Mons. B. Gherardini: Conc.Ecum Vat. II Un discorso da fare (pref. del vescovo Oliveri)

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Caterina63
00venerdì 5 giugno 2009 19:01
DA UNAVOX:

http://www.unavox.it/Segnalazioni_Rete/Un_discorso_da_fare.html#supplica

Mons. Brunero Gherardini

Concilio Ecumenico Vaticano II
Un discorso da fare

"Non è uscito “col botto”, ma quasi in sordina, come il piccolo seme di cui parla Nostro Signore nel Vangelo; e come quel seme, è destinato a crescere molto e a fungere da ricovero per tante anime smarrite dalla crisi che ha seguito l’ultimo Concilio. Stiamo parlando dell’ultimo libro di Monsignor Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, edito dalla Casa Mariana Editrice di Frigento, fondata e diretta dai Francescani dell’Immacolata.
E’ certamente una pubblicazione destinata a far scorrere molto inchiostro e probabilmente ad accendere qualche polemica, sebbene ciò non rientri nelle intenzioni dell’Autore.
Ci sembra però inevitabile visti i contenuti del libro, l’eminenza di chi lo ha scritto e l’aria che tira in molti ambienti del mondo cattolico (e non)."

********************

mentre dal collegamento potrete leggere la supplica al Papa, qui a seguire inserisco la bellissima


Prefazione di S. Ecc. Rev.ma
mons. Mario Oliveri
Vescovo di Albenga-Imperia

                                                                                 mons. Oliveri

" Vi rendo noto, fratelli,
l’Evangelo che vi ho annunziato
e che voi avete ricevuto,
nel quale restate ben saldi
e dal quale ricevete la salvezza
purché lo manteniate in quella forma
in cui ve l'ho trasmesso"
(1Cr 15,1-2)


Rev.mo e Caro Professore,

Con atto di grande cortesia, Lei ha voluto che io potessi leggere prima della sua pubblicazione il contenuto di una Sua elaborata meditazione teologica, che sarà edita da "Casa Mariana Editrice", con il titolo "Un Discorso da fare", ed il discorso riguarda il Concilio Ecumenico Vaticano II.

Ho letto il tutto con lo stesso animo assetato, con cui ho recepito sinora molte Sue pubblicazioni, diversi suoi libri, tanti Suoi articoli. Il filo conduttore di tutti i Suoi scritti è sempre quello che mette in logico e - direi - ferreo collegamento Verità rivelata e verità meditata dall'umano intelletto illuminato dalla fede, sostenuto dalla Teologia dei Padri della Chiesa, sistematizzata dalla grande Teologia scolastica, tramandatasi per secoli; sorretto dall'Insegnamento del Magistero della Chiesa, che mai può essere in contraddizione con se stesso, che solo può avere uno sviluppo così omogeneo da non dire mai "nova", ma tutt’al più "nove" (secondo la terminologia del "Commonitorium" di San Vincenzo di Lerino).

Mi accorgo che con queste espressioni mi riferisco ad una concezione filosofica, e quindi anche teologica (nella misura in cui si dà attenzione alla Verità rivelata) che riconosce all'umano intelletto il suo vero valore e la sua vera natura, così da considerarlo capace di raggiungere e di aderire ad una verità che è immutabile, come immutabile è l'essere di tutte le cose, perché dall'Essere Assoluto, da Colui che è, trae per creazione la sua natura. Ma l'intelletto non crea la verità, poiché non crea l'essere: l'intelletto conosce la verità, quando conosce il ciò che è delle cose.
Al di fuori di una tale visione, al di fuori di una tale Filosofia, qualsiasi discorso sulla immutabilità della verità e sulla continuità di adesione dell'intelletto alla stessa identica verità non terrebbe più, non avrebbe più alcuna sostenibilità. Non resterebbe che accettare una mutabilità continua di ciò che l'intelletto elabora, esprime e crea.

Anche un discorso sullo sviluppo omogeneo del dogma, o dell'Insegnamento della Chiesa attraverso i secoli, nel fluire del tempo e della storia, non potrebbe più farsi con la possibilità che sia compreso, proposto ed accolto. Ci si dovrebbe arrendere ad un "continuum fieri" sul piano di una "verità" non più conosciuta e riconosciuta dall'intelletto, ma da questo elaborata in base a ciò che appare e non a ciò che è.
Non è certo a Lei che questo discorso va fatto, ma leggendo la Sua meditazione teologica, dalla quale emerge la necessità di una vera "ermeneutica della continuità" a proposito dell'insegnamento del Vaticano II, non ho potuto fare a meno di esprimere qualche mio pensiero e di condividerlo con Lei.

La Sua pubblicazione mostra con grande chiarezza, con quella chiarezza di pensiero che Le è abituale, in forza della Sua acutezza di intelligenza ed altresì della Sua lunghissima esperienza di Docente, che nella Chiesa non vi può essere se non continuità. Il solo immaginare che vi possa essere "rivoluzione, cambiamento radicale, sostanziale mutazione" sul piano della verità e sul piano della vita soprannaturale della Chiesa, devia già dal sano ragionamento teologico, poiché come ho detto prima, devia dal sano ragionamento anche filosofico. Non disturba soltanto la fede, ma anche la ragione.

Si parla necessariamente di continuità "in substantialibus", non "in accidentalibus"; si parla di continuità con tutto ciò che "in sua materia" la Chiesa ha sempre creduto, professato, insegnato e vissuto nella sua vera realtà attraverso i secoli, a partire da quell'inizio che non è umano ma divino, che può essere colto soltanto da un intelletto illuminato dalla fede, sostenuto da una volontà mossa dalla Grazia divina.
Il Suo discorso, Chiarissimo Professore, permette di affrontare una profonda analisi del Vaticano II e del suo insegnamento, formulato nei suoi Documenti, tale da condurre a comprendere che anche là dove il linguaggio potrebbe far pensare ad una discontinuità con il contenuto teologico che si ritrova in "tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa" non può che essere un dire "nove" non un dire "nova". E quindi non si può piegare il "bagaglio dottrinale della Chiesa" a quel linguaggio, ma esso va interpretato in modo che davvero non dica "nova" rispetto alla Tradizione della Chiesa.

Ma, attesa la natura del Concilio e la natura diversificata dei suoi Documenti, penso si possa sostenere che se da una ermeneutica teologica cattolica emergesse che taluni passi, o taluni passaggi e affermazioni del Concilio, non dicono soltanto "nove" ma anche "nova", rispetto alla perenne Tradizione della Chiesa, non si sarebbe più di fronte ad uno sviluppo omogeneo del Magistero: lì si avrebbe un insegnamento non irreformabile, certamente non infallibile.

Mi conforta moltissimo aver potuto proprio in questi giorni leggere il discorso del Santo Padre alla Plenaria della Congregazione per il Clero. Parlando della formazione dei Sacerdoti, Egli afferma: "La missione ha le sue radici in special modo in una buona formazione, sviluppata in comunione con l'ininterrotta Tradizione ecclesiale, senza cesure né tentazioni di discontinuità. In tal senso, è importante favorire nei Sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa".

Di fronte a questa Mente del Santo Padre è agevole pensare che Egli vorrà dare buona considerazione alla Supplica, che a conclusione della Sua meditazione teologica sul Vaticano II, il Suo animo di devotissimo figlio della Chiesa ha voluto formulare al Successore di Pietro, chiedendo che al più alto livello del Magistero vi sia "una grandiosa e possibilmente definitiva mess'a punto sul Vaticano II in ognuno dei suoi aspetti e contenuti", che tocchi la sua vera natura, che indichi che cosa significhi che esso ha voluto proporsi come un Concilio pastorale.

Qual è, dunque, il suo valore dogmatico?

Tutti i suoi documenti hanno lo stesso valore, oppure no?

Tutte le espressioni presenti in essi hanno lo stesso valore oppure no?

Il suo insegnamento è tutto irreformabile?

E vero che alcune risposte a detti quesiti possono già dedursi dal Suo lavoro e dovrebbero potersi enucleare in base ai costanti criteri di giudizio teologico sempre seguiti nella Chiesa; ma nessuno può negare che in molta produzione "teologica" post-conciliare la confusione al riguardo sia molta e densa, e molto densa è l'incertezza dottrinale e pastorale.

Mi permetta perciò, caro Professore, e mi permetta soprattutto il Santo Padre, di unirmi "toto corde" alla Sua Supplica, mentre formulo l'auspicio che la Sua pubblicazione susciti molta attenzione e molta riflessione all'interno della Chiesa, ovunque si voglia fare vera teologia, e sia accolta con il rispetto che merita un lavoro condotto con rigore e certamente con grande amore alla Chiesa, alla sua perenne Tradizione, al suo Magistero, per la fedele conoscenza e trasmissione del quale Lei ha operato in tutta la Sua lunga attività di Docente della Sacra Teologia.

Albenga, 19 Marzo 2009
Solennità di San Giuseppe
Patrono della Chiesa Universale


+ Mario Oliveri,
Vescovo

[SM=g1740722]  ci uniamo anche noi....piccolo gregge...[SM=g1740717] 



 
Caterina63
00venerdì 5 giugno 2009 19:08
Qualche informazione su Mons. Gherardini



Mons. Brunero Gherardini è nato a Prato il 1° febbraio 1925, ed è stato ordinato sacerdote il 29.6.48 a Pistoiamons. Gherardini
Residente presso la Canonica Vaticana, Città del Vaticano, 00120 Roma

Consultore della Congregazione delle Cause dei Santi
Canonico nella Basilica Papale San Pietro in Vaticano
Già Professore presso la Pontificia Università Lateranense


Già membro e responsabile della Pontificia Accademia Teologica Romana e della Pontificia Accademia di S. Tommaso, (da cui si è volutamente staccato “quando le Accademie Pontificie vennero "rifondate").
Postulatore della causa di beatificazione di S. S. Pio IX
Direttore della rivista Divinitas.
Riconosciuto studioso tomista, allievo di C. Fabro, ha approfondito lo studio del Protestantesimo e della Riforma in genere.


Come reperire il libro[SM=g1740721]

Il libro Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, di Monsignor Brunero Gherardini può essere richiesto

-    scrivendo a CASA MARIANA EDITRICE, Via dell'Immacolata, 83040 Frigento (Av)
-    telefonando o inviando un fax allo 0825.444015 - 444391
-    rivolgendosi alla Chiesa Maria SS. Annunziata, Via Lungo Tevere Vaticano, 1 - 000193 Roma. Tel. 06.6892614 (apertura: 9.00 – 12.00; 16.00-20.00)

Tutti i libri di "Casa Mariana Editrice" non hanno un prezzo commerciale ma vengono ripagati con un'offerta a secondo della Vostra disponibilità e bontà.[SM=g1740722]


Mons. Brunero Gherardini

Concilio Ecumenico Vaticano II
Un discorso da fare



Presentazione del libro
Supplica al Santo Padre Benedetto XVI
Prefazione di S. Ecc. Mons. Mario Oliveri
Qualche informazione su Mons. Gherardini
COME REPERIRE IL LIBRO


 
Non è uscito “col botto”, ma quasi in sordina, come il piccolo seme di cui parla Nostro Signore nel Vangelo; e come quel seme, è destinato a crescere molto e a fungere da ricovero per tante anime smarrite dalla crisi che ha seguito l’ultimo Concilio. Stiamo parlando dell’ultimo libro di Monsignor Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, edito dalla Casa Mariana Editrice di Frigento, fondata e diretta dai Francescani dell’Immacolata.
E’ certamente una pubblicazione destinata a far scorrere molto inchiostro e probabilmente ad accendere qualche polemica, sebbene ciò non rientri nelle intenzioni dell’Autore.
Ci sembra però inevitabile visti i contenuti del libro, l’eminenza di chi lo ha scritto e l’aria che tira in molti ambienti del mondo cattolico (e non).
Gherardini il Concilio

A ciò si aggiungano la prefazione di Sua Ecc.za Mons. Mario Oliveri, Vescovo di Albenga e Imperia e la presentazione di Sua Ecc.za Mons. Albert Malcom Ranjith, Arcivescovo Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Cosa è uscito dunque dalla penna dell’ultimo grande teologo della Scuola Romana? Rispettivamente un ridimensionamento, una critica ed una supplica.

Anzitutto ridimensionamento, o forse sarebbe meglio dire corretto inquadramento del Concilio Vaticano II. Sì, perché la teoria, la prassi, la stessa terminologia dei cinquant’anni che hanno seguito il Concilio, sono stati una falsificazione di ciò che realmente il Concilio è stato. Testi di Teologia, Corsi nelle Facoltà teologiche, articoli specifici e non, hanno posto il Concilio Vaticano II, ribattezzato “il” Concilio come il fondamento della vera fede, uscita finalmente dalle ristrettezze ecclesiali dei secoli passati.
L’anno zero, insomma, l’anno di fondazione della chiesa, che infatti si rinomina “chiesa conciliare”.
E questo atteggiamento non è quello di qualche piccolo gruppo un po’ fanatico: bisogna andare nelle parrocchie, frequentare le Facoltà teologiche, leggere le pubblicazioni “cattoliche”, ascoltare i discorsi dei cattolici “adulti” per rendersi conto della vastità e della radicalità del nuovo corso.


«La ripetitività, in effetti, è ormai una recita: e ripetitivo è il reiterato richiamo al Vaticano II, il celebrarne acriticamente i meriti, l’affermarne l’importanza oltre i limiti del dovuto, il dichiararne l’incomparabile eccellenza rispetto ad ogni altro Concilio, il farne un prontuario di ricette per la soluzione di problemi d’ogni ordine e tipo. Mi pare che, dopo quasi mezzo secolo d’un linguaggio siffatto, d’incensazioni “a tre tiri doppi”, di celebrazioni intempestive, non richieste e controproducenti, sia finalmente venuto il momento di voltar pagina. Mi pare anzi che, “finite le feste al tempio” e conclusa la fase osannante, s’imponga oggi di necessità una riflessione storico-critica sui testi conciliari, che ne ricerchi i collegamenti - qualora effettivamente ci siano - con la continuità della Tradizione cattolica… Ne va della Fede e dell’autentica testimonianza cristiana» (p. 17).

E’ questo un dovere del Magistero, precisa Gherardini; è questo un diritto dei fedeli, che per decenni hanno dovuto ingoiare veleno, mentre venivano rassicurati che tutto era voluto dal Concilio…

Monsignor Gherardini dedica i primi capitoli ad un’analisi del valore del Vaticano II, secondo quanto il Concilio stesso ha affermato di sé, escludendo che il Concilio si sia avvalso dell’infallibilità propria ai Concili ecumenici che lo precedono e facendo il punto sulla “pastoralità” che lo caratterizza. Conseguentemente al valore del Vaticano II, Gherardini offre i criteri per l’interpretazione fedele dei suoi testi, indicando in tal modo i criteri di cui avvalersi nella tanto auspicata analisi storico-critica dei documenti conciliari.

In secondo luogo, nel nuovo libro si trova una critica, nel significato più nobile del termine, di quell’arte, cioè di giudicare secondo i principi del vero, del buono e del bello, che nel nostro caso, non sono altro che i principi custoditi, tramandati, sviluppati dalla Tradizione della Chiesa.

Gherardini attua in tutta la sua pregnanza quell’invito a considerare il Vaticano II alla luce della Tradizione.
Ed è per tale motivo che a fianco di rilievi indubbiamente positivi, egli non può tacere problemi reali che i testi stessi rivelano. Dal documento conciliare sulla Sacra Liturgia, ai passi più discussi di Lumen Gentium, fino alle dichiarazioni sull’ecumenismo e la libertà religiosa, il lavoro di Monsignore è tutto un confronto analitico e serrato con la grande Tradizione della Chiesa, da parte di un uomo che quella Tradizione e quella Chiesa ama veramente e per le quali ha consacrato tutta la sua vita.
E cosa risulta dal confronto con la Tradizione?

Non vogliamo fare come quelli che, leggendo una romanzo, saltano subito alla fine, per sapere l’esito ultimo della storia; rimandiamo perciò allo studio del testo.

Però un assaggio lo vogliamo offrire, citando un passaggio del libro: «A chi mi chiedesse se in ultim’analisi la tabe modernista s’annidasse proprio nei documenti conciliari e se i Padri stessi ne fossero più o meno infetti, dovrei rispondere con un no quanto con un sì. No, perché il respiro soprannaturale è tutt’altro che assente dal Vaticano II grazie alla sua aperta confessione trinitaria, alla sua fede nell’incarnazione e redenzione universale del Verbo, al radicato convincimento circa l’universale chiamata alla santità, alla riconosciuta e professata causalità salutare dei sacramenti, alla sua alta considerazione del culto liturgico ed eucaristico in special modo, alla sacramentalità salvifica della Chiesa, alla devozione mariana teologicamente alimentata. Ma anche sì, perché non poche pagine dei documenti conciliari arieggiano scritti e idee del modernismo – si veda soprattutto la Gaudium et Spes – e perché alcuni Padri conciliari – e non dei meno significativi – non nascondevano aperte simpatie per antichi e nuovi modernisti… Volevan infatti una Chiesa pellegrina della verità, in cordata verso di essa insieme con ogni altro pellegrino… La volevan amica ed alleata d’ogni altro ricercatore. Assertrice, anche nell’ambito degli studi sacri, dello stesso criticismo metodologico d’ogni altra scienza. Una Chiesa, insomma, laboratorio di ricerca e non dispensatrice di verità calate dall’alto» (pp. 78-79).

In definitiva, una Chiesa non cattolica. E nei documenti conciliari si possono purtroppo rinvenire le tracce di questo atteggiamento.

Infine, Monsignor Gherardini eleva una supplica – alla quale si unisce toto corde anche Sua Ecc.za Mons. Mario Oliveri, autore della Prefazione al volume – al Santo Padre, una supplica che è un’armonia di umiltà, coraggio e scienza e che proponiamo di seguito per intero e che – chissà – non possa dare origine ad una sottoscrizione pubblica da parte dei media veramente cattolici, non per spirito referendario, ma per manifestare il sostegno delle pecore al loro Pastore Supremo, perché, secondo l’espressione da Egli stesso adoperata, “non fugga davanti ai lupi”:

Supplica al Santo Padre[SM=g1740738]



Beatissimo Padre,
so bene che questa comunicazione diretta è anomala e gliene chiedo scusa.
Il ricorrervi dipende anzitutto dalla fiducia che ispira la sua Persona e, in pari tempo, dall'aver Ella stessa raccomandato a tutta la Chiesa, come principio interpretativo del Vaticano II, l'ermeneutica della continuità, sulla quale, se me lo consente, vorrei brevemente parlarLe.

Fin ad oggi mi son sempre scrupolosamente guardato dall’interloquire con chi ha la responsabilità della Chiesa; ho, sì, richiesto qualche raro telegramma in particolari circostanze, ma nulla di più.
Anche il nostro personale rapporto all'interno del dibattito teologico è stato solo episodico; è mancata, per mia scelta, una reciproca frequentazione. Raramente infatti m'espongo, mai mi propongo.
Raccogliendo però il suo invito sull'ermeneutica della continuità, faccio oggi un'eccezione e sottopongo alla Santità Vostra alcune mie riflessioni a tale riguardo.

Per il bene della Chiesa - e più specificamente per l'attuazione della "salus animarum" che ne è la prima e "suprema lex" - dopo decenni di libera creatività esegetica, teologica, liturgica, storiografica e "pastorale" in nome del Concilio Ecumenico Vaticano II, a me pare urgente che si faccia un po' di chiarezza, rispondendo autorevolmente alla domanda sulla continuità di esso - non declamata, bensì dimostrata - con gli altri Concili e sulla sua fedeltà alla Tradizione da sempre in vigore nella Chiesa.
Non so se questo scritto perverrà nelle mani della Santità Vostra, né se vi perverrà così com'è stato concepito e come il benemerito Editore l’ha tipograficamente realizzato, anziché in qualche sintesi d'ufficio che non ne metta in risalto le connessioni logiche.

