingia, Vincenzo de’ Paoli, Louise de Marillac, Camillo de Lellis fino a Madre Teresa – per ricordare soltanto alcuni nomi – attraversa il mondo una scia luminosa di persone, che ha origine nell’amore di Gesù per i sofferenti e i malati. Per questo ringraziamo in quest’ora il Signore. Per questo ringraziamo tutti coloro che, in virtù della fede e dell’amore, si mettono a fianco dei sofferenti, dando con ciò, in definitiva, testimonianza della bontà propria di Dio. L’olio per l’Unzione degli infermi è segno di quest’olio della bontà del cuore, che queste persone – insieme con la loro competenza professionale – portano ai sofferenti. Senza parlare di Cristo, Lo manifestano.

Al terzo posto c’è infine il più nobile degli oli ecclesiali, il crisma, una mistura di olio di oliva e profumi vegetali. È l’olio dell’unzione sacerdotale e di quella regale, unzioni che si riallacciano alle grandi tradizioni d’unzione dell’Antica Alleanza. Nella Chiesa quest’olio serve soprattutto per l’unzione nella Confermazione e nelle Ordinazioni sacre. La liturgia di oggi collega con quest’olio le parole di promessa del profeta Isaia: “Voi sarete chiamati ‘sacerdoti del Signore’, ‘ministri del nostro Dio’ sarete detti” (61,6). Con ciò il profeta riprende la grande parola di incarico e di promessa, che Dio aveva rivolto a Israele presso il Sinai: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,6). Nel vasto mondo e per il vasto mondo, che in gran parte non conosceva Dio, Israele doveva essere come un santuario di Dio per la totalità, doveva esercitare una funzione sacerdotale per il mondo. Doveva portare il mondo verso Dio, aprirlo a  Lui. San Pietro, nella sua grande catechesi battesimale, ha applicato tale privilegio e tale incarico di Israele all’intera comunità dei battezzati, proclamando: “Voi (invece) siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio” (1Pt 2,9s). Battesimo e Confermazione costituiscono l’ingresso in questo popolo di Dio, che abbraccia tutto il mondo; l’unzione nel Battesimo e nella Confermazione è un’unzione che introduce in questo ministero sacerdotale per l’umanità. I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui. Quando parliamo di questo nostro comune incarico, in quanto siamo battezzati, ciò non è una ragione per farne un vanto. È una domanda che, insieme, ci dà gioia e ci inquieta: siamo veramente il santuario di Dio nel mondo e per il mondo? Apriamo agli uomini l’accesso a Dio o piuttosto lo nascondiamo? Non siamo forse noi – popolo di Dio – diventati in gran parte un popolo dell’incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo? Abbiamo motivo di gridare in quest’ora a Dio: “Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fa’ che ti riconosciamo di nuovo! Infatti, ci hai unti con il tuo amore, hai posto il tuo Spirito Santo su di noi. Fa’ che la forza del tuo Spirito diventi nuovamente efficace in noi, affinché con gioia testimoniamo il tuo messaggio!

Nonostante tutta la vergogna per i nostri errori, non dobbiamo, però, dimenticare che anche oggi esistono esempi luminosi di fede; che anche oggi vi sono persone che, mediante la loro fede e il loro amore, danno speranza al mondo. Quando il prossimo 1o maggio verrà beatificato Papa Giovanni Paolo II, penseremo pieni di gratitudine a lui quale grande testimone di Dio e di Gesù Cristo nel nostro tempo, quale uomo colmato di Spirito Santo. Insieme con lui pensiamo al grande numero di coloro che egli ha beatificato e canonizzato e che ci danno la certezza che la promessa di Dio e il suo incarico anche oggi non cadono nel vuoto.

Mi rivolgo infine a voi, cari confratelli nel ministero sacerdotale. Il Giovedì Santo è in modo particolare il nostro giorno. Nell’ora dell’Ultima Cena il Signore ha istituito il sacerdozio neotestamentario. “Consacrali nella verità” (Gv 17,17), ha pregato il Padre – per gli Apostoli e per i sacerdoti di tutti i tempi. Con grande gratitudine per la vocazione e con umiltà per tutte le nostre insufficienze rinnoviamo in quest’ora il nostro “sì” alla chiamata del Signore: Sì, voglio unirmi intimamente al Signore Gesù – rinunciando a me stesso … spinto dall’amore di Cristo. Amen.

 
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SANTA MESSA DEL CRISMA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 5
 aprile 2012

Cari fratelli e sorelle!

In questa Santa Messa i nostri pensieri ritornano all’ora in cui il Vescovo, mediante l’imposizione delle mani e la preghiera, ci ha introdotti nel sacerdozio di Gesù Cristo, così che fossimo “consacrati nella verità” (Gv 17,19), come Gesù, nella sua Preghiera sacerdotale, ha chiesto per noi al Padre. Egli stesso è la Verità. Ci ha consacrati, cioè consegnati per sempre a Dio, affinché, a partire da Dio e in vista di Lui, potessimo servire gli uomini. Ma siamo anche consacrati nella realtà della nostra vita? Siamo uomini che operano a partire da Dio e in comunione con Gesù Cristo? Con questa domanda il Signore sta davanti a noi, e noi stiamo davanti a Lui. “Volete unirvi più intimamente al Signore Gesù Cristo e conformarvi a Lui, rinunziare a voi stessi e rinnovare le promesse, confermando i sacri impegni che nel giorno dell’Ordinazione avete assunto con gioia?” Così, dopo questa omelia, interrogherò singolarmente ciascuno di voi e anche me stesso. Con ciò si esprimono soprattutto due cose: è richiesto un legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. È richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso, ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo. Che non domandi: che cosa ne ricavo per me?, bensì: che cosa posso dare io per Lui e così per gli altri? O ancora più concretamente: come deve realizzarsi questa conformazione a Cristo, il quale non domina, ma serve; non prende, ma dà – come deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi? Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero – ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore. La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove – per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi. Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?

Ma non semplifichiamo troppo il problema. Cristo non ha forse corretto le tradizioni umane che minacciavano di soffocare la parola e la volontà di Dio? Sì, lo ha fatto, per risvegliare nuovamente l’obbedienza alla vera volontà di Dio, alla sua parola sempre valida. A Lui stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo. E non dimentichiamo: Egli era il Figlio, con l’autorità e la responsabilità singolari di svelare l’autentica volontà di Dio, per aprire così la strada della parola di Dio verso il mondo dei gentili. E infine: Egli ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità, e ci indica la strada.

Lasciamoci interrogare ancora una volta: non è che con tali considerazioni viene, di fatto, difeso l’immobilismo, l’irrigidimento della tradizione? No. Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo. E se guardiamo alle persone, dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore.

Cari amici, resta chiaro che la conformazione a Cristo è il presupposto e la base di ogni rinnovamento. Ma forse la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande, per poter osare di prendere le misure da Lui. Il Signore lo sa. Per questo ha provveduto a “traduzioni” in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi. Proprio per questa ragione, Paolo senza timidezza ha detto alle sue comunità: imitate me, ma io appartengo a Cristo. Egli era per i suoi fedeli una “traduzione” dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire. A partire da Paolo, lungo tutta la storia ci sono state continuamente tali “traduzioni” della via di Gesù in vive figure storiche. Noi sacerdoti possiamo pensare ad una grande schiera di sacerdoti santi, che ci precedono per indicarci la strada: a cominciare da Policarpo di Smirne ed Ignazio d’Antiochia attraverso i grandi Pastori quali Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno, fino a Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Giovanni Maria Vianney, fino ai preti martiri del Novecento e, infine, fino a Papa Giovanni Paolo II che, nell’azione e nella sofferenza ci è stato di esempio nella conformazione a Cristo, come “dono e mistero”. I Santi ci indicano come funziona il rinnovamento e come possiamo metterci al suo servizio. E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape.

Cari amici, vorrei brevemente toccare ancora due parole-chiave della rinnovazione delle promesse sacerdotali, che dovrebbero indurci a riflettere in quest’ora della Chiesa e della nostra vita personale. C’è innanzitutto il ricordo del fatto che siamo – come si esprime Paolo – “amministratori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1) e che ci spetta il ministero dell’insegnamento, il (munus docendi), che è una parte di tale amministrazione dei misteri di Dio, in cui Egli ci mostra il suo volto e il suo cuore, per donarci se stesso. Nell’incontro dei Cardinali in occasione del recente Concistoro, diversi Pastori, in base alla loro esperienza, hanno parlato di un analfabetismo religioso che si diffonde in mezzo alla nostra società così intelligente. Gli elementi fondamentali della fede, che in passato ogni bambino conosceva, sono sempre meno noti. Ma per poter vivere ed amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarLo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione ed il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola. L’Anno della Fede, il ricordo dell’apertura del Concilio Vaticano II 50 anni fa, deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia. Lo troviamo naturalmente in modo fondamentale e primario nella Sacra Scrittura, che non leggeremo e mediteremo mai abbastanza. Ma in questo facciamo tutti l’esperienza di aver bisogno di aiuto per trasmetterla rettamente nel presente, affinché tocchi veramente il nostro cuore. Questo aiuto lo troviamo in primo luogo nella parola della Chiesa docente: i testi del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica sono gli strumenti essenziali che ci indicano in modo autentico ciò che la Chiesa crede a partire dalla Parola di Dio. E naturalmente ne fa parte anche tutto il tesoro dei documenti che Papa Giovanni Paolo II ci ha donato e che è ancora lontano dall’essere sfruttato fino in fondo.

Ogni nostro annuncio deve misurarsi sulla parola di Gesù Cristo: “La mia dottrina non è mia” (Gv 7,16). Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. Ma questo naturalmente non deve significare che io non sostenga questa dottrina con tutto me stesso e non stia saldamente ancorato ad essa. In questo contesto mi viene sempre in mente la parola di sant’Agostino: E che cosa è tanto mio quanto me stesso? Che cosa è così poco mio quanto me stesso? Non appartengo a me stesso e divento me stesso proprio per il fatto che vado al di là di me stesso e mediante il superamento di me stesso riesco ad inserirmi in Cristo e nel suo Corpo che è la Chiesa. Se non annunciamo noi stessi e se interiormente siamo diventati tutt’uno con Colui che ci ha chiamati come suoi messaggeri così che siamo plasmati dalla fede e la viviamo, allora la nostra predicazione sarà credibile. Non reclamizzo me stesso, ma dono me stesso. Il Curato d’Ars non era un dotto, un intellettuale, lo sappiamo. Ma con il suo annuncio ha toccato i cuori della gente, perché egli stesso era stato toccato nel cuore.

L’ultima parola-chiave a cui vorrei ancora accennare si chiama zelo per le anime (animarum zelus). È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata. In alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo. Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena. E come sacerdoti naturalmente ci preoccupiamo dell’uomo intero, proprio anche delle sue necessità fisiche – degli affamati, dei malati, dei senza-tetto. Tuttavia noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima. E in quanto sacerdoti di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo. Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore. Amen.




Caterina63
00venerdì 12 aprile 2019 13:51

SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE


OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI


Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì Santo, 13 aprile 2006

Cari fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle,

"Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13, 1): Dio ama la sua creatura, l'uomo; lo ama anche nella sua caduta e non lo abbandona a se stesso. Egli ama sino alla fine. Si spinge con il suo amore fino alla fine, fino all'estremo: scende giù dalla sua gloria divina. Depone le vesti della sua gloria divina e indossa le vesti dello schiavo. Scende giù fin nell'estrema bassezza della nostra caduta. Si inginocchia davanti a noi e ci rende il servizio dello schiavo; lava i nostri piedi sporchi, affinché noi diventiamo ammissibili alla mensa di Dio, affinché diventiamo degni di prendere posto alla sua tavola – una cosa che da noi stessi non potremmo né dovremmo mai fare. 

Dio non è un Dio lontano, troppo distante e troppo grande per occuparsi delle nostre bazzecole. Poiché Egli è grande, può interessarsi anche delle cose piccole. Poiché Egli è grande, l'anima dell'uomo, lo stesso uomo creato per l'amore eterno, non è una cosa piccola, ma è grande e degno del suo amore. La santità di Dio non è solo un potere incandescente, davanti al quale noi dobbiamo ritrarci atterriti; è potere d'amore e per questo è potere purificatore e risanante. 

Dio scende e diventa schiavo, ci lava i piedi affinché noi possiamo stare alla sua tavola. In questo si esprime tutto il mistero di Gesù Cristo. In questo diventa visibile che cosa significa redenzione. Il bagno nel quale ci lava è il suo amore pronto ad affrontare la morte. Solo l'amore ha quella forza purificante che ci toglie la nostra sporcizia e ci eleva alle altezze di Dio. Il bagno che ci purifica è Lui stesso che si dona totalmente a noi – fin nelle profondità della sua sofferenza e della sua morte. Continuamente Egli è questo amore che ci lava; nei sacramenti della purificazione - il battesimo e il sacramento della penitenza - Egli è continuamente inginocchiato davanti ai nostri piedi e ci rende il servizio da schiavo, il servizio della purificazione, ci fa capaci di Dio. Il suo amore è inesauribile, va veramente sino alla fine. 

"Voi siete mondi, ma non tutti", dice il Signore (Gv 13, 10). In questa frase si rivela il grande dono della purificazione che Egli ci fa, perché ha il desiderio di stare a tavola insieme con noi, di diventare il nostro cibo. "Ma non tutti" – esiste l'oscuro mistero del rifiuto, che con la vicenda di Giuda si fa presente e, proprio nel Giovedì Santo, nel giorno in cui Gesù fa dono di sé, deve farci riflettere. L'amore del Signore non conosce limite, ma l'uomo può porre ad esso un limite. 

"Voi siete mondi, ma non tutti": Che cosa è che rende l'uomo immondo? È il rifiuto dell'amore, il non voler essere amato, il non amare. È la superbia che crede di non aver bisogno di alcuna purificazione, che si chiude alla bontà salvatrice di Dio. È la superbia che non vuole confessare e riconoscere che abbiamo bisogno di purificazione. In Giuda vediamo la natura di questo rifiuto ancora più chiaramente. Egli valuta Gesù secondo le categorie del potere e del successo: per lui solo potere e successo sono realtà, l'amore non conta. Ed egli è avido: il denaro è più importante della comunione con Gesù, più importante di Dio e del suo amore. E così diventa anche un bugiardo, che fa il doppio gioco e rompe con la verità; uno che vive nella menzogna e perde così il senso per la verità suprema, per Dio. In questo modo egli si indurisce, diventa incapace della conversione, del fiducioso ritorno del figliol prodigo, e butta via la vita distrutta. 

"Voi siete mondi, ma non tutti". Il Signore oggi ci mette in guardia di fronte a quell’autosufficienza che mette un limite al suo amore illimitato. Ci invita ad imitare la sua umiltà, ad affidarci ad essa, a lasciarci "contagiare" da essa. Ci invita – per quanto smarriti possiamo sentirci – a ritornare a casa e a permettere alla sua bontà purificatrice di tirarci su e di farci entrare nella comunione della mensa con Lui, con Dio stesso. 

Aggiungiamo un'ultima parola di questo inesauribile brano evangelico: "Vi ho dato l'esempio…" (Gv 13,15); "Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri" (Gv 13,14). In che cosa consiste il "lavarci i piedi gli uni gli altri"? Che cosa significa in concreto? Ecco, ogni opera di bontà per l'altro – specialmente per i sofferenti e per coloro che sono poco stimati – è un servizio di lavanda dei piedi. A questo ci chiama il Signore: scendere, imparare l'umiltà e il coraggio della bontà e anche la disponibilità ad accettare il rifiuto e tuttavia fidarsi della bontà e perseverare in essa. Ma c'è ancora una dimensione più profonda. Il Signore toglie la nostra sporcizia con la forza purificatrice della sua bontà. Lavarci i piedi gli uni gli altri significa soprattutto perdonarci instancabilmente gli uni gli altri, sempre di nuovo ricominciare insieme per quanto possa anche sembrare inutile. Significa purificarci gli uni gli altri sopportandoci a vicenda e accettando di essere sopportati dagli altri; purificarci gli uni gli altri donandoci a vicenda la forza santificante della Parola di Dio e introducendoci nel Sacramento dell'amore divino. 

Il Signore ci purifica, e per questo osiamo accedere alla sua mensa. Preghiamolo di donare a tutti noi la grazia di potere un giorno essere per sempre ospiti dell'eterno banchetto nuziale. Amen!  

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SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì Santo, 5 aprile 2007

 

Cari fratelli e sorelle,

nella lettura dal Libro dell’Esodo, che abbiamo appena ascoltato, viene descritta la celebrazione della Pasqua di Israele così come nella Legge mosaica aveva trovato la sua forma vincolante. All’origine può esserci stata una festa di primavera dei nomadi. Per Israele, tuttavia, ciò si era trasformato in una festa di commemorazione, di ringraziamento e, allo stesso tempo, di speranza. Al centro della cena pasquale, ordinata secondo determinate regole liturgiche, stava l’agnello come simbolo della liberazione dalla schiavitù in Egitto. Per questo l’haggadah pasquale era parte integrante del pasto a base di agnello: il ricordo narrativo del fatto che era stato Dio stesso a liberare Israele “a mano alzata”. Egli, il Dio misterioso e nascosto, si era rivelato più forte del faraone con tutto il potere che aveva a sua disposizione. Israele non doveva dimenticare che Dio aveva personalmente preso in mano la storia del suo popolo e che questa storia era continuamente basata sulla comunione con Dio. Israele non doveva dimenticarsi di Dio.

La parola della commemorazione era circondata da parole di lode e di ringraziamento tratte dai Salmi. Il ringraziare e benedire Dio raggiungeva il suo culmine nella berakha, che in greco è detta eulogia  o eucaristia: il benedire Dio diventa benedizione per coloro che benedicono. L’offerta donata a Dio ritorna benedetta all’uomo. Tutto ciò ergeva un ponte dal passato al presente e verso il futuro: ancora non era compiuta la liberazione di Israele. Ancora la nazione soffriva come piccolo popolo nel campo delle tensioni tra le grandi potenze. Il ricordarsi con gratitudine dell’agire di Dio nel passato diventava così al contempo supplica e speranza: Porta a compimento ciò che hai cominciato! Donaci la libertà definitiva!