Da parte mia, proprio queste connessioni ho collocato a supporto della presente supplica, dettata dalla mia profonda convinzione circa l'improrogabile necessità che il dettato conciliare venga preso in esame in tutta la sua complessità ed estensione. Sembra, infatti, difficile, se non addirittura impossibile, metter mano all'auspicata ermeneutica della continuità, se prima non si sia proceduto ad un'attenta e scientifica analisi dei singoli documenti, del loro insieme e d'ogni loro argomento, delle loro fonti immediate e remote, e si continui invece a parlarne solo ripetendone il contenuto o presentandolo come una novità assoluta.
Ho detto che un esame di tale e tanta portata trascende di gran lunga le possibilità operative d'una singola persona, non solo perché un medesimo argomento esige trattazioni su piani diversi - storico, patristico, giuridico, filosofico, liturgico, teologico, esegetico, sociologico, scientifico - ma anche perché ogni documento conciliare tocca decine e decine d'argomenti che solo i rispettivi specialisti son in grado di signoreggiare.

A ciò ripensando, da tempo era nata in me l’idea - che oso ora sottoporre alla Santità Vostra - d'una grandiosa e possibilmente definitiva mess’a punto sull'ultimo Concilio in ognuno dei suoi aspetti e contenuti. Pare, infatti, logico e doveroso che ogni suo aspetto e contenuto venga studiato in sé e contestualmente a tutti gli altri, con l'occhio fisso a tutte le fonti, e sotto la specifica angolatura del precedente Magistero ecclesiastico, solenne ed ordinario.

Da un così ampio ed ineccepibile lavoro scientifico, comparato con i risultati sicuri dell'attenzione critica al secolare Magistero della Chiesa, sarà poi possibile trarre argomento per una sicura ed obiettiva valutazione del Vaticano II in risposta alle seguenti - tra molte altre - domande:

1.    Qual è la sua vera natura?
2.    La sua pastoralità - di cui si dovrà autorevolmente precisare la nozione - in quale rapporto sta con il suo eventuale carattere dogmatico? Si concilia con esso? Lo presuppone? Lo contraddice? Lo ignora?
3.    È proprio possibile definire dogmatico il Vaticano II? E quindi riferirsi ad esso come dogmatico? Fondare su di esso nuovi asserti teologici? In che senso? Con quali limiti?
4.    È un "evento" nel senso dei professori bolognesi, che cioè rompe i collegamenti col passalo ed instaura un'era sotto ogni aspetto nuova?
Oppure tutto il passato rivive in esso "eodem sensu eademque sententia"?

È evidente che l'ermeneutica della rottura e quella della continuità dipendono dalle risposte che si daranno a tali domande. Ma se la conclusione scientifica dell'esame porterà all'ermeneutica della continuità come l'unica doverosa e possibile, sarà allora necessario dimostrare - al di là d'ogni declamatoria asseverazione - che la continuità è reale, e tale si manifesta, solo nell’identità dogmatica di fondo. Qualora questa, o in tutto o in parte, non risultasse scientificamente provata, sarebbe necessario dirlo con serenità e franchezza, in risposta all'esigenza di chiarezza sentita ed attesa da quasi mezzo secolo.

La Santità Vostra mi chiederà perché mai dica a Lei ciò che Ella già conosce meglio di me, avendone chiaramente e coraggiosamente già parlato. In fondo, me lo chiedo anch'io, un po' meravigliato per il mio ardire e dispiaciuto per il tempo che Le sottraggo. Vedo, però, nel mio ardire un atto insieme di "parresìa" e di coerenza, in linea con l'ecclesiologia che i miei grandi Maestri avevan appreso dalla Parola rivelata, dalla patristica e dal Magistero e che - "quasi in insipientia loquor" (2Cr 11,17) - anch'io ho avuto l'onore e la gioia di ritrasmetter a migliaia d'alunni.

È l'ecclesiologia che nella Chiesa una-santa-cattolica-apostolica riconosce la presenza misterica del Signore Nostro Gesù Cristo e secondo la quale il Papa, anche "seorsim", è sempre in grado - per dirla con S. Bonaventura - di "reparare universa" perfino nel caso che "omnia destructa fuissent". Basta una sua parola, Beatissimo Padre, perché tutto, essendo essa stessa la Parola, ritorni nell'alveo della pacifica e luminosa e gioiosa professione dell'unica Fede nell'unica Chiesa.

Ho detto, strada facendo, che lo strumento per "reparare omnia" potrebb'esser un grande documento papale, destinato a rimanere nei secoli come il segno e la testimonianza del Suo vigile e responsabile esercizio del ministero petrino. Qualora, però, non volesse agire da solo, Ella potrebbe disporre che o qualche suo dicastero, o l'insieme delle Pontificie Università dell'Urbe, o un organismo unitario e di vastissima rappresentatività, assicurandosi la collaborazione di tutti i più prestigiosi, sicuri e riconosciuti specialisti in ognuno dei settori in cui s'articola il Vaticano II, organizzi una serie di congressi d'altissima qualità a Roma o altrove; o una serie di pubblicazioni su ognuno dei documenti conciliari e sulle singole tematiche di essi.

Si potrà in tal modo sapere se, in che senso e fin a che punto il Vaticano II, e soprattutto il postconcilio, possan interpretarsi nella linea d'un'indiscutibile continuità sia pur evolutiva, o se invece le sian estranei se non anche d'ostacolo.

Ringraziando in anticipo la Santità Vostra e rinnovandoLe sinceramente le mie scuse, Le auguro che la pienezza della grazia divina, la verità divinamente rivelata e la Tradizione dalla quale la rivelazione stessa è veicolata nell'alternarsi dei periodi e delle epoche della storia ecclesiastica, sian sempre la luce del Suo ministero. Mi benedica

Sac. Brunero Gherardini



[SM=g1740722] [SM=g1740721] [SM=g1740738]

Caterina63
00martedì 9 giugno 2009 20:45
Ottima riflessione di padre Giovanni Scalese sul suo blog: Senza peli sulla lingua....


sabato 6 giugno 2009

Una parola definitiva sul Concilio

Apprendo dal blog Messainlatino.it la notizia della pubblicazione del libro Concilio Vaticano II. Un discorso da fare, di Mons. Brunero Gherardini. Avevamo appena letto sul nuovo blog Disputationes Theologicae un articolo dell'autore del libro sullo stesso soggetto. Coloro che seguono regolarmente il mio blog sanno quanto io sia interessato a questa problematica. La recensione di Messainlatino.it è molto sobria, ma sufficiente per solleticare l'interesse per il libro. Spero di potermene procurare presto una copia. Il blog riporta per intero una "Supplica al Santo Padre", che mi sembra degna della massima attenzione. In tale supplica Mons. Gherardini esprime al Sommo Pontefice l'esigenza assai diffusa "che si faccia un po' di chiarezza" a proposito del Concilio Vaticano II:

«Per il bene della Chiesa — e piú specificamente per l'attuazione della "salus animarum" che ne è la prima e "suprema lex" — dopo decenni di libera creatività esegetica, teologica, liturgica, storiografica e "pastorale" in nome del Concilio Ecumenico Vaticano II, a me pare urgente che si faccia un po' di chiarezza, rispondendo autorevolmente alla domanda sulla continuità di esso — non declamata, bensí dimostrata — con gli altri Concili e sulla sua fedeltà alla Tradizione da sempre in vigore nella Chiesa».

L'autore prende le mosse dall'ormai famoso discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, nel quale Benedetto XVI contrapponeva una "ermeneutica della continuità" a una "ermeneutica della rottura". Ebbene — rileva opportunamente Mons. Gherardini — tale "ermeneutica della continuità" non basta dichiararla, ma occorre dimostrarla:

«Sembra, infatti, difficile, se non addirittura impossibile, metter mano all'auspicata ermeneutica della continuità, se prima non si sia proceduto ad un'attenta e scientifica analisi dei singoli documenti, del loro insieme e d'ogni loro argomento, delle loro fonti immediate e remote, e si continui invece a parlarne solo ripetendone il contenuto o presentandolo come una novità assoluta».

Di qui l'idea, a lungo accarezzata e ora finalmente esternata, di una "messa a punto" sul Vaticano II:

«Da tempo era nata in me l’idea — che oso ora sottoporre alla Santità Vostra — d'una grandiosa e possibilmente definitiva mess’a punto sull'ultimo Concilio in ognuno dei suoi aspetti e contenuti. Pare, infatti, logico e doveroso che ogni suo aspetto e contenuto venga studiato in sé e contestualmente a tutti gli altri, con l'occhio fisso a tutte le fonti, e sotto la specifica angolatura del precedente Magistero ecclesiastico, solenne ed ordinario. Da un cosí ampio ed ineccepibile lavoro scientifico, comparato con i risultati sicuri dell'attenzione critica al secolare Magistero della Chiesa, sarà poi possibile trarre argomento per una sicura ed obiettiva valutazione del Vaticano II in risposta alle seguenti — tra molle altre — domande: Qual è la sua vera natura? La sua pastoralità — di cui si dovrà autorevolmente precisare la nozione — in quale rapporto sta con il suo eventuale carattere dogmatico? Si concilia con esso? Lo presuppone? Lo contraddice? Lo ignora? È proprio possibile definire dogmatico il Vaticano II? E quindi riferirsi ad esso come dogmatico? Fondare su di esso nuovi asserti teologici? In che senso? Con quali limiti? È un "evento" nel senso dei professori bolognesi, che cioè rompe i collegamenti col passalo ed instaura un'era sotto ogni aspetto nuova? Oppure tutto il passato rivive in esso "eodem sensu eademque sententia"?».

Monsignore è certo che questo immenso sforzo otterrà il risultato desiderato: dimostrare che il Vaticano II si pone in continuità con la tradizione della Chiesa; ma non esclude che, su qualche punto, questa continuità non sia possibile dimostrarla:

«Qualora [l'identità dogmatica di fondo], o in tutto o in parte, non risultasse scientificamente provata, sarebbe necessario dirlo con serenità e franchezza, in risposta all'esigenza di chiarezza sentita ed attesa da quasi mezzo secolo».

Par di capire dalla supplica che tale grandioso lavoro di approfondimento scientifico del Concilio dovrebbe essere solo il presupposto di un intervento pontificio teso a rimettere ogni cosa al suo posto:

«Il Papa, anche "seorsim", è sempre in grado — per dirla con S. Bonaventura — di "reparare universa" perfino nel caso che "omnia destructa fuissent". Basta una Sua parola, Beatissimo Padre, perché tutto, essendo essa stessa la Parola, ritorni nell'alveo della pacifica e luminosa e gioiosa professione dell'unica Fede nell'unica Chiesa. Ho detto, strada facendo, che lo strumento per "reparare omnia" potrebb'esser un grande documento papale, destinato a rimanere nei secoli come il segno e la testimonianza del Suo vigile e responsabile esercizio del ministero petrino».

Mons. Gherardini prende in considerazione anche l'eventualità che il Papa non se la senta di fare un intervento personale:

«Qualora, però, non volesse agire da solo, Ella potrebbe disporre che o qualche suo dicastero, o l'insieme delle Pontificie Università dell'Urbe, o un organismo unitario e di vastissima rappresentatività, assicurandosi la collaborazione di tutti i più prestigiosi, sicuri e riconosciuti specialisti in ognuno dei settori in cui s'articola il Vaticano II, organizzi una serie di congressi d'altissima qualità a Roma o altrove; o una serie di pubblicazioni su ognuno dei documenti conciliari e sulle singole tematiche di essi».

La supplica mi trova in gran parte d'accordo. Anch'io sento il bisogno che si dica una parola autorevole, chiarificatrice e definitiva sul Concilio. Non possiamo continuare all'infinito in questa diatriba tra quanti lo considerano un "nuovo inizio" e quanti vorrebbero cancellarlo dagli annali della Chiesa. Sono d'accordo che c'è bisogno di uno studio serio, scientifico, che coinvolga gli specialisti dei diversi settori. Non si tratta solo di pubblicare una nuova edizione dei documenti conciliari con l'annotazione delle fonti; forse c'è bisogno di realizzare un commentario a ciascun documento, in cui venga messa in luce la continuità e le eventuali novità dei suoi contenuti. Un'opera ciclopica che richiede necessariamente qualche anno. Al termine di tale lavoro scientifico, risulta indispensabile un intervento magisteriale solenne che faccia in qualche modo proprie le conclusioni del lavoro scientifico previo e ponga termine a ogni diatriba teologica circa il valore del Vaticano II.

Secondo Mons. Gherardini, tale intervento magisteriale dovrebnbe avere un carattere primaziale; dovrebbe cioè essere un documento del Sommo Pontefice. È possibile; sarebbe una specie di ratifica definitiva del Concilio. Ma lo stesso Monsignore si rende conto che il Papa potrebbe avere qualche difficoltà ad agire da solo. Ecco dunque che egli propone il coinvolgimento della Curia Romana o delle Pontificie Università. Sinceramente, la proposta non mi sembra molto pertinente. Non perché i dicasteri vaticani o i centri accademici romani non debbano essere coinvolti; ma dovrebbero esserlo nella fase preliminare, quella dello studio scientifico. Nella seconda fase ciò che è richiesto è un intervento magisteriale. Ora, a me pare che lo strumento per non lasciare solo il Papa nell'esercizio del suo ministero già esista: il Sinodo dei Vescovi.

Se devo essere sincero, non sono molto entusiasta dei risultati finora ottenuti dalle assemblee ordinarie del Sinodo. Ho l'impressione che si faccia una grande sforzo, che alla fine non porta a nulla. Ditemi voi, che fine hanno fatto le varie esortazioni apostoliche post-sinodali promulgate in questi anni? Hanno forse cambiato qualcosa nella prassi pastorale della Chiesa? Ma, per quanto possa essere perplesso sull'efficacia di tale strumento, non mi sento di rifiutarlo a priori; riconosco che può essere un modo — pur limitato — per coinvolgere i Vescovi nell'esercizio del primato pontificio.

Fra i vari Sinodi che si sono susseguiti in questi anni, ce n'è già stato uno, straordinario, sul Concilio Vaticano II, convocato in occasione del 20° anniversario della sua conclusione (1985). Ebbene, credo che quel Sinodo sia stato uno dei piú fruttuosi, perché pose termine alla retorica della Chiesa-popolo di Dio, rammentando l'autentico insegnamento conciliare sulla Chiesa-mistero. Perché, dunque, non convocare una nuova assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi in occasione del 50° anniversario della conclusione del Concilio (2015)? Se si avviasse subito il lavoro scientifico, esso potrebbe essere tranquillamente concluso per quella data, e i Vescovi potrebbero prenderlo in esame e dire una parola autorevole sulla corretta interpretazione dei testi conciliari. Il Papa infine, con un documento forse un tantino piú impegnativo di una semplice esortazione apostolica post-sinodale, facendo proprio l'approfondimento teologico degli studiosi e il pronunciamento dei Vescovi, dovrebbe dire una parola definitiva sul Vaticano II e riportare cosí serenità nella professione dell'unica fede.



Caterina63
00mercoledì 9 settembre 2009 17:05
Della stessa serie vi invitiamo ad avere attenzione anche per questi altri due libri....

Nova et Vetera Tradizione e progresso dopo il Concilio: la crisi nella Chiesa



e: Concilio Vaticano II: CHE COSA E' ANDATO STORTO?





Caterina63
00sabato 26 settembre 2009 00:39

Prato: presentazione del volume di mons. Gherardini.



Il libro di mons. Brunero Gherardini Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, è uscito quasi in sordina, ma come tutte le grandi opere è destinato a far parlare di sé e divenire un fondamentale punto di riferimento per quanti vogliano affrontare con serietà e serenità un discorso corretto sul Concilio Vaticano II, il suo valore, la sua ricezione nella Chiesa.

È quindi estremamente significativo che tale libro venga presentato a Prato, città che ha dato i natali all’illustre Autore, che ha trascorso tutta la sua vita a Roma, Docente alla Pontificia Università Lateranense, al servizio della Santa Sede e attualmente Canonico della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano. La carriera accademica e la produzione scientifica di mons. Gherardini è talmente ampia e conosciuta, che è superfluo farne anche un solo breve cenno.
Il suo ultimo libro verrà presentato per iniziativa di due parrocchie pratesi: quella del Sacro Cuore di Gesù e quella dello Spirito Santo, i cui parroci sono legati da rapporti di stima e affetto verso l’autore.

L’appuntamento è per sabato 3 ottobre alle ore 11 presso il teatro del Collegio Cicognini – P.zza del Collegio. Presenteranno il volume il prof. Roberto De Mattei, già Docente di Storia Moderna presso l’Università di Cassino, che attualmente insegna Storia del Cristianesimo e della Chiesa presso l’Università Europea di Roma, dove è coordinatore del
corso di laurea in Scienze storiche, e il Prof. Alessandro APOLLONIO, Preside dello StudioTeologico Immacolata Mediatrice e Docente di Teologia Dogmatica.

Modera l’incontro, al quale sarà presente l’Autore, il dott. Don Enrico Bini.


Caterina63
00martedì 2 febbraio 2010 12:40
NON PERDETELO io lo sto già leggendo ed è avvincente e molto pratico nella dinamica dei fatti...
un ottimo padre Cavalcoli, come sempre... Ghigno



Karl Rahner - il Concilio tradito 


PRESENTAZIONE DEL LIBRO CON L'AUTORE E L'EDITORE 3 febbraio 2010 a Verona

IL LIBRO

Il teologo gesuita Karl Rahner (1900-1984), perito del Concilio Ecumenico Vaticano II, nell'immediato postconcilio si procurò la fama di uno dei più grandi teologi cattolici ed interpreti del Concilio. Sennonché però, altri teologi eminenti, come il Fabro, Lakebrink, il card. Parente, il Von Balthasar e il Card. Ratzinger segnalarono le gravi insidie contenute nel sistema rahneriano e la falsità della sua interpretazione modernistica del Concilio, non conforme a quella della Chiesa postconciliare. Un'interpretazione non di continuità ma di rottura, che forniva pretesti a reazioni ultratradizionaliste.
Dalle segnalazioni di questi teologi, in un primo tempo inascoltate, sta sorgendo un movimento teologico internazionale, fedele alla Chiesa e al Papa, il quale si è impegnato a correggere le vedute rahneriane, le cui conseguenze si sono rivelate dannose in campo morale, come hanno segnalato alcuni moralisti, tra cui Don Dario Composta. Tale movimento si propone di contribuire alla vera interpretazione del Concilio, senza per questo misconoscere i meriti del teologo tedesco.

L'AUTORE
Nato nel 1941 a Ravenna, entrato nell’Ordine Domenicano nel 1971, sacerdote dal 1976. Addottorato in Filosofia nel 1970 presso l’Università di Bologna e in Teologia nel 1984 presso la Pontificia università S.Tommaso d’Aquino di Roma, insegna Metafisica nello Studio Filosofico Domenicano di Bologna e Metafisica e Teologia Sistematica nella Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. Dal 1982 al 1990 è stato officiale della Segreteria di Stato in Vaticano. A Roma ha insegnato per due anni Teologia all’Istituto Universitario di Magistero “Maria Assunta”. Dal 1992 è Accademico Pontificio. Tiene corsi per catechisti a Radio Maria dal 1995. Ha coltivato e pubblicato studi di mistica e di demonologia. Studioso del pensiero di S.Tommaso d’Aquino, ha partecipato a congressi tomistici internazionali, ha pubblicato molti articoli su riviste specializzate ed alcuni libri, soprattutto di cristologia: “La gloria di Cristo” (2001); “Il mistero dell’Incarnazione” (2003); “Il mistero della Redenzione” (2004). È postulatore nella causa di beatificazione del teologo domenicano Tomas Tyn, sul quale ha pubblicato “Padre Tomas Tyn, un tradizionalista postconciliare”, Fede & Cultura, 2007. Ha pubblicato inoltre “La questione dell’eresia oggi”, (2008), “La liberazione della libertà”, Fede & Cultura 2008; “Siate santi!”, Fede & Cultura 2008.



Caterina63
00giovedì 25 febbraio 2010 11:01

Il contributo di Gheradini al dibattito sull'"ermeneutica della continuità".

L'illuminante contributo di Mons. Brunero Gherardini al dibattito sul Vaticano II viene presentato da Daniele Nigro.



Brunero Gherardini

CONCILIO ECUMENICO VATICANO II

Un discorso da fare

Casa Mariana Editrice

Frigento 2009

pp 260.


di Daniele Nigro

«Il rito …, si risolve in una fumosa e spesso grandiosa incensazione, si direbbe a “tre tiri doppi”. Dominante è non il desiderio di capire per far capire mediante un approccio critico-analitico dei testi, ma l’ormai monotono refrain della fedeltà al Concilio, dell’appello al suo insegnamento, per l’applicazione di esso e l’attuazione delle sue forme. Talvolta non ci si preoccupa neanche di specificarlo come Vaticano II: è il Concilio per antonomasia» (p. 15-16).

Così nel prologo del suo libro Mons. Brunero Gherardini rileva l’atteggiamento dominante di gran parte del clero, della gerarchia ecclesiastica e di molti teologi nei riguardi del Vaticano II e dei suoi atti e documenti che è divenuto, col passar del tempo, un vero e proprio pregiudizio aprioristico. Ed è proprio in virtù di tale diffuso comportamento che l’autore richiama, già nel titolo, a dialogare sul vero valore del Vaticano II e sul suo insegnamento.

A 44 anni di distanza dal 7 dicembre 1965, data di chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II il discorso sullo stesso risulta quindi non da concludere, bensì ancora da fare. Ci si potrebbe domandare: perché ? La risposta la si può trovare, a mio avviso, proprio nel prologo del libro, nel quale l’eminente teologo evidenzia l’attitudine dei più a ritenere che con il Vaticano II «ha inizio una nuova Chiesa», e che quindi ciò che esso ci trasmette deve essere accettato senza discussioni e dimenticando inoltre tutto il precedente Magistero della Chiesa Cattolica, ormai superato ed obsoleto. Sembra quasi che per questi signori nell’aula conciliare lo Spirito Santo abbia soffiato più che in tutti gli altri concili della millenaria storia della Chiesa.

Proprio per chiarificare gli aspetti del Vaticano II Mons. Gherardini incomincia la sua indagine dal valore del Concilio in questione. Prende subito cioè in considerazione la natura del Vaticano II e le sue finalità, sottolineando come, se è vero che «a tutti i Concili si deve religioso rispetto e generosa adesione, non ne segue che ognuno abbia una medesima efficacia vincolante» (p. 23).

È questo, a mio avviso, il punto nevralgico della questione, tutto il resto ne è conseguenza.

Gherardini, a tal proposito, sottolinea la fondamentale differenza che intercorre fra un Concilio dogmatico ed un Concilio pastorale. Infatti, mentre il primo non può essere messo in discussione e vincola la Chiesa intera in ogni sua componente, il secondo esclude ogni intento definitorio e non può pretendere la qualifica di dogmatico «nemmeno se al suo interno risuoni qualche appello ai dogmi del passato e sviluppi discorso teologico. Teologico non è necessariamente sinonimo di dogmatico» (p. 23). Ed è proprio pastorale che lo stesso Vaticano II si è definito. Certo, Gherardini evidenzia come si potrebbe asserire da più parti che nessuno abbia mai definito dogmatico il Vaticano II, però attesta ancora una volta come «Magistero, teologia ed operatori pastorali han fatto del Vaticano II un assoluto» (p.24).

Solo partendo da questo asserto si può sviluppare ciò che il titolo auspica: un discorso sul Vaticano II. È proprio il suo carattere non dogmatico che permette una “critica” seguita ad una limpida analisi scevra da pregiudizi ideologici. E già dalle prime pagine del libro si comprende come l’intento dell’autore non sia quello di «mettere in soffitta l’ultimo Concilio e nemmeno di liquidarlo […] si tratta solamente di rispettarne la natura, il dettato, le finalità e la pastoralità ch’esso stesso rivendica» (p. 24).

Solo dopo aver specificato la natura del Vaticano II si può affrontare il discorso “dell’ermeneutica della continuità”; cioè rispondere alla domanda: «il Vaticano II s’inscrive o no nella Tradizione ininterrotta della Chiesa, dai suoi inizi ad oggi ?» (p.84).

Prima di dar seguito alla riflessione occorre precisare il significato che Mons. Gherardini attribuisce a due termini: “ermeneutica” e “Tradizione”.

Ermeneutica viene dal termine greco “hermeneutiké” che designa l’arte dell’interpretazione ed ha una triplice funzione: spiegare, interpretare, tradurre. Interessante risulta, a questo proposito una osservazione di Gherardini, il quale asserisce che «è un po’ difficile, e forse inspiegabile, capire come e perché questa parola abbia oggi incontrato tanta fortuna in campo teologico che dovrebb’esser il regno del’oggettività pura (“Il Verbo si fece carne ed abitò in mezzo a noi, Gv 1,14)» (p.67-68). Le cose si complicano ancor di più se tale strumento viene ad essere utilizzato per indagare un Concilio, infatti poiché «un Concilio è un momento di vita ecclesiale e sicuramente di quella più intensa, esso trascende di gran lunga ogni altro accadimento e si sottrae ad ogni ermeneutica incapace di leggere le cose nella tanto declamata profondità» (p. 80). Ed è proprio per questo che Gherardini non parla solo di ermeneutica, bensì di “ermeneutica teologica”, restando il Vaticano II, in quanto Concilio Ecumenico, collegato al mondo della Fede e quindi impossibile da comprendere senza l’apporto della scienza della Fede: la teologia. Quindi non una ermeneutica pura e semplice, ma una ermeneutica teologica, che sola riesce ad andare oltre il dato storico, politico e sociologico e di conseguenza ad un’analisi puramente estrinseca che non coglierebbe i dati più importanti di una esperienza così straordinaria quale quella di un Concilio.

Anche per quanto riguarda la Tradizione Mons. Gherardini risulta essere molto chiaro, avvertendo come «qualunque discorso sulla Tradizione, anche quello teologico e dogmatico, parte dal verbo greco paradidònai, in latino tradere, ossia trasmettere; il sostantivo derivato paràdosis, in latino traditio o transmissio, esprime tanto il fatto del trasmettere, quanto il suo contenuto. Tale contenuto, soprattutto in ambito cristiano ma non solamente in esso, è riferibile ad elaborazioni dottrinali oltre che a principi comportamentali, trasmessi preferenzialmente per via orale. Antico Testamento e Nuovo Testamento trasmettono in tal modo una sapienza non già cristallizzata, ma piuttosto tesaurizzata nella vita delle generazioni passate, perché in essa si nutra la generazione presente e con essa si provveda alla vita delle generazioni future» (p.112). Quindi risulta essere un qualcosa di molto lontano da quell’immagine di staticità e nocività che una certa dottrina vuole attribuire alla veneranda Tradizione della Chiesa. Inoltre essa consta di un altro elemento: l’auctoritas «dipendente sempre dalla sua origine, che in ambito cristiano è Dio rivelante, Gesù Cristo, gli apostoli» (p. 112). Possiamo allora sintetizzare il concetto di Tradizione con questa definizione: «La Tradizione è la fonte orale della divina Rivelazione, vale a dire delle verità rivelate da Cristo agli apostoli o loro suggerite dallo Spirito Santo ed ininterrottamente predicate dalla Chiesa, assistita dal medesimo Spirito» (p. 116).

Chiariti questi aspetti fondamentali Gherardini passa all’analisi della Tradizione nel Vaticano II rilevando come «pur senza proporre, della Tradizione, una sua formale definizione, il Vaticano II ne parla in modo da far capire ch’essa concorre con la Sacra Scrittura a costituir un unico sacro deposito della Parola di Dio, affidato alla Chiesa» (p. 118). Manca tuttavia la spiegazione se queste trasmettano le verità rivelate in concorso simultaneo o se ognuna operi a proprio modo e con tempi differenti. Inoltre con questa affermazione il Vaticano II si discosta dall’insegnamento del Vaticano I forse perché, come sottolinea l’autore «differente è la visione ecclesiologica» dei due Concili. Vengono, in altri termini, messi da parte i canali della Tradizione ecclesiale che nella enciclica “Pastor æternus” del 1870 erano identificati nelle articolazioni con la figura ed il magistero del Romano Pontefice.

Possiamo rilavare come il termine Tradizione, pur usato frequentemente, assume un contenuto divergente, per non pochi motivi, da quello classico desunto dai Padri della Chiesa, dai Concili Tridentino e Vaticano I e da Magistero ordinario della Chiesa.

In sostanza «per il Vaticano II e per la sua vulgata interpretativa, la Tradizione trasmette soltanto quanto contiene la Scrittura e ne applica il contenuto scritto alle esigenze dei tempi»; da questa analisi comprendiamo come sia veramente diversa la concezione di Tradizione e come tale ragionamento possa rivelarsi dannoso in quanto non diventa facile comprendere se il contenuto della rivelazione debba uniformarsi alle esigenze dei tempi, o, come sembra ovvio ed è sempre stato sostenuto, siano i tempi a doversi uniformare alla rivelazione. Si comprende allora, come importanza vitale abbia il significato che al termine Tradizione venga attribuito; non basta richiamarsi alla Tradizione, bisogna aver chiaro il suo significato, quello autentico che da sempre a tale termine viene conferito, altrimenti il problema si amplifica e al richiamo formale non consegue un adeguamento sostanziale. Per questo Gherardini prosegue sottolineando come «la Tradizione è regola della Fede nel momento in cui i garanti della Tradizione stessa, in quanto successori degli apostoli, la trasmettono alla quotidianità della vita – regola prossima –; in radice – e quindi come regola remota – a normare la Fede è la Scrittura» (p. 128). Comprendiamo allora come «la Scrittura è divinamente ispirata, la Tradizione è divinamente assistita; ambedue trasmettono la “buona notizia” del mistero salvifico, l’una con parola divina, l’altra con parole umane, anche se queste, per l’accennata assistenza, son l’eco sempre fedele di quella divina» (p. 129).

Si parla allora di Tradizione vivente, questa espressione che, probabilmente desiderava rendere viva una cosa considerata ormai da museo, ha invece permesso l’introduzione di ogni sorta di innovazione presentandola come sviluppo organico delle verità accolte e testimoniate. Su questo elemento Mons. Gherardini sviluppa una lucida e chiara osservazione che può anche sembrare a tratti dura, ma che rende palese come la distorsione del concetto di Tradizione abbia potuto minare le certezze testimoniate per millenni dalla Chiesa. Egli infatti sostiene: «In tanto la Tradizione è vivente, in quanto è e continua ad essere la stessa Tradizione apostolica che si propone inalterabile nella e mediante la Tradizione ecclesiastica. […] Non sarebbe pertanto un dato della Tradizione vivente quello che non avesse le sue radici nel contenuto trasmesso, perfino nel caso, in sé e per sé assurdo, che fosse ufficialmente proposto. Un esempio: il trascendentale di Rahner non potrà mai essere dichiarato elemento della Tradizione vivente; ne è la tomba. Qualcosa nel Concilio, moltissimo nel postconcilio concorse a scavarla» (p. 132). Quale pesante responsabilità pende in capo a coloro che approfittando di una forza normativa fortemente attenuata di molti documenti conciliari, dovuta alle non poche e sempre generiche eccezioni previste, hanno travisato e spinto oltre il dettato e il pensiero dei padri conciliari. Inaugurando oltremodo la stagione della sperimentazione in campo liturgico che, corroborata dall’abolizione del concetto di “culto dovuto a Dio”, e quindi da Egli stesso stabilito ritenuto ormai retaggio di una concezione a forte connotazione giuridica della liturgia che non permetteva di sentire Dio vicino, ha portato alle celebrazioni fai da tè piene di palloncini colorati, danzatrici del ventre e consacrazioni di focacce, questi ultimi si capaci di rendere più comprensibile il Mistero. Percorso questo che ha portato inoltre a bandire dalle chiese il canto gregoriano, che pur il Vaticano II ammoniva di rivalutare, per sostituirlo con chitarre, bonghi e canzoni di cantautori preferibilmente atei e alla distruzione di altari, balaustre o pulpiti che con tanto sacrificio e privazioni i nostri avi avevano elevato in onore del Signore poiché simbolo di un trionfo e di una regalità, quella di Cristo, che andava sostituita dal Gesù extracomunitario o con i jeans, l’amico e non il sovrano dei cuori, come se le cose siano poi in contrasto. Tutto questo avrebbe dovuto far traboccare le chiese, ma purtroppo il risultato e sotto gli occhi di tutti. Inoltre possiamo costatare come attenuando l’identità propria del cristianesimo e il portato della verità posseduta si sia delineato un ecumenismo particolare. A tal proposito Gherardini ricorda come: «la particolare sottolineatura della verità verso cui si è tutti in cammino perché nessuno ne è in possesso, è figlia di una concezione ecclesiologica riduttiva, per non dire assolutamente negativa: la Chiesa, infatti, che Cristo volle una santa cattolica apostolica, è per questo depositaria e maestra della verità rivelata. […] Qualora fosse poi la stessa Chiesa cattolica ad ammettere come paritetici i vari soggetti con essa dialoganti, si sarebbe di fronte ad un suo atteggiamento rinunciatario» (p. 210-211). Il dialogo, in ultima analisi, deve essere finalizzato ad indicare a tutti gli uomini che solo nella Verità, cioè in Cristo, vi è la salvezza; e per raggiungere questa non si può prescindere dalla Chiesa voluta e fondata dal Salvatore.

Come si evince dall’analisi di Mons. Gherardini la concezione ecclesiologica assume grande importanza, allora, quale Chiesa è disegnata dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium?

L’autore definisce la Costituzione il faro del Vaticano II pur rilevando in essa un linguaggio poco brillante e qualche dottrina che si presta ad interpretazioni discutibili ed incoerenti. Essa risulta avere come ispirazione di fondo una componente soprannaturale e, analizzando l’essere della Chiesa come “segno e strumento” di salvezza, pur senza eludere il problema giuridico-istituzionale, ma privilegiando la qualità misterica e l’azione sacramentale, ne sottolinea il valore comunionale. Essa si armonizza con la “Pastor æternus” circa la giurisdizione universale del Romano Pontefice, azzardando però un coraggioso allargamento di questa mediante la dottrina della collegialità vescovile.

Il testo, sottolinea Gherardini, grazie alla dimensione escatologica che innalzava la Chiesa dinanzi ai popoli come segno di salvezza, neutralizzò sia il minimismo di chi svalutava la concretezza storico-istituzionale della Chiesa, sia la concezione di una Chiesa eccessivamente spirituale ed invisibile facendosi portatore di un certo equilibrio che però non arrivò ad attuare pienamente, pur riuscendo a scongiurare estremismi che si sarebbero rivelati dannosi.

Molto interessante risulta la riflessione dell’autore sul rapporto Chiesa-mondo che scaturisce dal Vaticano II, egli infatti scrive: «infine, soprattutto in considerazione dell’intento conciliare di dialogare col mondo, una sua importanza riveste pure l’accettazione del cambiamento come un dato ineludibile della civiltà moderna. Parve che anche per la Chiesa, alla stregua d’ogni altra istituzione che fosse incapace di trasformarsi, non ci fosse futuro. La Lumen Gentium, allora, istituzionalizzò il mutamento. Non perché la Chiesa cessasse d’essere il sacramento dell’eterno, ma perché fosse a tutti chiaro che l’eterno suscita un’eco in ognuna delle periodiche ed inarrestabili trasformazioni storiche» (p.226).

In seguito Mons. Gherardini analizza la concezione di sacramentalità della Chiesa nella Lumen Gentium rilevando come «il Signor Nostro Gesù Cristo, nella sua umanità sacrosanta è il sacramento del Padre e dello Spirito Santo, così la Chiesa, nella sua condizione incarnazionistica, nella sua istituzionalità, nella sua stessa gerarchia è il sacramento di Cristo. Non diventa allora una frase ad effetto quella che tante volte ho detto e scritto: la Chiesa è la visibilità nell’invisibilità e l’invisibilità nella visibilità. Non solo non è una frase ad effetto, ma è la dimostrazione dell’infondatezza tanto dell’accusa di trionfalismo, quanto del timore di incorrervi» (p. 230). Ed è proprio in tale timore che si può rinvenire il perché di due scelte: la prima che non si parli di Chiesa come “società perfetta” pur indugiando molto nella Costituzione sulla Chiesa società, definizione che non avrebbe contraddetto in alcun modo la sacramentalità della stessa; la seconda che riguarda la soppressione dell’aggettivo “romana” nella definizione della Chiesa.

Concludendo l’analisi sull’ecclesiologia del Vaticano II l’autore affronta due questioni spinose: quella del “subsistit in” e quella del “subiectum quoque” in tema di collegialità episcopale.

Per quanto riguarda il primo punto bisogna leggere in combinato Lumen Gentium 8/b e Unitatis Redentegratio 3. Dal primo passo si evince, nonostante l’inutile giro di parole, che la Chiesa di Cristo è davvero e soltanto la Chiesa cattolica, essendo solo questa governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui. Da ciò dovrebbe essere logico individuare nella Chiesa cattolica il soggetto dei doni indicati come propri della Chiesa di Cristo. Sennonché le parole di Unitatis Redintegratio 3 e la loro successiva interpretazione hanno portato a far ritenere che «c’è un’unica Chiesa di Cristo, costituita non dalla sola Chiesa cattolica, ma da questa e da quelle detentrici dei beni in parola, dai quali proprio questa Chiesa di Cristo “vien edificata e vivificata”. È ovvio che se questa Chiesa è edificata e vivificata dai beni “di santificazione e di verità”, anche le comunità ecclesiali che ne fan parte – e non la sola Chiesa cattolica – son per ciò stesso mezzi di salvezza. […] In tal modo, cioè, il “subsistit in” di Lumen Gentium 8/b vien ad aver il suo “terminus” non già nella Chiesa cattolica romana, bensì nella Chiesa di Cristo, la quale è, pertanto, l’unica vera Chiesa cattolica» (p. 233). Ma Mons. Gherardini mette subito in guardia da questo ragionamento asserendo come un allargamento della sussistenza grazie alle ragioni addotte da Unitatis Redintegratio 3 sia una «violenza»; la Chiesa di Cristo allora sussiste in quella Romana. Risulta anche importante esplicare il valore semantico dell’espressione, poiché il “sussistere in” assume un duplice significato: «o quello della “forma” come atto primo della sostanza, o quello dell’essere in sé, l’essere cioè più proprio e più profondo del soggetto» (p. 234). Ne scaturisce una ragione analogica che dà senso all’uso conciliare del “subsistit in” e lo giustifica: «la Chiesa cattolica romana sussiste in essa come la sua “forma” perfettiva, è la sua stessa sussistenza, fa tutt’uno con essa, la quale ha perciò la sua ragione formale in sé, nel suo stesso esser Chiesa, e non nelle comunità acattoliche le quali, in quanto acattoliche, non hanno né possibilità né titoli per concorrere alla sua costituzione» (p. 235).

Sul secondo punto, quello della collegialità, nel libro si evidenzia come dalla Nota explicativa prœvia (n. 1) si evinca che il termine collegio, che secondo l’autore alla luce del valore attribuitogli sarebbe stato meglio sostituire con “corpus” o “ordo”, non debba essere inteso in «senso strettamente giuridico», che cioè riveste i suoi membri di pari dignità, poiché il Papa non è nel collegio allo stesso titolo e per la stessa ragione di tutti gli altri vescovi, ma vi è come funzione fondante il collegio stesso, «che senza di lui o contro di lui non è più un collegio, ma solo un insieme o una somma di vescovi» (p. 237). Ne consegue che se pur in Lumen Gentium 22 sono due i soggetti della potestà in parola, diverso è l’uso di essa, poiché il Papa può esercitarla o da solo o con il collegio; il collegio, mai da solo e sempre con il Papa come suo capo e primate.

Taluni vescovi dovrebbero ricordare questo fondamentale asserto, onde non opporsi con atti e comportamenti alle disposizioni di colui che legittima il loro potere.