Questa cena dai molteplici significati Gesù celebrò con i suoi la sera prima della sua Passione. In base a questo contesto dobbiamo comprendere la nuova Pasqua, che Egli ci ha donato nella Santa Eucaristia. Nei racconti degli evangelisti esiste un’apparente contraddizione tra il Vangelo di Giovanni, da una parte, e ciò che, dall’altra, ci comunicano Matteo, Marco e Luca. Secondo Giovanni, Gesù morì sulla croce precisamente nel momento in cui, nel tempio, venivano immolati gli agnelli pasquali. La sua morte e il sacrificio degli agnelli coincisero. Ciò significa, però, che Egli morì alla vigilia della Pasqua e quindi non poté personalmente celebrare la cena pasquale – questo, almeno, è ciò che appare. Secondo i tre Vangeli sinottici, invece, l’Ultima Cena di Gesù fu una cena pasquale, nella cui forma tradizionale Egli inserì la novità del dono del suo corpo e del suo sangue. Questa contraddizione fino a qualche anno fa sembrava insolubile. La maggioranza degli esegeti era dell’avviso che Giovanni non aveva voluto comunicarci la vera data storica della morte di Gesù, ma aveva scelto una data simbolica per rendere così evidente la verità più profonda: Gesù è il nuovo e vero agnello che ha sparso il suo sangue per tutti noi.

La scoperta degli scritti di Qumran ci ha nel frattempo condotto ad una possibile soluzione convincente che, pur non essendo ancora accettata da tutti, possiede tuttavia un alto grado di probabilità. Siamo ora in grado di dire che quanto Giovanni ha riferito è storicamente preciso. Gesù ha realmente sparso il suo sangue alla vigilia della Pasqua nell’ora dell’immolazione degli agnelli. Egli però ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli probabilmente secondo il calendario di Qumran, quindi almeno un giorno prima – l’ha celebrata senza agnello, come la comunità di Qumran, che non riconosceva il tempio di Erode ed era in attesa del nuovo tempio. Gesù dunque ha celebrato la Pasqua senza agnello – no, non senza agnello: in luogo dell’agnello ha donato se stesso, il suo corpo e il suo sangue. Così ha anticipato la sua morte in modo coerente con la sua parola: “Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso” (Gv 10,18). Nel momento in cui porgeva ai discepoli il suo corpo e il suo sangue, Egli dava reale compimento a questa affermazione. Ha offerto Egli stesso la sua vita. Solo così l’antica Pasqua otteneva il suo vero senso.

San Giovanni Crisostomo, nelle sue catechesi eucaristiche ha scritto una volta: Che cosa stai dicendo, Mosè? Il sangue di un agnello purifica gli uomini? Li salva dalla morte? Come può il sangue di un animale purificare gli uomini, salvare gli uomini, avere potere contro la morte? Di fatto – continua il Crisostomo – l’agnello poteva costituire solo un gesto simbolico e quindi l’espressione dell’attesa e della speranza in Qualcuno che sarebbe stato in grado di compiere ciò di cui il sacrificio di un animale non era capace. Gesù celebrò la Pasqua senza agnello e senza tempio e, tuttavia, non senza agnello e senza tempio. Egli stesso era l’Agnello atteso, quello vero, come aveva preannunciato Giovanni Battista all’inizio del ministero pubblico di Gesù: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Ed è Egli stesso il vero tempio, il tempio vivente, nel quale abita Dio e nel quale noi possiamo incontrare Dio ed adorarlo. Il suo sangue, l’amore di Colui che è insieme Figlio di Dio e vero uomo, uno di noi, quel sangue può salvare. Il suo amore, quell’amore in cui Egli si dona liberamente per noi, è ciò che ci salva. Il gesto nostalgico, in qualche modo privo di efficacia, che era l’immolazione dell’innocente ed immacolato agnello, ha trovato risposta in Colui che per noi è diventato insieme Agnello e Tempio.

Così al centro della Pasqua nuova di Gesù stava la Croce. Da essa veniva il dono nuovo portato da Lui. E così essa rimane sempre nella Santa Eucaristia, nella quale possiamo celebrare con gli Apostoli lungo il corso dei tempi la nuova Pasqua. Dalla croce di Cristo viene il dono. “Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso”. Ora Egli la offre a noi. L’haggadah pasquale, la commemorazione dell’agire salvifico di Dio, è diventata memoria della croce e risurrezione di Cristo – una memoria che non ricorda semplicemente il passato, ma ci attira entro la presenza dell’amore di Cristo. E così la berakha, la preghiera di benedizione e ringraziamento di Israele, è diventata la nostra celebrazione eucaristica, in cui il Signore benedice i nostri doni – pane e vino – per donare in essi se stesso. Preghiamo il Signore di aiutarci a comprendere sempre più profondamente questo mistero meraviglioso, ad amarlo sempre di più e in esso amare sempre di più Lui stesso. Preghiamolo di attirarci con la santa comunione sempre di più in se stesso. Preghiamolo di aiutarci a non trattenere la nostra vita per noi stessi, ma a donarla a Lui e così ad operare insieme con Lui, affinché gli uomini trovino la vita – la vita vera che può venire solo da Colui che è Egli stesso la Via, la Verità e la Vita. Amen.

 
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SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì Santo, 20 marzo 2008

 

Cari fratelli e sorelle,

san Giovanni inizia il suo racconto sul come Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli con un linguaggio particolarmente solenne, quasi liturgico. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1). È arrivata l’“ora” di Gesù, verso la quale il suo operare era diretto fin dall’inizio. Ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metabainein, metabasis) ed agape – amore. Le due parole si spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre. Non è come se Gesù, dopo una breve visita nel mondo, ora semplicemente ripartisse e tornasse al Padre. Il passaggio è una trasformazione. Egli porta con sé la sua carne, il suo essere uomo. Sulla Croce, nel donare se stesso, Egli viene come fuso e trasformato in un nuovo modo d’essere, nel quale ora è sempre col Padre e contemporaneamente con gli uomini. Trasforma la Croce, l’atto dell’uccisione, in un atto di donazione, di amore sino alla fine. Con questa espressione “sino alla fine” Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla Croce: tutto è portato a termine, “è compiuto” (19, 30). Mediante il suo amore la Croce diventa metabasis, trasformazione dell’essere uomo nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione Egli coinvolge tutti noi, trascinandoci dentro la forza trasformatrice del suo amore al punto che, nel nostro essere con Lui, la nostra vita diventa “passaggio”, trasformazione. Così riceviamo la redenzione – l’essere partecipi dell’amore eterno, una condizione a cui tendiamo con l’intera nostra esistenza.

Questo processo essenziale dell’ora di Gesù viene rappresentato nella lavanda dei piedi in una specie di profetico atto simbolico. In essa Gesù evidenzia con un gesto concreto proprio ciò che il grande inno cristologico della Lettera ai Filippesi descrive come il contenuto del mistero di Cristo. Gesù depone le vesti della sua gloria, si cinge col “panno” dell’umanità e si fa schiavo. Lava i piedi sporchi dei discepoli e li rende così capaci di accedere al convito divino al quale Egli li invita. Al posto delle purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l’uomo ritualmente, lasciandolo tuttavia così com’è, subentra il bagno nuovo: Egli ci rende puri mediante la sua parola e il suo amore, mediante il dono di se stesso. “Voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato”, dirà ai discepoli nel discorso sulla vite (Gv 15, 3). Sempre di nuovo ci lava con la sua parola. Sì, se accogliamo le parole di Gesù in atteggiamento di meditazione, di preghiera e di fede, esse sviluppano in noi la loro forza purificatrice. Giorno dopo giorno siamo come ricoperti di sporcizia multiforme, di parole vuote, di pregiudizi, di sapienza ridotta ed alterata; una molteplice semifalsità o falsità aperta s’infiltra continuamente nel nostro intimo. Tutto ciò offusca e contamina la nostra anima, ci minaccia con l’incapacità per la verità e per il bene. Se accogliamo le parole di Gesù col cuore attento, esse si rivelano veri lavaggi, purificazioni dell’anima, dell’uomo interiore. È, questo, ciò a cui ci invita il Vangelo della lavanda dei piedi: lasciarci sempre di nuovo lavare da quest’acqua pura, lasciarci rendere capaci della comunione conviviale con Dio e con i fratelli. Ma dal fianco di Gesù, dopo il colpo di lancia del soldato, uscì non solo acqua, bensì anche sangue (Gv 19, 34; cfr1 Gv 5, 6. 8). Gesù non ha solo parlato, non ci ha lasciato solo parole. Egli dona se stesso. Ci lava con la potenza sacra del suo sangue, cioè con il suo donarsi “sino alla fine”, sino alla Croce. La sua parola è più di un semplice parlare; è carne e sangue “per la vita del mondo” (Gv 6, 51). Nei santi Sacramenti, il Signore sempre di nuovo s’inginocchia davanti ai nostri piedi e ci purifica. PreghiamoLo, affinché dal bagno sacro del suo amore veniamo sempre più profondamente penetrati e così veramente purificati!