Mons. Gherardini individua allora il bandolo della matassa del problema nel primato; essendo uno solo il soggetto che nella Chiesa ha piena, suprema e universale potestà, esercitabile in due modi: «quello del Papa “seorsim” e quello del Papa “collegialiter”». Tuttavia, secondo l’autore, la compatibilità di tale affermazione con il dettato di Lumen Gentium 22 solleverebbe vari dubbi, infatti, «se quel dettato venga letto nella logica successione delle sue parole,[…], s’avrà insieme, con scandalo di S. Tommaso e della sua scuola, l’affermazione di due distinti soggetti e nello stesso tempo di due diversi esercizi. Se invece quel dettato, e specialmente alcuni suoi lemmi, vengano sottoposti ad un’analisi lessicale […]allora perfino un testo al limite della contraddittorietà può diventar plausibile» (p.240).

In ultima analisi, per l’eminente teologo, «resta senza possibilità di soddisfacente spiegazione sia il modo un po’ confuso con cui Lumen Gentium 22 espone e formula la sua “dottrina”, sia il carattere innovativo di essa rispetto alla dottrina tradizionale, sia l’accanimento con cui una tale innovazione è stata fin ad oggi dichiarata ed esaltata come dottrina “definitiva”, anche se proposta “non definitorio modo”, ossia non nella forma di una definizione dogmatica» (p. 241-242). Inspiegabile rimane inoltre l’insegnamento di molti teologi che hanno continuato imperterriti a battere il tasto dei due poteri e dei due distinti esercizi.

L’auspicio e che, come lo stesso Mons. Gherardini propone, un variegato e competente gruppo di studiosi possa intraprendere e portare a termine un serio discorso sul Vaticano II e sulla sua applicazione al fine di conferire al Concilio il suo valore proprio. Solo una analisi approfondita e scevra di pregiudizi su ogni aspetto del Vaticano II potrà mettere fine a questa situazione di “tirannia del postconcilio” che taccia come reazionario e retrogrado chiunque desideri attenersi al vero dettato del concilio anche se è lo stesso Pontefice, e non alla sua interpretazione distorta, Le condizioni appaiono oggi più favorevoli che in altri momenti, anche perché le nuove generazioni, ragionando senza ideologismi, possono ritrovare quella capacità di ridare ad ogni cosa il suo proprio valore, incoraggiando anche coloro che per molti anni hanno dovuto subire in silenzio o sono stati emarginati perché, come sentinelle, avevano avvistato prima degli altri il pericolo all’orizzonte e avevano cercato di mettere in guardi sui possibili esiti. Tutto ciò potrà essere realizzato anche grazie all’opera di Benedetto XVI che non si è mai stancato di indicare a tutti che nella Chiesa c’è continuità e non rottura e che ci ricorda che la Chiesa non può in alcun caso rinunciare ad essere “Magistra” per essere solo “Mater”, perché una madre che non insegna non vuole totalmente e profondamente bene ai suoi figli.

È per questo che crediamo che tale passo possa verificarsi sotto il pontificato di questo illuminato Pontefice, ma senza dimenticare che l’elemento più importante è l’affidamento totale e fiducioso nel Signore, come ci ha sempre insegnato e testimoniato nel corso della sua vita il Beato Pio IX di venerata memoria.

Caterina63
00venerdì 12 marzo 2010 10:50

Recensione a Gherardini: Vaticano II, un discorso da fare

di don Enrico Bini

Mons. Brunero Gherardini ci ha regalato una grande opera frutto delle sue riflessioni, dove si sente l’eco dei lunghi anni di insegnamento, presso la Pontificia Università Lateranense. Il valore del libro risiede in una nuovo modo di leggere l’evento conciliare, evitando due estremi: il rifiuto del concilio e la sua esagerata assolutizzazione. Si può affermare che l’opera di mons. Gherardini è il frutto di un nuovo clima che vive la Chiesa, dopo il magistrale discorso di Benedetto XVI alla curia romana il 22 dicembre 2005. Il Papa in quel memorabile intervento ha proposto come chiave di interpretazione del concilio l’ermeneutica denominata: «della riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha donato». Il papa ha indicato il cammino della Chiesa come una sintesi feconda tra la fedeltà e la necessità di rispondere agli interrogativi che l’età moderna, pone alla fede dei cristiani.

Due ermeneutiche a confronto

Si può definire il volume di mons. Gherardini una lettura chiarificatrice delle decisioni conciliari e delle sue applicazioni, nella prospettiva della continuità con il passato della Chiesa.

Questa ricerca della continuità è una costante nella storia dei concili. Ogni evento conciliare ha cercato un riferimento ed un collegamento con la tradizione precedente. Bisogna quindi ricordare che sia concili dell’antichità sia quelli successivi hanno sempre comportato differenti interpretazioni, tanto da affermare parafrasando in vecchio detto: historia conciliorum, historia dolorum ! Basti pensare alle sorti del concilio di Trento e alle differenti ermeneutiche che anche in campo cattolico, videro contrapporsi il cardinale Pietro Sforza Pallavicino a Paolo Sarpi. Gli stessi Padri del concilio tridentino ritennero di aver chiarito la dottrina e riformato i costumi, non prevedendo le interminabili discussioni che poi nacquero intorno al problema della grazia e della predestinazione, tra molinisti e giansenisti.

Entrambe le parti rifacendosi al concilio si sentivano i migliori e fedeli interpreti discepoli di S. Agostino. Il magistero ha impiegato due secoli per chiarire e affinare, a più riprese, l’esatta portata del suo insegnamento.
Si potrebbe dire sulla falsariga delle affermazioni di Benedetto XVI che anche allora due ermeneutiche litigarono tra di loro. La recezione del concilio tridentino fu poi oltremodo lenta, se i decreti del tridentino furono accettati dal clero francese soltanto nel 1615 e le norme per la riforma del clero ebbero bisogno di almeno un secolo e mezzo prima di vedere le prime sistematiche attuazioni.
Le biblioteche sono piene di opuscoli giansenisti che si appellano al futuro concilio, perché dopo la condanna di Clemente XI, con la bolla Unigenitus (1713), la Chiesa era, secondo i seguaci di Giansenio, ormai senescente e ormai in crisi, tanto che alcuni attendevano la fine del mondo.

L’insegnamento della storia non deve, quindi, sorprender delle difficoltà attuali. Il volume di mons. Gherardini è un contributo fondamentale per tentare di ricostruire una visione armonica tra gli insegnamenti del Vaticano II e il magistero precedente della chiesa. Tutto questo superando il vicolo cieco del sedevacantismo oppure le sterili accuse di protestantizzazione della Chiesa. Il concilio Vaticano II ha una chiara validità come afferma mons. Gherardini: “Non vale neanche la pena, perciò, di spender qualche altra parola in una non necessaria dimostrazione del Vaticano II come vero ed autentico concilio ecumenico e quindi come un fatto - e che fatto! - inequivocabilmente ecclesiale, attinente alla vita, alla fede e alla storia della Chiesa” (p. 80). Occorre conoscere e analizzare il concilio per ricercare un equilibrio tra il passato e il presente superando una concezione storicistica della verità, che lega la validità delle asserzioni di fede al tempo sempre cangiante nelle sue mode ideologiche. Il problema l’aveva già intuito S. Tommaso d’Aquino, quando, parlando dei vari concili, affermò che non possono contraddirsi tra di loro, ma solo integrarsi, o, come scrisse nella Summa Theologiae: “eandem fidem, magis expositam” (II-II, q.1,a.10,ad 2). Questo perfetto allineamento tra le due esigenze che la dottrina tomista vedeva come il vero requisito per un vitale cammino della Chiesa, vale per il Vaticano II che fu un concilio pastorale, ma che ha avuto tante implicazioni per la stessa dottrina della Chiesa. Per questo, l’orizzonte della storia e dell’eternità devono trovare nella Chiesa una piena possibilità d’incontro. L’alternativa non è tra aggiornamento e immobilismo, ma tra un vero e falso aggiornamento, secondo quanto aveva già indicato Pio XII, in un discorso del 14 settembre 1956.

Le ideologie post-conciliari

Le riflessioni di mons. Gherardini sono un invito a ripensare le vicende di questi ultimi decenni, mostrando quanto davvero l’ermeneutica della discontinuità sia un’idea infruttuosa, come l’ha definita Benedetto XVI. Oggi, con maggiore chiarezza, si ha la percezione che certa teologia post-conciliare sia stata tributaria delle ideologie totalizzanti del secolo scorso. Penso al soggiogamento della teologia al pensiero marxista ed alle suggestioni storiciste e immanentiste, che hanno impoverito la riflessione teologica. Non ultima la riconosciuta influenza del pensiero di Teilhard sulla stessa assise conciliare, come affermò il cardinale Garrone: “Il nome di p. Teilhard non mancò di risuonare ogni tanto nell’assemblea. In realtà la scossa che rischiava di far vacillare le fondamenta e che da quell’uomo era stata provocata si avvertiva con intensità molto maggiore di quanto non sembrasse” (G. M. GARRONE, Orientamenti nel concilio, Roma, Borla, 1968, p. 66).

La storiografia dovrà indagare sulle molteplici correnti culturali e filosofiche, che durante il secolo scorso hanno preparato il terreno alla nascita di quella mentalità che intese il concilio come «un nuovo inizio - ein neuer beginn (K. Rahner)» (O. PESCH, Il concilio Vaticano II, Brescia, Queriniana, 2005, p. 373). L’insistenza su questa cesura tra il passato e il presente, per creare una nuova identità, quasi come necessità storica, fu chiamata l’immolazione escatologica.
Qui si nasconde il carattere totalitario del nuovo corso della teologia post-conciliare.

La rivisitazione dell’intero depositum fidei, doveva eliminare ogni ostacolo per conformarsi ai bisogni del tempo presente. Non è un caso l’atteggiamento di taluni teologi, condannati prima del concilio, ma divenuti poi i più zelanti persecutori di coloro che non si adeguavano al nuovo corso della Chiesa. Si rimane stupefatti, per esempio, di fronte alle parole scritte dal padre Congar durante il concilio: “Più passa il tempo, più mi vado convincendo che la struttura tutta italiana degli organismi romani e dell’ideologia romana sono il tumore che bisogna (è necessario) eliminare” (Y. M. CONGAR, Diario del concilio, I, Cinisello B., Paoline, p. 478).

Parole dure, senza carità, l’inquisito diventa il peggiore inquisitore. Questa volontà distruttiva è il vero animo di coloro che teorizzavano la libertà e il pluralismo. Nessuno ancora ha scritto su questa sistematica emarginazione di teologi, sacerdoti, vescovi e cardinali che non si allineavano alle magnifiche sorti e progressive della Chiesa post-conciliare. Esiste, invece, un sorta di martirologio dei precursori del concilio chiamati “pomposamente” i nuovi padri, degli anticipatori dei tempi nuovi, esaltati dai giornali e dai mass-media; mentre il silenzio avvolge il nemico ossia l’odiata ideologia romana, ormai fuori dalla storia. Il carattere distruttivo del cosiddetto ‘spirito del concilio’ ha poi la sua evidente riprova nell’applicazione della riforma liturgica, che ha tentato di cancellare, senza pietà, secoli di esperienza liturgica.

Il linguaggio del concilio

Il volume di mons. Gherardini porta un notevole contributo alla chiarezza dei problemi in campo, con un’analisi di alcuni documenti conciliari. In modo particolare, sono illuminanti i capitoli dedicati all’analisi delle costituzioni Dei Verbum e Lumen Gentium, dove con competenza si sottolinea il rapporto Scrittura - Tradizione e la dottrina sulla collegialità, visti nella prospettiva della continuità. Sono i capitoli centrali del volume, dove le argomentazioni sono stringenti e richiamano i principi della logica e della ragione teologica.

Tuttavia, proprio la forza delle argomentazioni di mons. Gherardini suggerisce alcune riflessioni problematiche. Larga parte della teologia post-conciliare ha riconosciuto le ambivalenze dei documenti conciliari (O. PESCH, Il concilio, cit., pp. 377-379), e per questo è stato richiesto da almeno trent’anni l’indizione di un nuovo concilio, secondo l’opinione di Giuseppe Alberigo, davvero ecumenico, e con all’ordine del giorno le nuove sfide per la Chiesa. Così i problemi del Vaticano II sarebbero come superati dal concilio Vaticano III. Per esempio, anche il cardinale Suenens, nel 1982, chiese un concilio per la fine del secolo, da tenersi a Gerusualemme (L. J. SUENENS, Per la chiesa di domani, Roma, Città Nuova, 1982, p. 70).

Inoltre, la seria discussione sugli argomenti trattati dal concilio suggerita da mons. Gherardini potrebbe risultare inutile, finchè non si ritrova un linguaggio comune. La scelta linguistica del Vaticano II con il rifiuto di una chiara terminologia di ascendenza scolastica, non permette la limpidezza del confronto. Lo aveva già intuito con fine percezione il cardinale Siri, in una conferenza tenuta a Cannes, nel 1969: “Fu adottato negli schemi [del concilio] il criterio discorsivo e fu escluso il metodo delle proposizioni semplici, stringate per l’affermazione delle verità o per la netta condanna degli errori… La scelta del metodo discorsivo negli schemi non è stato senza conseguenze e durante il concilio e dopo il concilio. Anzitutto è diventato più difficile capire dove il concilio intendeva impegnarsi in dichiarazioni solenni, che importavano l’infallibilità e pertanto l’irreformabilità di un asserto, e dove non intendeva impegnarsi a quel modo… Il frutto è stato - non certamente legittimo e solo accidentale - che molti si sono a torto creduti di poter interpretare i testi a loro modo e persino fuori dell’ortodossia cattolica” (G. SIRI, La giovinezza della chiesa. Testimonianze, documenti e studi sul concilio Vaticano II, Pisa, Giardini, 1983, p. 178).

Le parole dell’arcivescovo di Genova sono davvero fondamentali per capire l’equivoco che attraversa il confronto teologico di oggi. Ritengo che il lavoro di mons. Gherardini e le sue analisi non potranno essere comprese dalla teologia moderna, se non si ritrova una convergenza terminologica comune. Al contrario, risuonano gravide di conseguenze negative le tesi del cardinale Léon-Joseph Suenens, che invitò a cercare nei testi conciliari le verità implicite, nascoste dietro incisi e circonlocuzioni, frutto dei compromessi tra le varie correnti conciliari, per raggiungere l’unanimità del consenso tra i padri. Il testo conciliare per il porporato belga è solo una traccia per cercare la verità, indicata dallo Spirito Santo: “Nei testi conciliari vi sono formule di equilibrio e di comune adesione che, a volte, sono state acquisite solo come tappe provvisorie per una scalata. Per la forza delle cose, ed anche per il gioco degli uomini, alcune accentuazioni non hanno ottenuto la loro piena dimensione rinnovatrice. Ma le gemme sono là che attendono la pienezza del sole: compito degli uomini, sotto la guida dello Spirito Santo, sarà quello di esplicitare tutte le implicazioni contenute nei testi conciliari, e tutta la loro implicita portata” (L.J. SUENENS, La corresponsabilità nella chiesa oggi, Roma, Paoline, 1968, p.19).

La ricerca dell’implicito porta dentro di sé tutte le virtualità di una interpretazione soggettiva della fede, con le conseguenze che abbiamo conosciuto nei decenni post-conciliari. Risultano così chiari i motivi per cui padre Ernesto Balducci propose “una ermeneutica dell’intenzione”, perché: «Voler leggere il concilio nella sua positività letterale è una operazione impossibile, perché ci sono nei testi conciliari delle contraddizioni che rimangono tali» (E. BALDUCCI, Il cerchio che si chiude, Genova, Marietti, 1986, p. 81).

Le importanti analisi di mons. Gherardini seguendo i criteri di certe correnti post-conciliari non hanno più alcuna vera importanza, perché ormai la teologia veleggia, senza l’aggancio all’oggettività, verso una sostanziale dissoluzione. L’opera di mons. Gherardini non potrà essere capita, anzi sarà considerata “unzeitgemass-inattuale”, senza questa precomprensione linguistica, senza una nuova convergenza sul senso oggettivo dell’interpretazione delle verità di fede, secondo le chiare indicazioni del concilio Vaticano I, nella costituzione Dei Filius (cap. IV): “Il senso dei sacri dogmi che deve essere sempre conservato è quello che la Santa Madre Chiesa ha determinato una volta per tutte e non bisogna allontanarsi da esse sotto il pretesto e in nome di una intelligenza più profonda”.

Il testo di mons. Brunero Gherardini si conclude con una significativa supplica al papa, che ricorda una iniziativa analoga di mons. Cesare Angelini. Il noto letterato pavese dalle colonne del «Corriere delle Sera», con lucida preveggenza scrisse a Paolo VI nel 1971, chiedendo negli anni del post-concilio: “La continuità con il passato e la difesa delle verità di fede” (C. ANGELINI, Lettera al Papa, Bologna, Boni, 1977, pp. 3-9).

Il papa ricordava nel 2005 che l’ermeneutica della continuità cresce silenziosamente, ma è l’unica in grado di rinnovare. Il contributo di mons. Gherardini è il frutto di questa nuova temperie aperta dalle prospettive offerte da Benedetto XVI, che, niente togliendo alle tante intuizioni conciliari, le possa inquadrare nel bimillenario cammino della Chiesa. La grandezza di una autentica teologia cattolica consiste in questa incessante ricerca, secondo le illuminanti parole di Vincenzo di Lerins: “Quello che si credeva semplicemente, lo si creda più diligentemente; quello che si predicava con minor forza, si predichi con più vigore; quello che si venerava con cautela, si veneri con più sollecitudine”.
In altri termini, la teologia cattolica non è solo attraversata dalla logica dell’et-et, ma anche da quella del semel verum, semper verum.

Il volume di mons. Gherardini ha, infine, due qualità: la franchezza e la freschezza di una prosa tersa e piacevole. Di entrambe ne sentiamo oggi il bisogno, predominando invece un linguaggio ecclesiastico sciatto e ripetitivo, sia negli scritti teologici sia negli interventi dei nostri Pastori. La franchezza di mons. Gherardini risponde ad un preciso dovere del teologo che, senza infingimenti, chiama le cose con il loro nome. Forse questo atteggiamento ha fatto innervosire qualche eccellentissimo prelato toscano, abituato alla stanca ripetizione di slogan che si sostituiscono al pensiero dottrinale, come ricordava all’indomani del concilio Louis Bouyer (L. BOUYER, Cattolicesimo in decomposizione, Brescia, Morcelliana, 1969, p. 29).

Vorrei concludere citando Karl Barth, teologo molto caro a Mons. Gherardini, che negli ultimi anni della sua vita si occupò con curiosità al dibattito suscitato dal Vaticano II. Il teologo di Basilea in un opuscolo dove trattò del rinnovamento della Chiesa, ammonì sia i cattolici sia i protestanti che la novità vera dipende sempre dal riconoscere la Signoria di Dio sulla Chiesa, definita come una casa senza tetto e con poche finestre ossia protesa tutta verso il suo Signore: “La Chiesa sulla via del rinnovamento è il popolo di Dio in aggiornamento. Questa celebre formula va intesa nel suo significato generale. Nell’adattamento della sua vita a un’altra vita. La vita di quest’Altro a cui la Chiesa deve adattarsi può essere anzitutto la vita del Dio uno e trino nella sua azione del mondo e nella Chiesa. Da questo punto di vista la Chiesa è una casa - l’immagine è alquanto ardita ma deve essere usata - la quale casa deve essere completamente aperta nella parte superiore dunque non ha tetto. Essa deve infatti essere totalmente aperta al suo Signore. Ma deve servire il suo Signore fra gli uomini e quindi deve realmente servire anche loro. La casa dunque ha molte finestre, grandi e piccole, che si aprono su tutti i lati. Così deve essere: le finestre sono necessarie alla Chiesa quanto l’assenza del tetto… Una domanda che noi altri che ora ci dobbiamo chiamare evangelici in senso stretto, abbiamo da rivolgere a tutto l’insieme del cosiddetto neoprotestantesimo di tutte le tendenze, anche le più moderne, ma nel contempo anche al cattolicesimo romano post-conciliare. E’ la semplice domanda se, per quanto riguarda le finestre aperte sul mondo, tanto i nostri protestanti quanto l’ultimo concilio non si saranno spinti troppo oltre. Quando si fanno e aprono troppe finestre, la casa cessa di essere casa. Il posto del sale è nella pasta. Ma la pasta non è sale; e il sale da parte sua non deve diventare e voler essere pasta. Altrimenti il concetto di Chiesa si potrebbe ampliare in modo tale da sparire nell’oscura nebulosità di un cristianesimo incosciente” (K. BARTH, Rinnovamento e unità della chiesa, Roma 1969, pp. 23-24).


Fonte: Bollettino Una Voce dicentes. Grazie a Dante Pastorelli per la pubblicazione.
Caterina63
00martedì 20 aprile 2010 15:44

"QUOD ET TRADIDI VOBIS" La Tradizione Vita e Giovinezza della Chiesa di Brunero Gherardini


"QUOD ET TRADIDI VOBIS"
LA TRADIZIONE VITA E GIOVINEZZA DELLA CHIESA
di
BRUNERO GHERARDINI


CON IL PERMESSO ESPLICITO DELL'AUTORE MONS. BRUNERO GHERARDINI PUBBLICHIAMO IL VII CAPITOLO DELLA RIVISTA DIVINITAS. RIMANDANDO ALL'ACQUISTO DI TUTTA L'OPERA CHE SARÀ PRESTO IN LIBRERIA.

RINGRAZIAMO DI TUTTO CUORE MONS. GHERARDINI PER LA DISPONIBILITÀ E LA BENEVOLENZA CHE HA ACCORDATO AL NOSTRO SITO.

SI RICORDA CHE IL MATERIALE PROPOSTO È VINCOLATO DA COPYRIGHT È CHE COLORO CHE INTENDONO UTILIZZARLO DEVONO INDICARNE LA FONTE: L'AUTORE E IL TITOLO DELL'OPERA. CON L'AUGURIO DI UNA ILLUMINANTE LETTURA!
Caterina63
00giovedì 30 settembre 2010 12:31

Mons. Brunero Gherardini, Quod et tradidi vobis. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa

Quod et tradidi vobis
La Tradizione  vita e giovinezza della Chiesa


Quest'ultimo libro di Mons. Gherardini, esamina il concetto di Tradizione allo scopo di contribuire alla fissazione di un criterio cattolico generale di questo termine che, a partire dal Vaticano II, ha subito ogni sorta di forzature per far coincidere la Tradizione cattolica con le più disparate opinioni di teologi e ricercatori.

In particolare l'Autore mette bene a fuoco il vero significato dell'espressione “tradizione vivente”, di cui troppo s'è abusato a partire dal Concilio per far passare l'idea che la Tradizione cattolica abbia una valenza “evolutiva” del tutto paragonabile alla concezione evoluzionista moderna.

La fissazione di questo criterio, e la sua accettazione universale, è condizione indispensabile per il lavoro di revisione dei documenti conciliari “alla luce della Tradizione”, appunto. A sua volta chiave di volta per comprendere il senso vero, e realmente praticabile, di quella che oggi viene chiamata da molti “ermeneutica della continuità”.

Non un semplice lavoro di corrispondenza dei testi si richiede, e quindi un ulteriore lavoro di interpretazione degli stessi, bensì un attento esame di questi testi in relazione ai principi che la Tradizione contiene e che ha trasmesso ininterrottamente per quasi duemila anni.

Il libro ha una decisa caratura teologica e l'Autore lo ha scritto proprio avendo in vista i lettori in possesso di competenze teologiche. Ne sono prova le tante citazioni di testi di teologia. E ciò nonostante è un libro di agevole lettura e di facile comprensione, tale da costituire un buon testo di riferimento per chi volesse mettere a fuoco il senso della Tradizione della Chiesa cattolica, ed orientarsi nel dedalo dell'attuale pubblicistica cattolica.

Mons. Brunero Gherardini, Quod et tradidi vobis. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice, Frigento (AV), 2010, formato 15 x 23, pp. 460, € 25,00

Il libro, reperibile nelle librerie cattoliche, può essere richiesto direttamente alla casa editrice:

Casa Mariana Editrice
Strettoia Santa Teresa degli Scalzi, 4
80135 Napoli
tel. e fax 081-5447003 / 081-0331423
posta elettronica
Caterina63
00martedì 23 novembre 2010 08:37
[SM=g1740722] Intervento di Mons. Brunero Gherardini (1) – Canonico Vaticano
Su: “Quod et Tradidi Vobis”- La tradizione vita e giovinezza della Chiesa.
Sabato 20 novembre 2010
Presso: Aula Magna – Facoltà di Filosofia – Studio Domenicano – Piazza San Domenico 13 – Bologna
Incontro organizzato da: Centro Studi “Vera Lux” - Bologna-Ozzano
N.B.: Vedi registrazione AUDIO della Conferenza di Mons. Gherardini


intervento (1)
it.gloria.tv/?media=111884

intervento (2)
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intervento (3)
it.gloria.tv/?media=111943





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[SM=g1740733]

Caterina63
00venerdì 7 gennaio 2011 10:09

l'araba fenice: che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa.

Convegno di Roma sul Vaticano II.
Intervento di Mons. Brunero Gherardini

C’era una volta l’Araba Fenice. Tutti ne parlavano, ma nessuno l’aveva mai vista. E c’è oggi una sua versione aggiornata, di cui pure tutti parlano e nessuno sa dire di che cosa si tratti: si chiama Pastorale.

1 – La parola - Sia ben chiaro: la parola in sé non è un problema, evidente essendo la sua derivazione da pascere: un verbo che nasce dal latino pabulum (pascolo, cibo), dal quale prende vita una famiglia non numerosissima, ma ben individuabile nei suoi componenti: pascere, appunto, nel senso di condurre al pascolo e dar da mangiare; pastum, di cui un evidente calco è l’italiano pasto, ma che può tradursi anche con cibo; pastor, che indica chi conduce al pabulum, procura il cibo e custodisce greggi ed armenti. Pastor diventa a sua volta il padre di pastoricia ars, in italiano pastorizia, o arte di chi alleva il bestiame; di pastura, col significato di pascer all’aperto; e di pastu- o pastorale, già presente nel tardo latino per qualificare l’abito, i cibi, le usanze, il linguaggio del pastore. Non discende, invece, pastorizzazione, o procedimento per la conservazione d’elementi liquidi, come il latte, perché la parola nasce dal francese pastoriser, derivante a sua volta da L. Pasteur (1822-1895), il suo inventore.

[...] Pastorale entrò presto nel gergo ecclesiastico, per qualificare tre lettere dell’epistolario paolino, o l’attività degli evangelizzatori e del loro insegnamento, o le insegne vescovili, quali l’anello, il bacolo, le lettere. Più recente, ma non moderno, è l’uso di pastorale con riferimento alla teologia e con orientamento non dogmatico; in origine anzi fu antidogmatico. Al di fuori del gergo ecclesiastico, però, un uomo di media cultura molto facilmente collegherà pastorale alla ninfa della poesia arcadica, al componimento poetico d’origine provenzale e contenuto amoroso, all’egloga virgiliana, al dramma “L’Aminta” di T. Tasso ed alla musica di carattere semplice e tenero, con specifica tipizzazione nella “sesta” di Beethoven.

2 – La parola nel Vaticano II – Dopo uno spettro semantico di tale ampiezza, l’allusione alla sconosciuta ed invisibile Araba Fenice potrebbe apparire insostenibile per evidente contraddizione. Se non che, il condizionale “potrebbe” è neutralizzato dall’assenza nei documenti conciliari d’una ragione sufficiente che lo giustifichi. Dico “ragione sufficiente”, perché se dicessi che nei documenti conciliari è assente la “parola”, darei la dimostrazione d’una crassa ed imperdonabile ignoranza del Vaticano II. La “parola” non solo c’è, ma abbonda; anzi caratterizza il Vaticano II nella sua specificità di Concilio ecumenico di fronte ai venti Concili che lo precedono. Il Vaticano II parla, infatti, d’azione pastorale in genere, e più direttamente d’attività pastorali; individua varie necessità pastorali e, a fronte di esse, auspica l’istituzione e la reciproca collaborazione di vari sussidi pastorali, non mancando di segnalare tra questi la programmazione ed organizzazione di “corsi, congressi, centri con relative biblioteche destinati agli studi pastorali, da affidar a persone altamente capaci”. Al fine d’estendere entro un raggio il più ampio possibile la sensibilità pastorale e le opportune conoscenze, il Vaticano II fa obbligo ai Vescovi di “studiare da soli o a livello interdiocesano il sistema migliore” che assicuri ai presbiteri, “soprattutto qualche anno dopo la loro ordinazione”, l’opportuno approfondimento dei metodi pastorali. Poiché un forte contributo all’azione apostolica della Chiesa può venir anche dal fronte laico, il Concilio invita i Vescovi a scegliere “sacerdoti dotati delle qualità necessarie e convenientemente formati”, che a loro volta impartiscano un’adeguata formazione ai laici per poi affidar loro speciali compiti d’azione pastorale. E perché “l’unità d’intenti tra sacerdoti e Vescovi renda sempre più fruttuosa la loro azione pastorale”, si sollecita una periodica riunione del clero, allargata anche ad altri membri dell’organismo ecclesiale, “per trattare di questioni pastorali”.

Alle Conferenze Episcopali delle singole Nazioni, vien caldamente raccomandato d’aver a cuore e promuovere la formazione pastorale del clero mediante “Istituti pastorali in collaborazione con parrocchie opportunamente scelte, convegni periodici, appropriate esercitazioni”. Né poteva mancar un richiamo alla “competente autorità ecclesiastica territoriale” per la fondazione d’un Istituto “di pastorale liturgica” che si valga d’ “esperti in liturgia, musica, arte sacra e pastorale”. Questi dati dimostrano che l’Araba fenice è di casa nel Vaticano II, ma il Vaticano II non dice che cosa o chi sia.

Chi “regge e pasce il popolo di Dio” vien peraltro incitato ad incarnar il buon Pastore che dà la vita per le sue pecorelle (Gv 10,11)”, e a seguire “l’esempio di quei preti che anche ai nostri tempi non esitarono a sacrificare se stessi per il proprio gregge”. In breve, nell’esortar il clero a farsi di giorno in giorno strumento d’un sempre più idoneo servizio al popolo di Dio, il Vaticano II dichiara esplicitamente che la sua finalità pastorale si ripromette “il rinnovamento interno della Chiesa, la diffusione dell’evangelo in tutt’il mondo e l’instaurazione d’un rapporto dialogico con esso” . Una tale finalità corrisponde evidentemente ad un’idea di fondo, ad una nozione almeno rudimentale di pastorale appena adombrata: rapporto dialogico col mondo da parte d’una Chiesa rinnovata nei suoi metodi d’evangelizzazione e d’apostolato. Qui, un po’ vagamente, l’Araba fenice incomincia così a farsi conoscere.

Tale e tant’insistenza non sorprende. E’ anzi un attestato di docilità e fedeltà alle linee maestre che papa Roncalli, l’11 ottobre 1962, prospettò ai Padri aprendo ufficialmente la grande Assise conciliare: pur mettendo la dottrina al primo posto dei lavori conciliari, ne diversificò la metodologia rispetto al passato. Prima la Chiesa non rifuggiva dalla condanna, severa e ferma. Oggi alla severità preferisce la medicina della misericordia. Per papa Roncalli, dunque, soprattutto di fronte ad un’umanità prigioniera di tante difficoltà, la Chiesa avrebbe dovuto mostrare il volto buono benevolo paziente della Madre, fomentare la promozione umana dilatando gli spazi della carità, diffondere serenità pace concordia ed amore. In tal modo i lineamenti dell’Araba fenice, pur rimanendo ancora indefiniti, si confondono con quelli della madre paziente e buona.

A conferma dell’indirizzo roncalliano, Paolo VI, nell’omilia del 7 dic. 1965 per la nona sessione del Concilio, dichiarò che la Chiesa ha a cuore, insieme con il regno dei cieli, l’uomo ed il mondo, è tutta anzi in funzione dell’uomo e del mondo, intimo essendo il legame tra la religione cattolica e la vita umana, al punto che dell’uomo e del genere umano la religione cattolica può dirsi la vita stessa, grazie alla sua sublime dottrina, alla cura materna con cui accompagna l’uomo verso il suo fine supremo, ai mezzi che gli dona perché possa conseguirlo. Ennesima dichiarazione d’intenti pastorali, che, rimanendo entro il limite del generico, non scoprono ancora il volto o i lineamenti dell’Araba fenice.

Tuttavia, sulla pastoralità del Concilio, nessun dubbio e nessuna discussione. Il Vaticano II non fu, solo perché non doveva esserlo, un Concilio dogmatico e tutto sommato nemmeno disciplinare. Volle esser soltanto pastorale. Eppure, nonostante i tanti interventi interni ed esterni, il genuino significato della sua dichiarata pastoralità è ancora fra le nebbie.

3 – Un concetto non definito – Poco sopra ho indicato le sfaccettature della pastoralità conciliare. La pastorale come aggettivo qualificativo o come aggettivo sostantivato ricorre in effetti decine e decine di volte. Non una sola, però, per darne se non la definizione, almeno un accenno di spiegazione. Riconosco che, analizzando criticamente le varie dichiarazioni, è possibile farsene una vaga idea; essa, però, non sarebbe espressione diretta dell’insegnamento conciliare.

L’esempio più probante è dato da Gaudium et spes, qualificata addirittura come “Costituzione pastorale”, tutta essendo un fermento ideale e propositivo a favore dell’uomo, della sua libertà e dignità, della sua presenza nella famiglia, nella società, nella cultura e nel mondo, allo scopo di conferire alla vita privata e pubblica un respiro ed una dimensione a misura umana. L’abbinamento dei due lemmi – Costituzione pastorale - è la novità più novità di tutto il Vaticano II; lo fu per gli stessi Padri conciliari, che prima d’approvarla discussero varie altre denominazioni. L’unica giustificazione dell’abbinamento si ha nella nota che fa seguito al titolo dell’inconsueto documento, definito “pastorale” sia perché, “sulla base di principi dottrinari, intende esporre l’atteggiamento della Chiesa nei riguardi del mondo e degli uomini d’oggi”, sia perché atteggiamento e principi dottrinari si compenetran a vicenda. Si dovrebbe dedurne che l’atteggiamento in parola è sempre l’applicazione e la traduzione pratica di principi dottrinari. Ma resta un problema capire di quali: forse di quelli sociologici, politici, economici, ma, almeno direttamente, non di quelli evangelici.

Il riferimento all’ uomo ed al mondo richiama d’ambedue la nativa finitezza, la creaturalità, la temporalità, il dinamismo, l’incessante evolversi, sul quale pende la spada di Damocle d’una sempre possibile involuzione. Ciò dà evidenza alla loro condizione variabile e contingente, ma anche alla problematicità dell’applicazione pratica di quei principi dottrinari che son in gran parte assoluti ed irriformabili. Anche la nota avverte una tale aporia e la segnala; ma non la risolve. Anzi, la complica nel momento stesso in cui stabilisce che “la Costituzione dovrà interpretarsi secondo le norme generali dell’ermeneutica teologica, tenendo conto… delle circostanze mutevoli cui sono intrinsecamente connesse le materie trattate”. In realtà, se la pastorale dovesse consistere in questo balletto di sì-e-no, una sua definizione sarebbe impossibile. E’ detto che al contingente va applicata l’indiscutibilità della dottrina; ma se codest’applicazione riducesse a contingente la dottrina o rendesse indiscutibile ed assoluto il contingente, stravolgerebbe l’uno e l’altro elemento : il sì a braccetto col no. Capisco perché già nell’Aula conciliare GS fu il testo più discusso e più ostacolato, cui poco valse l’affidamento a commissioni e sottocommissioni, ed altrettanto poco il passaggio attraverso ben quattro riformulazioni: la difficoltà, al limite della hibris, è nell’affermazione simultanea del sì e del no.

E’ forse dipeso da questa irrisolta aporia la problematicità che accompagna tuttora, dopo circa mezzo secolo di postconcilio, ogni discorso sulla pastorale. In pratica, essa serve per legittimar un po’ tutto ed il suo stesso contrario. Le due ermeneutiche conciliari, alle quali s’è spesso riferita l’analisi del Santo Padre, quella che fa del Vaticano II l’inizio d’un nuovo modo d’esser Chiesa e quella che lo collega invece alla vivente Tradizione ecclesiale, son ambedue legittimate dall’irrisolta aporia. Nelle due ermeneutiche, infatti, Il Vaticano II:

a.assume, sul piano dottrinario, l’aspetto e il valore d’un concilio dogmatico: l’una ne fa un super-concilio, l’altra la sintesi dottrinale di tutt’i precedenti concili;

a.sul piano pastorale, appare come un contenitore indifferenziato dalla sua stessa qualità pastorale, una sorta di “battitore libero” cui per ragioni pastorali è consentito di dire simultaneamente il sì ed il no.

S’impone, a questo punto, un giudizio sereno ed obiettivo sulla qualità complessiva del Vaticano II, che affrettatamente ed ingenuamente fu chiuso nell’area pastorale.


4 – I quattro livelli del Vaticano II – Chi ha dimestichezza non con la sola GS, ma con tutt’i sedici documenti conciliari, si rende ben conto che la varietà tematica e la corrispettiva metodologia collocano il Vaticano II su quattro livelli, qualitativamente distinti:

1.quello generico, del Concilio ecumenico in quanto Concilio ecumenico;

2.quello specifico del taglio pastorale;

3.quello dell’appello ad altri Concili;

4.quello delle innovazioni.

Sul piano generico, il Vaticano II ha tutte le carte in regola per esser un autentico Concilio della Chiesa cattolica: il 21° della serie. Ne discende un magistero conciliare, cioè supremo e solenne. La qual cosa di per sé non depone per la dogmaticità ed infallibilità dei suoi asserti; anzi nemmeno la comporta, avendola in partenza allontanata dal proprio orizzonte.

Sul piano specifico la qualifica di pastorale ne giustifica i vastissimi interessi, non pochi dei quali eccedenti l’ambito della Fede e della teologia: p. es. la comunicazione sociale, la tecnologia, l’efficientismo della società contemporanea, la politica, la pace, la guerra, la vita economico-sociale. Anche questo livello appartien all’insegnamento conciliare ed è quindi supremo e solenne, ma non può vantare, per la materia trattata e per il modo non dogmatico di trattarla, una validità di per sé infallibile e irriformabile.

L’appello ad alcuni insegnamenti di precedenti Concili costituisce il terzo livello. E’ un appello talvolta diretto ed esplicito (LG 1 “praecedentium Conciliorum argumento instans”; LG 18: “Concilii Vaticani primi vestigia premens”; DV 1: “Conciliorum Tridentini et Vaticani I inhaerens vestigiis”), talvolta indiretto ed implicito, che riprende verità già definite: p. es. la natura della Chiesa, la sua struttura gerarchica, la successione apostolica, la giurisdizione universale del Papa, l’incarnazione del Verbo, la redenzione, l’infallibilità della Chiesa e del magistero ecclesiastico, la vita eterna dei buoni e l’eterna condanna dei cattivi. Sotto questo aspetto, il Vaticano II gode d’un’incontestabile validità dogmatica, senz’esser per questo un Concilio dogmatico, essendo la sua una dogmaticità di riflesso, propria dei testi conciliari citati.

Le innovazioni costituiscono il quarto livello. Se si guarda allo spirito che guidò il Concilio, si potrebbe affermare ch’esso fu tutto un quarto livello, animato com’era da uno spirito radicalmente innovatore, anche là dove tentava il suo radicamento nella Tradizione. Alcune innovazioni sono però specifiche: la collegialità dei vescovi, l’assorbimento della Tradizione nella Sacra Scrittura, la limitazione dell’ispirazione ed inerranza biblica, gli strani rapporti con il mondo ebraico ed islamico, le forzature della c.d. libertà religiosa. E’ fin troppo chiaro che se c’è un livello al quale la qualità dogmatica non è assolutamente riconoscibile, è proprio quelle delle novità conciliari.