Se ascoltiamo il Vangelo con attenzione, possiamo scorgere nell’avvenimento della lavanda dei piedi due aspetti diversi. La lavanda che Gesù dona ai suoi discepoli è anzitutto semplicemente azione sua – il dono della purezza, della “capacità per Dio” offerto a loro. Ma il dono diventa poi un modello, il compito di fare la stessa cosa gli uni per gli altri. I Padri hanno qualificato questa duplicità di aspetti della lavanda dei piedi con le parole sacramentum ed exemplumSacramentum significa in questo contesto non uno dei sette sacramenti, ma il mistero di Cristo nel suo insieme, dall’incarnazione fino alla croce e alla risurrezione: questo insieme diventa la forza risanatrice e santificatrice, la forza trasformatrice per gli uomini, diventa la nostra metabasis, la nostra trasformazione in una nuova forma di essere, nell’apertura per Dio e nella comunione con Lui. Ma questo nuovo essere che Egli, senza  nostro merito, semplicemente ci dà deve poi trasformarsi in noi nella dinamica di una nuova vita. L’insieme di dono ed esempio, che troviamo nella pericope della lavanda dei piedi, è caratteristico per la natura del cristianesimo in genere. Il cristianesimo, in rapporto col moralismo, è di più e una cosa diversa. All’inizio non sta il nostro fare, la nostra capacità morale. Cristianesimo è anzitutto dono: Dio si dona a noi – non dà qualcosa, ma se stesso. E questo avviene non solo all’inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta continuamente Colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Sempre ci precede. Per questo l’atto centrale dell’essere cristiani è l’Eucaristia: la gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che Egli ci dà.

Con ciò, tuttavia, non restiamo destinatari passivi della bontà divina. Dio ci gratifica come partner personali e vivi. L’amore donato è la dinamica dell’“amare insieme”, vuol essere in noi vita nuova a partire da Dio. Così comprendiamo la parola che, al termine del racconto della lavanda dei piedi, Gesù dice ai suoi discepoli e a tutti noi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Il “comandamento nuovo” non consiste in una norma nuova e difficile, che fino ad allora non esisteva. Il comandamento nuovo consiste nell’amare insieme con Colui che ci ha amati per primo. Così dobbiamo comprendere anche il Discorso della montagna. Esso non significa che Gesù abbia allora dato precetti nuovi, che rappresentavano esigenze di un umanesimo più sublime di quello precedente. Il Discorso della montagna è un cammino di allenamento nell’immedesimarsi con i sentimenti di Cristo (cfr Fil 2, 5), un cammino di purificazione interiore che ci conduce a un vivere insieme con Lui. La cosa nuova è il dono che ci introduce nella mentalità di Cristo. Se consideriamo ciò, percepiamo quanto lontani siamo spesso con la nostra vita da questa novità del Nuovo Testamento; quanto poco diamo all’umanità l’esempio dell’amare in comunione col suo amore. Così le restiamo debitori della prova di credibilità della verità cristiana, che si dimostra nell’amore. Proprio per questo vogliamo tanto maggiormente pregare il Signore di renderci, mediante la sua purificazione, maturi per il nuovo comandamento.

Nel Vangelo della lavanda dei piedi il colloquio di Gesù con Pietro presenta ancora un altro particolare della prassi di vita cristiana, a cui vogliamo alla fine rivolgere la nostra attenzione. In un primo momento, Pietro non aveva voluto lasciarsi lavare i piedi dal Signore: questo capovolgimento dell’ordine, che cioè il maestro – Gesù – lavasse i piedi, che il padrone assumesse il servizio dello schiavo, contrastava totalmente con il suo timor riverenziale verso Gesù, con il suo concetto del rapporto tra maestro e discepolo. “Non mi laverai mai i piedi”, dice a Gesù con la sua consueta passionalità (Gv 13, 8). È la stessa mentalità che, dopo la professione di fede in Gesù, Figlio di Dio, a Cesarea di Filippo, lo aveva spinto ad opporsi a Lui, quando aveva predetto la riprovazione e la croce: “Questo non ti accadrà mai!”, aveva dichiarato Pietro categoricamente (Mt 16, 22). Il suo concetto di Messia comportava un’immagine di maestà, di grandezza divina. Doveva apprendere sempre di nuovo che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra idea di grandezza; che essa consiste proprio nel discendere, nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale auto-spoliazione. E anche noi dobbiamo apprenderlo sempre di nuovo, perché sistematicamente desideriamo un Dio del successo e non della Passione; perché non siamo in grado di accorgerci che il Pastore viene come Agnello che si dona e così ci conduce al pascolo giusto.

Quando il Signore dice a Pietro che senza la lavanda dei piedi egli non avrebbe potuto aver alcuna parte con Lui, Pietro subito chiede con impeto che gli siano lavati anche il capo e le mani. A ciò segue la parola misteriosa di Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi” (Gv 13, 10). Gesù allude a un bagno che i discepoli, secondo le prescrizioni rituali, avevano già fatto; per la partecipazione al convito occorreva ora soltanto la lavanda dei piedi. Ma naturalmente si nasconde in ciò un significato più profondo. A che cosa si allude? Non lo sappiamo con certezza. In ogni caso teniamo presente che la lavanda dei piedi, secondo il senso dell’intero capitolo, non indica un singolo specifico Sacramento, ma il sacramentum Christi nel suo insieme – il suo servizio di salvezza, la sua discesa fino alla croce,  il suo amore sino alla fine, che ci purifica e ci rende capaci di Dio. Qui, con la distinzione tra bagno e lavanda dei piedi, tuttavia, si rende inoltre percepibile un’allusione alla vita nella comunità dei discepoli, alla vita nella comunità della Chiesa – un’allusione che Giovanni forse vuole consapevolmente trasmettere alle comunità del suo tempo. Allora sembra chiaro che il bagno che ci purifica definitivamente e non deve essere ripetuto è il Battesimo – l’essere immersi nella morte e risurrezione di Cristo, un fatto che cambia la nostra vita profondamente, dandoci come una nuova identità che rimane, se non la gettiamo via come fece Giuda. Ma anche nella permanenza di questa nuova identità, per la comunione conviviale con Gesù abbiamo bisogno della “lavanda dei piedi”. Di che cosa si tratta? Mi sembra che la Prima Lettera di san Giovanni ci dia la chiave per comprenderlo. Lì si legge: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa” (1, 8s). Abbiamo bisogno della “lavanda dei piedi”, della lavanda dei peccati di ogni giorno, e per questo abbiamo bisogno della confessione dei peccati. Come ciò si sia svolto precisamente nelle comunità giovannee, non lo sappiamo. Ma la direzione indicata dalla parola di Gesù a Pietro è ovvia: per essere capaci a partecipare alla comunità conviviale con Gesù Cristo dobbiamo essere sinceri. Dobbiamo riconoscere che anche nella nostra nuova identità di battezzati pecchiamo. Abbiamo bisogno della confessione come essa ha preso forma nel Sacramento della riconciliazione. In esso il Signore lava a noi sempre di nuovo i piedi sporchi e noi possiamo sederci a tavola con Lui.

Ma così assume un nuovo significato anche la parola, con cui il Signore allarga il sacramentum facendone l’exemplum, un dono, un servizio per il fratello: “Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv13, 14). Dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri nel quotidiano servizio vicendevole dell’amore. Ma dobbiamo lavarci i piedi anche nel senso che sempre di nuovo perdoniamo gli uni agli altri. Il debito che il Signore ci ha condonato è sempre infinitamente più grande di tutti i debiti che altri possono avere nei nostri confronti (cfr Mt 18, 21-35). A questo ci esorta il Giovedì Santo: non lasciare che il rancore verso l’altro diventi nel profondo un avvelenamento dell’anima. Ci esorta a purificare continuamente la nostra memoria, perdonandoci a vicenda di cuore, lavando i piedi gli uni degli altri, per poterci così recare insieme al convito di Dio.

Il Giovedì Santo è un giorno di gratitudine e di gioia per il grande dono dell’amore sino alla fine, che il Signore ci ha fatto. Vogliamo pregare il Signore in questa ora, affinché gratitudine e gioia diventino in noi la forza di amare insieme con il suo amore. Amen.

 



Caterina63
00venerdì 12 aprile 2019 13:54

SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE


OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI


Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì Santo, 9 aprile 2009

 

Cari fratelli e sorelle! 

Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem: così diremo oggi nel Canone della Santa Messa. “Hoc est hodie” – la Liturgia del Giovedì Santo inserisce nel testo della preghiera la parola “oggi”, sottolineando con ciò la dignità particolare di questa giornata. È stato “oggi” che Egli l’ha fatto: per sempre ha donato se stesso a noi nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Questo “oggi” è anzitutto il memoriale della Pasqua di allora. Tuttavia è di più. Con il Canone entriamo in questo “oggi”. Il nostro oggi viene a contatto con il suo oggi. Egli fa questo adesso. Con la parola “oggi”, la Liturgia della Chiesa vuole indurci a porre grande attenzione interiore al mistero di questa giornata, alle parole in cui esso si esprime. Cerchiamo dunque di ascoltare in modo nuovo il racconto dell’istituzione così come la Chiesa,  in base alla Scrittura e contemplando il Signore stesso, lo ha formulato. 