5 – Conclusione – L’adesione al Vaticano II è, per quanto sopra esposto, qualitativamente articolata. In quanto tutti e quattro i descritti livelli esprimono un magistero conciliare, tutti e quattro pongono al singolo ed alle comunità cristiano-cattoliche il dovere d’un’adesione, che non necessariamente sarà sempre “di Fede”. Questa va soltanto alle verità del terzo livello e solo in quanto provengono da altri Concili, sicuramente dogmatici. Agli altri tre livelli è doveroso riservare una religiosa e rispettosa accoglienza, fino a che qualcuno dei loro asserti non urti contro la perenne attualità della Tradizione per evidente rottura con l’ “eodem sensu eademque sententia” di qualche sua variante formale. Il dissenso in questo caso, specie se sereno e ragionato, non determina né eresia, né errore. Quanto al secondo livello, quello pastorale, bisogna proprio pensare, come ho accennato nella nota n. 19, che i Padri conciliari non conoscessero l’ipoteca illuminista da loro stessi pagata con l’apertura del Concilio ad una pastorale la quale, fin dall’inizio, secondo la logica illuminista da cui dipendeva, aveva dato lo sgambetto a Dio per sostituirgli l’uomo e talvolta per identificare nell’uomo lo stesso Dio. Fu infatti la pastorale del XVIII sec. a mettersi dietro le spalle le motivazioni, le fonti, i contenuti ed il metodo della teologia dogmatica. E a spalancare le porte del fortilizio teologico al primato del naturale, del razionale, del temporale, del sociologico.

Con ciò non dico affatto che la pastorale del Vaticano II sia la medesima pastorale del XVIII sec. Ma sarebbe o ingenuo o disinformato chi, per non affermarne l’identità, negasse ogni loro parentela. Anche nel Vaticano II la matrice della pastorale restava quella illuminista, sia pur diversamente espressa e motivata. A toglierla dalla sabbie mobili dell’illuminismo fu Paolo VI che, in apertura del secondo periodo conciliare, la trasferì in una sfera romantica, per farne “un ponte verso il mondo contemporaneo”, comunicando ad esso “la sua interiore vitalità…come fenomeno vivificante e strumento di salvezza del mondo stesso”. L’Araba fenice diventava così un ponte, un coefficiente di vita, uno strumento di salvezza. Senza perdere, però, la sua parentela con la matrice illuminista, attraverso l’ispirazione neo-modernista dei suoi sostenitori. Non a caso da una teologia pastorale così intesa prese le mosse la secolarizzazione che ha poi trionfato nella presente fase postconciliare. E se dall’ignoranza dei suoi precedenti dipende l’indecisa nozione della pastoralità, dalla sua originaria parentela con essi dipenderebbe l’assurdo della dogmaticità d’un concilio che si autodefinisce semplicemente pastorale. L’Araba fenice in tal modo rivela il suo volto. Tutto sommato, sarebbe stato meglio se avesse continuato a nascondercelo.

Brunero Gherardini

Fonte: /
chiesaepostconcilio.blogspot.com
Caterina63
00giovedì 3 febbraio 2011 13:05

un libro da leggere

Quando Paolo VI fu tradito dai suoi migliori amici

Il romanzo-verità di Rosa Alberoni sul Concilio Vaticano II
di Antonio Gaspari


Ha già ricevuto migliaia di prenotazioni ed è appena arrivato nelle librerie l’ultimo romanzo di Rosa Alberoni, Intrigo al Concilio Vaticano II (edizioni Fede & Cultura). Si tratta di un libro appassionante ed avvincente, in cui la realtà inedita e sconosciuta di quanto accadde al Concilio Vaticano II viene raccontata in forma romanzata. Un anziano funzionario della Curia Vaticana ha detto che “c’è più verità in questo romanzo che in mille opere scritte sul Concilio Vaticano II”.

L’attacco è fulminante: una giornalista, Rachele Vidal, viene inviata a Portovenere per seguire un incontro culturale. Lì conosce padre Robert, un eremita che le racconta verità sconvolgenti su quanto accaduto al Concilio. Già segretario del cardinale Britannico che prese parte alle sessioni conciliari, padre Robert è parte integrante di un gruppo di fedeli servitori del Papa che ha scoperto una cospirazione contro il soglio pontificio e contro la Chiesa. L’esperienza di conoscere i traditori interni alla Chiesa, ha sconvolto padre Robert che, per questo, è diventato eremita. Rachele cerca in padre Robert un confessore che la guidi e le dia speranza, e si ritrova a conoscere la storia segreta del Concilio.

Le intenzioni del Concilio Vaticano II erano straordinarie e ottimiste. Giovanni XXIII voleva portare a compimento il rinnovamento della Chiesa iniziato da Pio IX con il Concilio Vaticano I ma non sapeva che si erano annidati nella Chiesa dei personaggi pronti a sovvertire il magistero petrino. Non si trattava solo di cardinali, teologi, vescovi, che erano sotto l’effetto di quella ideologia “sessantottina” che da lì a poco avrebbe sconvolto il mondo, ma di un gruppo organizzato, che agiva in maniera coordinata e segreta. I cospiratori avevano le idee chiare: puntavano a ridurre il primato del Pontefice, condizionandolo con la creazione e l’influenza delle Conferenze Episcopali, miravano a cancellare il ruolo decisivo di Maria come madre del figlio di Dio, aspiravano a forme di utilizzazione del potere religioso così come facevano gli “ariani”, e sul piano morale, volevano l’autorizzazione all’utilizzazione delle pillole contraccettive, l’abolizione del celibato e l’apertura verso posizioni meno intransigenti nei confronti della difesa della vita e della famiglia naturale. Alcuni personaggi della Curia compresero il pericolo e denunciarono la deriva protestante, ma il clima esterno ed interno era tale che i cospiratori erano sul punto di riuscire nel loro intento cospiratorio.

Lunedì 9 novembre 1964, il capo dei cospiratori scrisse una lettera che fece distribuire al suo gruppo, in cui spiegava che votando in un certo modo sarebbe stato possibile far passare nella Costituzione Dogmatica una prassi per cui il Papa avrebbe perso la sua prerogativa di Vicario di Cristo. Nella lettera era scritto che una volta approvato quel passaggio il Pontefice non avrebbe potuto più scrivere le encicliche senza prima aver avuto il permesso dei vescovi e delle conferenze episcopali. Non si sa come e perchè ma quella lettera fu consegnata anche ad uno dei teologi fedeli al Papa. Il romanzo di Rosa Alberoni racconta, che il pontefice Paolo VI “si fece leggere la lettera più volte, lacrime di rabbia e di sconcerto gli rigarono il volto ‘Mi hanno tradito! Mi hanno tradito! Eppure li credevo miei amici. O mio DIO aiutami!, il fumo di Satana è entrato nella Chiesa!’...”.

Da quella che è stata definita da una certa cultura come “la notte oscura di Paolo VI”, il romanzo prende un ritmo forsennato e si trasforma in un “thrilling” che si svolge all’interno delle mura Vaticane nel bel mezzo del Concilio Vaticano II. I cospiratori che si riuniscono segretamente nella chiesetta di un cimitero teutonico, il pontefice che, in principio, accoglie i cospiratori come suoi amici poi li scopre traditori, la battaglia contro tutto e tutti di una minoranza fedele all’istituzione che all’inizio sembra non avere nessuna possibilità di successo ed infine riesce a impedire che il papato e la Chiesa rovinino nella trappola preparata dai cospiratori, i tentativi ultimi di cambiare anche le parti scritte della Costituzione dogmatica…

Caterina63
00sabato 4 febbraio 2012 23:16
LA NOVELLA DELLO STENTO, OVVERO LA DISPUTA SULL’INTERPRETAZIONE DEL VATICANO II di Mons. BRUNERO GHERARDINI

una premessa di Dante Pastorelli
 
Ancora una volta l’Amico e Maestro mons. Brunero Gherardini, in attesa che esca l’ultimo suo volume sui problemi posti dal Vaticano II, dal Magistero che ad esso si richiama e dalle riforme che ne sono scaturite, mi fa l’onore d’inviarmi un intervento che chiarisce al colto e all’inclita, o a presunti tali, la sua posizione teologica in questo delicato campo: una posizione da molti condivisa ma da alcuni contestata non sempre col garbo ed il rispetto che richiederebbe un dibattito sereno ed a così alto livello.

Questo saggio, suggerito dalla lettura di osservazioni critiche a giudizio dell’illustre teologo tutto fuor che convincenti, e ravvivato anche da qualche motivata battuta dal salace sapor toscano, affronta con grande rigore scientifico ed ineffabile amore per la Chiesa il tema Concilio, Magistero ed ermeneutica della continuità, che sembra non doversi mai esaurire (“la novella dello stento”). È prevedibile che il presente lavoro non solo avrà larga eco ma susciterà reazioni che mi auguro positive e propositive, non viziate alla base, cioè, da quell’ “infallibilismo”, pericoloso quant’ormai diffuso nella sua banalità, a cui s’aggrappa chi è a corto di solidi argomenti per spiegar certe discontinuità e certe equivoche formulazioni caratterizzanti vari documenti del Vaticano II, ramificatesi e proliferate successivamente in ambito dottrinale e liturgico nel nebuloso e tempestoso post-concilio. Discontinuità ed equivoche formulazioni che non devon esser mai sfuggite agli occhi ed alla mente del card. Ratzinger ed ora Sommo Pontefice felicemente regnante, se, oltre a giudicar gravissima, ingiustificabile, mai occorsa nella storia della Chiesa, la rottura liturgica operata da Paolo VI – e ciò sin dal 1976, lettera al prof. Valdenstein - tanto s’impegna a proclamar un’indimostrata continuità, e se agl’Istituti “Ecclesia Dei” o post Summorum Pontificum è stato concesso il diritto di discuter i punti del Magistero conciliare che ad essi non appaion conciliabili con il Magistero precedente e la Sacra Tradizione. Un esempio per tutti: ecco cosa dichiara mons. Rifan, Amministratore Apostolico della Società S. Giovanni Maria Vianney, in un’intervista rilasciata ad ITEM (“Entraid et Tradition”) il 14 gennaio 2004:

“ITEM: Nella fedeltà a Mons. De Castro Mayer, il vostro gruppo sacerdotale aveva mantenuto una critica molto forte e argomentata delle innovazioni conciliari: libertà religiosa, ecumenismo, vaghi principi della collegialità episcopale, falsi fondamenti del dialogo con le religioni non cristiane. La vostra nuova situazione vi permette di far sentire “dall’interno” queste stesse critiche teologiche?

Mons. Rifan: Noi conserviamo la stessa posizione cattolica, la nostra posizione di sempre. Siamo per la regalità sociale di Cristo Re, siamo contro la libertà religiosa in quanto relativismo dottrinale, laicismo dello Stato, indifferentismo e sincretismo religioso, uguaglianza di tutte le religioni davanti alla legge; in una parola siamo contro la libertà religiosa condannata da Gregorio XVI, Pio IX e Pio XII. Noi siamo contro l’ecumenismo di complementarietà, o l’irenismo, e siamo per il ritorno o la conversione dei separati. Siamo contro la democratizzazione della Chiesa a tutti i livelli. Evidentemente, noi abbiamo il diritto di criticare gli errori e di presentare le nostre critiche costruttive, nel rispetto delle persone, alle autorità della Chiesa! Io mantengo la stessa analisi che fece Mons. De Castro Mayer, nelle sue Lettere Pastorali, nei confronti dei testi del Vaticano II.”
 
Che poi tutti questi Istituti non abbian intavolato, come spesso ho scritto, un serio confronto teologico con la S. Sede su codesti temi che più o meno a tutti stann’a cuore, o che, se v’è stato, non ne abbian reso pubblico l’esito, è molto significativo. Se chiarimenti soddisfacenti o addirittura definitivi verranno, ne va riconosciuto il merito alla Fraternità S. Pio X, qualunque sia il risultato dei difficoltosi colloqui che, stante il loro prolungarsi, non prospettano una riconciliazione a breve termine. Con grave danno per l’intera Chiesa, non solo della Fraternità fondata da mons. Lefebvre.
 
Mons. Gherardini ricorda, a riprova della fallibilità del Papa al di fuori dell’ambito stabilito una volta per tutte dalla Pastor Aeternus, il solo caso di Onorio I e il monotelismo. Avrebbe potuto anche indicar l’altro ben noto, anch’esso controverso, di Liberio e l’arianesimo. Ancor più significativa ai miei occhi appar l’eclatante eresia di Giovanni XXII che, in tre omelie pubbliche, e quindi nel pieno esercizio del suo munus docendi, da considerarsi almeno Magistero ordinario autentico, quali debbon esser qualificate ad es. le catechesi pontificie, e poi in una dissertazione a sua difesa contro la giustamente indignata sollevazione dei cardinali, sosteneva l’aberrante concezione secondo la quale le anime dei giusti dimoranti sub altare Dei godessero della visione dell’umanità di Cristo e non venissero ammesse se non dopo il giudizio universale alla visione beatifica dovuta solo all’uomo ricomposto nell’unità di anima e corpo nella resurrezione. E solo dopo il giudizio universale, insegnava anche, i demoni ed i dannati sarebbero andati al castigo eterno. Una commissione di cardinali e teologi condannò questa dottrina eterodossa e il Papa ritrattò il giorno prima della morte.
 
Evidenziare i confini dell’infallibilità pontificia o conciliare non costituisce erosione o addirittura negazione di questa sublime prerogativa ch’è, in quanto dogma, Verità di Fede, tutt’altro: significa ferma volontà indiscutibilmente cattolica di salvaguardarne l’intero valore e richieder per essa l’obbedienza assoluta quando sia esplicitamente, inoppugnabilmente impegnata dal Pontefice che parli come Vicario di Cristo, Pastore e Maestro universale.
 
Dante Pastorelli
 

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LA NOVELLA DELLO STENTO, OVVERO LA DISPUTA SULL’INTERPRETAZIONE DEL VATICANO II
 
di Mons. BRUNERO GHERARDINI
 
E’ probabile che i lettori più giovani mai prima d’ora si sian imbattuti nell’espressione la novella dello stento. Da ragazzo, la udivo quasi tutte le sere, al momento in cui, dette le preghierine ed ascoltata l’ultima fiaba prima che m’addormentassi, la nonna ricominciava la novella appena terminata, premettendo: “questa è la novella dello stento, che dura tanto tempo e che non finisce mai”. C’era anche un’altra espressione per indicare l’insopportabile ripetersi di qualcosa: lungo/a come la camicia di Meo. E’ mia impressione, soprattutto leggendo certi Autori, che anche l’interpretazione del Vaticano II sia diventata “lunga come la camicia di Meo”, ripetitiva cioè e superficiale, ed appunto per questo una vera “novella dello stento”. Alludo ad Autori nei quali mai si coglie un sia pur flebile tentativo d’approfondimento, uno sforzo di comprensione alla luce delle fonti, del Magistero e dei “probati Auctores”, un’analisi contenutistica e comparata dei documenti conciliari; mai una verifica fra il dettato conciliare e le note a piè di pagina che dovrebbero confermarlo e documentarlo, oppure fra questo dettato conciliare e quello dei precedenti Concili ai quali vien fatto appello. Si ripete fin alla stanchezza, proprio come quella prodotta dalla “novella dello stento”, che il Vaticano II è infallibile anche se non è dogmatico, perché – e qui sta l’unico immane erculeo sforzo di fondazione critica – è assistito dallo Spirito Santo.
 
1 - Ai sostenitori d’una tale giustificazione, dai medesimi ritenuta apodittica ed indiscutibile, non passa neanche per l’anticamera del cervello ch’essa sia aprioristica sul piano filosofico e fideistica su quello teologico. Dico aprioristica non nel senso scolastico della dimostrazione “a priori”, dalla causa ch’è prima all’effetto ch’è dopo – o dall’universale che logicamente è anteriore al particolare, il quale è quindi posteriore – ; bensì nel senso moderno e kantiano del termine, vale a dire di forme che, indipendenti dall’esperienza, la condizionano e quindi la precedono. In tal senso, infatti, il predetto unico immane erculeo sforzo di fondazione critica dichiara che prima di tutto, soprattutto e prescindendo da tutto sta l’assistenza dello Spirito Santo e che tutt’il resto (ogni documento conciliare) ne dipende. Potrà mai, allora, non esser infallibile ciò che dipende dallo Spirito Santo? Ovviamente no, ma il modo d’arrivare a codesto no è kantiano, indimostrato, pre-messo, a priori: val a dire privo di forza giustificativa.
 
Dico inoltre fideistica la giustificazione di chi sottopone il Vaticano II, il Magistero e la Chiesa stessa all’a priori dello Spirito Santo, dimenticando o volutamente rifiutando l’insegnamento del Vaticano I, il quale esclude che la verità possa cogliersi non anche secondo la ragione, ma solamente per fede(1).
 
I sostenitori della giustificazione aprioristica e fideistica, privi in assoluto d’autocritica perché altrettanto in assoluto sicuri di sé, s’ergon a giudici di chiunque la pensi un po’ diversamente e sentenziano contro chi valuti il Vaticano II sulla base non d’un aprioristico e fideistico ricorso allo Spirito Santo, ma del metodo rigorosamente critico - teologico: alla luce cioè della Fede rivelata e della sua presenza nell’ininterrotto Magistero ecclesiale dagli Apostoli ad oggi. Poiché codesta medesima luce evidenzia non pochi elementi del Vaticano II o discutibili o difficilmente collegabili con la continuità del detto Magistero, il rilevarlo è considerato un peccato mortale e vien investito da veementi accuse ai limiti del non-senso: “interpretazione modernista” è la più grave così come la più assurda, oppure “interpretazioine lefebvriana”, quasi un colpo di grazia contro la reazione in agguato, che osa sfidare il Papa, il Magistero e soprattutto loro, gli aprioristi e fideisti del momento. Mi nasce il sospetto che io stesso sia per loro un “modernista” ed un “lefebvriano”. A dir il vero essi stessi mi combattono per ben altri motivi ed è quindi evidente il loro stato confusionale: non si rendon conto, infatti, che “modernista” e “lefebvriano” non stanno insieme: è modernista chi considera la Rivelazione non conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, ma tuttora in atto e riconoscibile nei movimenti del subcosciente e nell’evolversi della cultura, alla luce della quale, anzi, il modernista interpreta ed accomoda le verità del “Credo”; è “lefebvriano” chi appartiene alla Fraternità sacerdotale san Pio X, fondata dal ben noto Mons. M. Lefebvre, o anche chi, sia pur al di fuori della Fraternità, ne condivide le riserve sul Vaticano II, nonché sull’aperturismo del postconcilio e sulle avventure liturgico-teologiche degli ultimi cinquant’anni. Non credo che i suddetti sostenitori, se pur in stato confusionale, ignorino la mia posizione teologica assolutamente antimodernista e la mia estraneità alla famiglia lefebvriana. E’ vero che qualche membro di essa, secondo quanto leggo in pubblicazioni ufficiali, ha detto di me: “Non è dei nostri, ma la pensa come noi”; ciò peraltro è del tutto insostenibile. Sulla prima affermazione non c’è né se né ma che tenga: anche se amico sincero d’alcuni membri della Fraternità, appartengo al clero secolare, son incardinato nella diocesi di Prato, in servizio presso la Santa Sede fino al 1995 e membro del Capitolo vaticano dal 1994. Sulla seconda affermazione i se ed i ma son d’obbligo. Condivido con la Fraternità alcune idee di fondo: il senso della Tradizione viva perché ininterrotta, la “romanità” del Fondatore, la critica all’attuale involuzione mondana, ed altro ancora. Non però l’autonomia con cui la Fraternità “conosce” cause matrimoniali, scioglie matrimoni, riduce allo stato laicale: queste son competenze della Chiesa e dei suoi tribunali, non d’una “società sacerdotale”, oltretutto non ancora canonicamente riconosciuta. Anche sul piano teologico, nel quale alcuni lefebvriani emergono per competenza e profondità, non proprio su tutto mi sento in sintonia: p. es., non su tutte le idee recentemente esposte, in tema di Magistero ecclesiastico, dal pur bravo ed a momenti anche ammirevole abbé J. M. Gleize. Un suo ampio scritto del 2009, concettualizzando Il Magistero vivente e la Tradizione, distingue il Magistero dal punto di vista del soggetto – il Papa ed i vescovi –, dell’atto magisteriale – la forma scritta o detta –, e dell’oggetto – l’insegnamento della verità rivelata – . Distinzioni e suddistinzioni s’incrociano e si moltiplicano soprattutto per spiegar il Magistero alla luce del secondo e del terzo punto di vista; alcuni accenni al primo non mancano, manca però la spiegazione del Magistero ordinario distinto – e perché ed in che senso – dal Magistero solenne e supremo. In tal modo l’esposto sembra allontanarsi da quella “romanità” che pur vorrebbe affermare e difendere. Né, infine, posso dirmi d’accordo sul giudizio della Fraternità circa il nuovo rito della Messa. Da quando il rito c. d. tridentino è stato ripristinato, celebro quotidianamente con esso, ma mi guardo bene dal demonizzar il nuovo, affermando che non soddisfa il precetto festivo e che la presenza alla “nuova” Messa è un sacrilegio. Bastan queste poche precisazioni per convincer ognuno - ovviamente non gli aprioristi ed i fideisti - di quanto aberranti sian le loro accuse di modernismo e di lefebvrismo contro chi, come il sottoscritto, non la pensa e si compiace di non pensarla come loro.
 