Come prima cosa ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: qui pridie. Questo “qui” aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, “… diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo”. In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a sé stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo. Pregando in questo momento centrale, la Chiesa è in totale accordo con l’avvenimento nel Cenacolo, poiché l’agire di Gesù viene descritto con le parole: “gratias agens benedixit – rese grazie con la preghiera di benedizione”. Con questa espressione, la Liturgia romana ha diviso in due parole ciò, che nell’ebraico berakha è una parola sola, nel greco invece appare nei due termini eucharistía ed eulogía. Il Signore ringrazia. Ringraziando riconosciamo che una certa cosa è dono che proviene da un altro. Il Signore ringrazia e con ciò restituisce a Dio il pane, “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”, per riceverlo nuovamente da Lui. Ringraziare diventa benedire. Ciò che è stato dato nelle mani di Dio, ritorna da Lui benedetto e trasformato. La Liturgia romana ha ragione, quindi, nell’interpretare il nostro pregare in questo momento sacro mediante le parole: “offriamo”, “supplichiamo”, “chiediamo di accettare”, “di benedire queste offerte”. Tutto questo si nasconde nella parola “eucharistia” 

C’è un’altra particolarità nel racconto dell’istituzione riportato nel Canone Romano, che vogliamo meditare in quest’ora. La Chiesa orante guarda alle mani e agli occhi del Signore. Vuole quasi osservarlo, vuole percepire il gesto del suo pregare e del suo agire in quell’ora singolare, incontrare la figura di Gesù, per così dire, anche attraverso i sensi. “Egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili…”. Guardiamo a quelle mani con cui Egli ha guarito gli uomini; alle mani con cui ha benedetto i bambini; alle mani, che ha imposto agli uomini; alle mani, che sono state inchiodate alla Croce e che per sempre porteranno le stimmate come segni del suo amore pronto a morire. Ora siamo incaricati noi di fare ciò che Egli ha fatto: prendere nelle mani il pane perché mediante la preghiera eucaristica sia trasformato. Nell’Ordinazione sacerdotale, le nostre mani sono state unte, affinché diventino mani di benedizione. Preghiamo in quest’ora il Signore che le nostre mani servano sempre di più a portare la salvezza, a portare la benedizione, a rendere presente la sua bontà! 

Dall’introduzione alla Preghiera sacerdotale di Gesù (cfr Gv 17, 1), il Canone prende poi le parole: “Alzando gli occhi al cielo a te, Dio Padre suo onnipotente…” Il Signore ci insegna ad alzare gli occhi e soprattutto il cuore. A sollevare lo sguardo, distogliendolo dalle cose del mondo, ad orientarci nella preghiera verso Dio e così a risollevarci. In un inno della preghiera delle ore chiediamo al Signore di custodire i nostri occhi, affinché non accolgano e non lascino entrare in noi le “vanitates” – le vanità, le nullità, ciò che è solo apparenza. Preghiamo che attraverso gli occhi non entri in noi il male, falsificando e sporcando così il nostro essere. Ma vogliamo pregare soprattutto per avere occhi che vedano tutto ciò che è vero, luminoso e buono; affinché diventiamo capaci di vedere la presenza di Dio nel mondo. Preghiamo, affinché guardiamo il mondo con occhi di amore, con gli occhi di Gesù, riconoscendo così i fratelli e le sorelle, che hanno bisogno di noi, che sono in attesa della nostra parola e della nostra azione. 

Benedicendo, il Signore spezza poi il pane e lo distribuisce ai discepoli. Lo spezzare il pane è il gesto del padre di famiglia che si preoccupa dei suoi e dà loro ciò di cui hanno bisogno per la vita. Ma è anche il gesto dell’ospitalità con cui lo straniero, l’ospite viene accolto nella famiglia e gli viene concessa una partecipazione alla sua vita. Dividere – con-dividere è unire. Mediante il condividere si crea comunione. Nel pane spezzato, il Signore distribuisce se stesso. Il gesto dello spezzare allude misteriosamente anche alla sua morte, all’amore sino alla morte. Egli distribuisce se stesso, il vero “pane per la vita del mondo” (cfr Gv 6, 51). Il nutrimento di cui l’uomo nel più profondo ha bisogno è la comunione con Dio stesso. Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane, non dà più pane terreno, ma la comunione con se stesso. Questa trasformazione, però, vuol essere l’inizio della trasformazione del mondo. Affinché diventi un mondo di risurrezione, un mondo di Dio. Sì, si tratta di trasformazione. Dell’uomo nuovo e del mondo nuovo che prendono inizio nel pane consacrato, trasformato, transustanziato. 

Abbiamo detto che lo spezzare il pane è un gesto di comunione, dell’unire attraverso il condividere. Così, nel gesto stesso è già accennata l’intima natura dell’Eucaristia: essa è agape, è amore reso corporeo. Nella parola “agape” i significati di Eucaristia e amore si compènetrano. Nel gesto di Gesù che spezza il pane, l’amore che si partecipa ha raggiunto la sua radicalità estrema: Gesù si lascia spezzare come pane vivo. Nel pane distribuito riconosciamo il mistero del chicco di grano, che muore e così porta frutto. Riconosciamo la nuova moltiplicazione dei pani, che deriva dal morire del chicco di grano e proseguirà sino alla fine del mondo. Allo stesso tempo vediamo che l’Eucaristia non può mai essere solo un’azione liturgica. È completa solo, se l’agape liturgica diventa amore nel quotidiano. Nel culto cristiano le due cose diventano una – l’essere gratificati dal Signore nell’atto cultuale e il culto dell’amore nei confronti del prossimo. Chiediamo in quest’ora al Signore la grazia di imparare a vivere sempre meglio il mistero dell’Eucaristia così che in questo modo prenda inizio la trasformazione del mondo. 

Dopo il pane, Gesù prende il calice del vino. Il Canone romano qualifica il calice, che il Signore dà ai discepoli, come “praeclarus calix” (come calice glorioso), alludendo con ciò al Salmo 23 [22], quel Salmo che parla di Dio come del Pastore potente e buono. Lì si legge: “Davanti a me tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici … Il mio calice trabocca” – è calix praeclarus. Il Canone romano interpreta questa parola del Salmo come una profezia, che si adempie nell’Eucaristia: Sì, il Signore ci prepara la mensa in mezzo alle minacce di questo mondo, e ci dona il calice glorioso – il calice della grande gioia, della vera festa, alla quale tutti aneliamo – il calice colmo del vino del suo amore. Il calice significa le nozze: adesso è arrivata l’“ora”, alla quale le nozze di Cana avevano alluso in modo misterioso. Sì, l’Eucaristia è più di un convito, è una festa di nozze. E queste nozze si fondono nell’autodonazione di Dio sino alla morte. Nelle parole dell’Ultima Cena di Gesù e nel Canone della Chiesa, il mistero solenne delle nozze si cela sotto l’espressione “novum Testamentum”. Questo calice è il nuovo Testamento – “la nuova Alleanza nel mio sangue”, come Paolo riferisce la parola di Gesù sul calice nella seconda lettura di oggi (1 Kor 11, 25). Il Canone romano aggiunge: “per la nuova ed eterna alleanza”, per esprime l’indissolubilità del legame nuziale di Dio con l’umanità. Il motivo per cui le antiche traduzioni della Bibbia non parlano di Alleanza, ma di Testamento, sta nel fatto che non sono due contraenti alla pari che qui si incontrano, ma entra in azione l’infinita distanza tra Dio e l’uomo. Ciò che noi chiamiamo nuova ed antica Alleanza non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma mero dono di Dio che ci lascia in eredità il suo amore – se stesso. E certo, mediante questo dono del suo amore Egli, superando ogni distanza, ci rende poi veramente “partner” e si realizza il mistero nuziale dell’amore. 

Per poter comprendere che cosa in profondità lì avviene, dobbiamo ascoltare ancora più attentamente le parole della Bibbia e il loro significato originario. Gli studiosi ci dicono che, nei tempi remoti di cui parlano le storie dei Padri di Israele, “ratificare un’alleanza” significa “entrare con altri in un legame basato sul sangue, ovvero accogliere l’altro nella propria federazione ed entrare così un una comunione di diritti l’uno con l’altro”. In questo modo si crea una consanguineità reale benché non materiale. I partner diventano in qualche modo “fratelli dalla stessa carne e dalle stesse ossa”. L’alleanza opera un’insieme che significa pace (cfr ThWNT II 105 – 137). Possiamo adesso farci almeno un’idea di ciò che avvenne nell’ora dell’Ultima Cena e che, da allora, si rinnova ogni volta che celebriamo l’Eucaristia? Dio, il Dio vivente stabilisce con noi una comunione di pace, anzi, Egli crea una “consanguineità” tra sé e noi. Mediante l’incarnazione di Gesù, mediante il suo sangue versato siamo stati tirati dentro una consanguineità molto reale con Gesù e quindi con Dio stesso. Il sangue di Gesù è il suo amore, nel quale la vita divina e quella umana sono divenute una cosa sola. Preghiamo il Signore, affinché comprendiamo sempre di più la grandezza di questo mistero! Affinché esso sviluppi la sua forza trasformatrice nel nostro intimo, in modo che diventiamo veramente consanguinei di Gesù, pervasi dalla sua pace e così anche in comunione gli uni con gli altri. 