2 - Non contenti di ciò, con la sicumera della loro superficialità senza misura, insistono nel rimproverar a me e ad altri – p. es. al bravo prof. R. de Mattei – l’imperdonabile peccato di non aver riconosciuto e d’aver negato il raccordo tra Vaticano II e Tradizione, tra progresso e conservazione, d’aver anzi sostenuto il contrario, nonostante che lo stesso Vaticano II dichiari più volte d’avere stabilito un tale raccordo e che i Papi del postconcilio l’abbiano ininterrottamente riconosciuto. Al punto in cui stanno le cose, l’insistervi denota o un indizio di secondi fini o la presenza di limiti intellettivi. E’ evidente che un raccordo di tale natura ed importanza non può esser semplicemente declamato; va dimostrato. E dimostrato in modo tale da neutralizzare le prove della controparte relative all’inesistenza del raccordo stesso. Benedetto XVI – ma gli aprioristi ed i fideisti nemmeno se ne rendono conto – proprio questo tentò di fare con l’ormai nota allocuzione del 22 dicembre 2005, là dove parlò d’una continuità discontinua sull’asse portante, fisso, indefettibile, del soggetto Chiesa, nel quale la continuità dottrinale non viene interrotta dalla discontinuità d’atteggiamenti pratici e di scelte storiche, in risposta a determinate condizioni ed esigenze temporali. Per difender la tesi del raccordo tra Vaticano II e Tradizione, questa avrebbe potuto esser la strada maestra; ma sarebbe veramente troppo, se si chiedesse agli aprioristi ed ai fideisti di percorrerla. A loro interessa una sola cosa: che il Vaticano II sia detto un Concilio “infallibile anche se non dogmatico”, solo perché è un Concilio ed in quanto tale è garantito dall’assistenza dello Spirito Santo; donde l’infallibilità conciliare, anche in assenza di definizioni dogmatiche.

Gl’ineffabili aprioristi e fideisti son ancor e sempre a questo punto. Parlan di progresso, ma son di fatto la conservazione, incapaci di muover un passo al di là della loro comoda ed acritica posizione: il Concilio è infallibile perché tale lo rende lo Spirito Santo ed è eretico – sì, anche questo han saputo dire senz’il minimo pudore – chi dichiari il contrario. Se movessero almeno una volta quel passo, se almeno una volta si preoccupassero di confrontare la loro convinzione soggettiva con l’oggettività documentata delle altrui obiezioni, stringerei loro la mano. Per ora le mani non s’incrociano, solo perché quel passo sembra di là da venire.

3 – Proprio il modo con cui parlano d’infallibilità lo dimostra. Intendo l’infallibilità della Chiesa, del Magistero, dei Concili, delle dottrine anche non definite. A parte il fatto che qualcuno dovrebbe spiegar loro la differenza fra infallibilità, impeccabilità, inerranza ed indefettibilità, non si rendono o non vogliono rendersi conto delle condizioni alle quali soggiace “per divina disposizione” il carisma dell’infallibilità. Alcune affermazioni neotestamentarie, riferite dal quarto evangelista come detti espliciti di Gesù, dovrebbero far riflettere anche un apriorista ed un fideista. Riguardano lo Spirito Santo come dono del Padre su preghiera del Figlio Gesù Cristo, all’approssimarsi della sua ora suprema: “Pregherò il Padre, e questi vi darà un altro Paraclito, perché rimanga sempre con voi, lo Spirito della verità” (Gv 14,16). Paraclito indica la funzione che lo Spirito Santo svolgerà “in eterno” a favore della Chiesa, assistendola come “un altro” Paraclito, dopo che il primo, Cristo, se ne sia andato. Non sarà semplicemente in sostituzione di Cristo e meno ancora in competizione con Lui: sarà “un altro”, senza che altro sia il suo insegnamento, altra non essendo la verità. Proprio per questo vien chiamato “lo Spirito della verità”, per la sua funzione d’annuncio della verità, parallelo a quello di Cristo, del quale, come successivamente l’evangelista conferma, dovrà ripetere l’insegnamento e facilitarne una sempre maggiore intelligenza. “Lo Spirito Santo, il Paraclito che il Padre manderà nel mio nome, v’insegnerà e vi suggerirà tutto quanto io vi avrò detto” (14,26) […] Quando lo Spirito della verità sarà venuto, v’introdurrà nella verità tutt’intera, parlando non già per conto proprio, ma dicendo quanto avrà ascoltato […] Prenderà del mio e l’annuncerà a voi” (16,13-15). E’ qui chiaramente e perentoriamente definita la funzione dello Spirito Santo: non sarà una seconda rivelazione e men ancora una rivelazione perennemente in fieri: sarà una riproposta della rivelazione già compiuta, una reiterata memorizzazione di essa ed un suo sempre ulteriore approfondimento nel cuore della Chiesa lungo il volger dei secoli, quasi un prender la Chiesa per mano ed accompagnarla “nella verità tutta intera” – cioè senza nulla togliere e nulla aggiungere alla parola di Cristo, fosse anche “un solo iota o un solo apice” (cf Mt 5,18) –.

Quell’ “introdurre nella verità tutt’intera” – ed il verbo “introdurre” ne è una prova – non può intendersi come una meccanica ripetizione del già detto, anche se questo fu detto una volta per sempre. Si tratterà, infatti, d’una penetrazione in profondità di ciò che fu detto una volta per sempre, alla scoperta di quanto fosse rimasto in zona umbratile o ad altezze troppo superiori alle capacità dell’intelletto umano, perché, a beneficio di esso, la verità rivelata si dispieghi nella sua interezza ed in ogni sua sfumatura. In codesto quadro si capisce allora il senso di quel “vos docebit omnia” (v’insegnerà ogni cosa) e di quel “suggeret vobis omnia” (vi rammenterà ogni cosa) che, in Gv 14,26, trovan la loro estensione entro un ben determinato confine: la rivelazione cristiana. E soltanto quella!
 
A ciò s’aggiunga il chiaro limite posto al Magistero dal quarto capitolo della costituzione dogmatica “Pastor æternus” del Vaticano I. Per esser più esatti, il limite è posto al Magistero papale; ma poiché oggetto del Magistero insieme papale ed ecclesiale è “Fede e Morale” e poiché solo in materia di Fede e Morale – la verità rivelata in cui lo Spirito Santo aiuta a penetrare – il Magistero può sicuramente contare sull’assistenza dello Spirito Santo, ne consegue che il limite entro il quale si definisce l’infallibilità del Magistero papale è quello stesso del Magistero ecclesiale. Non a caso la medesima “Pastor æternus”, al medesimo capitolo quarto, dichiara che il successore di Pietro, in materia di Fede e Morale, “gode di quella stessa infallibilità della quale il divin Redentore volle dotare la sua Chiesa nel definire dottrine di Fede e di Morale”(2). Il Magistero, pertanto, non può contare sulla divina assistenza sempre, in assoluto, ad ogni suo intervento, ma solamente quando, direttamente o no, si colleghi con l’avvenuta Rivelazione e con quanto in essa riguarda la Fede e la Morale. Entro codesto ambito, il condizionamento assume, inoltre, i connotati della straordinarietà. L’intervento magisteriale è, in effetti, coperto dal carisma dell’infallibilità, solo se “il Romano Pontefice

1 - parla ex cathedra, ovvero come pastore e dottore di tutt’i cristiani;
 
2 – in forza della sua suprema autorità apostolica,
 
3 – per definir un dottrina di Fede o di Morale
 
4 – rendendola obbligatoria per la Chiesa universale”(3).

Poiché l’infallibilità è una ed indivisibile, tale condizionamento riguarda il Magistero supremo e solenne in quanto tale, sia che venga esercitato personalmente dal Papa loquens ex cathedra, sia che ad esercitarlo provveda collegialmente un Concilio ecumenico. Ma riguarda pure il Magistero ordinario, quello cioè del Papa e dei vescovi dislocati nel mondo intero ed in totale comunione col Papa stesso, qualora riproponga dottrine dogmaticamente già definite, o da queste derivanti – non importa se direttamente o no – così che anche il Magistero ordinario venga in tal modo ricollegato con la divina rivelazione.

Per aprioristi e fideisti non ci son limiti né condizioni: c’è soltanto l’infallibilità. Una volta che una dottrina, ancorché non definita, sia proposta ufficialmente dalla Chiesa, essa per loro diventa automaticamente infallibile e a chi solleva qualche obiezione o ricorda qualche precedente storico nella linea d’un antinfallibilismo soltanto apparente, rispondono con saccenteria e disprezzo. In realtà, quei precedenti – la condanna di sant’Atanasio, le parole di san Leone Magno: “Assumpta est de matre Domini natura non culpa”, il comportamento d’Onorio I nella questione monotelitica, e qualche altro caso ancora – non son prove contro l’infallibilità del Magistero. Non c’è storico della Chiesa che non ne tratti in lungo ed in largo, destituendo di fondamento l’interpretazione antinfallibilista. Chi poi non avesse tempo da dedicare ai loro trattati, potrebbe almeno legger il Denzinger-Schönmetzer sub H 2c a p. 894-895. Ognuno, insomma, può convincersi, se il pregiudizio non gli fa velo, che nessuno vuol metter in discussione il carisma ecclesiale dell’infallibilità, né le condizioni che lo circoscrivono e delimitano.

4 – E’ legittimo chiedersi, dop’aver letto quanto aprioristi e fideisti scrivon al riguardo, se proprio nulla faccia velo ai loro giudizi. Sembra che in essi neanche l’ombra affiori delle surriferite condizioni. Quando c’è di mezzo un Papa, un Concilio, la Chiesa, tutto per essi è automaticamente infallibile e tale dev’esser da tutti riconosciuto. Il Papa sospira? È un sospiro infallibile. Il Concilio ha un pensiero di riguardo per l’uomo, il mondo, il progresso? È un pensiero infallibile. La Chiesa stabilisce orientamenti e decisioni pastorali d’almeno dubbia fondazione nel tesoro della sua costante Tradizione? L’infallibilità arriva sin qui, perché tutto è avvolto, esplicitamente o no, nell’ambito d’un carisma inalienabile dal dna della Chiesa. Insomma, nessun limite, nessuna condizione, nessun freno al verificarsi della sua infallibilità.
 
Perché non si sospetti che ciò dipenda solo da empito polemico, nel qual caso a rimanerne velato sarebbe il mio giudizio e non quello degli aprioristi e dei fideisti, mi par opportuno riportarne fedelmente alcune parole, recentemente scritte e pubblicate.
 
A proposito di posizioni conciliari “di tipo dottrinale”, leggo:

- “Dottrinale non nel senso della ripetizione dei dogmi già definiti, ma anche nel senso dell’insegnamento di dottrine nuove, esse pure infallibili benché non definite”(4).
 
- “Si tratta delle cosiddette dottrine definitive, che alla pari di quelle definite, sono immutabili, infallibili ed irreformabili”(5).
 
- “L’insegnamento straordinario è un insegnamento nuovo; quello ordinario è quello corrente […] E’ questo appunto il caso del Vaticano II(6)”.
 
- “In campo dogmatico non si può ammettere una rottura dell’insegnamento del Concilio nei confronti del passato”(7). Ma, in contrasto con un siffatto giudizio, di per sé aprioristico, ecco il suo contrario:

- “Il Vaticano II presenta un nuovo concetto di Rivelazione rispetto a quello del Vaticano I […] dobbiamo ritenere per certo che anche il Vaticano II, benché di contenuto concettuale diverso, sia a sua volta infallibile”(8).
 
- “Comunicare il Vangelo utilizzando un (?) pensiero moderno purificato dall’errore”(9).
 
- “Rahner non è riuscito a far entrare nel documento conciliare l’aspetto errato della sua concezione […] stante l’infallibilità conciliare. La presenza dello Spirito Santo nei lavori conciliari purifica il pensiero dei Padri e dei teologi, lasciando cadere le vedute errate”(10).
 
- “L’evidenziamento (?, parola inesistente) dell’atto e del contenuto della Rivelazione come evento interiore di coscienza, che emerge dalla visione del Vaticano II, non esclude affatto, ma comporta l’atto e il contenuto della Rivelazione come comunicazione divina al destinatario in forma di proposizioni concettuali per il tramite della realtà visibile della Chiesa. Per cui la ricezione del dato rivelato da parte del destinatario non avviene per una sua comunicazione diretta con Dio nell’intimo della coscienza, ma per il tramite della predicazione della Chiesa”(11).
 
- ”Il concetto di libertà religiosa, venendo fondato sulla Rivelazione, appare come verità prossima alla fede”(12).
 
- “Caratteristica del Vaticano II è infatti la proposta d’un immenso allargamento di mentalità, quasi a voler superare i precedenti confini della cristianità, ad andare oltre inveterate abitudini di pensiero, ad allargare la capienza dell’intelligenza cristiana, a superare anche barriere con spirito di integrazione, di assunzione e di conciliazione”(13).
 
- “Quando il nuovo appare nelle dottrine d’un Concilio ecumenico, il cattolico, in base al fatto che egli sa che la dottrina della Chiesa non può mai smentire se stessa, davanti a questo nuovo è certo che esso non è in rotta con l’antico, anche se ciò non appare immediatamente evidente”(14).
 
5 – L’Autore di queste ed altre dichiarazioni, a dir poco discutibili, dedica, bontà sua, un po’ d’attenzione anche al sottoscritto: con il suo solito metodo di lodare per stroncare, o viceversa. Gli son grato per il tempo dedicatomi, non per le alterazioni del mio pensiero. Un solo esempio, il più clamoroso, si trova là dove, a proposito del mio volume sulla Tradizione (“Divinitas”, numero unico 2010 e Casa Mariana Editrice, Frigento 2010), afferma con la solita sicumera di chi sa tutto e su tutto ha da dire l’ultima parola, che il sottoscritto “non riesce a vedere la continuità tra il concetto di Tradizione dei Concili Tridentino e Vaticano I e quello del Vaticano II, per cui parla di contraddizione, cosa che evidentemente non si può accettare trattandosi di materia di fede, dove la Chiesa non può entrare in contraddizione con se stessa, perché vorrebbe dire che essa ha abbandonato il sentiero del vero per imboccare quello del falso, il che sarebbe come pensare che Cristo l’ha ingannata quando le ha promesso di assisterla col suo Spirito sino alla fine del mondo”. Non è un esempio di scrittura traslucida; è tuttavia comprensibile. Comprendo infatti a) la mia cecità di fronte alla continuità del concetto di Tradizione del Tridentino, del Vaticano I e del Vaticano II; b) la mia empietà nel definire contraddittorio il concetto di Tradizione del Vaticano II rispetto a quello del Tridentino e del Vaticano I; c) la mia implicita blasfemia nell’accusare Cristo d’aver ingannato la Chiesa circa l’assistenza dello Spirito Santo. Ma comprendo pure che tutto questo è impossibile perché si tratta, aprioristicamente e fideisticamente, di materia di fede. Il mio censore, anche se di mestiere fa lo zitti-tutti-parlo-io, vorrà concedere a questo povero cieco, empio e blasfemo di richiamarsi a quanto ha effettivamente scritto.
 
A p. 186 del suddetto numero unico:
 
- parlo del Tridentino che, superando la distinzione del partim/partim, si concentra sull’esistenza d’una fonte scritta e d’una fonte orale, ambedue consegnate alla Chiesa dall’ininterrotta successio apostolica ed è questo il suo concetto di Tradizione;
 
- parlo del Vaticano I, che recepisce codesto concetto e lo innerva nella proposta magisteriale della Chiesa docente;
 
- parlo del Vaticano II, che opera una reductio ad unum della Rivelazione scritta e di quella orale, annullandone l’evidente distinzione dichiarata ed insegnata dal Tridentino e dal Vaticano I ed inserendo in tale reductio anche il Magistero, ovvero l’autorità che propone le verità rivelate (Tradizione attiva) e l’insieme di tali verità (Tradizione passiva).

Poiché codesti tre punti riposano sulla base rigidamente storico-filologico-teologica del cap. VI (p. 137-186), e non su quella dell’apriorismo e del fideismo, resto in pace con la mia coscienza. So di non essermi divertito a giocar a mammole, so cioè d’aver operato sulla base di dati storico-teologici inoppugnabili, di non aver aggiunto nulla e nulla tolto, d’aver quindi tratto delle conclusioni sotto l’urgenza della logica obiettiva, qual è quella che vuole irriducibile il terzo punto ai primi due del quadro sopra indicato. Che poi, come la mia povera e cara nonna, aprioristi e fideisti trovino piena soddisfazione a ricominciar sempre da capo “la novella dello stento, che dura tanto tempo e che non finisce mai”, padroni di farlo, anche se ormai la loro novella non addormenta più nessuno.

 _______________________________
 
NOTE

1 In DS 3033; cf 3009; inoltre 2751-2756, 2765-2768. Non è facile concettualizzar il fideismo, perché confluiscon in esso vari indirizzi filosofico-teologici, che i tedeschi indicarono complessivamente con l’espressione Glaubensphilosophie. In particolare, il fideismo si rivelò un’emanazione del tradizionalismo religioso, promosso da Huet, Bautain, de Bonald e Lamennais, secondo i quali solo dalla parola rivelata si ha la conoscenza della verità in assoluto. Per Lamennais e seguaci, fideista è chi raccorda con la fede, in forza d’una rivelazione divina e della sua trasmissione, e quindi al di sopra dell’umana ragione, la conoscenza della verità. Oggi son detti fideisti quanti ricorrono all’esclusivismo o al primato della fede per risolvere il problema della conoscenza e per porre le verità di fede al di sopra di quelle razionali, come gl’immanentisti, i pragmatisti e tutti gli anti-intelletualisti. Cf BAINVEL V., Foi-Fidéisme, in “Dictionnaire apologétique de la Foi catholique” (a c. di A. D’ALÈS, quattro volumi, Parigi 1911-1928) II, cc. 171-278; HARENT S., Foi, in DThC, cc. 171-236: MONTI G.-CHIETTINI E., Fideismo, in EC, V, c. 1246.