Ora, però, emerge ancora un’altra domanda. Nel Cenacolo, Cristo dona ai discepoli il suo Corpo e il suo Sangue, cioè se stesso nella totalità della sua persona. Ma può farlo? È ancora fisicamente presente in mezzo a loro, sta di fronte a loro! La risposta è: in quell’ora Gesù realizza ciò che aveva annunciato precedentemente nel discorso sul Buon Pastore: “Nessuno mi toglie la mia vita: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo…” (Gv 10, 18). Nessuno può toglierGli la vita: Egli la dà per libera decisione. In quell’ora anticipa la crocifissione e la risurrezione. Ciò che là si realizzerà, per così dire, fisicamente in Lui, Egli lo compie già in anticipo nella libertà del suo amore. Egli dona la sua vita e la riprende nella risurrezione per poterla condividere per sempre. 

Signore, oggi Tu ci doni la tua vita, ci doni te stesso. Pènetraci con il tuo amore. Facci vivere nel tuo “oggi”. Rendici strumenti della tua pace! Amen.

 

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SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì Santo, 1° aprile 2010

 

Cari fratelli e sorelle,

In modo più ampio degli altri tre evangelisti, san Giovanni, nella maniera a lui propria, ci riferisce nel suo Vangelo circa i discorsi d’addio di Gesù, che appaiono quasi come il suo testamento e come sintesi del nucleo essenziale del suo messaggio. All’inizio di tali discorsi c’è la lavanda dei piedi, in cui il servizio redentore di Gesù per l’umanità bisognosa di purificazione è riassunto in questo gesto di umiltà. Alla fine, le parole di Gesù si trasformano in preghiera, nella sua Preghiera sacerdotale, il cui sfondo gli esegeti hanno individuato nel rituale della festa giudaica dell’Espiazione. Ciò che era il senso di quella festa e dei suoi riti – la purificazione del mondo, la sua riconciliazione con Dio – avviene nell’atto del pregare di Gesù, un pregare che, al tempo stesso, anticipa la Passione, la trasforma in preghiera. Così nella Preghiera sacerdotale si rende visibile in una maniera del tutto particolare anche il mistero permanente del Giovedì Santo: il nuovo sacerdozio di Gesù Cristo e la sua continuazione nella consacrazione degli Apostoli, nel coinvolgimento dei discepoli nel sacerdozio del Signore. Da questo testo inesauribile, in quest’ora vorrei scegliere tre parole di Gesù, che possono introdurci più profondamente nel mistero del Giovedì Santo.

Vi è innanzitutto la frase: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3). Ogni essere umano vuole vivere. Desidera una vita vera, piena, una vita che valga la pena, che sia una gioia. Con l’anelito alla vita è, al contempo, collegata la resistenza contro la morte, che tuttavia è ineluttabile. Quando Gesù parla della vita eterna, Egli intende la vita autentica, vera, che merita di essere vissuta. Non intende semplicemente la vita che viene dopo la morte. Egli intende il modo autentico della vita – una vita che è pienamente vita e per questo è sottratta alla morte, ma che può di fatto iniziare già in questo mondo, anzi, deve iniziare in esso: solo se impariamo già ora a vivere in modo autentico, se impariamo quella vita che la morte non può togliere, la promessa dell’eternità ha senso. Ma come si realizza questo? Che cosa è mai questa vita veramente eterna, alla quale la morte non può nuocere? La risposta di Gesù, l’abbiamo sentita: Questa è la vita vera, che conoscano te – Dio – e il tuo Inviato, Gesù Cristo. Con nostra sorpresa, lì ci viene detto che vita è conoscenza. Ciò significa anzitutto: vita è relazione. Nessuno ha la vita da se stesso e solamente per se stesso. Noi l’abbiamo dall’altro, nella relazione con l’altro. Se è una relazione nella verità e nell’amore, un dare e ricevere, essa dà pienezza alla vita, la rende bella. Ma proprio per questo, la distruzione della relazione ad opera della morte può essere particolarmente dolorosa, può mettere in questione la vita stessa. Solo la relazione con Colui, che è Egli stesso la Vita, può sostenere anche la mia vita al di là delle acque della morte, può condurmi vivo attraverso di esse. Già nella filosofia greca esisteva l’idea che l’uomo può trovare una vita eterna se si attacca a ciò che è indistruttibile – alla verità che è eterna. Dovrebbe, per così dire, riempirsi di verità per portare in sé la sostanza dell’eternità. Ma solo se la verità è Persona, essa può portarmi attraverso la notte della morte. Noi ci aggrappiamo a Dio – a Gesù Cristo, il Risorto. E siamo così portati da Colui che è la Vita stessa. In questa relazione noi viviamo anche attraversando la morte, perché non ci abbandona Colui che è la Vita stessa.

Ma ritorniamo alla parola di Gesù: Questa è la vita eterna: che conoscano te e il tuo Inviato. La conoscenza di Dio diventa vita eterna. Ovviamente qui con “conoscenza” s’intende qualcosa di più di un sapere esteriore, come sappiamo, per esempio, quando è morto un personaggio famoso e quando fu fatta un’invenzione. Conoscere nel senso della Sacra Scrittura è un diventare interiormente una cosa sola con l’altro. Conoscere Dio, conoscere Cristo significa sempre anche amarLo, diventare in qualche modo una cosa sola con Lui in virtù del conoscere e dell’amare. La nostra vita diventa quindi una vita autentica, vera e così anche eterna, se conosciamo Colui che è la fonte di ogni essere e di ogni vita. Così la parola di Gesù diventa un invito per noi: diventiamo amici di Gesù, cerchiamo di conoscerLo sempre di più! Viviamo in dialogo con Lui! Impariamo da Lui la vita retta, diventiamo suoi testimoni! Allora diventiamo persone che amano e allora agiamo in modo giusto. Allora viviamo veramente.

Due volte nel corso della Preghiera sacerdotale Gesù parla della rivelazione del nome di Dio. “Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo” (v. 6). “Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (v. 26). Il Signore allude qui alla scena presso il roveto ardente, dal quale Dio, alla domanda di Mosè, aveva rivelato il suo nome. Gesù vuole quindi dire che Egli porta a termine ciò che era iniziato presso il roveto ardente; che in Lui Dio, che si era fatto conoscere a Mosè, ora si rivela pienamente. E che con ciò Egli compie la riconciliazione; che l’amore con cui Dio ama suo Figlio nel mistero della Trinità, coinvolge ora gli uomini in questa circolazione divina dell’amore. Ma che cosa significa più precisamente che la rivelazione dal roveto ardente viene portata a termine, raggiunge pienamente la sua meta? L’essenziale dell’avvenimento al monte Oreb non era stata la parola misteriosa, il “nome”, che Dio aveva consegnato a Mosè, per così dire, come segno di riconoscimento. Comunicare il nome significa entrare in relazione con l’altro. La rivelazione del nome divino significa dunque che Dio, che è infinito e sussiste in se stesso, entra nell’intreccio di relazioni degli uomini; che Egli, per così dire, esce da se stesso e diventa uno di noi, uno che è presente in mezzo a noi e per noi. Per questo in Israele sotto il nome di Dio non si è visto solo un termine avvolto di mistero, ma il fatto dell’essere-con-noi di Dio. Il Tempio, secondo la Sacra Scrittura, è il luogo in cui abita il nome di Dio. Dio non è racchiuso in alcuno spazio terreno; Egli rimane infinitamente al di sopra del mondo. Ma nel Tempio è presente per noi come Colui che può essere chiamato – come Colui che vuol essere con noi. Questo essere di Dio con il suo popolo si compie nell’incarnazione del Figlio. In essa si completa realmente ciò che aveva avuto inizio presso il roveto ardente: Dio quale Uomo può essere da noi chiamato e ci è vicino. Egli è uno di noi, e tuttavia è il Dio eterno ed infinito. Il suo amore esce, per così dire, da se stesso ed entra in noi. Il mistero eucaristico, la presenza del Signore sotto le specie del pane e del vino è la massima e più alta condensazione di questo nuovo essere-con-noi di Dio. “Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele”, ha pregato il profeta Isaia (45,15). Ciò rimane sempre vero. Ma al tempo stesso possiamo dire: veramente tu sei un Dio vicino, tu sei un Dio-con-noi. Tu ci hai rivelato il tuo mistero e ci hai mostrato il tuo volto. Tu hai rivelato te stesso e ti sei dato nelle nostre mani… In quest’ora deve invaderci la gioia e la gratitudine perché Egli si è mostrato; perché Egli, l’Infinito e l’Inafferrabile per la nostra ragione, è il Dio vicino che ama, il Dio che noi possiamo conoscere ed amare.

La richiesta più nota della Preghiera sacerdotale è la richiesta dell’unità per i discepoli, per quelli di allora e quelli futuri. Dice il Signore: “Non prego solo per questi – cioè la comunità dei discepoli radunata nel Cenacolo – ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.” (v. 20s; cfr vv. 11 e 13). Che cosa chiede precisamente qui il Signore? Innanzitutto, Egli prega per i discepoli di quel tempo e di tutti i tempi futuri. Guarda in avanti verso l’ampiezza della storia futura. Vede i pericoli di essa e raccomanda questa comunità al cuore del Padre. Egli chiede al Padre la Chiesa e la sua unità. È stato detto che nel Vangelo di Giovanni la Chiesa non compare - ed è vero che la parola ekklesia non c’è – ma qui essa appare nelle sue caratteristiche essenziali: come la comunità dei discepoli che, mediante la parola apostolica, credono in Gesù Cristo e così diventano una cosa sola. Gesù implora la Chiesa come una ed apostolica. Così questa preghiera è propriamente un atto fondante della Chiesa. Il Signore chiede la Chiesa al Padre. Essa nasce dalla preghiera di Gesù e mediante l’annuncio degli Apostoli, che fanno conoscere il nome di Dio e introducono gli uomini nella comunione di amore con Dio. Gesù chiede dunque che l’annuncio dei discepoli prosegua lungo i tempi; che tale annuncio raccolga uomini i quali, in base ad esso, riconoscono Dio e il suo Inviato, il Figlio Gesù Cristo. Egli prega affinché gli uomini siano condotti alla fede e, mediante la fede, all’amore. Egli chiede al Padre che questi credenti “siano in noi” (v. 21); che vivano, cioè, nell’interiore comunione con Dio e con Gesù Cristo e che da questo essere interiormente nella comunione con Dio si crei l’unità visibile. Due volte il Signore dice che questa unità dovrebbe far sì che il mondo creda alla missione di Gesù. Deve quindi essere un’unità che si possa vedere – un’unità che vada tanto al di là di ciò che solitamente è possibile tra gli uomini, da diventare un segno per il mondo ed accreditare la missione di Gesù Cristo. La preghiera di Gesù ci dà la garanzia che l’annuncio degli Apostoli non potrà mai cessare nella storia; che susciterà sempre la fede e raccoglierà uomini nell’unità – in un’unità che diventa testimonianza per la missione di Gesù Cristo. Ma questa preghiera è sempre anche un esame di coscienza per noi. In quest’ora il Signore ci chiede: vivi tu, mediante la fede, nella comunione con me e così nella comunione con Dio? O non vivi forse piuttosto per te stesso, allontanandoti così dalla fede? E non sei forse con ciò colpevole della divisione che oscura la mia missione nel mondo; che preclude agli uomini l’accesso all’amore di Dio? È stata una componente della Passione storica di Gesù e rimane una parte di quella sua Passione che si prolunga nella storia, l’aver Egli visto e il vedere tutto ciò che minaccia, distrugge l’unità. Quando noi meditiamo sulla Passione del Signore, dobbiamo anche percepire il dolore di Gesù per il fatto che siamo in contrasto con la sua preghiera; che facciamo resistenza al suo amore; che ci opponiamo all’unità, che deve essere per il mondo testimonianza della sua missione.

In quest’ora, in cui il Signore nella Santissima Eucaristia dona se stesso – il suo corpo e il suo sangue –, si dà nelle nostre mani e nei nostri cuori, vogliamo lasciarci toccare dalla sua preghiera. Vogliamo entrare noi stessi nella sua preghiera, e così lo imploriamo: Sì, Signore, donaci la fede in te, che sei una cosa sola con il Padre nello Spirito Santo. Donaci di vivere nel tuo amore e così diventare una cosa sola come tu sei una cosa sola con il Padre, perché il mondo creda. Amen.

 


Caterina63
00venerdì 12 aprile 2019 13:56

SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE


OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI


Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì Santo, 21 aprile 2011

Cari fratelli e sorelle!

„Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione“ (Lc 22,15): con queste parole Gesù ha inaugurato la celebrazione del suo ultimo convito e dell’istituzione della santa Eucaristia. Gesù è andato incontro a quell’ora desiderandola. Nel suo intimo ha atteso quel momento in cui avrebbe donato se stesso ai suoi sotto le specie del pane e del vino. Ha atteso quel momento che avrebbe dovuto essere in qualche modo le vere nozze messianiche: la trasformazione dei doni di questa terra e il diventare una cosa sola con i suoi, per trasformarli ed inaugurare così la trasformazione del mondo. Nel desiderio di Gesù possiamo riconoscere il desiderio di Dio stesso – il suo amore per gli uomini, per la sua creazione, un amore in attesa. L’amore che attende il momento dell’unione, l’amore che vuole attirare gli uomini a sé, per dare compimento con ciò anche al desiderio della stessa creazione: essa, infatti, è protesa verso la manifestazione dei figli di Dio (cfr Rm 8,19). Gesù ha desiderio di noi, ci attende. E noi, abbiamo veramente desiderio di Lui? C’è dentro di noi la spinta ad incontrarLo? Bramiamo la sua vicinanza, il diventare una cosa sola con Lui, di cui Egli ci fa dono nella santa Eucaristia? Oppure siamo indifferenti, distratti, pieni di altro? Dalle parabole di Gesù sui banchetti sappiamo che Egli conosce la realtà dei posti rimasti vuoti, la risposta negativa, il disinteresse per Lui e per la sua vicinanza. I posti vuoti al banchetto nuziale del Signore, con o senza scuse, sono per noi, ormai da tempo, non una parabola, bensì una realtà presente, proprio in quei Paesi ai quali Egli aveva manifestato la sua vicinanza particolare. Gesù sapeva anche di ospiti che sarebbero sì venuti, ma senza essere vestiti in modo nuziale – senza gioia per la sua vicinanza, seguendo solo un’abitudine, e con tutt’altro orientamento della loro vita. San Gregorio Magno, in una delle sue omelie, si domandava: Che genere di persone sono quelle che vengono senza abito nuziale? In che cosa consiste questo abito e come lo si acquista? La sua risposta è: Quelli che sono stati chiamati e vengono hanno in qualche modo fede. È la fede che apre loro la porta. Ma manca loro l’abito nuziale dell’amore. Chi vive la fede non come amore non è preparato per le nozze e viene mandato fuori. La comunione eucaristica richiede la fede, ma la fede richiede l’amore, altrimenti è morta anche come fede.

Da tutti e quattro i Vangeli sappiamo che l’ultimo convito di Gesù prima della Passione fu anche un luogo di annuncio. Gesù ha proposto ancora una volta con insistenza gli elementi portanti del suo messaggio. Parola e Sacramento, messaggio e dono stanno inscindibilmente insieme. Ma durante l’ultimo convito, Gesù ha soprattutto pregato. Matteo, Marco e Luca usano due parole per descrivere la preghiera di Gesù nel punto centrale della Cena: “eucharistesas” ed “eulogesas” – “ringraziare” e “benedire”. Il movimento ascendente del ringraziare e quello discendente del benedire vanno insieme. Le parole della transustanziazione sono parte di questa preghiera di Gesù. Sono parole di preghiera. Gesù trasforma la sua Passione in preghiera, in offerta al Padre per gli uomini. Questa trasformazione della sua sofferenza in amore possiede una forza trasformatrice per i doni, nei quali ora Egli dà se stesso. Egli li dà a noi affinché noi e il mondo siamo trasformati. Lo scopo proprio e ultimo della trasformazione eucaristica è la nostra stessa trasformazione nella comunione con Cristo. L’Eucaristia ha di mira l’uomo nuovo, il mondo nuovo così come esso può nascere soltanto a partire da Dio mediante l’opera del Servo di Dio.

Da Luca e soprattutto da Giovanni sappiamo che Gesù nella sua preghiera durante l’Ultima Cena ha anche rivolto suppliche al Padre – suppliche che al tempo stesso contengono appelli ai suoi discepoli di allora e di tutti i tempi. Vorrei in quest’ora scegliere soltanto una supplica che, secondo Giovanni, Gesù ha ripetuto quattro volte nella sua Preghiera sacerdotale. Quanto deve averLo angustiato nel suo intimo! Essa rimane continuamente la sua preghiera al Padre per noi: è la preghiera per l’unità. Gesù dice esplicitamente che tale supplica non vale soltanto per i discepoli allora presenti, ma ha di mira tutti coloro che crederanno in Lui (cfr Gv 17,20). Chiede che tutti diventino una sola cosa “come tu, Padre, sei in me e io in te … perché il mondo creda” (Gv 17,21). L’unità dei cristiani può esserci soltanto se i cristiani sono intimamente uniti a Lui, a Gesù. Fede e amore per Gesù, fede nel suo essere uno col Padre e apertura all’unità con Lui sono essenziali. Questa unità non è dunque una cosa soltanto interiore, mistica. Deve diventare visibile, così visibile da costituire per il mondo la prova della missione di Gesù da parte del Padre. Per questo tale supplica ha un nascosto senso eucaristico che Paolo ha chiaramente evidenziato nella Prima Lettera ai Corinzi: “Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16s). Con l’Eucaristia nasce la Chiesa. Noi tutti mangiamo lo stesso pane, riceviamo lo stesso corpo del Signore e questo significa: Egli apre ciascuno di noi al di là di se stesso. Egli ci rende tutti una cosa sola. L’Eucaristia è il mistero dell’intima vicinanza e comunione di ogni singolo col Signore. Ed è, al tempo stesso, l’unione visibile tra tutti. L’Eucaristia è Sacramento dell’unità. Essa giunge fin nel mistero trinitario, e crea così al contempo l’unità visibile. Diciamolo ancora una volta: essa è l’incontro personalissimo col Signore e, tuttavia, non è mai soltanto un atto di devozione individuale. La celebriamo necessariamente insieme. In ogni comunità vi è il Signore in modo totale. Ma Egli è uno solo in tutte le comunità. Per questo, della Preghiera eucaristica della Chiesa fanno necessariamente parte le parole: “una cum Papa nostro et cum Episcopo nostro”. Questa non è un’aggiunta esteriore a ciò che avviene interiormente, bensì espressione necessaria della realtà eucaristica stessa. E menzioniamo il Papa e il Vescovo per nome: l’unità è del tutto concreta, ha dei nomi. Così l’unità diventa visibile, diventa segno per il mondo e stabilisce per noi stessi un criterio concreto.