2 Constit. Dogm. “Pastor æternus”, cap. IV DS 3074.
 
3 Ibid.

4 Tutto dipende dalla natura e dal senso dell’aggettivo nuove. Se con esso s’intendesse qualcosa d’eterogeneo rispetto al dogma già definito, si sarebbe di fronte alla prova della discontinuità dottrinale. Se invece s’intendesse qualcosa di pienamente omogeneo e già contenuto, se pur in modo latente, nella definizione precedente, si sarebbe di fronte ad un vero e proprio esempio di progresso dogmatico “in eodem sensu eademque sententia”. E’ dottrina del Vaticano I: si veda DS 3020, 3043, già presente nella Bolla dogmatica del beato Pio IX “Ineffabilis Deus”, 8 dic. 1854, DS 2802, e riproposta dal motuproprio di san Pio X, 1 sett. 1910, DS 3541; dall’enciclica “Ad beatissimi Apostolorum” di Benedetto XV, 1 nov. 1922, DS 3626; e dall’enciclica “Humani generis” di Pio XII, 12 agosto 1959, DS 3886. Al di fuori del Magistero, è dottrina che risale al ben noto monaco san Vincenzo da Lerins, morto verso il 450, e precisamente al suo Commonitorium primum, cap. 23 PL 50, 668A.

5 Se per definitive s’intenda ciò che s’intende con la formula definitive tenendæ, ovvero dottrine sulle quali il Magistero ha pronunciato la sua ultima e definitiva parola benché non in modo definitorio, allora si è davvero di fronte a dottrine “immutabili, infallibili ed irreformabili”. Ma non consta affatto che quelle del Vaticano II siano state concepite dai Padri come definitive tenendæ. Ne fa fede la notificazione dell’Ecc.mo Segretario Generale, Mons. P. Felici, in data 16 nov. 1964, il quale, circa la mancanza negli asserti conciliari di note teologiche, dichiarò che essi devon interpretarsi “secundum regulas generales, ab omnibus cognitas” ovvero “utpote Supremi Ecclesiæ Magisterii doctrinam” da accogliere “iuxta ipsius S. Synodi mentem, quæ sive ex subiecta materia, sive ex dicendi ratione innotescit, secundum normas theologicas interpretationis”.

6 Queste parole figurano subito dopo altre, che dicono:“Il grado supremo dell’autorità del Magistero corrisponde a quello che solitamente si chiama Magistero solenne o straordinario, mentre il grado inferiore corrisponde al Magistero semplice ed ordinario”. Da ciò discende lapalissianamente una conseguenza gravissima, soprattutto dopo le ripetute esaltazioni del Vaticano II: da Magistero solenne e supremo, qual è ogni Concilio ecumenico, vien degradato a Magistero ordinario, anche se un Concilio ecumenico non può affatto, per sua intrinseca natura, esser ridotto a Magistero ordinario. Troviamo conferma di tale degradazione anche qualche pagina dopo: “Il Vaticano II ha fatto avanzare (?) la dottrina della fede nella modalità dell’insegnamento ordinario”.

7 Non si tratta d’un argomento generico ed astratto (“non si può ammettere”), bensì concreto: c’è o no la rottura? Alle prove addotte da lefebvriani e compagni di viaggio, che cosa risponde, al posto di “non si può ammettere”, un apriorista e fideista?

8 Vaticano I e Vaticano II son messi su un piano di parità, che il II negò fin dall’inizio. Il testo prosegue affermando che il contenuto dei due Concili è diverso non perché insegnino cose diverse, ma perché con “due dottrine diverse” fanno “avanzare la conoscenza […] della Rivelazione”. Qui il principio di non contraddizione va a farsi benedire: d’un medesimo soggetto non si può predicare il si insieme con il no. O sbaglia il predicante, o è sbagliato il predicato. All’Autore di queste dichiarazioni la responsabilità d’aver riconosciuto nel nuovo concetto di Rivelazione del Vaticano II “il ricupero di quanto di valido esisteva ed esiste nella concezione modernistica, nella c. d. apologetica dell’immanenza di Maurice Blondel, nella tradizione protestante (???!!!), nella filosofia idealistica, esistenzialistica e fenomenologica”

9 Se l’errore del pensiero moderno è d’esser immanentista, tolto codest’errore, che cosa rimane del pensiero moderno?

10 L’infallibilità della dottrina conciliare è dunque un assoluto, conseguenza d’un altro assoluto, l’assistenza dello Spirito Santo. La compresenza dei due assoluti giunge a dissociare i singoli Padri conciliari in soggetti infallibili nell’aula conciliare, e fallibilissimi appena l’abbian abbandonata. Quando si dice la fantasia al posto del fondamento neotestamentario e di quello dogmatico, sopra indicati, e dei connessi condizionamenti a salvaguardia del carisma dell’infallibilità dal pericolo d’una risibile banalità, come quella alla quale sto riferendomi.

11 Il balletto del sic et non continua per far capire che la Rivelazione non è, ma è; l’atto interiore della coscienza (ma c’è anche un atto esteriore della coscienza?) è anche comunicazione divina al destinatario: di che cosa? di nulla, perché tale comunicazione assume un contenuto solo quando glie lo dà l’attività magisteriale della Chiesa sotto forma di “proposizioni concettuali”. Conveniamone tutti e mettiamoci il cuore in pace, questo del Vaticano II, così come ci è stato così autorevolmente spiegato, è davvero un bel progresso dogmatico!
 
12 E’ vero che la dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa indica il fondamento di essa nella divina Rivelazione e nella dignità della persona umana. La conclusione che ne vien tratta, suffragata dall’idea di fondo che nel Concilio tutto è infallibile, identifica nella libertà religiosa una verità prossima alla fede. Se invece d’affidarsi alla supposta infallibilità qualcuno s’affida alla verifica delle fonti e della documentazione addotta, scoprirà che nessun elemento portato a riprova della detta fondazione biblica è pertinente. E’ una verifica che il sottoscritto ha già fatto e che sarà di pubblico dominio nel volume, ormai quasi pronto, Alle radici d’un equivoco. Decade, perciò, miseramente la proposta di verità prossima alla fede.

13 La visione conciliare che sorregge queste parole sarà dettata dall’entusiasmo, ma non dalla realtà dei fatti, che è questa: “Anche la Chiesa ha le sue assemblee legislative ordinarie e straordinarie, parziali e universali: esse sono i concili, assemblee di Vescovi della Chiesa Cattolica, convocati per discutere i più gravi problemi di dottrina o di disciplina cristiane”, PALAZZINI P., Introduzione a PALAZZINI P.-MORELLI G. (a c.di), Dizionario dei Concili, Istit. Giovanni XXIII, P.U.L., Roma 1963, p. XI. Poiché il Vaticano II fu animato non dall’intento di metter a fuoco “i problemi di dottrina o di disciplina cristiane”, ma da “spirito d’integrazione, d’assunzione e di conciliazione”, non ne deriverà il risultato rimproverato dai lefebvriani d’un cristianesimo che integra in sé il secolo, che ne assume la forma mentis e si concilia con i suoi errori?

14 E’ l’ennesimo appello all’infallibilità pregiudiziale del Concilio ch’è la voce dello Spirito Santo. Punto e basta. I grandi teologi che hanno discettato in ogni tempo se un Concilio ecumenico possa sbagliare hanno perso ed hanno fatto perder del tempo prezioso. Per fortuna c’è oggi questo nuovo campione del pensiero teologico cattolico il quale sa rimetter le cose a posto.


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Caterina63
00lunedì 23 aprile 2012 22:33

P. Serafino Lanzetta, un nuovo libro sul Vaticano II per un approccio più fedele

 




Come capire il Concilio Vaticano II? Cosa ha rappresentato l’ultima grande assise ecumenica per tutta la Chiesa? Una svolta per molti. Un cambiamento radicale per tanti. Un aggiornamento. La domanda ci coglie divisi, non tanto impreparati. Sembra strano ma è sempre più difficile trovare una via di dialogo e di confronto sereno all’interno del cattolicesimo.

Il motivo della divisione sta probabilmente in un approccio alquanto moderno o post-moderno al problema, che non funziona: tutto il Concilio Vaticano II si risolve in un problema di adattamento ermeneutico più o meno riuscito alla modernità? Era necessario un Concilio per rispondere alle sfide del nostro tempo? La domanda non vuole essere storica perché la storia non si cambia. Dovremmo perciò imparare a vedere con la Chiesa una ed ininterrotta che un concilio si osserva a partire dalla Chiesa e da essa lo si giudica: se il Concilio ha raggiunto il suo fine non dipende solo dallo stesso Concilio, ma anche dalla fede che ha insegnato. E dal lavoro che si renderebbe necessario se ci accorgessimo d’imprecisioni, d’arbitrarie prese di posizione o intoppi di sorta (dalla IV di copertina).

Perché è opportuno discutere sul Concilio Vaticano II

Il lavoro teologico più urgente, che oggi si necessita nella compagine ecclesiale, è quello di far luce sul Vaticano II come uno dei diversi concili della Chiesa. Non l'unico né l'ultimo. Uno dei 21, con un taglio sui generis rispetto a quelli dogmatici immediatamente precedenti, che non può però essere inteso come lo spartiacque della storia. Non può essere un nuovo cominciamento, perché la Chiesa non inizia da un concilio ma dalla volontà istitutrice di Cristo per portare il Regno di Dio ad ogni uomo e favorire l'ingresso di ogni uomo in questo Regno. Purtroppo, il Vaticano II è stato letto abbondantemente come "nuovo inizio". Le maglie ampie della pastoralità e della non-definizione, furono viste, scorrettamente, come possibilità di dire pastoralmente la fede, in modo da non dover più contraddire l'altro (ad intra ma soprattutto ad extra). La diversità declinata come pluralismo fu la condizione previa e necessaria del dialogo. Col risultato però di aver smarrito profondamente l'identità cattolica, perché frammischiatasi spesso con il mondo, la modernità, la politica, l'antropocentrismo.

Crollati ora i modelli culturali sui quali si era basata la modernità, perché inverati dalla liquidità del post-cristianesimo, sembra che siano venuti meno anche i presupposti sui quali scommettere per una "riscrittura" della fede cominciando dalla riscrittura dei trattati teologici. I zelanti persecutori di un Vaticano II come speranza del cominciamento, ora fanno i conti con una domanda, che poi è anche la nostra: che cosa non ha funzionato? Perché la Chiesa non è (ancora) veramente ripartita ma si trova a fare i conti con un vuoto di senso? Forse è prevalso lo "spirito" più che il «Concilio vero»? (per dirla con Ratzinger). Il «Concilio vero», poi, è da leggersi nella continuità dell'ininterrotta Tradizione e alla luce di questa. Per il fatto, ripetiamolo, che la Chiesa non inizia dal Concilio, ma un concilio si celebra nella Chiesa e per la Chiesa. Bisogna correggere, se si dovesse, non la Chiesa, non la sua ininterrotta Traditio, ma quegli elementi più teologici e discorsivi del Concilio che hanno dato parvenza di stridore, o che si son prestati a letture equivoche. Non è in discussione la provvidenza del Concilio per il nostro tempo e la sua inerranza (assenza di errori) in materia di fede e di morale (ma non in materia di sport, di comunicazione sociale, di scelte politiche, di profezie sul tempo che è da venire, ecc.). L'assistenza dello Spirito Santo impedisce la presenza nei testi conciliari di errori ma non consacra, sic et simpliciter, l'infallibilità magisteriale del tutto. Bisogna distinguere per capire meglio.

Sì, bisogna conservare veramente una mente aperta per leggere il Vaticano II. Non ci si può semplicemente scandalizzare, quando si tenta - con tutti i limiti certo, perfezionabili da una nuova lettura più arguta e più precisa, un meliore iudicio - una lettura sanamente critica, un giudizio teologico. La teologia, se non ha smarrito il suo compito, è scienza della fede, intelligenza del dato rivelato alla luce del Magistero della Chiesa. Nei suoi limiti ha il compito di indicare ciò che a parer dell'osservatore sembra perfettibile. Per il bene della fede nella sua unità, di ieri come di oggi. Se si interviene nel dibattito bisogna dire ciò che è sbagliato circa il giudizio di perfettibilità, ma non raccontare le proprie impressioni. Né si può semplicemente squalificare la ricerca e la critica, dicendo che il S. Padre, con il suo ormai famoso discorso del 22 dicembre 2005, non avrebbe affatto inaugurato una discussione sul Concilio. Questa visione tranciante permetterebbe di risolvere in nuce il problema del tradizionalismo: il Concilio non si discute! Basta l'ermeneutica della riforma nella continuità.

Certo, il S. Padre non ha aperto una discussione. Quando però veramente e di proposito nella storia il Pontefice ha aperto una disputa teologica? Piuttosto l'ha moderata o, quando era arrivata al limite del sopportabile, l'ha sospesa. Si ricordi il problema del rapporto natura e grazia. Altre volte ne è stato indirettamente fautore. Si pensi ad esempio all'istituzione della festa in occidente del "Concepimento immacolato di Maria" (sec. X) attraverso vari monasteri e chiese cattedrali. Anche se la Curia romana non la festeggiava, Bonifacio VIII però la indulgenziò.
Il Papa voleva dire che la Madonna è immacolata concezione, redenta in modo preventivo? Si era aperta, di fatto, una proficua discussione, che vide i francescani attori intrepidi di una difesa di Maria preservata dal peccato originale, sin dal primo istante del suo concepimento. Si arrivò poi alla definizione del dogma nel 1854. Speriamo pure che la rinuncia di Benedetto XVI al titolo "Patriarca d'occidente", sia presa in seria considerazione ecclesiologica, per spiegare che non c'è nella Chiesa, né è possibile, una sinodalità sempre in atto. La Chiesa è comunione non comunità di comunità.

Se il Magistero ora lascia aperta la discussione perché dobbiamo noi volerla chiudere? Solo per paura di scandalizzare i semplici? Ma non è forse vero che lo scandalo di una fede desolata sotto gli occhi delle nostre parrocchie - quasi tutte nate col Concilio - è molto più pernicioso di una cattolica messa a punto per una vera ripresa della fede? Se invece si insiste nel ritenere il Concilio intoccabile perché dono dello Spirito Santo, allora, probabilmente si è incorsi nell'errore che oggi è sulla bocca di molti: identificare il soffio dello Spirito Santo con il Concilio (senza le opportune distinzioni) e finalmente lo Spirito Santo con il Concilio stesso. Questo è in ultima analisi il parto di quello "spirito del Concilio", che funesta da mane a sera, e diventa giudice e fautore ora della Chiesa, ora della fede, ora della prassi. Proprio questo non funziona.

Per molti, infine, il vero problema oggi nella Chiesa sono le cose che non vanno, questo o quel gruppo. I tradizionalisti o, per altri, i progressisti. Questa è una visione piuttosto pragmatica della realtà: la bontà di un'azione la si giudica dal risultato degli effetti e non dall'in sé, dall'oggettività. Non è la prassi che non va ma le idee. Forse perché mancano. Manca uno sguardo metafisico su Dio e sull'uomo, e questo ci impedisce di rivolgerci al vero problema. Se solo riuscissimo a vederlo avremmo già fatto un grande passo in avanti. Saremmo cioè già usciti dalla mentalità della prassi, che ahimé domina. Molto spesso a discapito del Concilio. Ma soprattutto della Chiesa.
p. Serafino M. Lanzetta, FI
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L'Autore del libro: P. Serafino M. Lanzetta (1977), frate francescano dell’Immacolata, è docente di teologia dogmatica presso l’Istituto teologico Immacolata Mediatrice (Cassino). È parroco della Chiesa di Ognissanti in Firenze e dal 2006 dirige la rivista teologica «Fides Catholica». Ha pubblicato diversi studi di ricerca in ambito mariologico, dove si segnala la sua tesi di dottorato sul Sacerdozio della Vergine Maria (Roma 2006), e in altri ambiti della dogmatica. Scrive per alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e collabora con diverse riviste. Sta per conseguire presso la Facoltà teologica di Lugano l’abilitazione alla libera docenza, con una tesi sull’ermeneutica del Concilio Vaticano II, sotto la direzione del Prof. Dr. Manfred Hauke.

[Fonte: Approfondimenti di Fides Catholica]
 
Caterina63
00giovedì 10 maggio 2012 11:24

Il Vaticano II alle radici d’un equivoco: la Siccardi presenta l'ultima fatica di Mons. Gherardini



«Il Vaticano II insegna veramente e soltanto ciò che fu rivelato e trasmesso?» E «il senso oggettivo delle parole usate dal Vaticano II corrisponde a quello del precedente Magistero ed in ultima analisi a quello della divina Rivelazione?» Due domande, “a bruciapelo”, che vengono rivolte da Monsignor Brunero Gherardini a tutti coloro che avranno la fortuna di leggere il suo ultimo libro, che brilla per chiarezza linguistica e teologica, dal titolo Il Vaticano II alle radici d’un equivoco (Lindau, pp. 410, € 26.00).

Sono trascorsi cinquant’anni (1962-2012) dall’apertura di un Concilio che sempre più diventa protagonista di un vero e proprio processo. Finalmente il tribunale si è aperto, grazie, in particolare, allo stesso teologo Gherardini (con il suo ormai celebre Concilio Vaticano II un discorso da fare) e allo storico Roberto de Mattei (con il suo Concilio Vaticano II, una storia mai scritta) per far entrare l’imputato, il Concilio Vaticano II.

Pur essendo i contenuti di questo scrupoloso volume assai profondi e complessi, il suo autore, com’è nel suo “gherardiniano” stile, rende la disamina fresca, vivace e vincente. Quest’opera nasce da un’ispirazione polemica, ovvero per rispondere alla malafede di alcuni studiosi e giornalisti nei confronti degli approfondimenti che il teologo da alcuni anni realizza con rigore. Alcune pennellate qua e là ironiche ricordano l’humor graffiante utilizzato dal beato John Henri Newman nel suo capolavoro Apologia pro vita sua, dove, anch’egli, come Gherardini, rispondeva a coloro che lo accusavano, con il coraggio proprio di chi sa, come direbbe san Tommaso d’Aquino, di essere posseduto dalla verità.

Gherardini non si è accodato alla vulgata, ovvero a tutti coloro che continuano ad osannare il Vaticano II in senso aprioristico e senza accettare un’analisi nel merito, ma è andato a fondo del problema, osservando da vicino il radicale cambiamento di rotta della Chiesa postconciliare ed individuando la causa di quel cambiamento negli atti dell’Assise. Ed ecco il grande “equivoco”, «dai più quasi mai preso in esame», matrice dei tanti equivoci e dei tanti errori che sono emersi a cascata: l’antropocentrismo. «L’uomo moderno, verso il quale si protende l’antropocentrismo conciliare, ne assorbe le idee che sovvertono i rapporti naturali e rivelati fra la creatura e il Creatore, diventa di codest’idee il portabandiera e l’araldo, e dalle medesime vien per così dir inchiodato in uno stato d’inconciliabilità con le verità della dottrina e della Tradizione». Ed ecco le derive della Nouvelle Théologie e della Teologia della liberazione.

L’equivoco antropocentrico trova per Gherardini le sue radici nella dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae), nella dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra aetate) e nel decreto sul dialogo ecumenico (Unitatis redintegratio). L’antropocentrismo ha contaminato tutta la cultura moderna e il pensiero maggioritario conciliare, e nulla «nel modernismo e nella sua assatanata reviviscenza neomodernista è risparmiato del tesoro di verità ricevute e trasmesse», ovvero la Sacra Scrittura, i dogmi, la Liturgia, la morale. Oggi quel tarlo modernista che erodeva dal di dentro è emerso con spavalderia, ma l’aula conciliare ne fu già testimone quando si trattarono tematiche nodali, che si distanziavano, nella loro elaborazione, dalla Tradizione.

Gherardini, dato il suo porsi in maniera critica di fronte al Concilio, è stato accusato di essere un “lefebvriano”, dando al termine, come sempre, un’accezione meramente negativa. Egli, a questo riguardo, afferma che pur non appartenendo alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, ne condivide le linee di costruttiva critica al Vaticano II.

L’autore, inoltre, punta la sua attenzione sul linguaggio conciliare e postconciliare, del tutto diverso dalla patristica e dalla Tradizione in genere; fa, inoltre, nome e cognome dei protagonisti delle moderne filosofie e teologie e non li interpreta, ma ne fa la radiografia delle idee; idee che hanno avvelenato lo spirito dell’Assise e «se la sacra gerarchia non blocca questa deriva antropocentrica, il domani della Chiesa non sarà più quello della Chiesa una santa cattolica apostolica nella sua gloriosa ed universalistica configurazione romana».
Cristina Siccardi
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