San Luca ci ha conservato un elemento concreto della preghiera di Gesù per l’unità: “Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,31s). Oggi constatiamo con dolore nuovamente che a Satana è stato concesso di vagliare i discepoli visibilmente davanti a tutto il mondo. E sappiamo che Gesù prega per la fede di Pietro e dei suoi successori. Sappiamo che Pietro, che attraverso le acque agitate della storia va incontro al Signore ed è in pericolo di affondare, viene sempre di nuovo sorretto dalla mano del Signore e guidato sulle acque. Ma poi segue un annuncio e un incarico. “Tu, una volta convertito…”: Tutti gli esseri umani, eccetto Maria, hanno continuamente bisogno di conversione. Gesù predice a Pietro la sua caduta e la sua conversione. Da che cosa Pietro ha dovuto convertirsi? All’inizio della sua chiamata, spaventato dal potere divino del Signore e dalla propria miseria, Pietro aveva detto: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore!” (Lc 5,8). Alla luce del Signore egli riconosce la sua insufficienza. Proprio così, nell’umiltà di chi sa di essere peccatore, egli viene chiamato. Egli deve sempre di nuovo ritrovare questa umiltà. Presso Cesarea di Filippo Pietro non aveva voluto accettare che Gesù avrebbe dovuto soffrire ed essere crocifisso. Ciò non era conciliabile con la sua immagine di Dio e del Messia. Nel cenacolo egli non ha voluto accettare che Gesù gli lavasse i piedi: ciò non si adattava alla sua immagine della dignità del Maestro. Nell’orto degli ulivi ha colpito con la spada. Voleva dimostrare il suo coraggio. Davanti alla serva, però, ha affermato di non conoscere Gesù. In quel momento ciò gli sembrava una piccola bugia, per poter rimanere nelle vicinanze di Gesù. Il suo eroismo è crollato in un gioco meschino per un posto al centro degli avvenimenti. Tutti noi dobbiamo sempre di nuovo imparare ad accettare Dio e Gesù Cristo così come Egli è, e non come noi vorremmo che fosse. Anche noi stentiamo ad accettare che Egli si sia legato ai limiti della sua Chiesa e dei suoi ministri. Anche noi non vogliamo accettare che Egli sia senza potere in questo mondo. Anche noi ci nascondiamo dietro pretesti, quando l’appartenenza a Lui ci diventa troppo costosa e troppo pericolosa. Tutti noi abbiamo bisogno di conversione che accoglie Gesù nel suo essere-Dio ed essere-Uomo. Abbiamo bisogno dell’umiltà del discepolo che segue la volontà del Maestro. In quest’ora vogliamo pregarLo di guardare anche a noi come ha guardato Pietro, nel momento opportuno, con i suoi occhi benevoli, e di convertirci.

Pietro, il convertito, è chiamato a confermare i suoi fratelli. Non è un fatto esteriore che questo compito gli venga affidato nel cenacolo. Il servizio dell’unità ha il suo luogo visibile nella celebrazione della santa Eucaristia. Cari amici, per il Papa è un grande conforto sapere che in ogni Celebrazione eucaristica tutti pregano per lui; che la nostra preghiera si unisce alla preghiera del Signore per Pietro. Solo grazie alla preghiera del Signore e della Chiesa il Papa può corrispondere al suo compito di confermare i fratelli – di pascere il gregge di Gesù e di farsi garante per quell’unità che diventa testimonianza visibile della missione di Gesù da parte del Padre.

“Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi”. Signore, tu hai desiderio di noi, di me. Tu hai desiderio di partecipare te stesso a noi nella santa Eucaristia, di unirti a noi. Signore, suscita anche in noi il desiderio di te. Rafforzaci nell’unità con te e tra di noi. Dona alla tua Chiesa l’unità, perché il mondo creda. Amen.

 

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SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì Santo, 5 aprile 2012

 

Cari fratelli e sorelle!

Il Giovedì Santo non è solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui splendore certamente s’irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire, dentro di sé. Fa parte del Giovedì Santo anche la notte oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale Gesù esce con i suoi discepoli; fa parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù, come anche il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato. Cerchiamo in quest’ora di capire più profondamente qualcosa di questi eventi, perché in essi si svolge il mistero della nostra Redenzione.

Gesù esce nella notte. La notte significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi. Gesù stesso è la luce e la verità, la comunicazione, la purezza e la bontà. Egli entra nella notte. La notte, in ultima analisi, è simbolo della morte, della perdita definitiva di comunione e di vita. Gesù entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità.

Durante questo cammino, Egli ha cantato con i suoi Apostoli i Salmi della liberazione e della redenzione di Israele, che rievocavano la prima Pasqua in Egitto, la notte della liberazione. Ora Egli va, come è solito fare, per pregare da solo e per parlare come Figlio con il Padre. Ma, diversamente dal solito, vuole sapere di avere vicino a sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono i tre che avevano fatto esperienza della sua Trasfigurazione – il trasparire luminoso della gloria di Dio attraverso la sua figura umana – e che Lo avevano visto al centro tra la Legge e i Profeti, tra Mosè ed Elia. Avevano sentito come Egli parlava con entrambi del suo “esodo” a Gerusalemme. L’esodo di Gesù a Gerusalemme – quale parola misteriosa! L’esodo di Israele dall’Egitto era stato l’evento della fuga e della liberazione del popolo di Dio. Quale aspetto avrebbe avuto l’esodo di Gesù, in cui il senso di quel dramma storico avrebbe dovuto compiersi definitivamente? Ora i discepoli diventavano testimoni del primo tratto di tale esodo – dell’estrema umiliazione, che tuttavia era il passo essenziale dell’uscire verso la libertà e la vita nuova, a cui l’esodo mira. I discepoli, la cui vicinanza Gesù cercò in quell’ora di estremo travaglio come elemento di sostegno umano, si addormentarono presto. Sentirono tuttavia alcuni frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento. Ambedue le cose si impressero profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai cristiani per sempre. Gesù chiama Dio “Abbà”. Ciò significa – come essi aggiungono – “Padre”. Non è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola del linguaggio dei bambini – una parola affettuosa con cui non si osava rivolgersi a Dio. È il linguaggio di Colui che è veramente “bambino”, Figlio del Padre, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella più profonda unità con Lui.

Se ci domandiamo in che cosa consista l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli, dobbiamo dire: è il suo rapporto con Dio. Egli sta sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente. “Dio, nessuno lo ha mai visto”, dice san Giovanni. Colui “che è nel seno del Padre … lo ha rivelato” (1,18). Ora conosciamo Dio così come è veramente. Egli è Padre, e questo in una bontà assoluta alla quale possiamo affidarci. L’evangelista Marco, che ha conservato i ricordi di san Pietro, ci racconta che Gesù, all’appellativo “Abbà”, ha ancora aggiunto: Tutto è possibile a te, tu puoi tutto (cfr 14,36). Colui che è la Bontà, è al contempo potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere. Questa fiducia la possiamo imparare dalla preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi.

Prima di riflettere sul contenuto della richiesta di Gesù, dobbiamo ancora rivolgere la nostra attenzione su ciò che gli Evangelisti ci riferiscono riguardo all’atteggiamento di Gesù durante la sua preghiera. Matteo e Marco ci dicono che Egli “cadde faccia a terra” (Mt 26,39; cfr Mc 14,35), assunse quindi l’atteggiamento di totale sottomissione, quale è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo. Luca, invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio. Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in questo gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca.

Gesù lotta con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta l’angoscia di fronte al potere della morte. Questo è innanzitutto semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni creatura vivente, davanti alla presenza della morte. In Gesù, tuttavia, si tratta di qualcosa di più. Egli allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene incontro in quel calice che deve bere. È lo sconvolgimento del totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo mondo, che si riversa su di Lui. Egli vede anche me e prega anche per me. Così questo momento dell’angoscia mortale di Gesù è un elemento essenziale nel processo della Redenzione. La Lettera agli Ebrei, pertanto, ha qualificato la lotta di Gesù sul Monte degli Ulivi come un evento sacerdotale. In questa preghiera di Gesù, pervasa da angoscia mortale, il Signore compie l’ufficio del sacerdote: prende su di sé il peccato dell’umanità, tutti noi, e ci porta presso il Padre.

Infine, dobbiamo ancora prestare attenzione al contenuto della preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Gesù dice: “Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane. Chiede che ciò gli sia risparmiato. Tuttavia, in quanto Figlio, depone questa volontà umana nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo. L’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra volontà. Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi. È questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita. Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà. Preghiamo il Signore di introdurci in questo “sì” alla volontà di Dio, rendendoci così veramente liberi. Amen.


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